Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 104
June 19, 2019
Un'avventura americana: questione di identità

Tanto esperto che la cronaca del tempo lo colloca nella categoria della spionistica militare al servizio del suo Paese. Pioniere del trasporto aereo, magnate e uomo d’affari nel settore dell’aviazione civile.
Potrei aggiungere le sue tante lauree ed altri titoli e medaglie di merito che si conquistò, ma credo che non riuscirebbero a delineare fino in fondo l’avventura di un uomo venuto dal nulla, figlio di una famiglia di umili origini.
Tutto adeguatamente documentato in questo libro che mi è stato donato da Maureen Rickenbacker, figlia della sorella americana di mio padre Christine McCann, ultima figlia di “Nannina”.
Non mi è facile nemmeno descrivere la meraviglia per aver fatto questa scoperta umana, nella storia misteriosa e complicata della mia famiglia. Mi riferisco ad un ramo di essa, cresciuto altrove, oltre oceano, ma nato nella Valle dei Sarrasti, nella città di Sarno, nei primi anni del secolo e del millennio trascorsi.
“Zi Nannina”, la sorella Anna di mio Padre, emigrò in America alla fine dell’anno 1923. La ricordo vagamente vista durante le sue diverse visite. Sbarcò a Ellis Island come tanti altri connazionali nel mese di dicembre. Era una brava ricamatrice, lasciò la casa paterna in Via De Liguori. Cinque fratelli ed una sorella, diede vita al “ramo” dell’albero americano, iniziando una nuova avventura, conquistandosi un’altra identità.
Due famiglie di cui ho avuto modo di scrivere in altre occasioni. Due alberi genealogici a confronto. Uno ricco e florido, l’altro piccolo, purtroppo quasi vicino alla dissoluzione come ho scritto in altra occasione qui al link. Due realtà familiari e culturali, umane e nazionali diverse che meritano di essere ricordate e conosciute se non da altri, almeno a me stesso, a futura memoria.
Mi piace ricordare il motto di uno di questi cugini americani, scomparso di recente. Jimmy Parziale, il motto stampato sulla targa della sua auto era Live Free or Die. Rami dell’albero americano che sono rigogliosi, forti e vivi. Basta una foto per provarlo.
Maureen è venuta in Italia con sua madre Christine, ultima figlia di “Zi Nannina, l’americana”. Hanno voluto visitare la casa a Sarno dove nacque la loro mamma e nonna e visse i suoi primi ventitrè anni, ed incontrare la cugina Anna che porta il suo stesso nome.
Un incontro che mi ha permesso di riflettere sul passare del tempo, confrontando “alberi di famiglia” dai quali pendono ricordi e sentimenti uguali e comuni. Un “albero” rigoglioso quello di Christine, come quello dei suoi altri fratelli e sorelle, nati da Anna e Alfredo Parziale.
Lo si vede chiaramente in questa immagine. Alberi simbolici che raffigurano una realtà che delinea in parte anche la decadenza, se non addirittura il tramonto, di una società, una civiltà, quella nostra, i cui alberi tendono a perdere la loro linfa vitale.

Maureen ha voluto donarmi il libro dell’autobiografia di suo Nonno. Mi ha fatto comprendere molte cose, sia da un punto di vista strettamente familiare che umano e sociale. Nella dedica ha menzionato l’ “avventura” del nonno e ci ha ringraziato per l’ospitalità ricevuta.
Un libro denso di memorie, ricordi, documenti che costituiscono un ricco ed importante affresco dell’aria del tempo vissuto da questo protagonista della storia degli Stati Uniti d’America. Pubblicato nel 1967 conserva tutta la sua forza operativa che caratterizza la storia di questo Grande Paese.
Mi hanno colpito le ultime parole con le quali il “nonno” di Maureen Edward chiude i suoi ricordi. Due sono le parole chiave con le quali egli comunica il suo messaggio a chi legge: “bondage” e “liberty”, vale a dire “schiavitù” e “libertà”.

Dobbiamo essere grati a Dio per la libertà che ci ha donato. Dobbiamo dedicarci alla continuazione del sogno americano sui principi della libertà e della fiducia. Dobbiamo saper esaminarci e scoprire il senso della nostra vita. Non desidero nulla di materiale o di prestigio personale, potere, ricchezza, fortune politiche. Ma prego e spero nel nome della libertà e questa dovrà diffondersi nel paese a favore delle future generazioni.
Preghiamo ogni sera nella speranza di trovare la forza e la guida per il nostro paese per le future generazioni. Grazie a Dio ho potuto dare il meglio della mia vita al mio paese che mi ha dato tanto.”
Scrittura di oltre mezzo secolo fa. Valida ancora oggi sia per il nostro Paese che per il “Big Country” che conosciamo da sempre. “Avventure” di vita che, anche se diverse, possono unire in nome della libertà.

Published on June 19, 2019 07:40
May 4, 2019
Storia di un libro, anzi di una biblioteca: la Bibbia

Non so quante versioni e edizioni di questo libro ho conosciuto, sfogliato e raccolto nel corso del tempo. Ricordo che ci fu un periodo in cui la Bibbia era venduta (non saprei dire se letta) a fascicoli settimanali in tutte le edicole d’Italia. Mio padre, oltre che tipografo, era anche un rilegatore, per anni ha fatto questo lavoro con i libri.
Le piccole biblioteche di casa degli Italiani di un paio di generazioni sono piene di questi libri. Almeno lo sono state. Oggi non so cosa le gente colleziona. Edizioni di cinque, dieci ed anche più volumi che venivano tutti allineati bellamente nel salotto di casa da chi a stento sapeva leggere e credeva anche di poter farsi una cultura. Religiosa o laica, a fascicoli.
Chi se lo poteva permettere, affiancava a questi libri qualcosa di più: i volumi della mitica Treccani che “guerreggiava” spesso con la Britannica, per chi si atteggiava a conoscere la lingua inglese. Oggi, questo tipo di “cultura”, che si manifestava tutta cartacea e patinata, con illustrazioni in quadricromie e copertine in finta pelle, fa parte del museo della memoria.
Posseggo ancora una versione su cassette della Bibbia letta e drammatizzata in inglese, (vedi la foto) oltre a diverse edizioni in video dei Comandamenti di un famoso regista. Nel giro di un ventennio questo libro che è, a dire il vero, una biblioteca, te lo puoi portare appresso sul tuo cellulare.

Rimane, comunque, il “nutrimento” della fede cristiana. L’autore di questo recente libro in lingua inglese John Barton, pubblicato anche in versione Kindle per pochi euro, cerca di rispondere alla domanda su quanto questa “biblioteca”, formata da una cinquantina di altri libri, continua ad interessare nel mondo di oggi.
Il titolo la dice tutta: “Una storia della Bibbia”. Si sarebbe potuto benissimo chiamare “Una Guida alla Bibbia” in quanto offre al lettore il racconto di come tanti libri, così diversi tra di loro, possano essere stati scritti e accettati come libri guida, (si dice canonici). Ma spiega anche come gli stessi, nel corso dei secoli, siano stati interpretati ed usati per vari e diversi scopi. Il libro di Barton, non a caso, ha per sottotitolo “Il Libro e le sue Fedi”. Si riferisce a quella sia dei Cristiani che degli Ebrei.
C’è un intero capitolo dedicato alla scrittura del libro, vista alla luce delle varie trascrizioni dalle migliaia di papiri sui quali i testi vennero scritti i quali contengono numerose differenze. In un altro capitolo, l’autore discute le svariate traduzioni antiche e moderne fatte nel corso dei secoli e mette in guardia i lettori sulle tante e diverse interpretazioni possibili, incluse quelle dei vari addetti a comunicare la parola del “Signore”.
La Bibbia contiene molti generi narrativi: racconti, metafore, parabole, testi di legge, salmi, profezie, canti e poesie, proverbi. Gran parte delle Scritture Ebraiche, che corrispondono all’Antico Testamento Cristiano, furono scritte a partire dall’ottavo fino al secondo secolo avanti Cristo.
Risulta molto difficile pertanto tracciare la storicità di quello che ci viene raccontato. Si può anche dubitare della figura di Mosè e della cacciata degli Ebrei dall’Egitto. Burton mette in guardia anche il lettore dai cambiamenti di opinione dei vari studiosi che si sono susseguiti nei secoli.
Per quanto riguarda il Nuovo Testamento, l’autore pone in evidenza le differenze narrative contraddittorie dei quattro Vangeli. Gli studiosi moderni hanno messo in luce le molte contraddizioni nella narrazione, contrariamente a quanto hanno fatto nei secoli i diversi approcci ai testi nella traduzione degli stessi.
Un esempio di queste contraddizioni lo si può vedere nel Vangelo di Marco che è anteriore a quello di Giovanni. Quando quest’ultimo sceglie lo stesso Gesù come messaggio, luce e vita del mondo, diventa difficile ricostruire e narrare la sua vicenda. E’ vero che l’arricchisce da un punto di vista letterario, ma mette in luce la figura di Cristo in maniera diversa dagli altri evangelisti.
Uno dei temi centrali in questa situazione è che, sia per i Cristiani che per gli Ebrei, la religione conta di più di quanto possa contare la Bibbia. Il libro viene ad essere collocato in una prospettiva particolare, cioè diventa una “regola di fede”. Il “narrato” diventa “parola” divina. Le due religioni, quella dei Cristiani e quella degli Ebrei vengono a trovarsi in tal modo su due posizioni molto diverse.
L’Ebraismo sceglie la pratica come legge proveniente sia dal Talmud come dalle Scritture. I Cristiani, dal canto loro, nella Bibbia leggono una narrativa sulla caduta degli uomini nel peccato e nella venuta di Cristo al mondo una maniera per salvarsi e conquistare la vita eterna. I Cristiani amano i profeti. Per gli Ebrei il Pentateuco, i primi cinque libri, viene letto regolarmente e sono i libri che contano. Ai profeti si dà poco conto.
John Barton ci descrive la situazione riguardante la lettura del libro da parte degli Ebrei e dei Cristiani come due cerchi che si sovrappongono. Entrambi le religioni attingono alle Scritture ma in maniera diversa, mentre altre parti sono completamente ignorate. Questi due diversi modi di “leggere” sono causa del conflitto tra le due fedi.
I Cristiani hanno tradizionalmente interpretato le Scritture Ebraiche come accadimenti superati. L’Ebraismo è considerato un fossile sopravvissuto. Un possibile incontro tra le due fedi deve partire dai Cristiani i quali dovrebbero considerare l’Ebraismo come una religione che vive, per questa ragione valida di per sè.

La Bibbia potrebbe continuare essere considerata come la parola ispirata da Dio pur essendo stata scritta da esseri umani non infallibili. Burton sostiene che questo libro non può essere considerato tale. Può contenere errori e limitazioni, sono la loro stessa identità di scritture a dirlo.
Egli non si limita soltanto a criticare il fondamentalismo dei Cattolici i quali continuano a sostenere che quelle pagine sono essenziali per la loro fede. Barton sostiene che la Bibbia racconta storie alle quali dovremmo credere. Esse creano un mondo nel quale le stesse ci fanno entrare con la nostra immaginazione.
I Luterani però spesso dicono che la Bibbia ci parla di cose che noi stessi non possiamo raccontare se non dopo di aver letto il libro. Un Libro con la maiuscola. Ce ne sono anche altri di libri simili, oltre quelli che appartengono alla biblioteca chiamata Bibbia. Proprio mentre leggevo questo libro in inglese mi sono imbattuto nella recensione di un libro scritto su un altro libro, “scrittura sacra” anch’essa. Quella musulmana, la terza delle religioni monoteistiche: l’Islam.
Anche questa religione poggia tutta la sua forza di fede su un libro: il Corano. Nell’intervista apparsa su “La Lettura” l’autore Adrien Candiard, un frate domenicano che vive in Egitto. Ha scritto un libro per il quale è stato intervistato. Egli dice che”la Bibbia è prosa, il Corano è poesia”, per questa ragione l’Islam è così complicato”.
Non l’ho ancora letto, non so se lo leggerò. Mi vien da pensare e poi dire che tra prosa e poesia, la vita degli uomini, nonostante tutti i libri che sono stati scritti, ieri come oggi, oggi come domani, continuerà ad essere avvolta in quella che il Qohelet chiamò “Hebel”, nebbia. Anche allora i libri erano troppi. E noi continuiamo a leggere libri ...

Published on May 04, 2019 05:41
April 19, 2019
Realtà virtuale, realtà aumentata, realtà artificiale ...

Mi sono imbattuto in questo quadro, un dipinto del periodo Vittoriano, mentre leggevo un pensiero dello scrittore, poeta e filosofo inglese S. T. Coleridge (1772–1834) sui vari tipi di lettori esistenti ieri come oggi. Come in uno specchio. Ciò che colpisce nell’immagine di queste due donne, sedute in una carrozza (o un treno?) di duecento anni fa. Ma non è uno specchio. E’ come in un “doppio”: mentre una legge, l’altra dorme.
Forse due sorelle, forse una sola. Sta a chi guarda decidere. La scena, così come l’ha immaginata l’artista, sembra voler trasmettere un messaggio ben preciso con il suo dipinto. Due donne, due atteggiamenti opposti nei confronti della lettura? In tedesco questo “doppio” viene chiamato “doppelgänger”, una caratteristica esistenziale presente in ogni essere umano.
Le due figure rappresentano la stessa persona, in momenti diversi, oppure sono due comportamenti contrastanti nei confronti della lettura? Mentre l’una sembra rappresentare un interesse, una passione, una cultura, l’altra descrive una condizione della mente, una decisione: quella di oziare. Entrambe sono una scelta, tanto per la stessa persona, quanto per ognuno di noi.Tralascio le altre osservazioni sul dipinto che rimangono comunque molto interessanti, vedi l’ampollosità dei vestiti, il panorama dal finestrino, i riflessi di luce ed altro.
Ci porterebbero fuori dall’argomento che intendo trattare in questo post e che riguarda essenzialmente il tema della lettura, del nostro modo di leggere. Non posso però ignorare quei due diversi ed opposti elementi che il pittore ha messo ai fianchi delle signore. Alcune rose a destra, di fianco alla ragazza che legge. Un cestino accanto a quella che preferisce leggere. Elementi, a mio parere, importanti perchè concorrono a farci conoscere il carattere delle due persone e le ragioni del loro comportamento.
Quei fiori, quelle rose, con quei colori ci fanno conoscere il carattere sostanzialmente romantico della signora che legge. Mentre il cestino, sarà di certo pieno di cose per cucire. Due attività diverse ed anche opposte, ma forse pure complementari: pensare e fare, due attività contrastive, ma anche convergenti. Chi legge è, quindi, diverso da chi preferisce qualche altra attività, in questo caso oziare, dormire oppure ricamare, cucire. E’ possibile, ovviamente, fare le due attività nel momento opportuno.
Chi sceglie di leggere, come lo fa? Cos’è che spinge alla lettura, quali sono i tempi opportuni per una lettura e, sopratutto, come si legge? Ci separano due secoli da questa immagine, e molti treni sono passati su tanti ponti, sotto i quali molta acqua è passata senza che sia mai stata la stessa. Viaggiare oggi è un’esperienza da fare per capire quanti sono i “doppelgänger”, i “doppi” che ci accomagnano nei viaggi al alta velocità. Per quanto mi è possibile mi scelgo sempre la vettura riservata al “silenzio”.
Anche se a caro prezzo, pur di sfuggire agli ossessivi rumori dei cellulari e delle inutili chiacchiere. La lettura di un libro cartaceo, o anche digitale, conferma le quattro caregorie elaborate da S. T. Coleridge. Per lui, duecento anni, fa esistevano quattro tipi di lettori. Credo che ancora oggi sono le stesse categorie esistenti. La prima categoria include chi legge come “legge” una classidra: sabbia che scorre e segna il tempo che passa. Scorre, passa e nulla resta nella mente di chi legge.
La seconda vede chi legge come una spugna, assorbe tutto e lo restituisce così come l’ha assorbito, soltanto dopo di averlo sporcato. Il terzo tipo di lettore è come un filtro, tratttiene il peggio e lacia passare il meglio. L’ultimo tipo è come quegli schiavi in cerca di diamanti: mettono da parte quello che non serve, trattengono e scelgono il meglio. Dopo una vita di letture, in qualità di dinosauro digitale, che tipo di lettore posso dire di essere stato? Come ha letto, legge e continuerà a leggere il figlio di un tipografo a caratteri mobili che ha attraversato tutti i gradi di una trasformazione epocale nel campo della comunicazione sia orale che scritta?
Tra smartphone, tablets, desktops, parole stampate, lette, ascoltate o viste in tutti i modi possibili, l’azione mentale che porta alla lettura è entrata nell’era della realtà aumentata. Il che significa che tutto dipenderà dal mezzo che useremo per leggere. Man mano che aumenta la quantità di informazione, saremo costretti anche ad aumentare la nostra capacità di capire e comprendere.
Realtà virtuale, realtà aumentata, realtà artificiale …

Published on April 19, 2019 12:30
April 13, 2019
Aphra Behn: scrittrice e spia col reggiseno

In effetti, quest'ultima fu l'attività che, insieme alla scrittura, le diede un vero sostentamento per vivere. E' passata alla storia come la donna che, prima al mondo, si guadagnò da vivere scrivendo.
Leggendo la sua biografia mi ha fatto venire in mente quella di un'altra donna. Questa, oltre che scrittrice, fu anche femminista e rivoluzionaria, sempre inglese. Ha un posto importante nella storia della letteratura. Mia moglie scrisse su di lei la sua tesi a conclusione degli studi universitari.
Il suo nome è Mary Wollestonecraft Godwin. In un post su questo blog, la definii una iena col reggiseno. Il confronto con Aphra Behn mi pare sostenibile, pur con la distanza di un secolo.
Oltre che viaggiatrice, scrittrice, poetessa ed avventuriera, Aphra fu anche una spia nella sua pur breve esistenza. Virginia Woolf, altra famosa scrittrice inglese, non si lasciò sfuggire l'occasione di occuparsene scrivendo che "tuttte le donne dovrebbero portare fiori sulla tomba di Aphra in quanto fu lei ad insegnare alle donne a dire e a scrivere quello che pensano con la loro mente, ma anche a quello che fanno col loro corpo".
Un secolo prima della "iena" Mary, Aphra Behn, oltre che scrivere di poesia lirica, si occupò anche di temi in prosa e in versi erotici. Con tutta la possibile e franca sessualità indirizzata all'impotenza maschile, esaltando l'orgasmo femminile, ed anche le indeterminatezze che la stessa sessualità può comportare.
Siamo in piena Restaurazione inglese, è bene ricordarlo. Nesssun'altra donna avrebbe goduto per secoli di una libertà di questo tipo. Nel tempo da lei vissuto, si guadagnò la fama di un certo tipo di moderna poetessa "punk". In vita, i suoi contemporanei non la riconobbero come tale, una "teppista", ma soltanto come una poetessa.
Oltre ai suoi successi teatrali e narrativi, Aphra Behn fu una spia reale in Olanda e forse anche in America del Sud. Fu una propagandista alla corte di Carlo II e di suo fratello molto poco popolare Giacomo II. Venne coinvolta nei tanti conflitti tra l'Inghilterra e il Continente anche in connessione con il traffico degli schiavi nelle Americhe.
Mise su carta le sue molte straordinarie avventure ed esperienze quasi sempre in forma anonima, mescolando nella sua scrittura segreti, luci e oscurità, realtà e fantasie, in una maniera tale che chi legge non sa fare distinzioni. Sappiamo molte cose certe sul suo conto per quanto riguarda la carriera di scrittrice. Ben poco della sua vita reale. Il tempo della Restaurazione in cui visse conferma questa impressione.
La sua tecnica narrativa è tipicamente femminile nella percezione della realtà specialmente se la si vede in relazione con il rapporto con l'altro sesso. La sua scrittura è piena di esperimenti narrativi non solo in prosa ma anche in poesia. Dimostra di essere in grado di affrontare argomenti tanto diversi e contrastanti, come quelli che coinvolgono sgualdrine e libertini, quanto legati alla nobiltà ed alla politica.
Una mistura ed una mescolanza di trame a soggetto come è il caso del romanzo breve Oroonoko: or, the Royal Slave che divenne tanto popolare da diventare anche una opera teatrale di grande successo. Un "cocktail" di interessi in cui il sesso sembra avere una parte importante sempre visto nell'eterno conflitto tra mente e corpo.
Quest'ultimo sembra avere spesso la meglio sulla prima, in un'atmosfera culturale in cui la scrittrice sembra come divertirsi a dimostrare quanto sia possibile sovvertire le idee di nobiltà, rango sociale e onore. Difficile addentrarsi nelle sue idee riguardanti la schiavitù, il gender, l'aristocrazia, la politica, le diversità linguistiche e culturali.
Temi ancora oggi molto moderni che trovarono facile interesse in una donna che senza dubbio sapeva "leggere" il suo tempo e taccontarlo a chi voleva conoscerlo, facendoci anche un profitto oltre che una ragione per scriverne. Molti studiosi hanno affermato che i suoi scritti contengono numerose contraddizioni sia politiche che morali e sociali.
Una vita certamente ai limiti, in un tempo quando le donne non avevano diritti. "Diritti" sui quali avrebbe scritto un secolo dopo la "iena in reggiseno" e sui quali, oggi, nessuna donna o uomo discute. Con o senza reggiseno ...

Published on April 13, 2019 06:17
April 6, 2019
Chi ha paura di Internet?

Se le cose stanno così, non può essere diverso che lo siano anche le reazioni che ognuno di noi, singoli esseri umani, ha nei suoi confronti. Così reagiscono gli Stati, le loro culture ed istituzioni, ad una “struttura” mai vista prima su questo pianeta. Da nord a sud, da est ad ovest, si susseguono le paure e gli entusiasmi per qualcosa che condiziona sempre di più la nostra esistenza.
Ho avuto modo di leggere lunghi estratti di due libri usciti di recente su questo argomento. Una buona occasione per confrontare quello che credo di avere imparato a distanza ormai di quasi una trentina di anni che sono diventato digitale.
Entrambi gli autori prendono in esame due civiltà completamente diverse da quella occidentale ed europea alla quale appartiene anche il sottoscritto: quella cinese e quella indiana. Posso dire a questo proposito che l’unica cosa che unisce queste due civiltà è quella di farci capire quanto poco sappiamo sia dell’una che dell’altra, e non solo per quanto riguarda l’esperienza digitale.
James Griffith, nel suo libro intitolato non a caso La Grande Muraglia della Cina racconta la storia di oltre venti anni durante i quali le autorità cinesi, lentamente ma decisamente, hanno attuato quella dottrina chiamata “cyber-sovranità”. Consolidata l’idea che i dati sono una risorsa economica e strategica cruciale, le autorità cinesi si sentono in diritto di realizzare in chiave moderna e digitale quello che fu fatto secoli fa da essi stessi con la “Grande Muraglia”: creare una nuova “muraglia” che oggi diventa difesa e barriera con diverse e identiche conseguenze, volutamente.
Quando l’ex presidente americano Bill Clinton ricevette nel 2000 una delegazione di operatori commerciali cinesi, parlando a proposito della novità chiamata Internet, disse loro che tentare di difendersi da questa nuova realtà sarebbe stato come voler inchiodare la gelatina ad un muro. Una cosa impossibile e augurò loro buona fortuna. Ma i Cinesi non avevano bisogno di fortuna ma di tempo. Infatti, a distanza di una ventina di anni oggi, si può dire che sono riusciti a controllare il “web”.
Lo hanno fatto e lo fanno in maniera abbastanza semplice, anche con la complicità, in alcuni casi, degli stessi occidentali. Mediante ispezioni di “profondità digitale” riescono a controllare quello che entra attraverso alcuni indirizzi IP. Effettuano sorveglianza praticando censura accettata anche dal colosso Google a fini commerciali.
Il controllo non si manifesta in maniera censoria, bensì filtrata, ritenendo responsabili i “provider” della diffusione di notizie non gradite: devono essere loro a decidere cosa far passare e cosa no. Insomma, una specie di autocensura. In alcuni punti cruciali di informazione digitale in città come Beijing, Shanghai e Guangzhou avviene il filtraggio.
Ma non si tratta soltanto di questo. Le autorità cinesi impiegano migliaia e migliaia di persone inondando infinite chat con una marea di frivolezze e banalità: fanno “spamming”. Le famose “fake news” condizionano così l’informazione politica e culturale di un certo valore. Un vero e proprio inquinamento delle menti questa “muraglia” digitale che impone un autoritarismo collettivo mentale, degno delle migliori dittature. Con buona pace di quello che noi chiamiamo libertà di informazione e formazione.

Il sottotitolo del suo libro lo afferma in maniera inequivocabile quando dice di voler dimostrare “come il cellulare stia trasformando le democrazie del mondo”. Il governo indiano ignora completamente la politica del governo cinese.
Già corrispondente della CNN, l’autore porta il lettore in un viaggio nel subcontinente indiano, attraversando sperduti villaggi e sterminate metropoli, cerca di dimostrare come le connessioni della Rete connettono anche uomini e cose. Una cifra sulla situazione digitale di questo grande Paese basta per avere l’idea del cambiamento che l’India ha subito.
Diciannove anni fa, nel 2000, erano 20 milioni gli Indiani connessi a Internet. Nel 2017 sono diventati ben 465 milioni, il che significa che ogni secondo tre cittadini scoprono la Rete. Il prossimo anno si valuta che saranno 700 milioni, un miliardo nel 2025.
Questi numeri lasciano facilmente immaginare il salto esistenziale di un popolo, una nazione, un governo. Nessun area umana, sociale, politica, culturale può uscire indenne da cambiamenti di questo genere. Dalla nascita, al matrimonio, sino al passaggio finale, l’arrivo dello smartphone per ogni cittadino indiano, ha significato l’utopia di un totale sconvolgimento di una società in cui ci sono vaste sacche di povertà, un sistema di caste, diseguaglianze di genere, ignoranza e analfabetismo, grande disparità sociale. A grandi opportunità sono succeduti comportamenti e trivialità di ogni tipo.
Nonostante i tentativi del governo di controllare la situazione sono nate forti tensioni. Ipernazionalismi contro terrorismi di vario tipo sembrano devastare in maniera irreversibile la più grande democrazia del mondo. L’autore scova e crea personaggi che illustrano condizioni di vita estrema, impregnate di un facile ottimismo digitale. Milioni di persone si sentono, con l’arrivo dello smartphone, liberati da un destino crudele, vedono in esso una possibile via di uscita e di cambiamento. Il 66% delle donne indiane non sa leggere e scrivere.
La diffusione di un tipo di cellulare economico, collegato alla Rete, ha spodestato la centralità del pc accelerando i cambiamenti, ma ha anche aumentato le tensioni, come abbiamo già visto. In alcuni casi ci sono situazioni simili a quelle che accadono in Cina, come ad esempio quella riguardante le “fake news” e i “vuoti digitali”, le interruzioni o la mancanza di connessione in molte aree dei due Paesi.
Se si vuole fare un confronto tra le due opposte, ma per certi versi simili situazioni tra questi due grandi Paesi, si può dire che ci sono somiglianze e contrasti. Li unisce una verità comune: la tecnologia nel suo impatto sulla realtà sociale di un territorio non ha mai effetti simili. Tutto dipende da chi gestisce i cambiamenti e prende le decisioni. Nemmeno noi Europei siamo indenni da queste tendenze.
Volendo tirare delle conclusioni e fare delle previsioni utili che riguardano non soltanto questi due grandi Paesi, si può dire che mentre i Cinesi cercano di cavalcare il loro “drago” tecnologico per dominarlo, gli Indiani sembra che vogliano cavalcarlo con fiducia, per guidarlo e indirizzarlo verso il cambiamento. A noi non resta che seguire la speranza indiana.

Published on April 06, 2019 11:14
April 5, 2019
"L'uomo che cade" - "The falling man"

A proposito di fotografia. Mettevo ordine nell'archivio delle immagini che mi ritrovo su Google. Uno spazio infinito, ho ritrovato questa foto che ha per titolo "The falling man", "l'uomo che cade".
Tratta dalla rivista Esquire è la memoria di un evento entrato a far parte della storia moderna. Il pezzo che ci scrisse sopra il redattore rimane un vero e proprio saggio di scrittura che merita ricordare: Tom Junod lo scrisse. Lo riporto anche in traduzione.
Erano le 09:45:15 dell'11 settembre 2001. Il fotografo Richard Drew schiacciò il dito mentre l'uomo cadeva. Fu uno dei duecento che saltarono giù dal grattacielo verso il vuoto, nel tentativo di salvarsi. La foto apparve a pagina 7 del NYTimes ed è rimasta come testimonianza di un evento unico nella storia dell'umanità.
"Nella foto, si allontana da questa terra come una freccia. Anche se non ha scelto il suo destino, sembra che, nei suoi ultimi istanti di vita, l'abbia abbracciato. Se non stesse cadendo, potrebbe benissimo volare. Sembra rilassato, sfreccia nell'aria. Sembra a suo agio nella morsa di un movimento inimmaginabile. Non sembra intimidito dall'aspirazione divina della gravità o da ciò che lo attende. Le sue braccia sono al suo fianco, solo leggermente incastrate. La sua gamba sinistra è piegata al ginocchio, quasi casualmente. La sua camicia bianca, o giacca o tonaca, si libera dai suoi pantaloni neri. I suoi top neri sono ancora in piedi ... L'uomo nella foto ... è perfettamente verticale, e così è in accordo con le linee degli edifici dietro di lui. Li divide, li divide in due: tutto a sinistra di lui nella foto è la Torre Nord; tutto a destra, a sud. Pur non conoscendo l'equilibrio geometrico che ha raggiunto, è l'elemento essenziale nella creazione di una nuova bandiera, uno stendardo composto interamente da barre d'acciaio che brillano al sole. Alcune persone che guardano l'immagine vedono stoicismo, forza di volontà, un ritratto di rassegnazione; altri vedono qualcos'altro, qualcosa di discordante e quindi terribile: la libertà. C'è qualcosa di quasi ribelle nella postura dell'uomo, come se una volta affrontata l'inevitabilità della morte, decise di andare avanti con essa; come se fosse un missile, una lancia, deciso a raggiungere la propria fine. È ... nelle grinfie della fisica pura, che accelera a una velocità di trentadue piedi al secondo al quadrato. Presto viaggerà verso l'alto di 150 miglia all'ora, ed è a testa in giù. Nella foto, è congelato; nella sua vita fuori dall'inquadratura, cade e continua a cadere finché non scompare. "--------------
“In the picture, he departs from this earth like an arrow. Although he has not chosen his fate, he appears to have, in his last instants of life, embraced it. If he were not falling, he might very well be flying. He appears relaxed, hurtling through the air. He appears comfortable in the grip of unimaginable motion. He does not appear intimidated by gravity’s divine suction or by what awaits him. His arms are by his side, only slightly outriggered. His left leg is bent at the knee, almost casually. His white shirt, or jacket, or frock, is billowing free of his black pants. His black high-tops are still on his feet… The man in the picture… is perfectly vertical, and so is in accord with the lines of the buildings behind him. He splits them, bisects them: Everything to the left of him in the picture is the North Tower; everything to the right, the South. Though oblivious to the geometric balance he has achieved, he is the essential element in the creation of a new flag, a banner composed entirely of steel bars shining in the sun. Some people who look at the picture see stoicism, willpower, a portrait of resignation; others see something else — something discordant and therefore terrible: freedom. There is something almost rebellious in the man’s posture, as though once faced with the inevitability of death, he decided to get on with it; as though he were a missile, a spear, bent on attaining his own end. He is… in the clutches of pure physics, accelerating at a rate of thirty-two feet per second squared. He will soon be traveling at upwards of 150 miles per hour, and he is upside down. In the picture, he is frozen; in his life outside the frame, he drops and keeps dropping until he disappears.”

Published on April 05, 2019 04:12
Un algoritmo per scrivere libri

Prima o poi ci si arriverà. Peccato che non potrò essere coinvolto quando l’evento accadrà.
Mi dispiace, ma tutti i “dinosauri” sono destinati a scomparire per cedere il passo a chi, prima o poi, è destinato a diventarlo.
La ruota della vita continua a girare. Non si ferma mai, in un ciclo continuo, al quale nessun essere umano, almeno fino ad ora, è riuscito a sfuggire.
Non potrò, perciò, leggere il tanto atteso libro scritto non da un essere umano ma da una macchina. Anzi da un algoritmo, figlio dell’Intelligenza Artificiale. Mi accontento di questo.
Nei giorni scorsi è stata lanciata la notizia della pubblicazione di un libro scritto automaticamente da una macchina costruita su di un algoritmo.
L’Editore Springer Nature, in collaborazione con il Laboratorio di Linguistica Computazionale Applicata dell’Università “Goethe” di Francoforte ha pubblicato il primo libro scritto non da una mano umana. Tratta di chimica e l’autore porta il nome di “Beta Editor”.
Il libro è un prototipo che offre un’anticipazione sulle ultime ricerche che si stanno conducendo nel campo sempre più importante degli studi sulle batterie a ioni di litio. Il testo è il risultato della somma automatica ottenuta da un gran numero di articoli e studi su questo settore.
Attraverso l’analisi strutturale di estratti e ricerche, la pubblicazione vuole essere una sorta di architettura narrativa, gerarchicamente organizzata per aiutare la gestione della grande quantità di informazioni disponibili in questa disciplina.
In stretta collaborazione tra la “Springer Nature” e l’Università di Francoforte, i ricercatori intendono fare il punto sulla funzione degli algoritmi, affidando a un cosiddetto “Beta Writer” il compito di scegliere e selezionare quegli studi che sono stati condotti sull’argomento. Il programma algoritmico “Beta Writer” ha messo a confronto studi e ricerche fatti sullo stesso argomento riorganizzandoli in maniera armonica e coerente.
Le citazioni sono state collegate ad alcuni “hyperlinks” (supercollegamenti) i quali hanno messo i ricercatori in grado di operare confronti utili e significativi esplorando in maniera significativa i materiali. Sono state create così le introduzioni, gli indici e i riferimenti in maniera da orientare il lettore durante la lettura del testo.
Niels Peter Thomas, Direttore Editoriale di Springer Nature ha dichiarato:
“Springer Nature, continuando la sua lunga tradizione di pubblicazioni accademiche e specialistiche intende portare un contributo nuovo ed importante per un nuovo modo di leggere e pubblicare. Le nuove tecnologie, che si occupano di “Linguaggi Naturali” e di “Intelligenza Artificiale”, ci danno nuove opportunità di esplorare diversi e promettenti contenuti mediante l’aiuto di algoritmi. Come Editori Globali abbiamo la responsabilità di sfruttare queste grandi potenzialità che sono legate alle macchine intelligenti, in maniera da sviluppare nuovi tipi di contenuti per il futuro”.Henning Schoenenberger, Direttore della Gestione dei Dati ha aggiunto:
“Siamo molto lieti di pubblicare questo lavoro e metterlo a disposizione della comunità per una ricerca globale. Questi studi continueranno ad essere la parte centrale della nostra attività di pubblicazioni scientifiche nell’immediato futuro. Prevediamo presto la pubblicazione di contenuti di vario genere ottenuti mediante la collaborazione tra la mente umana e quella di macchine intelligenti. Questo libro ne è un importante prototipo e speriamo che darà vita a nuove opportunità, ricerche, sfide per la realizzazione di questo genere di contenuti.”Nel prossimo futuro Springer Nature ha in programma di continuare la produzione di questi prototipi con contenuti diversi per altre aree. Questo ebook sulle batterie a litio sarà un’ottima base di partenza per migliorare ulteriormente il tipo di tecnologia che abbiamo impiegato.
Il primo libro scritto da una macchina intelligente per conto di Springer Nature è indirizzato a tutti i settori interessati in questo tipo di ricerca: studiosi, ricercatori, PhD studenti, recensori, scrittori scientifici ed accademici, decisori, bibliotecari ed altre figure interessate.
Il libro è disponibile sia in versione ebook che cartacea gratuita.
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Published on April 05, 2019 03:39
April 3, 2019
Un "dinosauro" alla "Fiera del Libro per i Ragazzi" di Bologna

Il figlio dinosauro di un tipografo gutenberghiano meridionale va alla Fiera di Bologna, con la sua compagna, per la sfida annuale della “Bologna Children’s Book Fair”, la “Fiera del libro per ragazzi”, arrivata all’edizione numero 56.
Per quattro giornate di intenso lavoro, il posto diventa un luogo principe internazionale sulle tendenze della comunicazione ed illustrazione sull’indirizzo globale della creatività artistica editoriale per l’infanzia.
Con questo termine si intendono anche i “soggetti” chiamati “toddlers”, quei bimbi che dall’anno zero imparano a camminare.
Mi piace tirare le conclusioni di questa visita con me stesso, facendole conoscere anche al mio genitore che mi aspetta dall’altra parte dell’universo sconosciuto.

Quest’anno sono ben 1442 gli espositori provenienti da 80 Paesi, per un programma che prevede 250 fra conferenze e workshop, dodici mostre e non so quanti premi da assegnare.
Se questo dinosauro, nato e cresciuto cartaceo nella piccola tipografia di famiglia meridionale italiana, nella Valle dei Sarrasti, dovesse riassumere l’esperienza di quest’anno, lo farebbe impiegando alcune parole chiave.
Mia moglie ed io ci siamo andati, cosa naturale, con le credenziali del figlio che, da legittimo discendente di famiglia, nel rispetto della evoluzione della specie, garantisce la continuità.
Lui è direttore editoriale di una casa editrice internazionale leader nella comunicazione digitale medico-scientifica. Ci siamo andati, però, pagando un non economico biglietto di ingresso. Niente omaggi.

Le parole che ho scelto forse potranno suonare poco gradevoli dal punto di vista fonetico, ma sono sicuro della “densità” di significati che contengono: spettacolarizzazione, femminilizzazione, digitalizzazione.
Se tanti espositori, con una quanto mai variegata e multietnica provenienza, fanno da sfondo a questo spettacolo, la “cosa” dà vita ad una quarta parola che include il tutto: il mercato.
Penso a quel mercato della vita sul palcoscenico del futuro che vedrà i bambini, i ragazzi e i giovani di oggi, attori personaggi ed interpreti di un mondo in continua, straordinaria evoluzione.
Ma vado con ordine per non confondere le idee a chi mi legge.
Dopo di aver varcato la soglia della fiera, la prima cosa che colpisce è la scenografia, la spettacolarizzazione, appunto, che nasce sì dai colori degli stand, dalla fantasia degli autori ma, soprattutto, degli editori i quali devono vendere “il libro”.

Quest’ultimo è ormai diventato un “prodotto”. Non può essere solo un pensiero di arte e fantasia, una morale, un senso, un messaggio.
Deve essere anche un profitto, legittimo o meno, questo non conta dirlo ora. Qui e ora, conta l’effetto, lo spettacolo, appunto.
E allora, via alla fantasia, cartacea o digitale, fumetto, striscia, video o podcast, tutto fa comunicazione, dando libertà alla mente, liberando i pensieri. La lingua, anzi le lingue, fanno il resto. Come le musiche.
Fanno parte dello spettacolo i nuovi padiglioni con quell’area nel mezzo, la Mall, il vero cuore della fiera.
In un angolo chiamato “Illustrator Survival Corner” i giovani incontrano i maestri, gli artisti, i creativi. Una grande vetrina dalla quale nascono i progetti, le partnership, le co-edizioni.

Un palcoscenico, in un interscambio che è sia fisico che mentale e culturale. Lo spettacolo si manifesta soprattutto nella illustrazione che va oltre il confine del libro, per trasmettere conoscenza nelle sue varie chiamate: scienze, matematica, storia, narrativa, tutte spiegate visivamente.
Mi hanno colpito alcune novità, come quella chiamata “silent book”, il libro silenzioso, libri senza parole, i “toddler books”, libri da zero a tre anni.
Ma anche i vecchi libri cartonati. Ricordo i miei antichi fumetti, le prime strisce degli anni cinquanta. Me le ricordo quelle prime “strisce”, quelle che un tempo si chiamavano “fumetti”.
Ti dicevano: “Stai sempre a leggere queste cose. Non pensi a studiare”. Tex Willer, Tarzan, Nat del Santa Cruz (credo che fosse il mozzo di una nave che aveva questo nome) l’Uomo Mascherato, il Monello, Paperino, Topolino, il Grande Blek …

“Non studi mai”, sarai un ignorante”. Oggi ti dicono: “Stai sempre con quella tavoletta tra le mani”. Il tempo passa, la sostanza resta. Il mezzo continua ad essere il messaggio. Il messaggio è il cellulare che un tempo si chiamava libro.
Questi “messaggi” che ho visto alla Fiera di Bologna, a dire il vero, hanno frastornato anche la mia signora. Anche lei “dinosaura”. Nata e cresciuta cartacea, diventata digitale, anche se solo a metà.
Ci siamo sentiti travolti da questo grande spettacolo. La componente femminile è davvero rilevante. Di tutte le età. Il “sesso forte” è perdente.
Sono chiaramente le donne le più presenti, impegnate, attive, influenti, nelle varie vesti di presentatrici, interpreti, autrici, scrittrici, ruoli e funzioni indispensabili.

Femminilizzazione è la parola giusta, anche se forse per alcuni il termine può non piacere. Ne ho viste di tutti i colori, vestite di tutti gli stili, parlanti tutte le lingue, giovani e mature.
Per almeno i tre quarti, a occhio e croce, la presenza femminile conferma la femminilizzazione della nostra società. Una spettacolarizzazione, tanto esteriore quanto interiore.
I bambini sono i loro obiettivi naturali. Noi uomini ne abbiamo tutto da guadagnare, almeno io così credo.
La digitalizzazione è un’altra parola che definisce il messaggio che viene da un evento come questo. Fare un libro oggi è diverso.
Il libro non è più e non tanto difficile pensarlo, scriverlo, leggerlo e trasmetterlo, quanto farlo conoscere, “imporlo”. Il “mezzo” è, ora come sempre, il “messaggio”.
Un “messaggio” che deve avere una connessione, che possa accedere ovunque per controllare la vita, la mente il cervello di chi è facile preda e deve essere conquistato.

Ora, a questa particolare età, bambino, fanciullo, ragazzo, giovane, momenti che nel mondo di oggi diventano attimi giusti, ma fuggenti.
Più tardi non sarà più possibile. La vita di sempre, quella reale, quotidiana, non basta più, dovrà essere “aumentata” (augmented reality) nella sua realtà, deve essere sempre più infinita.
Una intelligenza tradizionale non basta più. Quella tradizionale dovrà essere affiancata da quella Artificiale. Biancaneve i sette nani, la Fatina, l’Orco, l’Alieno, Pinocchio e tutto il resto.
Ben altro passa per la mente, in cartaceo o in digitale, in audio o in video, anzi in podcast e in “bits & bytes”.
Questo è quello che mi è rimasto di una giornata trascorsa alla 56ma Fiera di Bologna. Riflessioni del figlio dinosauro di un tipografo tradizionale vissuto e cresciuto in un mondo, come era quello di 56 anni fa ed anche oltre.
Oggi, anno del Signore 2019, meno 56, gli anni della Fiera, fa 1963, poco più di mezzo secolo fa, in un altro millennio. Quasi la distanza di tempo che intercorre dal giorno in cui Gutenberg pubblicò il suo primo libro a caratteri mobili.
Una Realtà Aumentata. Poco più di cinquanta anni equivalgono ai cinquecento che ci separavano dall’era di Gutenberg.
I bambini ai quali si rivolgono oggi, nel mese di aprile, anno 2019, gli operatori di questa Fiera di Bologna, come saranno tra cinquant’anni?

Published on April 03, 2019 08:29
March 31, 2019
Geoffrey Chaucer: un Inglese Europeo del Medioevo

L’autrice del libro scrive in un articolo uscito sulla apprezzata rivista digitale internazionale AEON che l’inglese Chaucer, oltre che narratore, fu anche poeta e per giunta può essere considerato uno dei primi poeti e scrittori di risonanza europea. Per provare questa sua affermazione, legata anche alla sua modernità ed attualità, l’autrice cita un articolo apparso nella rivista mensile Prospect del 2013 in cui si paragona il partito di Nigel Farage, capo sostenitore dei fautori dell’uscita dall’Unione Europea, a quella colorita umanità di uomini e donne inglesi che appaiono nei famosi Racconti di Canterbury, veri e propri archetipi di chiara estrazione “inglese”, tanto di ieri, quanto di oggi.
E’ a questo proposito che la studiosa Marion Turner mette in scena la “inglesità” dei racconti di Canterbury e afferma la modernità di uno scrittore e poeta inglese che sarebbe diventato anche europeo. Ogni attento lettore ne può avere conferma leggendo le cronache che arrivano in questi giorni con tutti i media moderni dal Parlamento britannico. I suoi membri, rappresentanti della più antica democrazia del mondo, sono stati addirittura paragonati a degli scimpanzè. Tutto a causa di una lunga serie di circostanze e comportamenti legati alla politica ed ai sentimenti che gli inglesi hanno dimostrato di avere nei confronti della realtà europea. Isolani che hanno considerato sempre il Continente “isolato” a causa della … nebbia sulla Manica.
Questa identità va ritrovata, secondo le scrittrice, in quei racconti che costituiscono il libro e che hanno concorso a dargli la fama di “Padre della Letteratura Inglese”, oltre che rappresentante dell’intera nazione inglese. Questi racconti videro la luce nel 1387. Quando l’autore passò a miglior vita, venne sepolto nell’Abbazia di Westminster perchè era ivi residente. 150 anni dopo venne spostato nel cosiddetto angolo dei poeti. John Dryden lo nominò “father” della poesia inglese, con l’aggiunta che Chaucer rappresentava “l’intera nazione”.
Col passare del tempo anche i Vittoriani furono convinti della “Englishness” di Chaucer, “Inglese fino all’osso”, per così dire. Fu G. K Chesterton a portare il “figlio del vinaio” al massimo della “inglesità” quando ebbe modo di scrivere: “Chaucer fu il Padre del suo Paese, alla maniera di George Washington”. Lo scrittore e critico Peter Ackroyd, nel suo libro “Brief Lives” del 2004 descrive i “Canterbury Tales come una “epica di “Inglesità”, definendo Chaucer “geniale e sorridente emblema di “Inglesità”.
Forse questa veste di “Englishness” sarebbe apparsa strana allo stesso Chaucer. Egli infatti fu in grado di trasformare la poesia inglese proprio a causa del suo innato internazionalismo, in quanto, come tutte le persone istruite del suo tempo, egli conosceva diverse lingue, la filosofia antica, le traduzioni latine dei trattati scientifici arabi, la poesia d’amore francese. La sua buona conoscenza dell’italiano, i suoi viaggi in Italia, gli diedero l’opportunità di conoscere la poesia di Dante, Boccaccio e Petrarca. Per queste sue caratteristiche conoscenze può essere considerato un fenomeno europeo. Seppe trasferirle al meglio nella sua cultura, non dimentichiamolo, in un epoca che non aveva nulla di moderno con tutte le sue reti di comunicazione.
L’influenza di questi poeti italiani cambiò la poesia inglese. Lo sviluppo del pentametro, ad esempio, le dieci sillabe, i cinque accenti, il tutto divenne la forma del verso inglese ispirata dall’endecasillabo italiano. Fu lui a tradurre per primo il sonetto di Petrarca in inglese. Questo internazionalismo smentisce l’idea di “archetipi inglesi” dei pellegrini di Canterbury. Il personaggio della moglie di Bath è ben lontano dal prototipo iscritto al partito dell’UKIP. La “moglie di Bath” assomiglia di più a quella del “Roman de la Rose” francese e agli stereotipi latini di San Gerolamo nel Adversus Jovinian.
L’idea di un gruppo di persone che raccontano storie mentre sono in viaggio nacque da fonti diverse, tra le quali Boccaccio con il “Decamerone”. Molti dei racconti di Canterbury non hanno luogo in Inghilterra. L’ambientazione va dall’Asia Centrale alla Siria, al nord Italia, passando per le Fiandre. Poche sono le fonti inglesi. Il primo viaggio che Chaucer fece sul continente ebbe luogo nel 1359. Non aveva nemmeno 20 anni. Combattè nella “Guerra dei Cento anni”, venne fatto prigioniero a Reims, visitò la città di Navarre, oggi nella Spagna del Nord, allora un Paese indipendente, una comunità multiculturale dove Ebrei, Musulmani e Cristiani coesistevano in una realtà piuttosto pacifica. Fece due viaggi in Italia in missione diplomatica, visitò la Lombardia, Firenze e Genova. Fu spesso in Francia a negoziare trattati, favorire matrimoni di interesse, alleanze, territori di confine, allora sotto forte una forte influenza della politica inglese.
Gran parte della sua formazione sia mercantile, commerciale e diplomatica, che linguistica e culturale, la fece sul campo, in aree diverse, di spiccato carattere europeo. Apparteneva, inoltre, ad una famiglia che dei traffici e del commercio aveva fatto la sua ragion d’essere. Era nato in una zona di Londra dove, sul Tamigi, vedeva passare navi piene sia di mercanti che di immigranti, un andare e venire da tutto il mondo. Un sistema commerciale già molto avviato ed organizzato, collegato con l’Asia, l’Africa e il resto dell’Europa. Ebbe modo di crescere e formarsi in maniera autonoma e indipendente di quello che oggi chiameremmo economia ed interscambio globale.
Quando entrò al servizio prima dei figli e poi del Re stesso, potè prendere parte alle vita internazionale di Corte. Si sposò anche con una donna di Hainault di origine franco belga. Le sue idee politiche erano legate strettamente alla sua identità inglese, all’epoca monopolista ed anche xenofoba. Fu sempre, comunque, un internazionalista, anche se avanti lettera. Quando verso il 1370 i commercianti di Londra diffusero le voci che i concorrenti mercanti italiani lucravano nel commercio della lana e pretendevano il monopolio dal Parlamento, li denunziarono come sodomiti, ebrei e saraceni e li bandirono da questo commercio. In questo periodo Chaucer aveva lavorato e viaggiato verso Genova con mercanti italiani per negoziare la disputa insieme a John Gaunt uno degli coloro che si opponevano ai monopolisti.
Secondo l’autrice del libro la “inglesità” di Chaucer va trovata nella sua capacità di saper negoziare ed operare a livello europeo. Egli, oltre che un controllore doganale del commercio della lana, fu anche operatore in questo settore commerciale. Fu in contatto con operatori economici come l’italiano Matthew Janyn, noto finanziatore del Re. Richard Lyons, Jacobi Provan e John de Mari sono nomi noti in questo ambiente, sono a lui collegati in scambi economici e commerciali negli anni dal 1374 al 1385.
Geoffrey Chaucer ha poco a che vedere con la tranquilla immagine riprodotta sui molti libri scritti su di lui. Possiamo oggi immaginare la sua giovanile presenza per le strade affollate della Londra del tempo, oppure quando attraversava a piedi i Pirenei, maturo diplomatico conoscitore della poesia italiana a Pavia, ammiratore degli affreschi di Giotto a Firenze, cortigiano della Regina di Boemia, l’uomo diventato marito di una donna di Hainaut di nome Philippa.
Un poeta che oltre che occuparsi di storie e di poesia, seppe anche scrivere sui mercati di Bruges e Parigi, sui tiranni della Lombardia e sui cortigiani cinesi di Gengis Khan. Sognò, persino, di viaggiare nello spazio, si nutrì di letture di Ovidio, Boezio, Dante, Machaut e Boccaccio. Ebbe una immaginazione ed una fantasia oltre ogni limite. Chiamare Chaucer “padre della letteratura inglese” è certamente riduttivo. Egli fu uno dei più grandi uomini di cultura europea.
Avrebbe di certo compreso, anche se, forse, non accettato, le indecisioni sulla Brexit che tormentano oggi i suoi connazionali, a distanza di diversi secoli, nel loro atteggiamento nei confronti dell’Unione Europea. Il suo essere tanto inglese quanto europeo, in un tempo in cui non si poteva ancora parlare di Europa, evidenzia, a mio modesto parere, il senso di quello che si intende comunemente per “Englishness”: una insularità che non ha più nulla di isolazionismo o individualismo, come avrebbe potuto avere un tempo. Se mai, questo sentimento, ci sia davvero stato.
Si tratta, piuttosto, di una tendenza che spinge verso l’appartenenza. Un’isola con i suoi abitanti e le loro idee che spingono inevitabilmente verso “il continente” al quale, comunque, l’isola appartiene. Ogni isola, ed ogni isolano, soffre di queste tensioni. Non può essere diversamente con Britannia. Rileggere Geoffrey Chaucer a distanza di oltre mezzo secolo da quando lo conobbi sulle dispense universitarie del prof. Elio Chinol, al mio ritorno “a casa” sul continente, dopo oltre due anni di lavoro e di studio sull’isola di Amleto, ha avuto per me il significato di una vera e propria “riscoperta” in chiave moderna ed attuale del significato che siamo soliti dare a queste due parole: “Englishness” e “Europeanness”.
Un confronto, un dissidio, una sfida, un paragone, chiamatelo come volete, tutto in nome di un altro termine che è alla base di tutto: identità. Non poteva essere diversamente con l’isola sia di Albione che di Amleto. Geoffrey Chaucer possedeva sia l’una che l’altra: era inglese ed europeo. Non sarebbe potuto essere un inglese se non fosse stato europeo. Alla stessa maniera di come non sarebbe potuto essere europeo senza essere prima un inglese.

Published on March 31, 2019 11:19
March 21, 2019
"Il Prigioniero" liberato

“Chi”- Gino De Filippo
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“Cosa”- Comunicare. Il mezzo è il suo messaggio
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“Quando”- Per i suoi novant’anni: tra un secolo/millennio e l’altro
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“Dove”- Sarno, nella Valle dei Sarrasti
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“Perchè”- A futura memoria
Per merito delle Edizioni “Tipolitografia Buonaiuto” di Sarno e per volontà del suo titolare Luigi, è in uscita una ristampa anastatica del libro “Il Prigioniero” di Gino De Filippo, in un numero limitato di copie non venali.
L’idea di questa pubblicazione nacque qualche mese fa, precisamente l’8 dicembre scorso, quando un gruppo di amici si ritrovò a festeggiare “Masta Gino”, non soltanto poeta e scrittore sarnese, ma anche tante altre “cose”, in occasione dei suoi novanta anni.
Si scoprì che di tutti i libri da lui pubblicati nel corso degli anni, soltanto questo, il primo, uscito nel 1968, non era reperibile. Pochi ne avevano memoria. Nacque così l’idea della ristampa che oggi, in un viaggio a ritroso nel tempo, segna l’inizio di un percorso esistenziale legato alla creatività di un “prigioniero” che d’allora non si è mai fermato nel suo cammino lungo i sentieri della comunicazione.
Gino De Filippo, come ebbi modo di scrivere qualche anno fa in un mia breve antologia intitolata “Alle Falde del Monte Saro” contenente una sintesi dei suoi lavori, ha continuato a scrivere e continua a farlo instancabilmente. Giorno dopo giorno cresce il numero dei “quadernoni” pieni di poesie, racconti, pensieri, accuratamente raccolti e conservati, in attesa di essere letti a futura memoria.
Ho avuto modo di leggerne alcuni. Sono la memoria viva di un uomo che, in lingua o in vernacolo, continua a parlare a se stesso e al mondo. Ci sarà mai qualcuno capace, ed anche disposto, a raccogliere l’invito che viene da queste carte a leggere e condividere questi pensieri che testimoniano il vissuto di un Uomo che ha sempre aspirato a fare della sua scrittura un’avventura? Ci sarà qualcuno disposto a liberare “Il Prigioniero”? Quello che segue è il testo della presentazione del libretto che ho scritto per questa nuova edizione.
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“Questo libretto contiene 29 brevi composizioni poetiche, quattro tempere dell’autore ed una breve premessa firmata dal critico Lanfranco Orsini. Venne pubblicato nella collana di un piccolo ma noto editore del tempo, appassionato di poesia e lui stesso apprezzato poeta in quel di Cittadella, in provincia di Padova. La data risale al 1968. Una distanza di mezzo secolo ci separa dalla sua pubblicazione.
Bino Rebellato editore è scomparso da tempo, ma l’autore di queste poesie è appena entrato nei suoi novanta anni. Continua a trascorrere i suoi giorni “alle falde del monte Saro”, a Episcopio, una frazione della Città di Sarno, nella antica Valle dei Sarrasti. Nei giorni scorsi alcuni amici lo hanno festeggiato e per l’occasione hanno dato luogo ad un piccolo “amarcord”. Amici, conoscenti ed estimatori di “Masta Gino” si sono ritrovati ed hanno potuto rendersi conto di quanto forte, esclusiva e speciale sia la vena creativa e comunicativa di questo uomo del Sud che si è fatto da sè.
Il critico Lanfranco Orsini, nella breve premessa al libretto che presentava ai lettori del tempo le sue poesie, scriveva che era il suo primo libro di liriche pubblicate all’età di trentacinque anni. Sembra volesse quasi dubitare che, a quell’età, l’amore per la poesia potesse durare. “Generalmente i poeti pubblicano la loro prima raccolta molto più giovani, essendo la poesia, in coloro che la coltiveranno per tutta la vita e in coloro che l’abbandoneranno poi per la prosa (della vita, o della letteratura) una manifestazione e un amore che si rivelano nella giovinezza o addirittura nell’adolescenza”.
Così si esprimeva il critico, pur avvertendo che il De Filippo “fin dai quattordici anni ha cominciato a scrivere versi e a dipingere”. A distanza di oltre mezzo secolo Gino De Filippo, oltre che scrivere versi e prose, non ha mai smesso di “comunicare” in tutti i modi possibili. Nessuna scuola, accademia o ideologia avrebbero mai potuto insegnargli la sua arte. Il buon Lanfranco Orsini non avrebbe mai potuto immaginare di vedere qui commentata la sua breve premessa a quelle 29 poesie mezzo secolo dopo.
Nè tanto meno il “Caronte II”, in un numero datato 25 luglio 1965 del mitico settimanale letterario “La Fiera Letteraria” (alias Antonio Barolini) avrebbe potuto vedere confermato quello che aveva scritto sul giornale, in risposta ad una lettera che Gino gli aveva scritto a proposito di certi suoi “sconforti” che purtroppo sono di tutti i poeti. “Bisogna tener presente che la poesia nasce dalla “necessità di trovare un compenso”, ossia dal desiderio di “integrarsi”. E aggiungeva: “Questo significa che il più delle volte al poeta manca qualcosa e da questa consapevolezza nasce la poesia”.
Insomma era un “buon poeta”. Questa la conclusione. Di allora, mezzo secolo fa. Cosa avrebbero potuto/saputo aggiungere oggi, al vedere tutto quello che è stato capace di “comunicare” nei tanti modi, come ho avuto modo di scrivere in una breve antologia che raccoglie alcune delle sue tante opere pubblicata nel 2008 e intitolata “Alle falde del Monte Saro: il libro di Gino”. Se guardiamo con attenzione le quattro tempere dell’autore che contiene il libretto con le 29 poesie, e se le confrontiamo con le immagini di soltanto alcune delle opere così come riprodotte nella mia antologia, ci si potrà rendere quanto grande, vasta, ricca e variata sia stata la creatività del “buon poeta”.
Il suo vero amore non è stata la poesia, la pittura, la grafica, l’intarsio, la progettazione, il disegno, con il dialetto o l’italiano, la penna, la matita o il pennello, e nemmeno con la “cazzuola” del “mastro”. Il suo principale “amore” è stata la comunicazione. Anzi “la necessità di trovare un compenso”, ossia quel desiderio di “integrarsi” di cui parlava Barolini. Ma lui, Gino De Filippo, non sapeva che non sarebbe mai riuscito ad “integrarsi”.
I suoi quaderni, pieni di poesie, appunti, pensieri, ricordi, le sue continue memorie scritte sugli infiniti fogli dei giorni dei suoi anni, le sue tante tele e tavole colorate, smarrite nelle pieghe del tempo lo hanno tenuto “prigioniero” di se stesso, in una “prigione”, però, che continua felicemente a tenerlo vivo. Questo libretto lo testimonia. Grazie all’Editore Gino Buonaiuto.”
P.S. Prossimamente, presso la sala della Biblioteca Comunale di Sarno, Villa Lanzara, durante la cerimonia della presentazione del libro, chi è interessato potrà ritirare gratuitamente una copia sia di questa nuova edizione de “Il Prigioniero” che dell’antologia “Alle Falde del Monte Saro”, sino ad esaurimento delle copie.

Published on March 21, 2019 08:06
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Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one.
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