Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 146

January 4, 2017

Noi siamo quello che leggiamo



Noi siamo non solo quello che mangiamo, ma anche quello che leggiamo. Me ne sono accorto da qualche tempo, da quando ho deciso di mettere ordine ai miei pensieri che sono nei libri. Una cosa che ognuno dovrebbe fare, di tanto in tanto, per comprendere non solo quello che ci passa per la mente, ma, sopratutto, quello che ci passa sotto gli occhi, leggendo. Guardare i libri della propria biblioteca e riflettersi in essi. Semplice a dirsi ma complicato a farsi. Vediamo il perchè.
Non credete a chi si lamenta che al giorno d'oggi si legge poco e sempre meno, oppure che nessuno legge più. Non solo non è vero, è sopratutto una prova di quanto sia sbagliata la cognizione, il concetto, l'idea di lettura che dovremmo avere oggi, rispetto a quella di un tempo. Oggi si legge decisamente molto, molto di più che in passato. Basta considerare soltanto i mezzi e i modi con i quali la comunicazione ai giorni nostri si diffonde. 
Un tempo lontano bastavano i rotoli e i papiri, oppure le mura dell'antica Pompei, poi apparvero i fogli stampati di un oggetto chiamato "libro", un manifesto o un giornale e pochi fortunati li sapevano leggere. Oggi, quelli che chiamiamo "media", plurale del latino "medium", non si contano. La pagina stampata continua ad essere letta, ed è sempre al centro dell'attenzione. Ma è circondata da una vera propria rete, anzi forse meglio dire una "ragnatela". 

Si legge non più e non tanto sulla pagina, ma su di uno schermo, che non è in alcun modo collegato al foglio di carta di Gutenberg. Diverse sono le radici di questa lettura, ben altre sono le maniere nelle quali le storie pensate, scritte e narrate scorrono sotto gli occhi dei moderni lettori. Me ne sono convinto in tanti anni di studio e lavoro con i libri. Dal tempo della storica, tradizionale, piccola tipografia gutenberghiana di mio padre, all'iPad sul quale sto scrivendo mentre viaggio, la bozza di questo post per il blog di GoodReads, c'è n'è di strada. Poi lo completerò al pc, corredandolo di immagini e link.
Sistemare i tanti libri cartacei della biblioteca di famiglia sugli scaffali digitali di questo social internazionale dedicato alle "buone letture", affiancandoli ad altri che hanno un'anima diversa, non di carta, ma di "bits & bytes", fa la vera differenza. Il libro cartaceo e quello digitale marcato Kindle vivono vite diverse, pur trasmettendo lo stesso messaggio. Ma mai come in questo caso, la forma è anche sostanza. Un esempio su tutti per far comprendere prima a me stesso e poi a chi mi onora della sua lettura.
Prendete dallo scaffale di "GoodReads" l'Ulisse di James Joyce. Uno di quei libri che chiamare "libro" mi sembra quanto mai riduttivo. Una narrativa che a me pare un "universo", come quello della Bibbia, il vero "libro dei libri". Bene, prendetelo con un clic del vostro mouse dagli scaffali digitali del sito, leggerete la trama, le recenzioni, le discussioni in tutte le lingue, scegliete la lettura, anzi l'ascolto audio della versione registrata. Seguirete il testo, avendo tra le mani la copia cartacea e capirete la differenza nella lettura, nella "fruizione" (una brutta, ma una significativa parola) di un testo, una narrazione che va oltre lo stazio e il tempo.

Ecco, in tutto questo sta la differenza tra leggere su carta e leggere in digitale. E qui arrivo al punto centrale di questo post: tutti quei libri che negli anni ho accumulato sui miei scaffali tradizionali, oggi, se li leggo in versione digitale, hanno in realtà una dimensione diversa, alla stessa maniera di come io, lettore di oggi, sono diverso da quello che ero soltanto qualche decina di anni fa. 

Posso dire, allora, che come lettore, oggi non sono più quello di un tempo, di quando alla Biblioteca Nazionale di Napoli, mia moglie ed io, andavamo di scaffale in scaffale, di scheda in scheda, di catalogo in catalogo, di voce in voce, in cerca del libro chiave per le nostre ricerche. Oggi mi basta entrare in GoodReads, oppure in qualsiasi altro sito dedicato ai libri, e ce ne sono tanti, in tutte le lingue, e riscoprirmi con una nuova identità. Sono quello che leggo, nella misura in cui, definisco, scelgo, decido il mio modo di leggere.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on January 04, 2017 12:51

January 3, 2017

Le parole del Nuovo Anno

Quando si devono fare gli auguri per un nuovo anno che inizia il suo corso c'è sempre il rischio di essere banali. Non possiamo continuare ad usare troppe parole. Se ne sprecano ogni giorno già troppe.

Chi pensa, chi scrive, chi legge, chi le usa per comunicare trova nelle parole il senso non solo della propria esistenza, ma anche della sua identità. Una faccenda che nel mondo di oggi riguarda tutti. Oggi la scrittura ha riacquistato senso per molte persone.

Prima attraverso le mail, poi con la crescita del web nelle sue varie forme che invogliano l'interazione, e infine coi social network che hanno attualizzato una delle forme più antiche di narrazione, quella dei diari, dei blog, delle chat.

Le parole sono uno strumento bellissimo, la scrittura un esercizio salutare anche quando è solo auto riflessivo e aiuta a comprendere meglio quello che siamo, quello che proviamo. Ma le parole vanno rispettate. Le lettere che battiamo sulle nostre tastiere devono creare combinazioni che ci mettano in condizione di decifrare la realtà che ci circonda.

Anche se saremo soltanto noi o pochi altri a leggerle.
Ma c'è un effetto collaterale negativo di questo imponente ritorno alla scrittura ed è la sua inflazione. Lo spreco delle parole, per l'appunto. A tratti è insopportabile, spesso foriero di danni, anche inconsapevoli.

Quante notizie inutili, perchè false, ambigue, perverse e distorte si leggono e si ascoltano. Quante parole inutili, incomprensibili, cattive si dicono alla tv. La cosa più fastidiosa è lo stile praticato nella comunicazione: la ricerca spasmodica dell'emotività.

I fatti sono diventate opinioni che devono essere prepotentemente urlate. Vincono le emozioni preconfezionate, servite "a la carte" in tanti modi che capita di leggere.

Nelle ultime settimane si è aperto un necessario dibattito sulla qualità dell'informazione, una riflessione sulla cosiddetta "post verità" e sul mostruoso ruolo dei social nella diffusione delle notizie false. Queste sono sempre fatte da parole che allora diventano davvero pietre.

Nessun intento di demonizzare la bacheca di Facebook o degli altri social, ma siamo certi che ogni giorno ci sia qualcosa da dire? Non sarebbe più opportuno astenersi, ascoltare, praticare qualche volta in più il silenzio?
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on January 03, 2017 11:41 Tags: anno-nuovo, parole

January 1, 2017

Tornare al giardino ...




Questo post, che intende essere anche la recensione di un libro sulla manìa per i giardini, è dedicato ad  Antonio De Marco animatore e "patron" del "Giardino Segreto dell'Anima" nella Valle di Tramonti, in Costa d'Amalfi, un giardino parte integrante del lascito della famiglia Telese della quale Enza Telese, sua gentile consorte, fa parte. 
Nonostante tutto, Antonio continua a credere che i giardini ci possono salvare dai disastri della modernità. Lui è convinto che il suo piccolo, straordinario giardino sia uno degli ultimi punti di contatto con la natura per mezzo del quale possiamo continuare e scoprire la nostra vera essenza.
In diverse occasioni mi sono occupato di giardini. Non mi stanco mai di visitarli, ovunque mi trovi, sia in Italia che all'estero. Penso che il giardino sia il biglietto da visita di un qualunque posto ci ,capita di visitare. Un paese, una città, un luogo abitato senza giardini è un posto senza anima, come lo è una casa senza libri. Ho condiviso queste due passioni che vanno sotto il nome di "Gardenmania" e "Bibliomania" sin dai miei anni di giovane studente in quella magica isola dove tutto ebbe inizio: l'Inghilterra. Passioni che ti entrano nel sangue, vanno in circolo e non ti lasciano mai più.
Giorni orsono, ho avuto la fortuna di leggere due pagine con una lunga intervista dedicata ad uno storico dei giardini. Marco Martella vive a Parigi, ha diretto la rivista "Jardins" e ha pubblicato altri due libri con gli pseudonimi di Jorn de Précy per "E il giardino creò l’uomo" (2013) e di Teodor Cerić per "Giardini in tempo di guerra" (entrambi editi da "Ponte alle Grazie", 2015). 
Da poche settimane è uscito un terzo libro intitolato "Ritorno al giardino", un breve brillante saggio che ho letto in formato Kindle. Ho deciso di farne una recensione utilizzando alcuni brani della sua intervista che ha concesso a Francesco Borgonovo per il quotidiano "La Verità". Credo che ne valga la pena, leggere quello che pensa questo esperto dei giardini nel suo giusto contesto. 
L'intervista è corredata da uno splendido dipinto del padre dell'Impressionismo Claude Monet che ripropongo qui in testa al post. Va detto che questi pittori sono stati i primi a comprendere l'importanza del rapporto che esiste tra natura e pittura. Proprio Monet, forse il più noto ed importante pittore di giardini nella storia dell’arte, coltivò ed allestì numerosi giardini in ciascuna delle sue residenze, da Sainte-Adresse a Giverny, dove si spense 90 anni fa. Si svegliava all’alba, dipingeva sotto il sole cocente e sotto la pioggia battente per studiare tutte le infinite sfumature della luce. 
Intorno alla sua casa rosa a Giverny aveva creato un giardino con uno stagno e un ponte giapponese, che ancor oggi accoglie migliaia di visitatori con le sue tinte e i suoi avvolgenti profumi. Dalle passeggiate sulle colline intorno alla proprietà, Monet tornava con semi di fiori selvatici per aiuole. Papaveri di campo, primule, violette, margherite, fiordalisi erano l’anima del suo giardino. Oltre alle ninfee di Monet a Giverny, possiamo ricordare il giardino di Bonnard a Vernonnet, in Normandia, o quello di Kandinskij a Murnau, in Alta Baviera, luogo di incontro di musicisti e artisti provenienti da tutto il mondo.
"Tra tutte le opere che l'uomo ha realizzato e realizza, il giardino possiede questa specificità: è composto innanzitutto di materia organica, cioè le piante, l'acqua, la luce, insomma : la vita. Per questo, credo sfugge a quel grande processo che chiamiamo progresso e che ha trasformato quasi tutti gli spazi creativi dell'uomo, dalla letteratura alla cucina, in attività lucrative, in industria ...
Il giardino, quindi, non è sottomesso alle regole del mercato, non può essere un prodotto consumabile: di fatto, è diventato oggi uno spazio di resistenza. Non è alla natura che offre riparo, ma all'uomo, a quel margine di umanità che resiste in noi e che la storia non ha ancora intaccato ...
Nella mitologia greca il gigante Anteo traeva la sua forza dal contatto costante con la madre Gea, cioè la terra, e perdeva la sua forza quando i suoi piedi non toccavano più il suolo. Per sconfiggerlo Ercole lo terrà sollevato da terra. E' una buona metafora: l'essere umano non può vivere separato dalla terra, ma è questo, lo sappiamo, che accade sempre di più. La perdita di radici è la perdita di se stessi. E' stato un errore per l'uomo essersi creduto signore e possessore della natura, come scrisse Cartesio all'alba della modernità, ponendosi quindi al di sopra e al di fuori di essa ... 
Siamo noi, prima che il pianeta a pagare ogni giorno il prezzo di questo divorzio dalla terra. Ci preoccupiamo giustamente della scomparsa di specie viventi, animali e vegetali, ma dovremmo essere preoccupati ancora di più per noi stessi, per quell'umanità che resiste in noi, come dicevo prima, ma che ogni giorno la società meccanizzata, industriale, digitalizzata, riduce. E' l'uomo la specie più minacciata. Anche per questo occorre tornare al giardino ...
Il luogo giardino è un'opera dell'uomo e della natura congiunti, una creazione stratificata, che si forma nel tempo. E' uno spazio accogliente, in cui possiamo identificarci e che possiede sempre un centro, un alto e un basso. Quando i Romani intendevano costruire una casa o un tempio in un posto preciso interrogavano il suo "genius", intermediario tra gli uomini e gli dei, a cui quel posto apparteneva. Ogni luogo ne aveva uno ... 
Pur essendo un popolo di ingegneri e di conquistatori, i Romani sapevano che era in punta di piedi che bisognava entrare in un luogo. Per questo interrogavano per prima cosa il "genius loci": cosa desiderava? In che modo la sua volontà e quella degli uomini potevano conciliarsi, trovare un terreno d'incontro? Solo in questo modo il progetto umano poteva andare a buon porto. E' tutto il contrario del modo con cui noi modifichiamo il paesaggio per piegarlo alle nostre sigenze, senza tenere conto di ciò che nel luogo già c'è, della sua storia, della sua anima...
Bisogna ricominciare ad ascoltare i luoghi, a far prova di umiltà di fronte al loro mistero, ispirandoci ai popoli dell'antichità che consideravano l'atto di costruire ed abitare come un atto sacro. Bisognerebbe imparare ad adattarci nuovamente noi al mondo invece di fare il contrario ... 
Il turismo moderno purtroppo è una forma di consumo: si consumano luoghi, culture, paesaggi. Oggi quello che era un tempo il "viaggio", scoperta del mondo e allo stesso tempo di se stessi, è ora solo distrazione, un elemento della società dello spettacolo, un settore economico redditizio ... 
Il giardino ci propone di tornare a essere parte di qualcosa di più grande, di più forte di noi, e promette una felicità. Lavorando con la natura, mettendo le mani nella terra, il giardiniere sperimenta il mondo vivente come realtà magica, persino sacra, ritrovando lo stupore primitivo di fronte alle manifestazioni della natura, ai cicli delle stagioni, alla semplice bellezza delle piante o degli animali ... 
Ho avuto la fortuna di vivere e lavorare per anni in un giardino alle porte di Parigi che si chiama "Ile Verte" (Isola verde), un giardino ottocentesco che fu abitato da diversi artisti nel corso della sua storia. E' un luogo selvatico, che sembra qualsi abbandonato a se stesso e in cui le piante spontanee convivono con quelle coltivate, le rose selvatiche con le rose antiche, selezionate con cura dal giardiniere, le viole selvatiche con le ortensie. A molti sembra una giungla più che un giardino, ma dietro c'è un progetto estetico preciso. Qui il giardiniere segue il movimento della natura, lo accompagna, lo asseconda. Credo che sia questo il mio giardino ideale... 
Il giardinaggio è un lavoro duro, a volte un vero corpo a corpo con la natura, richiede pazienza, anzi fede. In questo momento sto piantando molti alberi da frutto nel mio nuovo giardino. Li vedo nudi, gracili, esposti ai venti gelidi dell'inverno e mi chiedo se ce la faranno davvero, se ci saranno fiori sui rami in primavera e i primi frutti il prossimo autunno ... 
So che dovrò aspettare anni prima che il frutteto sia bello come lo sogno e che la fruttificazione sia abbondante. Il giardino è sempre una promessa, ci rende capaci di speranza in un tempo che lascia sempre meno spazio alla speranza. E ci insegna, con pazienza, la pazienza". 
(La Verità - 31 dicembre 2016)



 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on January 01, 2017 11:25

December 30, 2016

I "soffietti" dei libri


Lo sapevate che anche i libri hanno bisogno di "soffietti"? Non sapete cosa sono? In inglese si chiamano "blurbs" e sono comparsi per la prima volta nell'editoria di lingua inglese, agli inizi del secolo scorso, quando apparve per la prima volta l'immagine di una donna che urlava ad alta voce il titolo del libro, pubblicizzandolo come una volta facevano gli strilloni del giornali. Col tempo c'è stata poi una evoluzione del messaggio in versione pubblicitaria. L'editore si avvale di fascette intorno al volume con messaggi, oppure stampa sulla sovraccoperta dichiarazioni di critici, scrittori, giornali i quali esprimono il loro giudizio sul libro. Questo, è ovvio, ed è sempre più che positivo. 
La domanda che ci si pone a questo punto è: quanto conta un messaggio del genere nella decisione del lettore di acquistare quel libro? Possiamo fidarci di questi soffietti chiaramente interessati? In una società contemporanea come la nostra sembra che la cosa sia del tutto accettabile, se non comprensibile. L'apparenza e l'urlo caratterizzano i nostri messaggi e sopratutto i libri sono portatori di messaggi. C'è chi sostiene che questi soffietti sono utili, chi li ritiene una vergogna, chi pensa che aiutano il lettore a capire e scegliere cosa compra, chi invece sostiene che sia una maniera sleale per fregarlo e condizionarlo. 
Ma, allora, è utile chiedersi cosa spinge il lettore a leggere e comprare un libro. Se non il soffietto, la copertina, il nome dello scrittore, la recensione sul giornale, la discussione di salotto nel talk show, la clip video, la locandina del giornalaio, cosa fa decidere un lettore a leggere un libro? Chi sa cosa vuole, non ha problemi. L'editore del libro e il suo autore, ovviamente, vanno a caccia del lettore poco informato, scarsamente avveduto nelle sue scelte, indeciso ed influenzabile. Il libro è, oltre tante cose, sopratutto un "prodotto" da vendere. Chi vende meglio e di più può dirsi uno scrittore di fama e di successo, se rimane in vetta per diverse settimane nelle tante classifiche della vendite. 
Saggistica, narrativa, varia, per giovani, per ragazzi, per adulti, in versione italiana e straniera, i media pilotano tendenze, scoperte, successi, ed anche bidoni ed illusioni. Tutti conosciamo ambienti e luoghi dove chi scrive libri gira nelle scuole, aiutato da amici e colleghi, si inventano corsi di aggiornamento, conferenze, inaugurazioni ed occasioni per parlare di libri scritti da amici e colleghi, momenti di cultura ideali per aggregare menti giovane nei luoghi istituzionali designati a promuovere anche la vendita di libri. 
Il politico e l'assessore locale promuovono, presenziano, relazionano, insomma si fa cultura vera, almeno così dicono. Sono tante le occasioni che capitano ovunque. Intendiamoci, non affermo che queste siano cerimonie futili, nessuno potrà negare la loro utilità sociale. Stimolano la lettura, creano cultura, incrementano anche la produzione, educano cuori e menti di futuri cittadini responsabili. Sono "soffietti" diversi, ma restano tali. Spesso sono solo dei "soffioni" ...


 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on December 30, 2016 13:38

Il mondo è diventato un "social network ...

Il mondo come un social media
Chi non ha un profilo su un social network? Chi usa lo smartphone solo come telefono cellulare ?Chi accende il personal computer, fisso, portatile o tablet che sia, solo per motivi professionali o di studio? Se avessi un pubblico davanti a me, nessuno alzerebbe un dito per rispondere positivamente al mio quesito e anch’io farei altrettanto! Tutti siamo armati di un mezzo che ci catapulta in un mondo che da reale è diventato virtuale, anzi no, un universo che è tanto sociale che spesso si tramuta in qualcosa di patologico.
Basta guardarsi attorno in qualsiasi ambito, locali pubblici, mezzi di trasporto e per strada per realizzare che la gente ha perso l’abitudine di parlare, tutti intenti ad armeggiare con lo smartphone.  Pare che non si possa vivere senza un costante contatto con il mondo virtuale, qualsiasi esso sia e sempre a discapito delle buone chiacchierate tra amici e dei rapporti personali, con il rischio di cadere vittima della sindrome di "Hikikomori", termine giapponese dalle parole hiku "tirare" e komoru “ritirarsi" e la cui traduzione letterale è “stare in disparte, isolarsi” recentemente associato anche all’abuso di internet.
Ma questa patologia del Sol Levante non è l’unica, c’è anche il FOMO ("Fear Of Missing Out"), ovvero la paura di essere emarginati ed al quale sono legati molti utenti dei social network che non vogliono perdersi nulla dei profili dei propri amici, veri o virtuali che siano e temono di essere tagliati fuori da tutto quanto fa tendenza. Purtroppo c’è anche spazio, tanto "cyber" spazio per chi vuol farsi veramente male, il "Dark Net", una grossa fetta di mondo virtuale, dagli esperti stimata 500 volte più grande rispetto al web, dove è possibile muoversi liberamente nell’illecito, dove pedofili e terroristi trovano un ambiente fertile, che si tramuta in una sorta di mercato nero per trafficanti d’armi e di droga.
Ma come è possibile tutto questo? Uno dei modi più seguiti è quello di accedere alla "Dark Net" (la Rete oscura) per mezzo di Tor, un software che fa rimbalzare il traffico dati tramite vari sistemi crittografici e che garantisce l’anonimato degli utenti rendendo invisibile l’indirizzo IP del computer.
Sicuramente è inquietante sapere che nel ventunesimo secolo sia possibile muoversi così liberamente in siti altamente pericolosi soprattutto per i giovani, senza che si possa bloccarne il traffico da parte degli organi competenti. Il mondo della tripla W ha aperto un universo sconfinato, che comunque bisogna saper dosare con saggezza ed intelligenza per non correre il rischio di cadere nelle maglie di quella che si presenta come una nuova dipendenza e che può avere forti ripercussioni sull’autostima di utenti di qualsiasi età.
Scorrete i file degli scaffali dei libri su "GoodReads" alla voce "social networking" e vi renderete conto di quanti libri in tutte le lingue si occupano di questo argomento. Il mondo è diventato davvero un "social network" in tutti i suoi aspetti umani, sociali, politici, culturali, religiosi ... Puoi sapere tutto di tutti in maniera immediata se non addirittura prima che gli eventi accadano. 
In effetti le chat, gli sms, i tweet, le connessioni creano i fatti anticipandoli in "bits & bytes", in una vera e propria ragnatela nella quale chi segue resta imbrigliato senza comprendere bene cosa stia accadendo.  Nel giro di poche ore sono assicurati mutamenti e contraddizioni. La verità non verrà mai acquisita, la post-verità prenderà il suo posto, diventando un "post", la fotografia di un momento destinato ad allungarsi e diluirsi senza fine nel tempo e nello spazio.
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on December 30, 2016 05:42

December 26, 2016

Libri pensati, scritti, letti e abbandonati ...



Abbandonereste voi la lettura di un libro, anche se è il terribile "Ulisse" di James Joyce e se foste in compagnia di una lettrice come questa? La riconoscete? L'indimenticabile Marilyn Monroe, una icona del cinema e della femminilità. Non si sa se davvero abbia mai letto quel libro. A quanto pare starebbe alle ultime pagine e il suo volto non dà manifesti segni di stanchezza, tedio o difficoltà. Sembra aver capito tutto di quanto quel libro contiene. Lo sa bene chi ha affrontato una lettura del genere ... 
Ma come si legge un libro? Certamente ognuno ha un metodo, un sistema, un approccio di lettura diverso al libro. Bisogna innanzitutto dare una giusta risposta alla domanda del perché si sceglie un determinato libro da leggere e cosa si chiede ad esso. Io credo di avere un modo semplice e pratico: applicare le famose domande "chi-cosa-quando-dove-perché". 
Chi ha scritto il libro, di cosa parla, quando è stato scritto, dove è ambientato, perché lo si vuole leggere. Questi sono solamente cinque esempi minimi di domande da porsi sul libro. Se ne possono, infatti, immaginare molte, tante quante sono le situazioni nelle quali i processi della scrittura e della lettura coinvolgono questo oggetto del pensiero umano, che una volta diventato libro, diventa anche un prodotto dalle molte, tante e diverse facce. 
Si scopre, allora, che gli interrogativi si estendono a tutti quegli "attori", chiamiamoli così, che ruotano intorno alla ideazione di quel blocco di fogli stampati che diventano un volume e che poi viene chiamato libro. Legittimo, allora, chiedersi chi ha avuto l'idea dalla quale è nato il libro, chi sono le persone, i personaggi e gli interpreti, gli ispiratori, i riferimenti, i predecessori, i protagonisti, quali le relazioni, le imitazioni, cosa vogliono dimostrare e cosa sostiene l'idea di chi scrive quel scrivo e di chi lo legge ...
CHI - Chi sono, chi siamo, chi sono gli altri, chi mi ama, chi mi teme, chi mi segue, chi davvero sono io, quando sono sveglio, quando dormo, parlo, mangio, penso, scrivo, lavoro, viaggio, studio. Una ricerca continua della propria identità, della propria ragion d’essere. Chi se lo chiede, se se lo chiede, cosa si risponde, o cosa gli altri cosa gli rispondono? E cosa fa chi non si pone proprio la domanda? Vive o sopravvive? Vive meglio o peggio? Che cosa sarebbe poi il peggio o il meglio? Chi sono davvero io che penso? Posso dire che se penso, io sono davvero? Non è che “penso, dunque sono”, va detto al contrario, vale a dire “sono, dunque penso”. Lo so, forse comincerete a pensare che io sia impazzito, oppure che questi sono pensieri oziosi di un uomo ozioso, che dovrebbe andare a lavorare, invece che porsi domande dl genere. Avete ragione. E’ che ad un certo punto della propria vita, ognuno, domande del genere, dovrebbe pur porsele, per cercare di capire con chi ha a che fare. Voglio dire, prima con se stessi e poi con gli altri, non vi pare? Ma voi pensate che una cosa del genere sia davvero possibile, voglio dire che sia possibile comprendere davvero io che sto scrivendo a questa tastiera, io davvero sappia rispondere alla domanda su chi sono? E a chi lo sto chiedendo, poi, tutto sommato? A chi ne sa meno di me, non vi pare? Sì, perché voi, che nemmeno sapete chi siete, chi è vostro padre, vostra madre, vostro figlio, il vostro capo ufficio, il vostro direttore, il vostro vicino inquilino, il vostro portiere, il vostro parroco, il giornalaio all’angolo, la vostra amante, cosa potete sapere di me? Come vedete, sono pure illazioni quelle che avete nella vostra testa, perché poi amaramente scoprite che quella persona che voi pensavate di conoscere a fondo era un’altra persona, era diversa e come! Da quella che pensavate, tanto che ha fatto fuori la moglie, il padre e il figlio in una sola botta. E che dire poi di quell’inappuntabile ragioniere che per decenni credevate un modello di gentiluomo è improvvisamente scappato in Sud America con tutti quei soldi sottratti a tanta gente che gli aveva affidato i propri risparmi? E allora, ecco perché chi davvero siete dovete scoprirlo voi, come chi autore del libro, il personaggio principale, l’autore sia del libro che della vostra vita, l’artefice, l’editore, lo scrittore, il distributore, l’agente, il bibliotecario che si prenderà cura del vostro libro, come anche dello stampatore, del correttore di bozze. Eh sì! Perché ci saranno molti errori, possibili da correggere, ma saranno molti di più quelli impossibili da correggere, rivedere, riscrivere, riproporre all’attenzione di chi ha la bontà di leggere quelle pagine. Pagine che non potranno mai essere scritte o corrette, né tanto meno rivissute. Tante pagine fitte, dense di caratteri, disegni, immagini, graffi, chiari e oscuri, a colori, in bianco e nero, visibili o invisibili. Fino all’ultima pagina, bianca, sulla quale qualcuno stenderà l’indice del libro, un indice inappellabile perché non sarà possibile cambiarlo. Non lo scriverà l’autore del libro, qualcun altro lo farà. E poi, dopo, apporrà la parola “fine” consegnando il volume al tempo per essere poi sistemato nella biblioteca spaziale.
COSA - Le cose, la cosa, tante cose, tutte le cose, belle, brutte, chiare, semplici, complicate, futili, utili ed inutili, credibili, stupide, fattibili, incomprensibili, immediate, dirette, personali, collettive, importanti, cose indegne ed indecenti, cose intelligenti e geniali. Tutti le fanno, le scelgono, le incontrano, le pensano e le conservano. Chi lo fa per mestiere, chi ad arte, chi per burla, tutte le cose di questa terra, del nostro mondo ci sembrano cose importanti, decisive, esclusive, personali, determinanti. Ma chi ci crede? Tutti, almeno così appare, per tutti: per il presidente, il papa, il direttore, il preside, il postino, il meccanico, il sindacalista, il ladro e l’assassino, tutti sanno cosa fanno, perché e dove e come e quando. Al mattino, appena svegli, sanno già che la cosa va fatta, così è stato deciso, almeno il giorno prima, la notte è stata pensata. E poi, è un ordine, non è una cosa da nulla, c’è il codice penale, quello civile, il codice deontologico, quello morale a dire che la cosa, quelle cose, vanno comunque fatte, senza ombra di dubbio. Avrebbero già dovuto farle e mi meraviglia che non siano state fatte prima, se non da me, da noi, almeno da altri, altrove, per il bene di tutti, non solo suo e mio, del governo o della scuola, ma almeno per la gestione del condominio che ha bisogno di ordine. Quelle cose non possono rimanere nelle scale perché danno un segno negativo a tutto l’immobile a chi ci abita e ci vive. E poi, quelle cose vanno deliberate al più presto, il governo non può continuare a fare finta di non sentire e di non vedere i problemi della gente. Le cose sia all’interno che all’esterno stanno certamente peggiorando, cose che non si capisce perché non siano state fatte prima. Ma chi le deve fare queste cose? Che ci stanno a fare allora? Siamo onesti, il tempo delle chiacchiere deve cedere io passo alla politica delle cose che non sono state fatte e che con questo governo devono essere assolutamente fatte. Perché questo ci distinguerà dal governo precedente. Loro, le cose dicevano di volerle risolvere, noi invece le risolviamo. La cosa, le cose, tutte le cose, tante cose. Le cose degli uomini, delle donne, dei bambini, dei gay, dei trans, dei preti, delle suore, dei sindaci, degli assessori, le cose delle destra e quelle della sinistra destinate a non incontrarsi mai, come quelle del centro e della periferia, cose antiche e moderne, cose di dentro e cose di fuori, quelle dette e quelle non dette, scritte, trascritte e registrate con tanto di atto notarile perché tutto venga tramandato e sia secondo le regole. Perché qui le cose sono serie, sono cosa da magistrati, le cose dei togati che guai a chi li tocca. Gli intoccabili. Cose da pazzi…
DOVE - Qui i luoghi del dove abbondano, c’è davvero l’imbarazzo della scelta. Non si sa da dove cominciare. Da nord, da sud, da est o da ovest. Per non dimenticare il centro, il baricentro, l’ipercentro, la centrifuga e tutto il resto del dove. Mi ero già perso, infatti, nei labirinti del dove. Non so se cominciare da fuori o da dentro. Ma vi rendete conto che se comincio da dentro mi perdo, e se inizio da fuori me ne scappo dentro? Queste costanti-variabili possono avere il valore sia di interrogativi che di esplicativi. In altre parole, se dici “dove?” chiaramente fai una domanda. Se invece collochi un “dove” vuoi indicare una relazione spaziale che ti serve per collocare un ragionamento. Quando poi “dove” diventa “laddove” allora le cose assumono una latitudine di significato davvero esilarante, perché non sai mai dove ti verrai a trovare. Avete mai fatto in proposito l’esperienza di cercare di collocarvi da nessuna parte, in un “nessun dove” sia spaziale che temporale? Che bello sospendersi e fottersene di se stessi e degli altri sempre pronti in ogni dove a chiedere, domandare, interrogare. Una volta tanto, io non sono io, non sono da nessuna parte, non esisto e mi metto in un mio particolare “dove” di osservazione per rompere gli attributi agli altri. Sempre tenendo presente che non so dove esattamente sono. Per non parlare poi di quando dormo. Che c’entra? Direte voi. C’entra, c’entra. Ma vi siete mai chiesti dove siete quando dormite? Lo so che avrei dovuto anche chiedere “chi” siete quando si è in sonno. Ma qui non è pertinente. Qui parliamo solo del “dove”. In realtà non siamo né sopra né sotto, né dentro, né fuori, né appesi, né distesi, né sazi né digiuni, né tanto meno brilli. Ma sappiamo che ci siamo, ma non sappiamo dove siamo. Ma sappiamo che ci siamo, e quando ci svegliamo saremmo anche in grado di dire dove siamo stati, ma è che non ne siamo sicuri, o forse abbiamo paura di dirlo. Paura non solo, forse anche vergogna, perché i luoghi del dove sono luoghi che non si possono narrare, inesplorati ed inesplorabili. Luoghi virtuali, che non hanno nessuna virtù se non quella dell’inganno, della menzogna, dell’impossibile. Ma noi sappiamo tutti, indistintamente, che ci siamo stati, il dove dell’inganno, del tradimento, il fake che ci insegue e ci indica agli altri in senso di vergogna e di derisione. Se questi sono i luoghi del dove surreali, quelli della realtà vissuta, sono ancora più intangibili degli altri. Vi è mai capitato di sentirvi di essere là dove non siete mai stati come se già ci foste stati? Sì, alcuni lo chiamano il “deja vu”, luoghi del prima e luoghi del dopo. E tu non sai dove sei stato, se ci sei mai stato e se ci ritornerai. Un parco affollato di New York, un vetta in Svizzera, un “block” di un manicomio in inglese, volti tutt’intorno a guardarti, come un intruso. Tu che una volta eri un “nurse” ed eri là ad accudirli. Ora quel dove non c’è più, scomparso, annientato dal tempo che si ritrova nella variabile-costante “quando” e non sa come.
QUANDO - Mamma mia. Non so se questo è un interrogativo oppure una supposizione, dentro o fuori del tempo. Dal dove sono caduto nel quando. La navigazione continua senza soste e senza ritorni. Già, perchè una volta che ci sei stato in quel tempo, non potrai più ritornarci. In effetti, ci entri, ci cammini, ci vivi per un po’, ne esci e non potrai mai più rientrarci nonostante tutti gli sforzi che farai. Quel quando non potrai più acchiapparlo, sentirlo dentro di te, viverlo. Quando comincia credi di saperlo, ma in effetti nessuno lo sa. Sei registrato all’anagrafe, con l’ora, il giorno e l’anno, ma è tutta una finzione, un modo come un altro per cercare di incapsulare il tempo del quando sei venuto fuori a vedere la luce, se mai ne avevi bisogno. Nessuno te l’ha chiesto, nessuno ti ha avvisato che saresti venuto, proprio in quel preciso quando, per non dire poi del dove, del chi, del perché. E tu ci credi che sei nel tempo del quando, ci navighi, contento di sapere dove andare, cosa fare, delle tue scelte, del tuo essere, delle cose che fai, e ti scegli il tuo dove, in termini di spazio. A scuola, in ufficio, in fabbrica, in riva al mare in montagna, nel sottoscala, nell’attico, in città, nel bosco, in mezzo al traffico, in solitudine o nella moltitudine. Sta a te scegliere, se ti sta bene o se ti sta male, agli altri frega ben poco. E qui casca il senso del quando, che non sai quando viene né quando va, quando ti prende e se ti prende. E tu credi di dominarlo, di avere deciso cosa fare, perché e come. Ti illudi e ti freghi allo stesso tempo. E sull’onda dei trascorsi giorni in forma di quando, come quando costruisci quelli futuri che trasportano lontano senza che tu te ne rendi conto. Personaggio e interprete come sei della tua esistenza passi dal dove trascorso a quello presente immaginando quello futuro. E ti sospendi, come sospendi chi ti sta vicino, chi condivide, a almeno crede di condividere le tue variabili-costanti che scorrono senza ragione e senza un perché. E te le ritrovi tutte, una ad una, o tutte insieme, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, addizioni di quando e sottrazioni di dove e di cosa, senza ragione di futuri perché.
PERCHE’ - Le ragioni stanno tutte qui. A chiedercele, in cerca di una risposta che si sa non arriverà, perché le risposte sono altrove, se mai sono esistite e se mai potranno essere trovate. Legittimo chiedersi perché, chi domanda e risponde allo stesso tempo, interrogativo ed esplicativo che non spiega e non interroga su nulla. E poi, dopo tutto, perché dovresti/vorresti saperlo? Ti piacerebbe che qualcuno ti desse la risposta eh? Comodo, troppo comodo. E che direbbero tutti quelli venuti prima di te che si sono posta la stessa domanda del perché, come in un gioco che ritorna come un ritornello nella piastra del tempo che non dà risposte. A dire il vero, le risposte ci sono, tutti credono di saperle dare a quei perché: filosofi, scienziati, papi, presidenti, poeti, illuminati ed oscuri, arroganti e sapienti, tutti pronti a darti una risposta, ai tuoi perché che aumentano man mano che passano i chi, i cosa, i dove, i quando. Sfilano tutti uno dietro l’altro, e chiedono spiegazione, appunto domandano il loro perché. E tu dovresti saper dare una risposta visto che sei l’inizio del tutto, sei il chi dell’inizio, ma sarai anche il chi della fine. La tua fine, la fine dei tuoi cosa, anzi delle tue cose, che sono ritrovabili in qualche dove della mente o della fantasia, ma ormai diventata irrealtà pura ed astratta, inganno perpetuo, finzione assoluta. E tu cosa puoi saperne, vittima della tua individualità, del tuo essere chi inconsapevole ed incolpevole, una cosa frammentata nel dove della tua nullità, senza un ragionevole quando ed un comprensibile perché. Ma il libro delle variabili-costanti deve pur avere un senso, altrimenti chi lo leggerà, e se leggere significa capire, ci sarà pure qualcuno che vorrà capire, trovando delle risposte. Si dice che queste risposte debbano essere ragionevoli, cioè secondo ragione, che non si sa bene cosa sia, ma che molti ritengono sia la sintesi delle stesse variabili che sono costanti, nella misura in cui se sono sempre costanti diventeranno incostanti e invariabili se il processo continua all’infinito. Non so se mi spiego. Forse sono arrivato davvero alla sintesi, alla sintesi della ragione. Oppure forse no, ed è meglio, perché se no ci sarà qualcuno che dirà che sono fuori di senno. Ecco un’altra bella parola. Ragione, senso, senno, ma che bello essere liberi di dire ciò che non fa senso credendo di averlo il senso, il senso che dà una risposta al perché. E voi credete che io l’abbia data una risposta? E chi vi dice che avevo questa intenzione? Avrei potuto farlo, ma non ne avevo l’intenzione. Era solamente un gioco costante e variabile. Anzi variabile e costante. Come il gioco della vita e quello dei libri ...







 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on December 26, 2016 14:24

November 29, 2016

Auguri tra "dinosauri": Pasquale Califano entra nell'era degli "ottuagenari"



Natural History Museum - London

Anche per i dinosauri, i "social" sono luoghi ideali per scambiarsi gli auguri. Il "dinosauro" blogger Antonio saluta il prof. Pasquale Califano in quale, in quel di San Marzano sul Sarno, festeggia il 10 dicembre p.v. i suoi 80 anni entrando nell’era "ottuagenaria". 
"Che cos’è il tempo? Se nessuno me lo domanda, lo so. Se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so più." Così ha scritto Sant'Agostino e io dovrei spiegarlo in questo post, in quanto ha un significato molto particolare. Chi dà uno sguardo alle immagini qui sotto capirà che si tratta di ricordi, ma anche di un modo speciale per "spiegare" il tempo.
Non solo, ma anche di un "anniversario", che segna un "compleanno". Ventitre sono i giovani alunni nella immagine di questa memoria qui sotto, un preside, un prof. e un bidello, (pardon! un operatore scolastico), sessantadue sono gli anni che ci separano da quel giorno, ottanta sono gli anni che compie uno dei due "signorini" evidenziati nella foto piccola. 
Detto così, "il tempo è passato presto e si fa subito tardi", come afferma il senso di questo "amarcord". E allora posso dire che i giorni sono stati ben 22.630 (ventiduemilaseicentotrenta), i mesi 744 (settecentoquarantaquattro) mentre 248 (duecentoquarantotto) le stagioni. Lasciamo stare le ore e i minuti, perchè la conta sarebbe noiosa. Ho voluto snocciolare questi numeri nel tentativo di descrivere il tempo nel suo lento, inesorabile scorrere. 

III B anno 1952
Pasquale ed io
Ma la parola chiave che caratterizza la narrazione di questo avvenimento, oltre a "tempo" e "anniversario", è anche un'altra, del tutto imprevista e imprevedibile. Non l'avrebbe potuta prevedere nemmeno il "padrone" del tempo che, come ha scritto non ricordo più quale filosofo, sembra sapere già tutto, prima che tutto accada, perchè già tutto contiene. L'altra parola è "caso". Cosa sia il caso non è questo il momento e il luogo per discuterne, perchè mi porterebbe molto lontano e di certo fuori tema. 

Ha scritto lo scrittore russo Fëdor Dostoevskij che "se ogni cosa sulla terra fosse razionale, non accadrebbe nulla". Saremmo noi uomini a non farlo accadere. E, invece, è accaduto. In quel tempo, quei due alunni accovacciati in quel modo, alla vigilia di lasciarsi, dopo di avere concluso il ciclo della Scuola Media nell'edificio delle Scuole Elementari "E. De Amicis" in quel di Sarno, ospitati com'erano in quelle che venivano chiamate "le cantinelle", quei due, dico, non avrebbero avuto più modo di incontrarsi e frequentarsi. 
Non sapevano, però, che il "caso" sarebbe intervenuto, che si sarebbero incontrati rivestendo ruoli e funzioni del tutto inaspettati.  Confesso di non ricordare molto di quei giorni, in quegli anni di scuola media, anche se i nomi e i volti di quasi tutti quei giovincelli mi sono familiari. A pochi anni dalla fine di una guerra disastrosa si apprestavano ad affrontare la seconda metà di un secolo che si sarebbe dimostrato allo stesso tempo turbolento e innovativo. 
Se osservo quelle facce, scopro che molti sono passati a miglior vita, altri non li ho mai più incontrati. Uno dei due, nella foto piccola, sono io, l'altro è il festeggiato per l'anniversario. Io in pantaloni corti e maniche di camicia, l'altro in pantaloni alla "zuava" giacca e camicia, manca solo la cravatta. Sempre impeccabile, ieri come oggi. In un'altra foto dell'anno precedente era in tuta ginnica, sull'attenti. 
In tenuta da ginnasta e sull'attenti
Se il "tempo" ha dato vita per "caso" alla celebrazione di questo "anniversario" e tutti e tre i termini mi hanno offerto l'occasione di scrivere questo evento, è bene che io vi dica anche la ragione e il senso di tutto questo. Cosa c'è di tanto strano in tutto questo da meritare una così lunga ed elaborata narrazione? 

Risposta semplice ed imprevista: sessantadue anni fa nessuno, nemmeno il "tempo" e il "caso", avrebbero potuto prevedere che i figli di quei due studentelli di Sarno, la figlia di Pasquale Califano e il figlio di Antonio Gallo, si sarebbero incontrati ed avrebbero frequentato, se non la stessa scuola, almeno lo stesso edificio scolastico per poi diventare marito e moglie a distanza di tanto tempo. 
Ottanta anni sono molti, mai troppi, comunque, per ricordare. Ed io mi ricordo quando Pasquale arrivava d'inverno, nella piazzetta davanti alla stazione della Circumvesuviana, tutto imbacuccato con la sua bicicletta da San Marzano, o quando scendeva dall'autobus della ditta "Carrella". 
Caro Pasquale, g li anni crescono, i neuroni diminuiscono, i capelli cadono, (tu ne hai ancora tanti, io manco uno!), le rughe aumentano … non preoccuparti però, non sono i sintomi di qualche morbo incurabile … hai solo un anno in più. Auguri! E non soltanto a te che ne conti ottanta, ma anche alla tua gentile "metà" Maria, che ti precede di poco e ti festeggia insieme a tutti noi. 


Ti dico "Many Happy Returns!"  con il poeta inglese W. H. Auden: 

Many Happy Returns

So I wish you first a Sense of theatre; only Those who love illusion And know it will go far: Otherwise we spend our Lives in a confusion Of what we say and do with Who we really are.

W. H. Auden
Perciò ti auguro come in un teatro; solo chi ama l'illusione e sa di andare lontano: altrimenti trascorriamo la nostra vita in confusione tra ciò che diciamo e facciamo e chi davvero siamo.





 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on November 29, 2016 08:10

November 25, 2016

I cigni del tempo

Angelo Branduardi ci ha scritto anche una canzone, mutuandola da questa famosa poesia del poeta inglese William Butler Yeats: i cigni a Coole. Credo che non ci sia nessun altro uccello in grado di descrivere l'idea del tempo in maniera più poetica.  Basta osservarli quando volano, si staccano oppure planano sull'acqua, e quando svolazzano come li descrive il poeta in questa stupenda poesia. Ma non sono soltanto i cigni ad attirare la sua attenzione. 
C'è tutto un mondo in quei versi che volteggia nelle sue parole e fa volare i pensieri di chi ha il piacere di leggerli: il tempo, l'amore, i ricordi, il dolore, il passato, il presente che fugge, il futuro che verrà. Mirabile poesia che in traduzione perde gran parte della sua magia, putroppo.
I cigni selvatici a Coole
Gli alberi sono nella loro bellezza autunnale, i sentieri del bosco sono asciutti, nel crepuscolo di ottobre l'acqua riflette un cielo immobile; fra le pietre cinquantanove cigni.
È questo il diciannovesimo autunno da quando la prima volta li contai; li vidi, prima che finissi di contarli, tutti all'improvviso alzarsi, disperdersi volteggiando in grandi cerchi spezzati sulle ali rumorose.
Ammirai quelle splendenti creature e ora il mio cuore è triste. Tutto è cambiato da quando io, ascoltando al crepuscolo la prima volta, su questa riva, lo stormire delle loro ali sopra il mio capo, camminavo con passo più leggero.
Instancabili, amata e amante, remano nelle fredde correnti amiche o scalano l'aria; i loro cuori non sono invecchiati; passione o conquista ancora li accompagna nel loro errante vagare.
Ma ora si lasciano andare sull'acqua immobile, misteriosi, stupendi. Fra quali giunchi costruiranno il nido, su quale sponda di lago o stagno incanteranno occhi umani quando al risveglio un giorno scoprirò che son volati via?
 -----
The Wild Swans at Coole by William Butler Yeats
The trees are in their autumn beauty, The woodland paths are dry, Under the October twilight the water Mirrors a still sky; Upon the brimming water among the stones Are nine-and-fifty swans.
The nineteenth autumn has come upon me Since I first made my count; I saw, before I had well finished, All suddenly mount And scatter wheeling in great broken rings Upon their clamorous wings.
I have looked upon those brilliant creatures, And now my heart is sore. All’s changed since I, hearing at twilight, The first time on this shore, The bell-beat of their wings above my head, Trod with a lighter tread.
Unwearied still, lover by lover, They paddle in the cold Companionable streams or climb the air; Their hearts have not grown old; Passion or conquest, wander where they will, Attend upon them still.
But now they drift on the still water, Mysterious, beautiful; Among what rushes will they build, By what lake’s edge or pool Delight men’s eyes when I awake some day To find they have flown away?
Con gli alberi nella loro bellezza autunnale, il poeta cammina lungo il lago che come uno specchio riflette le luci dell'autunno nell'acqua. Svolazzano "nove e cinquanta" cigni. Sono trascorsi diaciannove anni da quando egli venne da queste parti e ricorda di averli contati. Fu la prima volta che li vide. Li contò mentre salivano verso l'alto, in cerchi, ondeggianti. Il suo cuore è pieno di tristezza, sono trascorsi diciannove autunni ed è ancora una volta salutato dai cigni, anche se tutto è cambiato nella sua vita. 
Eppure, essi, sono sempre là, a svolazzare, sempre gli stessi. Senza pensieri di sorta, e volano in coppia, amanti. I loro cuori non sono diventati freddi, ovunque esso vadano, portano con sè passione e conquista. Ma ora che scivolano sull'acqua, sembrano misteriosi, bellissimi. Chissà dove costruiranno i loro nidi, quali occhi faranno felici, quando un mattino lui si sveglierà e si accorgerà che essi sono andati via.
Una poesia in cinque strofe di sei versi, scritta in tarda età. Una curiosità che caratterizza la poesia di questo poeta. Mentre con l'età per molti sembra ci sia un decadimento creativo, per alcuni si scopre una spinta alla riflessione, alla comunicazione creativa, sembra crescere se non addirittura maturare una migliore poesia della vita. 
Dopo i cinquannta anni Yeats si mostra, infatti, come poeta che con la maturità afferma in maniera molto forte e diversa la sua volontà di mantenere il suo spirito e la sua anime integre, nonostante l'inevitabile decadimento fisico. La poesia fu scritta nella piena consapevolezza del tempo in cui il poeta si trovava a vivere, caratterizzato da grandi cambiamenti. 
Come in quei "diciannove" anni dei versi. E ne erano successe di cose quando quella raccolta di poesie venne pubblicata. Era il 1919: la prima guerra mondiale, la guerra civile in Irlanda e lui era irlandese. Nato nel 1865 Yeats morì in Francia nel 1939. 


 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on November 25, 2016 03:48

November 21, 2016

Studiare il futuro

Studiare il futuro può sembrare uno slogan e invece è una realtà. Con l'avvento della Rete e della connettività tutto un modo di vivere, pensare, studiare, lavorare è scomparso. Da quando ho lasciato l'insegnamento attivo, ormai sono più di quindici anni, ci siamo affacciati su un mondo nuovo, tanto "nuovo" che ormai è "oltre" quello immaginato da Aldous Huxley nel suo libro che porta questo titolo
Un capolavoro di scrittura pseudo fantascientifica che fece scalpore quando uscì negli anni trenta. L'ho citato spesso su questo blog e mi accorgo che, giorno dopo giorno, i fatti che riguardano queste "novità" del "mondo nuovo", sono sempre più incredibili. 
La velocità dei cambiamenti è tanta che si può parlare di vera e propria mutazione delle conoscenze: l'apprendimento è diventato una vera e propria disciplina di studio per comprendere e vivere il futuro. Fino a qualche generazione fa ci si aspettava che quello che gli studenti hanno imparato a scuola fosse valido almeno per metà della loro vita. Non è più così. 
Usciti dalla scuola, elementare, media, superiore e università, per un totale di una quindicina di anni, i giovani si accorgono di dover fronteggiare un mondo dove nessuna, o quasi, delle discipline studiate, li aiuta a trovare una collocazione di lavoro. Non dico un senso, un significato, una ragione di vita. Sarebbe anche logico che fosse così per capire l'importanza di vivere. Invece, le cose vanno come vanno. Si continuano a trasmettere agli studenti antiche ed apprezzabili saggezze, ma su come risolvere i problemi che il futuro porterà loro, poco o niente. 
Il passato era diviso: da una parte i docenti e il contenuto da insegnare, diviso in materie di studio destinate alle teste degli studenti che vivevano dentro la scuola, dall'altra il mondo esterno. Oggi questo sistema non funziona più. Bisogna integrare gli argomenti di studio, gli studenti e il mondo esterno. Prima si studiava per materie o argomenti, oggi è necessario studiare per progetti che portino gli studenti a risolvere problemi. Il passato si basava su gerarchie, gli studenti erano contenitori da riempire, gli insegnanti figure dominanti in termini di risorse fornite di saperi e conoscenze. 
Il futuro che abbiamo davanti, invece, è diventato una piattaforma comune e condivisa, disponibile e aperta. In passato si insegnava a tutti alla stessa maniera, oggi dobbiamo accettare le diversità pedagogiche differenziate anche a causa delle moderne tecnologie. Ieri lo studio era curriculare, oggi vede lo studente al centro del processo cognitivo. 
In passato le scuole erano luoghi chiusi pieni saperi diversi, isole, oggi devono essere luoghi di connessione. Se il passato era interattivo, il futuro è partecipativo. Non è più pensabile avere percorsi scolastici che non siano una successione di coordinati passaggi educativi e formativi con al centro gli interessi e gli obeittivi dello studente.
Un esempio pratico di quello che ho cercato di sintetizzare al massimo è un aggregatore digitale che si occupa di insegnamenti proposti telematicamente. FutureLearn è una piattaforma in lingua inglese, con sede nel Regno Unito. È stata fondata nel dicembre 2012, inizialmente come società interamente di proprietà di The Open University di Milton Keynes (Inghilterra). 
È la più estesa piattaforma MOOC del Regno Unito essendo composta da 54 università britanniche e internazionali e quattro partner non accademici: British Museum, British Council, British Library e National Film and Television School. I MOOC (Massive Open Online Courses, in italiano: Corsi aperti online su larga scala) sono dei corsi, aperti e disponibili in rete, pensati per una formazione a distanza che coinvolga un numero elevato di utenti. 
I partecipanti ai corsi provengono da diverse aree geografiche e accedono ai contenuti unicamente via rete. I corsi sono aperti, ossia l'accesso non richiede il pagamento di una tassa di iscrizione e permette di usufruire dei materiali degli stessi.
Al momento sono iscritto ai seguenti corsi di studio assolutamente gratuiti: 
***The Power of Social Media, University of Southampton ***Multilingual Learning for a Globalised World, University of Glasgow ***Why we Post, University College London ***Digital Accessibility, University of Southampton ***Introduction to Cybersecurity, The Open University ***Strategies for Sussessful Aging, Trinity College, Dublin
Presupposto essenziale ma non pregiudiziale, è la conoscenza operativa della lingua inglese. Il che significa che più la conosci, più ne trai vantaggio. Le lezioni sono svolte su moduli che prevedono l'uso di forum, discussioni, registrazioni video e audio, supporti esterni in rete. 
Alla fine del corso si può anche richiedere il rilascio del certificato dietro versamento di una tassa e se si supera il test finale. Sono milioni gli studenti iscritti di tutte le età, lingue, ideologie e condizioni socio economiche. Non ci sono pregiudizi di sorta, è necessario avere intenzioni serie di studio, conoscere la lingua e gli strumenti digitali. 
Vi assicuro che è una esperienza straordinaria di gestione delle conoscenze. Da quando mi sono pensionato e ho lasciato l'insegnamento nella scuola pubblica italiana ho avuto modo di riciclare tutto quello che credevo di sapere. E i giochi non sono ancora finiti. Io mi ritenevo un "dinosauro" degli studi, fino a quando giorni fa, in un forum mi sono trovato a discutere con un africano di Città del Capo che ha 85 anni di età. Un'altra scrittrice e ricercatrice canadese ha dichiarato di averne 79. 
Potrei continuare a lungo parlando di esperienze di condivisione e connessione che non avrei mai immaginato prima di fare. Provare per credere! Il futuro è a portata di mano. Milioni di studenti sono già nel futuro.






 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on November 21, 2016 10:57

La "luce" di Leonard Cohen



"There Is a Crack in Everything, That’s How the Light Gets In" - "Cè una frattura in ogni cosa ed è da lì che entra la luce". Una frase illuminante che può benissimo condensare l'arte di questo poeta, musicista e cantante che solo qualche giorno fa ci ha lasciato, all'età di 82 anni, dopo una caduta che gli è stata fatale. Ditemi se questa non è poesia in musica. Ovviamente non potete sentire le note che il compianto cantante, poeta e musicista ha scritto per questa poesia che dà anche il titolo al suo ultimo album e sulla quale scrivo questo post. Solo per questo avrebbe meritato il Nobel. Ma c'è anche altro.
Leonard Cohen, un poeta che sembrava nato con la laurea in pessimismo, è scomparso a distanza di poche settimane dopo l'uscita del suo splendido album "You Want It Darker" . Una frase premonitrice caratterizza la sua scomparsa e fa pensare una risposta che viene anche data: "Signore sono pronto". Artista vero e contraddittorio, sempre oscillante tra realtà e azzardo poetico visionario, avvertiva forte dentro l'urgenza di raccontare non solo in versi. L'angoscia, l'alienazione, il dubbio sono stati i suoi temi preferiti, sempre suonati con le stesse note, la stessa cadenza, le medesime risonanze.
Sapevi subito che quella canzone, quella musica che ti poteva capitare di sentire per strada, alla radio, in tv, era sua. Tra malinconia e tristezza, ma sempre in maniera leggera, tanto che spesso sembrava comica, con un timbro di voce tra il caldo e il rauco. Del resto, una volta ebbe a dire che, nonostante quello che tutti potevano pensare della sua poesia e della sua musica, lui riteneva di avere un temperamento, un'anima "comica". La sua creatività è stata sempre legata a precise motivazioni riferite alla vita reale, sia quelle soggettive che quelle comuni a tutti.
In più di una occasione ha avuto modo di dire che non ha mai saputo spiegare da dove nascono. La sola cosa che sapeva dire è che aveva sempre sognato di suonare la chitarra, uno strumento nobile e che gli sembrava si ispirasse al movimento manuale di chi lavora. Le sue ispirazioni erano sempre imprevedibili ed impreviste. Potevano venire da qualunque parte, in forme diverse, suoni o parole e immagini. 
Poteva essere la Bibbia o Cervantes, forse più spesso i francesi come Camus o Sartre, ma anche inglesi o irlandesi, come Yeats. Qualunque l'origine della sua ispirazione, Cohen faceva suo il pensiero di Sylvia Plath: una poesia, una volta scritta e pubblicata è nelle mani del lettore e della sua interpretazione. Le sue canzoni potevano essere, perciò, cantate o recitate da altri, sarebbero state così trasformate e lui ne sarebbe stato felice. Nessun altro artista l'ha mai pensata così!
Nato in Canada, quando come scrittore pubblica il romanzo "Beautiful Losers", il critico di un giornale di Boston scrive nella recensione del libro che "James Joyce non è morto. Vive a Montreal e si fa chiamare Cohen". Dopo questa esperienza comincia a scrivere poesie ispirandosi a Bob Dylan. I due si incontrarono la prima volta nel '69. Cohen lo definì "un Picasso", mentre l'altro rispose che una delle persone in cui gli sarebbe piaciuto trasformarsi, era proprio Cohen. Quando un suo amico professore annunciò agli studenti: "Sapete che Leonard farà il cantautore?" questi risposero in coro: "Ma se non sa cantare?". Fu proprio la sua voce cupa e recitativa, educata a bere whisky e a fumare terribili sigarette "Gitanes", a trasformarlo nel cantore del cuore che abbiamo imparato ad amare.
"Non ho mai percepito in me delle contraddizioni", diceva beffardo, mentre viveva cercando la spiritualità e l'amore femminile. "La realtà è una donna trasformata dall'orgasmo. Tutto il resto è finzione. Ogni donna che incontro mi stende", è una delle sue massime. Per contro, la sua spiritualità è complessa, se è vero che da sempre "nuota nella radice ebraica". 
Negli anni '90 segue il monaco zen Seasaky Roshi trasferendosi nel suo isolato monastero, dove trova la pace dello spirito e il gusto dell'alcool. Ma la sua spiritualità non va messa in dubbio, è solo un'altra faccia del suo personaggio che si esprime attraverso la commovente introspezione di "Hallelujah" o  nelle pagine poetiche della sua "confessione" - "Libro della misericordia".
"Tu che dispensi misericordia all'inferno - scriverà in quelle pagine - unica autorità dei mondi supremi e infimi, fa che la tua collera disperda la bruma in questo luogo senza scopo, dove perfino i miei peccati non colgono il bersaglio". 
Per lui musica e scrittura sono un unicum, così come nella tradizione giudaica c'è unità tra legge orale e legge scritta. Per questo forse, a ben guardare, il suo corpus di testi, che spazia dalla Bibbia ai beatnik, quel cinico cronista di spirito e materia (I'm Your Man), la coscienza inquieta che lo proietta negli anni duemila con dischi intensi e ponderati, non hanno perso nulla della sua forza ieratica, come "Old Ideas" (2012) o "Popular Problems" (2014). Avrebbe davvero meritato il Nobel. Ma, forse, sarà meglio pensare che il Nobel, scaduto com'è, non meritava lui.
Introverso e chiuso in se stesso, nel 1970, con capelli lunghi e barba incolta, al festival sull'isola di Wight fu il ribelle che incitò mezzo milione di hippie ad accendere un fiammifero per illuminare la notte e, viste le poche fiammelle, osservò: "È una grande nazione, ma ancora debole". Dopo quell'avventura qualcuno gli chiese: "Sarai il Mosè di qualcuno?". "Non so se sarò mai il Mosè di qualcuno, ma potrei essere il loro Leonard". Idolo di una certa sinistra politica culturale ed intellettuale, Leonard Cohen aveva poco a che fare con la politica o peggio, l'ideologia fatta politica.
Pochi giorni prima di morire, Cohen ha inciso il suo quattordicesimo album, con un disco magico, intenso e profondo che contiene questa poesia. Prodotto dal figlio Adam, il nuovo disco di Leonard vede il coinvolgimento di Cantor Gideon Zelermyer e "the Shaar Hashomayim Synagogue Choir" di Montreal. Con le loro voci evocano i suoni con cui Leonard è cresciuto. Chitarre, organo, e archi sono il tappeto sonoro su cui si muovono tutti i brani. Il fulcro sono la voce ipnotica e avvolgente di Cohen e le voci delle coriste coinvolte nel progetto. 
La vita, l'amore, il viaggio e la morte sono i temi di "You want it darker", titolo del disco, ma anche della canzone più emozionante e spirituale. La storia di un viaggio, tanto quello dell'uomo comune, quanto quello suo, di Cohen,  alla ricerca di qualcosa che si conclude oltre il buio, quando le candele saranno spente. 
Unanime il giudizio della critica musicale mondiale: capolavoro. Purtroppo l'ultimo. Quella che segue è la traduzione impropria di questa poesia che resta per me il suo testamento artistico. Traduzione "impropria" ho detto, la vera poesia non va mai tradotta, perché ogni traduttore è un traditore.
Tu vuoi più buio
Se tu dai le carte Io non sto al gioco Se sei il guaritore Significa che sono zoppo e a pezzi Se tua è la gloria Allora mia dev’essere la vergogna Tu vuoi più buio Noi spegniamo la fiamma
Magnificato e santificato Sia il Santo Nome Vilipeso e crocefisso Nelle sue sembianze umane Un milione di candele accese Per quell’aiuto mai giunto Tu vuoi più buio
Hineni Hineni Sono pronto, mio Signore
C’è un amante nella storia Ma la storia è sempre la stessa C’è una ninna nanna per chi soffre E un paradosso cui dar colpa Ma è inciso nelle Scritture E non è un’affermazione vuota Tu vuoi più buio Noi spegniamo la fiamma
Stanno allineando i prigionieri E le guardie prendono la mira Ho lottato con alcuni demoni Erano borghesi e mansueti Non sapevo di avere il permesso Di uccidere e mutilare Tu vuoi più buio
Hineni Hineni Sono pronto, mio Signore
Magnificato e santificato Sia il Santo Nome (3) Vilipeso e crocefisso Nelle sue sembianze umane Un milione di candele accese Per quell’amore mai giunto Tu vuoi più buio Noi spegniamo la fiamma
Se tu dai le carte Fammi uscire dal gioco Se sei il guaritore Io sono zoppo e a pezzi Se tua è la gloria Mia dev’essere la vergogna Tu vuoi più buio
Hineni Hineni Sono pronto, mio Signore
----
You want it darker
If you are the dealer I’m out of the game If you are the healer Means I’m broken and lame If thine is the glory Then mine must be the shame You want it darker We kill the flame
Magnified and sanctified Be Thy Holy Name Vilified and crucified In the human frame A million candles burning For the help that never came You want it darker
Hineni Hineni I’m ready, my Lord
There’s a lover in the story But the story’s still the same There’s a lullaby for suffering And a paradox to blame But it’s written in the scriptures And it’s not some idle claim You want it darker We kill the flame
They’re lining up the prisoners And the guards are taking aim I struggled with some demons They were middle-class and tame I didn’t know I had permission To murder and to maim You want it darker
Hineni Hineni I’m ready, my Lord
Magnified and sanctified Be Thy Holy Name Vilified and crucified In the human frame A million candles burning For the love that never came You want it darker We kill the flame
If you are the dealer Let me out of the game If you are the healer I’m broken and lame If thine is the glory Mine must be the shame You want it darker
Hineni Hineni I’m ready, my Lord

"Hineni" significa in ebraico antico “eccomi” e si riferisce al versetto della Torah ”Dopo queste cose Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose «Eccomi (hineni)!» (Genesi 22,1). Ricordiamoci che Cohen è di origine ebraica ... ‘Darker’ è un termine che ha più significati, perciò quasi impossibile da tradurre. ‘Dark’ letteralmente significa ‘scuro, buio", ma la parola ‘dark’ viene usata con molti altri significati metaforici. Sta a chi legge e ascolta a costruire la sua realtà, i propri riferimenti. Comunque, si tratta di un mondo immorale, in sfacelo che può essere quello personale o quello globale. 
Il tono è apocalittico e senza scampo. Preferisco tradurre ‘buio’ per creare una specie di contrasto con l’immagine delle candele e della fiamma che viene spenta, evidentemente per volontà del Signore. E' la luce della vita che viene spenta, è Lui che lo vuole, Lui che vuole il "buio", perchè, forse, ci sia, dopo, la "luce". Bisogna essere pronti, comunque. E Leonard, per quello che ha scritto e cantato, ed anche fatto in vita, possiamo dire è stato "pronto". Una canzone-poesia che è anche un invito per ognuno di noi. Grazie Leonard!

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on November 21, 2016 03:22

MEDIUM

Antonio   Gallo
Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one.
Follow Antonio   Gallo's blog with rss.