Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 105
March 15, 2019
"Fede & Scienza"

Questo post ha un titolo molto impegnativo, sotto diversi punti di vista. Vuole essere una sintesi, ma anche uno stimolo per me a trovare la maniera giusta per parlare di un evento al quale ho partecipato e ho riassunto nella immagine riprodotta qui sopra dal volantino della manifestazione.
Ci sono accasioni nella vita di ogni essere umano, come pure di una comunità, in cui si verificano strane convergenze che spingono, chi sa leggere la quotidianità, a pensare che ci sia qualcuno, da qualche parte, che tesse i fili della storia umana la quale sembra essere spesso tanto misteriosa ed incomprensibile, quanto chiara e luminosa, per chi la sa leggere, dopo di averla vissuta.
Il volto leale e sorridente della foto, con la sua identità, è quello del dott. Vincenzo De Colibus ricordato al “Centro di Riabilitazione LARS” di Sarno (Sa), in occasione della celebrazione del VII Premio Internazionale “Fides et Scientia”. Un evento voluto ogni anno dall’AMCI Campania (Associazione Medici Cattolici Italiani), patrocinato dall’Amministrazione Comunale della Città, in ricordo di questa indimenticabile figura umana e professionale di Medico e di Cittadino Sarnese.
Il secondo elemento che si ricava dalla immagine è la notizia di una “Lectio Magistralis” tenuta dal dott. Guy Consolmagno, Direttore della Specola Vaticana, scienziato, scrittore, sul tema: “Cosa possono dirci le Sacre Scritture sulla Cosmologia moderna?”. Un terzo tema è quello che riporta in primo piano la necessità di conciliare pragmaticamente identità personale e apertura sociale. Un progetto legato alla realtà del presente, che sappia connettere passato, presente e futuro in un unico elemento significativo.
Non c’è modo migliore di quello prescelto ed impiegato con successo ormai da diversi anni: mettere a confronto fede e scienza, in maniera pragmatica senza fideismi. La scelta del personaggio da onorare ogni anno viene così fatta in nome di un modello di riferimento che continua a vivere nei cuori e nella mente di tutta la comunità sarnese nella quale questa persona visse.
Nel nome del dottor Vincenzo De Colibus questa “lectio magistralis” ha confermato, ancora una volta, la necessità di avere come riferimento esperienze di vita vissuta nella pienezza di un impegno sociale sostenuto da una fede incrollabile.
A distanza di oltre dieci anni dalla sua scomparsa, Enzo continua ad essere presente sulla scena della vita pubblica nella Valle dei Sarrasti come uno dei volti più legati in maniera significativa alla creazione di un futuro di speranza in questa nostra epoca contemporanea nella quale gli elementi caratterizzanti sembrano essere diventati la velocità, la provvisorietà e la futilità.
Per i tanti giovani presenti, venuti ad ascoltare la “Lectio” è stata una occasione importante. L’ha tenuta quest’anno la persona giusta, per ricordare non soltanto un “volto” ma anche una “memoria”, quelli di una “speranza” che possa guidarci nel variegato mosaico che la società italiana riesce ancora a tessere, nella presente difficile realtà storica, culturale e sociale del nostro Paese.
Per fortuna si ritrovano ancora esempi di uomini e donne che lavorano in silenzio a diffondere “fede” e “scienza” per un mondo migliore. Lo scrivevo già in un altro post una decina di anni fa, in occasione della pubblicazione di un libro che aspirava a far conoscere testimonianze di Santità presentando “figure-laicali di diverso spessore, tutte accumulate dal desiderio di vivere il Vangelo senza sconti, senza se e senza ma”.
Così scriveva nella presentazione Mons. Gioacchino Illiano, allora Vescovo di Nocera Inferiore, Sarno. Un compito quanto mai arduo, se conosciamo il mondo. Il carissimo Enzo era scomparso l’anno prima, era il 2008, il libro apparve l’anno successivo per onorare “dieci “volti” di uomini e donne dell’Agro Nocerino Sarnese, degni di essere ricordati per testimonianza di fede e di opere. Cinque donne e cinque uomini, a futura memoria ed esempio. Tra di essi c’era anche Lui. Chi vuole può ritrovare l’articolo nel suo contesto qui al link.
“Sbucava da via De Liguori, dove abitava, dopo di avere disceso le scale di Pasqua, ai piedi di Terravecchia. Arrivava col suo passo lento, sempre sorridente, tranquillo e disponibile. Mio padre e mia madre si erano rifugiati dalla furia delle bombe di Pozzuoli proprio in via De Liguori, accanto alla casa della famiglia De Colibus, che li aveva accolti al primo piano. La Signora Ginevra, la Mamma di Enzino, li aveva presi sotto la sua protezione. Mia Mamma l’ha sempre ricordata con gratitudine ed affetto. Perchè diceva che si sentiva sola e un pò straniera in un paese come Sarno, lei che era nata e cresciuta tra i monti della Costa d’Amalfi. Donna Ginevra l’aiutò in silenzio a superare l’impatto devastante della guerra e dei disagi anche familiari, che una guerra sempre comporta. Ginevra non fu alunna mia. Mi riferisco alla figlia di Enzino, che porta il nome della nonna. Lo furono, invece Patrizia e Ilaria, alunne straordinarie, di quella decisiva esperienza che furono gli anni di insegnamento al Liceo di Sarno sia per mia moglie che per me. Nei giorni di ricevimento-genitori il Dottor Enzo De Colibus, nonostante la nostra buona amicizia, si metteva pazientemente in fila, aspettando il suo turno di colloquio, per parlare delle sue figliole. Ed io mi arrabbiavo perchè ritenevo quell’attesa inutile in quanto sia Ilaria che Patrizia erano le prime della classe. Ricordo che lui spesso mi rispondeva che erano le regole del gioco e che i ruoli e le funzioni andavano rispettate. La vita degli uomini va giudicata per il valore delle piccole cose. Il Dottor Enzo De Colibus era fatto di questo stile. Per non dire nulla poi della sua professionalità che resta riservata alla sfera privata. La sua opera è stata prestata sempre gratuitamente ed io ne ho avuto la prova in più occasioni.”
Mi accorgo di avere ecceduto, forse, in questo ricordo troppo laico e poco canonico del dottor Enzo De Colibus. Ma è che a me gli uomini piacciono quando li incontro e li conosco sui fatti concreti della vita, nella quotidiana durezza del confronto e dell’impegno, nella sincerità dei sentimenti e nel rispetto della memoria. A questa memoria ho inteso fare omaggio, in questo luogo virtuale, con questo scritto, sulla figura di un Uomo, di un Medico e, se mi è permesso, di un Amico.
Dovrei parlare anche della “Lectio Magistralis”, che è stata davvero una esperienza “magistrale” quella che ha tenuto il dott. Guy Consolmagno. Dovrei anche segnalare il giovane e brillante studioso Domenico D’Agostino futura speranza sia di fede che di scienza, ma non credo di poterlo fare in questa occasione che vuole essere soltanto una personale testimonianza nel ricordo di una Persona che ho stimato e voluto bene. Sia con la mente che con il cuore.

Published on March 15, 2019 03:44
March 7, 2019
Che succede quando si legge un libro?

Cosa succede quando leggiamo? Quali sono gli effetti della lettura dopo dieci minuti? E dopo un'ora? E dopo dieci anni? L'Università della Virginia ha dato una risposta scientifica a queste domande riassunte poi in un'infografica, qui sopra. Si scopre che i libri hanno un effetto sull'attività celebrale, sia immediato sia sul lungo periodo. La ricerca dell’università americana analizza gli effetti neurologici e cognitivi della lettura di libri o ebook in un arco di tempo che va dai 10 minuti ad anni, dopo che si è letto il libro.
Dopo 10 minuti: Stimolazione istantanea del sistema sensoriale: tatto, vista e olfatto sono colpiti da un impulso come quello di nuovo inizio. A livello intellettivo si ha un sorta di eccitazione per la novità dell’esperienza, un lieve senso di disorientamento, una certa resistenza alle nuove idee e un generale aumento dell’attività celebrale.
Dopo 30 minuti: Gli effetti aumentano e si può arrivare a sperimentare allucinazioni uditive o visive: il lettore viene “letteralmente” trasportato in un altro mondo e in un altro tempo. Inizia anche un rapporto fisico con il libro: si piegano gli angoli delle pagine per farne dei segnalibri, si sottolineano alcune frasi, si scrivono note a margine.
Dopo 60 minuti: L’immersione nel libro è totale. Il lettore può provare sensazioni opposte, dalla risata al dolore. Spesso, chi legge narrativa, prova una sorta di connessione emotiva con i personaggi e gli eventi del libro, mentre il “mondo reale” tende a scomparire. Il lettore è completamente sopraffatto e può succedere che interrompa la lettura e si metta a fissare il vuoto. Si pensa che questo sia un effetto collaterale, insieme all’esposizione a fatti e idee completamente nuovi e una più profonda conoscenza della condizione umana: questo di chiama “imparare”.
Dopo più di 60 minuti: Il libro adesso ha assorbito completamente il lettore, che se ne distacca mal volentieri. Il bisogno del lettore di continuare a leggere la storia è ora così forte che è incapace di interromperla, anche per bisogni primari come mangiare o dormire.
Dopo giorni, settimane, mesi: La durata dipende dalle abitudini del lettore e dalla lunghezza del libro, ma a questo punto il libro è finito. Questo provoca un senso di intensa malinconia nel lettore. Alcuni rileggeranno il libro una seconda o una terza volta nel tentativo di riprovare il sentimento che hanno provato la prima volta. Altri vorrebbero tornare alla vita precedente alla lettura del libro, quando il mondo sembrava meno complicato.
Paradossalmente, sono questi i lettori che, dopo un periodo di riposo, passano a libri ancora più impegnativi. Dopo anni: Gli effetti del libro sono ancora visibili. Molti sono diventati lettori abituali e hanno incrementato le loro conoscenze, entrando in un ciclo di apprendimento che dura tutta la vita.Se questi sono i risultati ai quali è giunta la ricerca di cui sopra, mi va di esprimere la mia opinione visto e considerato che mi sento parte in causa. Tirato per i capelli, per così dire, anche se di capelli me ne sono rimasti ben pochi dopo quattro ventenni di letture. Quattro volte venti fanno ottanta, a dire il vero. Devono essere di meno, se considero che ho imparato a leggere probabilmente all'età di quattro cinque anni.
Già intorno ai 4-5 anni, alcuni bambini sembrano molto attratti dalle ‘letterine’ dell’alfabeto, le guardano con interesse, nei libri, per strada, sui cartelli, ovunque, e cercano di scrivere qualcosa. Tale interesse del bimbo rientra nel suo più ampio percorso di esplorazione e scoperta del mondo intorno a lui. Si impara soprattutto per ‘imitazione ed esempio’.
La crescita, però, non è un insieme di tappe identiche per ogni bambino: questo è un punto fondamentale su cui tutti gli esperti sono concordi. Quindi, è normale che ci sia chi mostri la voglia di leggere e scrivere molto prima del debutto alla primaria e chi no. Un bimbo solitamente inizia ad imparare a leggere in modo fluente mediamente ad una età di circa 6/7 anni.
Il mio caso è quanto mai personale, come ho avuto spesso modo di scriverne. Sentire, ascoltare, parlare, leggere e scrivere sono le cinque abilità che appartengono ad ogni essere umano. Per questa ragione, l'uomo si distingue da ogni altro essere vivente su questo pianeta. Quando si scoprirà da qualche parte dell'universo, un altro essere che comunica in questa maniera, (ancora meglio, se diversamente!), spero di essere ancora in grado di vivere questa esperienza comunicativa straordinaria.
Ricordo vagamente il tempo di quando feci conoscenza con le lettere dell'alfabeto. Sicuramente dovevo avere intorno ai sei/sette anni. La guerra era appena finita, la mia famiglia da Pozzuoli dove mio padre lavorava, fummo costretti a scappare dai bombardamenti a tappeto che si abbatterono su Napoli.
La grossa fabbrica dove lui era niente-di-meno che collaudatore di cannoni, il noto stabilimento Ansaldo, era facile obiettivo militare. Ho ricordi confusi e annebbiati della fuga a piedi da quella casa dove abitavamo quasi a ridosso della ferrovia Cumana, altro punto sensibile ai bombardamenti!
Attraversammo il tunnel di Fuorigrotta, diventato un infernale, dantesco ricovero anti aereo, scappammo a Sarno e poi in Costiera a Tramonti. A fine guerra, felicemente superstiti, mio padre sarebbe potuto ritornare all'Ansaldo, rimasto miracolosamente intatto. Sapemmo poi, che si era "salvato" perchè lo avevano "venduto" agli "alleati" con tutte le "commesse".
Lui non volle ritornare ai cannoni, preferì entrare nella tipografia che il padre Michele aveva prelevato dai fratelli Fischetti. Diede inizio alla sua nuova vita di tipografo insieme ai suoi fratelli con le "Arti Grafiche M. Gallo & Figli". Cominciò così la mia formazione. Imparai a sentire, ascoltare, leggere e scrivere con i caratteri mobili di Gutenberg in Piazza Municipio a Sarno, nella Valle dei Sarrasti.
Un lungo dettagliato racconto, il giusto contesto, per arrivare a capire con esattezza cosa significa un libro, comprenderlo, ricordare quello che si legge e cosa rimane dopo. Lettera dopo lettera, sul tipometro del compositore, riga dopo riga nella pagina della forma, in macchina, pronto per la stampa, un viaggio fisico e mentale che finisce nelle mani di chi scopre se stesso, gli altri e il mondo in un'avvincente esperienza.
Le lettere erano di piombo e di legno. I caratteri erano di varia forma, grandezza e spessore. Il cassettone era la loro casa, in quei piccoli spazi quadrati. Dall'alto in basso, da sinistra verso destra. Mi vevano insegnato a toglierle e metterle. Ognuna nel suo spazio. Maiuscole e minuscole, tonde corsive o in neretto.
Mi avevano dato quel compito. Ognuna al suo posto. Ma spesso il compositore a mano sul tipometro, non trovava la lettera giusta. Nella casella della "A" era uscita invece una "P". Avevano deciso che era colpa mia. Avevo sbagliato a "scomporre". Il carattere sbagliato nella casella sbagliata.
Poi venne la "riga". Conoscevo le lettere, dovevo ora leggere la "riga". Aveva senso fino al punto. C'era anche la virgola e il punto e virgola, l'esclamativo e l'interrogativo, i due punti, l'eguale. A poco a poco le cose sembravano sempre più difficili. Avevo cominciato a leggere ed ero pronto ad incontrare il senso.
Gliela dava la "forma", quel blocco di righe di piombo composto di lettere messe l'una dietro l'altra, legate con un filo di spago. Ci passava sopra un cilindro bagnato di inchiostro, il foglio avrebbe dato la luce al senso.
Foglio dopo foglio, quinterno dopo quinterno, in ottavo o sedicesimo, il libro era pronto. La sua fisicità conteneva il senso della storia, il racconto, la poesia, il clichè dava l'immagine. Ero pronto a leggere. Ecco, a questo punto posso rispondere alla domanda che pone questo post: Che succede quando si legge un libro?
Ho detto, ma solo in parte, quello che è successo a me. Come faccio a dire cosa succede a chi legge un libro? Ogni libro dà al lettore il proprio senso. Come leggo io, non legge l'altro, chiunque abbia lo stesso o un diverso libro tra le mani.
Ogni lettura è un'esperienza personale, un viaggio ed un'avventura. Sono quattro ventenni, o quasi, che continuo ad avventurarmi. E non finisce qui. Il libro della mia vita non l'ho ancora finito di scrivere. Alla fine saprò, almeno lo spero, cosa è successo al "Figlio del Tipografo".

Published on March 07, 2019 10:43
February 28, 2019
Il giorno dello "scollegamento": "U-Day"

Ogni giorno, milioni e milioni di esseri umani si collegano a Internet. Il procedimento è semplice. Per chi ricorda quel suono strano dei primi anni novanta, ne abbiamo fatta di strada: C.A.C → Connessione Accesso Controllo e cominci a navigare. La parola è quella giusta. Si tratta, infatti, di una vera e propria “navigazione”, come quando sei in mare, meglio se un oceano mare. Caso vuole, poi, che per definire il luogo dove navighi, si chiami “Rete”.
Ci finisci dentro e non ne esci più. Avete fatto caso a come passa veloce il tempo quando sei a navigare? Minuti che diventano ore, ore che si trasformano in giorni. Per chi ci lavora, quella navigazione è tutt’altro che una routine. Può benissimo diventare una patologia. Chi, invece, lo fa per divertimento, il tutto può trasformarsi in una vera e propria malattia, una ossessione fatale.
Per questa ragione è nata la giornata chiamata “U-Day”. Quella “U” sta per la lettera con la quale inizia in inglese la parola “unplug” che significa “staccare”, “scollegare”. Come per il “V-Day” il giorno della vittoria, è stata inventata la giornata dello “scollegamento”. Scollegarsi da cellulari, tablet, WIFi, significa staccarsi da un mondo che sembra sia a portata di mano, anzi proprio nelle nostre mani, in tasca, una vera e propria estensione del nostro corpo.
Connettersi, infatti, significa abolire i segni cardinali, muoversi in una dimensione nella quale gli uomini non erano mai entrati prima. L’accesso può avere mille e mille porte, lo spazio diventa un labirinto, il tempo si smarrisce in una diversa realtà. Il momento cruciale ed il senso di tutto sta nella terza parola, il momento decisivo, quello del Controllo.
Scollegarsi significa non leggere la posta. Quella elettronica. I postini, quelli tradizionali, in effetti stanno scomparendo, come è scomparso il fax, diventato pdf. Ma se la mail non si legge, non si legge nemmeno il pdf. Significa anche che dovremo fare a meno di “Whatsup”, “Messenger”, con tutte le loro immagini corredate di chiacchiere.
Non invieremo nè riceveremo selfie, ci priveremo degli interventi dei vari politologi, intellettuali e strarlette varie. Che dire poi di tutte quelle utili, insostituibili, preziosissime “ap”, le cosidette “estensioni” sul tempo, sugli animali, sui mercati e via applicando le varie possibilità che ci offre la Intelligenza Artificiale?
Ecco, siamo arrivati al nocciolo del problema: il giorno dell’ “U-Day” significherà privarci anche della estensione digitale alla nostra scarsa intelligenza umana. Rientra nei termini di un normale uso della parola “controllo”.
Mi ricordo che per questa operazione ci sono quelle due semplici paroline inglesi diffuse in tutto il mondo, le più brevi di tutti gli alfabeti: ON-OFF. Solo noi, con la nostra intelligenza, possiamo decidere quando “staccare” la spina.
Non è certamente il ricordo di un ben altro tipo di distacco della spina a poter condizionare il nostro comportamento. Qui non si tratta di vita o di morte. Si tratta solamente di stabilire quale sia/possa/debba essere il confine, il limite, la frontiera di un uso della “spina” che ci offre la possibilità di collegarci.
Per quanto mi riguarda la mia risposta è piuttosto semplice. Basta quell’antico acronimo che nei tempi antichi usavano i farmacisti quando confezionavano le loro ricette seguendo le prescrizione dei medici: q.b. Intendevano: “quanto basta”.

Published on February 28, 2019 12:31
February 23, 2019
Dogma è la parola: "Ineffabilis Deus"

In 25 capitoli, preceduti da una breve presentazione, una prefazione ed una introduzione con premessa, il tutto seguito da una ricca bibliografia, il quanto mai sorpreso lettore del XXI secolo viene a sua insaputa coinvolto in “qualcosa” che non soltanto non si aspettava, ma era anche impreparato ad accogliere. Eppure, a “giochi fatti”, “tout se tient”, come diciamo noi e come dicono i francesi: il libro è fatto ed è davvero un “signor libro”.
La “conversazione” del dott. Nicola Laudisio è stata un’occasione per dimostrare come nella storia degli uomini ci sono momenti nei quali tutto sembra convergere ed intrecciarsi dando senso al tutto. Dopo la cerimonia di quella che gli organizzatori hanno voluto così chiamare, su un tema che era tutt’altro che una “conversazione”. “dogma” è la parola e c’è poco da discutere.
Mia moglie ed io siamo stati invitati in un luogo dove la storia di una Città, parla da sè, per chi la conosce e la sa leggere. Un luogo che vide agli inizi del secolo e millennio trascorsi il padre di chi scrive, poco più che decenne, accendere nei suoi sotterranei le turbine dei motori di quelle che furono le gloriose filande della Valle del Sarno. Un luogo dove lui, ancor giovane, si fece le ossa prima di diventare tipografo. Mi scopro qui a ricordarlo prima che anche io mi ritrovassi a lavorarci con la mia consorte, con tanti studenti provenienti da tutti i paesi dell’antica Valle dei Sarrasti.
In un luogo come questo, diventato un modernissimo ed attrezzato “Polo Sanitario” del Centro Lars, Nicola Laudisio, illustre amico, studioso ed uomo di legge, mi invita per parlarci di un libro che ha scritto niente di meno che su di un “dogma”. A questo punto i miei canonici punti di riferimento letterari sono stravolti. Non so più da dove iniziare.
Passato, presente e futuro si mescolano in un incontro che diventa un vero e proprio evento umano. Durante la “conversazione”, che poi è stata fatta a più voci, composta da interessanti e mirati interventi sull’argomento, scopri che il libro diventa una sorta di marcatempo per la tua esistenza.
Ascolti le relazioni su Maria, la madre di Gesù, ti guardi intorno e ritrovi volti di persone che non vedevi da decenni. Presiede la “conversazione” il prof. Vincenzo Salerno brillante ex-alunno di mia moglie, assessore alla Cultura dell’attuale Amministrazione presieduta dal Dott. Giuseppe Canfora, anche lui presente oggi in sala.
Parla a braccio il prof. Franco Salerno, autorevole collega in queste stesse mura per tanti anni. Con grande calore e passione, come soltanto lui sa fare, descrive la forte devozione che la città di Sarno porta da secoli per la “sua” Immacolata.
Leggi nel libro che, Nicola, quando era piccolo, ogni 8 dicembre, veniva svegliato di prima mattina dal fragore improvviso di “un potente botto che annunciava l’inizio dei festeggiamenti” in onore della Madre di Dio. Lui, la chiesa, che ancora ospita l’antica e venerata statua, ce l’ha proprio di fronte alla sua casa.
Altri interventi si susseguono, in sala lampeggiano i flash dei cellulari. Senti un relatore dire che le “Madri” del Figlio di Dio sono tante e diverse. Possono essere anche “concorrenziali” non solo sul nostro territorio, ma addirittura in altre religioni e nel mondo intero. La storia meravigliosa di una Donna della quale si sa ben poco, quasi nulla.
Lo dice chiaramente l’autore nella presentazione del suo lavoro. Maria rimane un “dogma”. Non so cosa volesse dire Santa Teresa di Lisieux quando disse: “Maria è una di noi”. Nicola Laudisio chiude con questa frase la presentazione del suo libro. Fa suo questo pensiero che, a mio modesto parere, non fa altro che confermare il suo mistero. Il dogma, appunto..
Di mistero in mistero, vieni così a sapere che correva l’anno 1854 quando il giorno otto del mese di dicembre, Papa Pio IX, dopo diciotto secoli di dispute teologiche e dottrinarie, in una enciclica denominata appunto “Ineffabilis Deus”, definisce solennemente il dogma dell’Immacolato Concepimento di Maria.
Il flemmatico dott. Nicola Laudisio ti fa sapere che fu un suo antenato a “postulare” l’operazione. Scorri l’indice del libro ed entri nella storia. Tutto ha inizio in Palestina dove nacque la giovane “donna” che sposò un certo Giuseppe. Persone affatto comuni le quali avrebbero dato vita ad un "bambino" che avrebbe fatto nascere un mondo del tutto nuovo.
Le parole chiavi sono annunciazione, nascita, verginità, assunzione, peccato originale, concili, riforme, persecuzioni, inquisizione, giansenismo, giuseppinismo, illuminismo fino ad arrivare a postulatore, il religioso Mons. Nicola Maria Laudisio, originario di Sarno e Vescovo di Policastro, che contribuì a porre fine ad una ultrasecolare “querelle” teologica sia per chi crede o non crede.
Ma se le parole e i dogmi, che dietro di esse spesso si nascondono, sono destinate ad avere un senso, la figura di “donna” che emerge da questa apparentemente incredibile storia, essa stessa concorre ad unire e santificare. Una figura femminile che diventa “madre” del “figlio di dio” e diventa “Signora” solo quattro anni dopo, quando compare a Bernadette Soubirous, una giovanetta di appena 14 anni in un paesino francese, ai piedi dei Pirenei. Il 25 marzo del 1858, “Maria” rivela il suo nome: «Io sono l'Immacolata Concezione».
Quattro anni prima, Papa Pio IX aveva dichiarato l'Immacolata Concezione di Maria un dogma, ma questo Bernadette non poteva saperlo. Coincidenze, immaginazioni, fantasie che si sciolgono come neve quando si incontrano. Ma i dogmi non sono fatti di elementi “liquidi”, come è diventata la realtà del nostro vivere quotidiano.
Nicola Laudisio lo afferma sin dall’inizio: “sono un credente, un credente convinto e cosciente. E’ difficile non credere in Dio, anche se tanti sono i dubbi della ragione”. Se date uno sguardo ai libri che si occupano di Dio scoprirete che sono davvero tanti. A voler essere cinici si potrebbe dire che Dio “rende”, e rende anche bene, sia per chi crede che per chi non crede. Più per chi non crede le cose vanno bene, in quanto, chi ha deciso di credere in Dio lo fa a proprio rischio e pericolo.
Già, la parola è proprio questa: "rischio". Dio continua ad essere un "rischio". Seguite questo ragionamento: se Dio è un rischio, chi decide di credere deve fare delle scelte ben precise, senza ripensamenti, indugi o trucchi. Forse per questa ragione tanti che si dicono cristiani amano Lei, la Madre di Dio, anzi madre del figlio di Dio che si è fatto uomo per salvare gli uomini.
Chi meglio di Lei può capire, aiutare, mediare un rapporto di questo tipo? Una Madre sa fare tutto per aiutare i propri figli, anche al di là di ogni impossibile “dogma”. Una scelta per credere in una fede che non sia un punto di non ritorno. Per questa ragione non si contano quante sono le “Marie” sparse per il mondo. Anche chi non crede in Dio riesce a credere in una “Maria” che sia una “Madre” che capisce e perdona. Dio può anche non esserci. C’è Lei e a Maria tutti si affidano. Perchè credere in Dio rimane un rischio. Grazie a Nicola Laudisio per avercelo ricordato.

Published on February 23, 2019 07:33
February 20, 2019
Alla ricerca del senso ...

Un filosofo di una certa fama ed esperienza, all’età di 97 anni, decide di diventare personaggio ed interprete di se stesso e girare un breve video, cercando di trovare una risposta al suo interrogativo di sempre: “Qual è il punto di tutto questo?” Per “questo” si intende il suo “vissuto” come uomo, marito, docente per tutti i suoi novantasette anni. Una esperienza interessante che si è conclusa lo scorso anno con la sua definitiva dipartita.
Docente abbastanza noto per il suo insegnamento, sposato con una sua compagna di studi e di lavoro all’Università di Santa Barbara in California. Autore di svariati libri su argomenti importanti tra i quali l’alcolismo e la morte. Su quest’ultimo argomento il regista del breve filmato ha costruito la sua esperienza di interprete di se stesso. Scorrono sullo schermo le immagini della sua giornata, ascoltiamo i suoi pensieri così come gli passano per la mente, scorrono i ricordi, le malinconie, le tristezze, i piaceri e le delusioni.
Un monologo con la telecamera e con se stesso, condiviso in maniera quanto mai civile, sentita ed appassionata. Una vita vissuta abbastanza interessante, vista alla luce della sua condizione contemporanea piuttosto precaria. Lo segue attentamente una giovane badante, per la sua parziale disabilità. Una condizione che lui dice è accettata così com’è, senza proteste e rimpianti. Inevitabile, prevedibile, naturale. Ti devi convincere, dice a se stesso, che non puoi farci niente.
Pesano gli anni, nasce nel 1921 un anno che non ha nulla in comune con l’oggi se non la sorpresa di esserci arrivato. Questo peso del tempo cade sulla bilancia della sua vita e fa balenare davanti ai suoi occhi l’immagine della fine. La sua fine, quella che nei suoi libri e nelle sue lezioni ha chiamato “morte”. Ma questa volta non si tratta di letteratura, di parole, pensieri che cercano di costruire una storia, una interpretazione, elaborare una teoria, inventare una filosofia.
Qui siamo di fronte ad una situazione davvero reale: il segno della fine, la sua fine. Appare una parola che è un segnale, quello che indica la conclusione di un percorso: la paura. Un termine contro il quale lui ha avuto modo di esprimersi, cercando di spiegarla, esorcizzarla, annientarla durante le sue lezioni, nei suoi libri, ai suoi studenti. Per venti anni. Ma ora se la trova davanti, vera, tutta sua. Ma non intende avere paura.
Non c’è ragione di averne perché quando si muore uno non ci sarà più. Cosa allora puoi temere se non esisti più? Ma, allora, se la paura non esiste, che cos’è che mi preoccupa? Che senso ha non dormire? Ma perchè mi faccio queste stupide domande, mi pongo questi interrogativi senza senso? Ci sarebbe almeno lei, Leslie, mia moglie, ne potremmo discutere insieme, come abbiamo fatto per una vita intera.
Settanta anni, mica poco, tanti. Sono solo con la mia solitudine e mi accorgo che se n’è andata una parte di me. Mi trovo spiazzato, viaggio in una nuova dimensione, non mi appartiene da quando lei non c’è più. Abbiamo lavorato, viaggiato, studiato insieme. Siamo stati felici. Ho perso una parte di me, avverto questa mancanza come un peso, un vuoto terribile. Ricordo i momenti quando lei stava per andarsene.
Non voglio che accada di nuovo, non perchè ho paura, ma perchè poi sento che mi mancherà il mondo che mi circonda, gli alberi, lo stormire delle foglie, la brezza del vento, i tramonti, le albe, un senso di trascendenza, appartenenza a tutto ciò che mi è appartenuto. Dovrò dire addio a tutto ciò. Sono in attesa, devo prepararmi a dire addio. Per quale ragione? Qual è il senso di tutto questo?
Dr. Herbert Fingarette è passato a miglior vita qualche mese fa. Non ho detto che è morto, perchè credo che nulla finisce a questo mondo. Sono convinto che tutto cambia e rinnova. Questo video che vi invito a guardare dura soltanto 16 minuti, sentite la voce del professore, ascoltate il suo respiro, seguite i suoi passi, sino alla conclusione quando dice, con un sospiro: “waiting, I’m waiting, till I say goodbye”: “sono in attesa di dire arrivederci”.
Lui non credeva nella trascendenza, pur avendo avuto tutte le possibilità di arrivarci. Sono sicuro che là dove si trova avrà modo di incontrarsi con un suo famoso collega il quale trovò una ragionevole risposta al suo ripetuto interrogativo, facendo una famosa scommessa con un suo amico: “What is the point of it all?” La risposta ce la darà Dio stesso. Se esiste, vinco io, se non esiste vinci tu. Conviene crederci. Più logico e razionale di questo!
Fonte: AEON

Published on February 20, 2019 10:24
February 19, 2019
Ci sei e non ci sei

My rating: 3 of 5 stars
Il titolo di questo libro esprime un paradosso. E' un invito a ricercare noi stessi, non altrove, la soluzione dei nostri problemi. Se questo è il senso di questo pensiero, concedetemi di pensare che tra le diverse etichette che mi sento di dare a questo libro, quella che mi aiuta meglio a capire è: "mistero".
Mi spiego: l'autore sostiene che quando dobbiamo affrontare, e possibilmente risolvere le sofferenze che ci regala continuamente la quotidianità, non dobbiamo rivolgerci all'esterno, nella illusione di trovare luoghi adatti che ci possano fornire delle soluzioni. Basta, invece, entrare in noi stessi, meditando ed aiutandoci con le nostre energie interiori.
Il parco, la chiesa, la famiglia, l'ufficio, la montagna, il mare, il fiore, la foresta, la luna, l'universo con i suoi multi-verso, insomma quel posto che qualcuno ha chiamato "infinito", non bastano, non dobbiamo muoverci. Ci siamo già, ci stiamo da quando siamo arrivati, da quando siamo nati. Forse ha ragione, forse anche no.
Il fatto è che, quando il tempo passa e tu, a furia di stare sempre dentro di te, nello stesso posto, e scopri che più ci stai dentro, più con il tempo trascorso non hai capito granchè, sei portato naturalmente ad "uscire", mettere il naso "fuori".
Rientri nel mondo, dopo un certo numero di anni, diciamo decenni, incontri qualcuno che si chiama Amleto e con lui ti trovi a scambiare quattro chiacchiere. Scopri, così, che nemmeno lui, chiuso dentro di sè, ha capito granchè. Se "fuori", nel mondo c'è un continuo caos, non è che "dentro" con tutta quella tranquillità e consapevolezza di cui parla l'autore abbia potuto capire il problema irrisolto che si pone quel sempliciotto di Amleto.
Il suo "essere o non essere", il suo continuo entrare ed uscire dal mondo e da se stesso, non lo ha aiutato a capire il senso di tutto. Dieci o ottanta anni fanno la differenza, non vi pare? Se, invece, sia il ragazzo decenne che il vecchio ottantenne, continuano a non trovare una ragionevole risposta al problema, vuol dire che, dentro o fuori, c'è sempre quella che Qoelet chiamava "hebel", cioè "nebbia".
Possiamo anche meditare, uscire ed entrare. L' "essere" continua a "non essere", il mistero resta mistero. O sbaglio? Comunque, meditate gente, meditate, che male non vi fa.
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Published on February 19, 2019 23:08
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Tags:
amleto, consapevolezza, meditazione
February 15, 2019
I monologhi di Norma D'Alessio, in attesa di "Malvina"

Se questo libro dovesse finire tra le mani di un lettore che è in cerca o ha bisogno di un canone, una guida, un sistema per mettere ordine alle tante "voci" che compongono il "caleidoscopio" del suo essere al mondo, e se lui, ingenuamente pensasse che questo "cantico dell'uomo nudo" può aiutarlo a cercare la sua identità, è bene che lo riponga sugli scaffali della libreria per non essere coinvolto in una esperienza di lettura davvero "tellurica".
Ho usato i tre termini virgolettati, così come sono stati scelti dall'autrice nella presentazione di questa sua ultima fatica di scrittura. Proprio così, la parola giusta è questa: "fatica". Per Norma D'Alessio, scrivere non è mai una esperienza di piacere, di svago oppure di esibizionismo.
E' sempre un sofferto percorso interiore di ricerca, esperimenti, illusioni e delusioni. Mi sembra inutile discettare se il suo canone sia espresso in prosa o in poesia, se sia cronaca o narrazione, fiaba o realtà. Conosciamo bene le sue precedenti esperienze di scrittura, un percorso più che ventennale che continua ad essere un "work in progress", anche in questa forma di "cantico".
Non mi pare che questa sua ultima esperienza possa essere vista come qualcosa di nuovo, di diverso. E' vero, la sua scrittura è diventata forse più sciolta, aggressiva, veloce. Le sue parole sembrano scorrere invece che sulle pagine a stampa, sullo schermo di un laptop, un pc, un cellulare. Pensieri veloci, liquidi, sfuggenti e taglienti anche nel loro crudo realismo.
Sembra quasi che voglia liberarsene, sbattendoli in faccia al lettore, non per aiutarlo, bensì per fargli conoscere, assaporare la sua sofferenza, quasi come a condividere con lui il proprio passato, affrontare il suo sempre difficile presente, magari accompagnarlo in un misterioso, catastrofico, senza speranza futuro.
Un "libro di passaggio", questo "cantico", fatto di monologhi brevi nella forma, ma lunghi, davvero troppo lunghi nella sostanza, come troppo lunghe sanno essere le ombre dei ricordi di un passato che non finisce mai. Proprio in questa continua, affannosa, sofferta ricerca Norma rivela il suo bisogno di condivisione, la necessità di stringere con i suoi lettori un patto di comunicazione che credo difficilmente potrà essere condiviso.
Una scrittura di questo tipo tocca i vertici della migliore incomunicabilità letteraria moderna. Potrà soltanto provocare scosse telluriche in chi cerca invece un aiuto ed una certezza. Nel libro ci sono due estratti da un libro che in nota l'autrice definisce: "romanzo inedito Malvina". Mi piace pensare che quanto prima, "Malvina" venga fuori e ci racconti tutto quello che non ci ha ancora detto.
Non si può continuare a scrivere sfuggendo continuamente alle canoniche antiche domande, lasciandosi andare a sensazioni che rimangono esperienze "telluriche", senza speranza. Soltanto la vera scrittura può dare senso a se stessa. Questo ennesimo libro di Norma ne è una prova. Aspettiamo l'arrivo di "Malvina".

Published on February 15, 2019 04:25
February 13, 2019
La mia identità digitale

La lettura di questa scheda identitaria va letta online. Cliccando sui link avrete accesso. Quando lasciai l’insegnamento una ventina di anni fa, frequentai un corso online dell’Università di Londra, “Institute of Education”. Nella dissertazione finale coniai l’acronimo C.A.C. che sta per Connection → Access →Control. Se avete una connessione potete avere Accesso alla Rete e Controllare quello che volete. Cliccate sui link attivi sottolineati e avrete la mia identità digitale.
Sono un dinosauro digitale, ho imparato a leggere e scrivere nella tipografia di famiglia, nella antica Valle dei Sarrasti passeggiando con Kant. Originali o plagiari siamo romanzieri di noi stessi così ho scritto in un libro da poco pubblicato in cartaceo, presente anche su Internet Archive .
Navigo in Rete dai tempi del Commodore 64 e conosco la fatica di leggere. Se dovessi tirare le somme di tanti anni anni tra letture e scritture, mi sentirei di affermare anche il diritto di non leggere per contrastare quello di leggere. Forse tradirei il secolo di mio Padre, lui i libri non li scriveva li “faceva”.
Lui era un compositore, uno stampatore, un legatore, aveva un cuore che era un libro. Io, a distanza di tanto tempo, mi sforzo di non essere un robot. Non posso fare a meno di esprimere il bisogno di pensare. Lo faccio in tutti gli spazi digitali che ho avuto modo di frequentare in questi ultimi decenni dopo che lasciai la scuola e l’insegnamento attivo.
Mi accorsi che ero entrato a far parte di un cervello globale. Sono sempre più convinto che noi siamo quello che leggiamo. Tra biblioteche e biblioterapie, esprimo la mia idea digitale nel mio blog tra Machiavelli e McLuhan. Si possono incontrare strani compagni di viaggio tra i libri..
La mia biblioteca digitale è su GoodReads, la mia quotidianità suFacebook e Twitter, dopo la scomparsa di G+ sono ritornato su MEDIUM. Le mie immagini sono su Pinterest.

Published on February 13, 2019 10:11
February 10, 2019
"Soldi" - Una questione di identità

La canzone che ha vinto il 69mo Festival di San Remo mi pare possa essere una buona occasione per cercare di capire se il giusto significato da dare alla parola “identità” sia quello di esprimere la consapevolezza di sé e quella degli altri.L’etimo latino “idem” (stessa cosa) e quello greco “tautotes” (calco) ci aiutano poco. In filosofia A è A, esprime la logica aristotelica che non può essere messa in discussione. In psicologia, invece, abbiamo la possibilità di allargare, anche a dismisura, la latitudine di significato.
Si va, quindi, da una concezione statica immutabile, a quella di un processo inarrestabile riguardante la propria vita interiore ed esteriore, un continuo processo dinamico non solo tra noi e gli altri, ma anche fra noi e noi stessi.
Una identità aperta, che si nutre di relazioni ed anche della necessità di un riconoscimento da parte degli altri. Entrano in gioco situazioni, conoscenze, sentimenti, emozioni, che servono a mettere in luce la diversità del soggetto.
Non vi pare che tutto questo possa essere letto nel testo della canzone che ha vinto? dateci una lettura prima di continuare a leggere questo post. E stata scritta da Alessandro Mahmood, un giovane italiano nato a Milano nel 1992. Il padre è egiziano ma è assente, la madre è presente ed è una signora sarda di Orosei.
L’ambiente della canzone è quello della periferia, con tutti gli aspetti materiali della vita che vengono continuamente ripetuti a ritmo di pop che diventa anche rap, mescolati con le solite difficoltà, non solo di stare al mondo, ma anche di capirlo, mentre sullo sfondo risuonano parole arabe.
La musica sembra continuare il canto di una precedente canzone da lui scritta intitolata “Gioventù bruciata”. Ma questa volta si parla anche di “soldi”, anche se non con un mero significato venale. Il condimento musicale pop contiene la massa umana dei giovani alla quale Alessandro si rivolge, quindi è popolare, ma effimera e consumabile.
Ha un costo basso, è giovane e spiritosa, sexy e sfacciata, ingegnosa ed è anche un grande affare. Soprattutto diventa “politica”, specialmente se scritta, vista, letta, suonata e sentita in questo momento storico. Ed ecco ritornare al centro il tema della identità.
Leggete e rileggete verso per verso la canzone e scoprirete che è come un continuo flusso e riflusso di coscienza. La vita appare nella sua complessità che fa rima, ma va anche in conflitto, con identità, non vi pare?
Un ragazzo che ha confermato chiaramente di voler essere solo italiano, chiamato Alessandro che forse sarà anche forse fenicio, punico, romano, arabo, bizantino, vandalo, spagnolo, sabaudo, sardo e chissà quante altre cose ancora. Come del resto ognuno di noi. E’ importante?
Sarà allora un “contaminato”, senza “identità”? Il Festival di Sanremo è il mondo dell’immaginario dove regna incontrastata la musica, uno dei più potenti veicoli trasmettitore di contaminazione di idee della contemporaneità. Ci illudiamo di non "contaminarlo" con la politica.
Ma, lo sappiamo tutti, come ci insegna Aristotele: l'uomo è un animale politico e dunque tutto è politica. Si tratta, invece, di lasciare che il pop nelle sue varie forme faccia il suo discorso, che contraddica, punga, risvegli i sonnambuli, divida, faccia riflettere, si presenti con il volto e il nome di Mahmood o di Ultimo.
Può essere una provocazione intelligente, una idiozia pura, oppure soltanto intrattenimento. Io credo che possa essere la cartina di tornasole per comprendere quanto sia illusoria ed anche ingannatrice la parola dalla quale sono partito: Identità. Fa rima anch’essa con difficoltà. Essa canta in un verso quella di Alessandro Mahmood: la difficoltà di stare al mondo.
'Soldi'
In periferia fa molto caldo Mamma stai tranquilla sto arrivando Te la prenderai per un bugiardo Ti sembrava amore era altro Beve champagne sotto Ramadan Alla tv danno Jackie Chan Fuma narghilè mi chiede come va Mi chiede come va come va come va Sai già come va come va come va Penso più veloce per capire se domani tu mi fregherai Non ho tempo per chiarire perché solo ora so cosa sei È difficile stare al mondo quando perdi l’orgoglio lasci casa in un giorno Tu dimmi se Pensavi solo ai soldi soldi Come se avessi avuto soldi Dimmi se ti manco o te ne fotti Mi chiedevi come va come va come va Adesso come va come va come va Ciò che devi dire non l’hai detto Tradire è una pallottola nel petto Prendi tutta la tua carità Menti a casa ma lo sai che lo sa Su una sedia lei mi chiederà Mi chiede come va come va come va Sai già come va come va come va Penso più veloce per capire se domani tu mi fregherai Non ho tempo per chiarire perché solo ora so cosa sei È difficile stare al mondo Quando perdi l’orgoglio Ho capito in un secondo che tu da me Volevi solo soldi Come se avessi avuto soldi Prima mi parlavi fino a tardi Mi chiedevi come va come va come va Adesso come va come va come va Waladi waladi habibi ta’aleena Mi dicevi giocando giocando con aria fiera Waladi waladi habibi sembrava vera La voglia la voglia di tornare come prima Io da te non ho voluto soldi… È difficile stare al mondo Quando perdi l’orgoglio Lasci casa in un giorno Tu dimmi se Volevi solo soldi soldi Come se avessi avuto soldi Lasci la città ma nessuno lo sa Ieri eri qua ora dove sei papà Mi chiedi come va come va come va Sai già come va come va come va

Published on February 10, 2019 09:19
February 6, 2019
Minimalismo digitale: C.A.C.

My rating: 2 of 5 stars
Mi aspettavo molto di più da questo libro. Il "minimalismo" digitale non è altro che quell'acronimo che coniai una ventina di anni fa durante un corso tenuto dall'Università di Londra, "Institute of Education" sul tema "Online Education & Training". Nella dissertazione finale, dopo circa cinque mesi di corso online e a pagamento, ebbi modo di sintetizzare in tre semplici parole quello che l'autore ha esposto nel suo libro: C.A.C. vale a dire "Connection -> Access -> Control". Se decidi di aprire una Connessione potrai avere Accesso, se vuoi vivere tranquillo e diventare saggio nel mondo digitale impara a Controllare tutto ciò che fai. Se questo non è "minimalismo" mi sapete dire che ci stanno a fare quelle due antiche paroline ON-OFF. Due stelle bastano.
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Published on February 06, 2019 20:34
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Tags:
digital, minimalism
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Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one.
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