Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 106

February 4, 2019

Alla ricerca dell'arte tipografica mai perduta



Sono un dinosauro digitale, figlio di una famiglia di stampatori e tipografi meridionali. Non potevo non avere tra le mani questo libro per ricordare anche il luogo e il tempo di quando mio Padre mi insegnò a leggere e scrivere con i caratteri mobili nella stanza della composizione della nostra piccola tipografia. Adesso che lo sfoglio mi rendo conto di come i cinquecento anni che intercorrono tra Gutenberg e noi equivalgono alla manciata di anni che mi divide dal mio tempo vissuto nella tipografia di famiglia a Sarno, nella Valle dei Sarrasti. 
Questo oggetto chiamato libro è davvero un corpo vivo per chi, guardando queste stupende fotografie, rivive quei luoghi dove l'arte tipografica si è realizzata, materializzandosi in una realtà che viene magicamente ritrovata. Ho avuto la possibilità, che chiamo anche piacere, di sfogliarlo insieme ad altri due amici più giovani di me, tipografi anch'essi, legati a quel mondo antico chiamato "Arti Grafiche". 

Uno, tipografo ed editore di oggi, figlio di uno dei tanti allievi di mio padre, come anche l'altro. Sfogliando le pagine di questo libro intitolato "Tipoteca: una storia italiana", ogni immagine, ogni macchina, ogni situazione, ogni carattere, diventava una loro storia, un loro ricordo. Gli editori non avrebbero potuto scegliere per sotto titolo una frase migliore di questa. Giustamente riempie la loro esperienza di orgoglio per una ricerca mai perduta nel tempo. Continua a vivere ancora oggi a distanza non di mezzo secolo, bensì di mezzo millennio. 
Una famiglia di tipografi salva gli strumenti di questa antica arte. Diventa museo e realtà editoriale. Una vera e propria missione quella dei Fratelli Antiga, nel piccolo paese della provincia di Treviso chiamato Cornuda. Tutto comincia nella prima metà degli anni sessanta, per una innata vocazione e una buona competenza; dare vita ad una attività che in breve tempo sarebbe diventata espressione del così detto miracolo economico del Nordest. 

All'inizio degli anni Settanta, l'arrivo delle nuove tecnologie sconvolsero il mondo della comunicazione e ovviamente anche quelle della stampa. Il mestiere che era rimasto immutato per cinquecento anni, in pochi decenni si trasforma e trascina nell'oblio la storia e gli strumenti di ciò che era la manifestazione pratica di diverse qualità artigianali. 
Le "Arti Grafiche" si stavano trasformando, sotto la spinta dei nuovi media, in qualcosa di profondamente diverso. Fu lo scotto che dovettero pagare mio Padre con i suoi fratelli delle "Arti Grafiche M. Gallo & Figli", sotto gli attacchi non solo del tempo, ma anche della realtà umana ed economica del meridione, oltre quella della incacapacità di anticiparla e leggerla come una che sarebbe stata diversa. 
La famiglia Antiga, invece, non fu indifferente al cambiamento del sapere e dell'ingegno. Seppe reagire rinnovandosi e diede vita ad una fondazione con la missione di salvare e promuovere il patrimonio storico della tipografia italiana. Cominciarono a viaggiare da nord a sud d'Italia, verso luoghi e dialetti sconosciuti, per recuperare macchine, caratteri e matrici dell'antico mestiere. Archiviarono tutto quanto era possibile di quelle arti per difendere e conservare il vecchio sapere affiancandolo al nuovo. 


Diedero vita ad una rivoluzione solenziosa che si era evoluta ed era diventata un'altra realtà. Crearono un luogo dove si conservano antiche macchine da stampa, migliaia di stili di piombo e legno, documenti e testimonianze degli uomini della tipografia. Insomma, diedero vita ad un museo della realtà culturale  frequentata da appassionati e studiosi da tutto il mondo, per conservare e scoprire le origini di quelle arti che sono alla base della comunicazione sia antica che moderna.
L’arrivo del computer non ha ha rimosso il passato glorioso. La sintesi è in questo volume stupendo, diventa racconto di «carattere» del patrimonio tipografico del nostro Paese. Il volume rivela fin dalla sua veste grafica, nell’era della comunicazione e dell’editoria digitale, la piena attualità del lavoro del tipografo. Alla redazione del volume hanno collaborato nomi di caratura internazionale: tipografi, designer, docenti di grafica, di letteratura, storici dell’arte, editori, bibliofili, collezionisti. 

I loro contributi offrono uno sguardo poliedrico e colto su una realtà affascinante, non sorpassata, ma trasformata. Cambiamenti della tecnologia estremamente rapidi e radicali, guidati dalle logiche dell’industria e del mercato che tendono a sostituire, a scartare il vecchio e concentrare il pensiero sull’oggi e sull’immediato futuro. 
Le ragioni della memoria forse vorrebbero tempi di maturazione molto più lenti. Forse non è sempre bene tagliare i ponti con il passato. Ma tant'è. La prova è questo libro che oltre ad essere scritto in italiano, ha anche il testo in inglese. Un respiro quindi che va oltre i limiti nazionali.
I fratelli Antiga, «con una tenace e paziente opera di resistenza attiva», hanno dato una risposta concreta a nuove esigenze. Non soltanto con la conservazione. La Tipoteca di Cornuda, infatti, stampa ancora per sé e per altri. Perle editoriali. Il volume è uno stimolo alla visita del regno degli Antiga. Che accolgono volentieri studenti e appassionati. 
«Quando si varca la soglia della Tipoteca si entra nella fabbrica dei libri, una fabbrica silente, scrive Arnaldo Loner, collezionista di stampe antiche e libri rari. Le macchine sono silenziose ma non morte o inanimate. Perfettamente in ordine, lucide, ben oliate; sembrano in attesa di riprendere il lavoro. Dal torchio con la vite di legno alla Monotype, il mondo della stampa si apre alla nostra conoscenza».

Confesso che sfogliando queste pagine, rivivo quel tempo vissuto tra le mura della nostra Tipografia in Piazza Municipio a Sarno. Il mio pensiero ritorna a quei giorni del primo, difficile dopoguerra, alle condizioni economiche non facili, alle lunghe ore di lavoro che mio padre trascorreva impiedi su quella macchina a far scorrere fogli e fogli su quelle "forme" composte di caratteri sui quali erano passati i cilindri impregnandoli di inchiostro. 
Come fai a non ricordare quando mettevo insieme i caratteri di legno per formare le parole e mi sporcavo le mani, ma ero contento di avere imparato qualche parola nuova?  Nelle narici avverti ancora il profumo (!?) sia dell'inchiostro che del petrolio. Memorie che non si cancellano tanto facilmente. Chi legge potrà ritrovare nel mio libro "Il Figlio del Tipografo" un tempo che non è andato mai perduto. 
Un libro stampato da un moderno editore figlio di un ex-allievo di mio Padre che mentre sfogliava questo libro, mi sapeva dare un nome ad ogni macchina, a ogni stile di carattere, riportando alla memoria a sua volta le fatiche ed i ricordi del suo genitore. Grazie ancora agli editori, stampatori e scrittori di questo libro per averci permesso di ritrovare ul tempo che non è stato mai perduto. 

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Published on February 04, 2019 08:50

February 2, 2019

Facebook ha quindici anni

15-years old Egyptian student discovers glitches in Facebook

La domanda è: quindici anni di Facebook ci hanno fatto migliori o peggiori di quello che eravamo quindici anni fa? Il 4 febbraio dell'anno del Signore 2004 nacque un "bambino" con un nastro azzurro in un dormitorio all'Università di Harvard. Ricordo vagamente quando, qualche tempo dopo il lancio della piattaforma, con tutti i dubbi, le incertezze e le incognite del caso, mi iscrissi alla nuova piattaforma. Se ne parlava sui giornali, ma nessuno avrebbe immaginato quello che poi sarebbe diventato.

Non ero un novellino di luoghi cosidetti "social". Avevo una esperienza quasi decennale alle spalle, fatta sempre nel campo dei libri. Avevo anche frequentato un corso tenuto online tenuto a pagamento dall'Università di Londra sulla Formazione Digitale, sapevo quindi come muovermi in questi spazi. 
La Rete mi aveva attirato nei suoi fili, tuttora ne sono accalappiato e non credo potrò mai liberarmene. Molti si chiedevano quanto tempo sarebbe durato. A distanza di quindici anni ci chiediamo quanto durerà ancora e come cambierà. Me lo chiesi in un post che scrissi su questo blog quando il "bambino" compì dieci anni. Al link potrete rileggere le considerazione che feci al tempo.
Il bambino è diventato quasi adulto ormai, ha cambiato non solo l'America dove è nato, ma il mondo intero. E' vero, sono nati altri "bambini social" che cercano di frenarlo, possiamo dirlo, senza riuscirci. Va segnalato, infatti, che uno dei suoi possibili concorrenti, gestito e posseduto da un suo terribile concorrente, G+, ha annunziato la sua chiusura. 
Un compleanno come questo ci offre l'occasione di fare qualche utile considerazione sui cambiamenti e le mutazioni nelle abitudini, nei modi di pensare e interagire che Facebook ha avuto su tutti noi.  Ci sono stati principalmente diversi cambiamenti nei nostri comportamenti da quando Facebook, e con esso gli altri social, si sono impadroniti delle nostre abitudini. 
Facebook ci ha fatto sentire tutti più giovani, facendoci ringiovanire con la passione per tutto ciò che appare. La fotografia è diventata una vera e propria droga sociale. Scomparse, o quasi, le macchine fotografiche, divorate dai cellulari, la mania per le immagini è diventata globale. E' nata una economia chiamata la "me-economia" che ha messo al centro del mondo il nostro io.
Non si tratta soltanto di scambiarsi dei momenti di vita. In una immagine c'è tutto un mondo di sentimenti, passioni, amori, narcisismo, inganni, tradimenti, dolori e passioni che non solo ci accompagnano, ma ci annientano anche, mettendo a nudo la nostra realtà che non risulta poi essere sempre tanto bella. 
Ma tutto ciò  ha generato anche ansia, insicurezza, oscenità, paure, depressione. Facebook, con gli altri social e con tutta quella figliolanza che hanno generato, le cosi dette "app", vere e proprie estensioni della piattaforme sociali, hanno fatto il resto.
Era inevitabile che ci fossero forti ripercussioni di ordine psicologico, sociale e culturale specialmente nei giovani. L'interazione umana è stata completamente alterata. La messaggistica sociale ha sostituito quella reale e personale. Un altro profondo cambiamento è l'idea di "privacy" la quale, se prima era "privata" per definizione, ora è diventata sempre più pubblica. 
I "likes" e i "dislikes", i nomi ed i cognomi, veri o falsi, le intimità, gli esibizionismi, le comunicazioni, le esternazioni, le improvvisazioni, il flusso continuo di una comunicazione inarrestabile, incontrollata: non sai più distinguere il vero dal falso.
Tutto questo pensatelo in forma di dati, vi accorgerete che i social, sono diventati delle vere e proprie banche contenenti ricchi, preziosissimi dati che ognuno di noi offre gratuitamente al primo social nel quale decidiamo di entrare. Sono ormai quasi tre decenni che navigo in Rete, almeno un terzo della mia vita è quindi "digitale". 
Navigando, capita spesso di imbattermi in spazi che conservano qualche mio scritto, immagine, pensiero o altro, completamente dimenticati. Nulla scompare nella realtà digitale, anche se non è sempre possibile scovarlo.
Questo "tempo-spazio" non l'ho venduto, nessuno l'ha comprato, è stato regalato alla Rete, a Facebook, a Google. Lo abbiamo messo a disposizione di chi sa come muoversi tra quelle entità che chiamiamo "bits & bytes". 
Ne volete un esempio? Due anni fa, una astuta piattaforma, anche essa social, non a caso chiamata My Social Book, mi ha stampato in cartaceo tutto ciò che ho scritto e pubblicato in un anno su Facebook: "il libro della mia vita". 
In soltanto pochi attimi, facendo seguito al mio ordine, sempre online, l'app ti propone la stampa di un libro con una selezione automatica dei tuoi pensieri ed immagini. Momenti virtuali e digitali immediatamente versati su carta ed inviati al committente via posta a casa dietro pagamento. Non ho capito bene in quale parte del mondo fisico e reale questa gente lavora, calata nel mondo virtuale. Il servizio è offerto in tutte le lingue. Vi pare poco una cosa del genere?
Ma Facebook è stato anche molto altro in questi ultimi quindici anni. Pensate al tipo di comunicazione che riguarda quella vera e propria arte che si chiama la "politica". Machiavelli credo ne sarebbe stato entusiasta. Fb, come tutti gli altri social, è diventato il messaggio. Si è avverato platealmente quello che previde Marshall McLuhan oltre mezzo secolo fa: "il mezzo è il messaggio". 
Tanto per Donald, quanto per Matteo o Giggino, da questa o da quell'altra parte del pianeta, un continuo rimbalzare di comunicati, interviste, discorsi, notizie vere o false, condivise o respinte. Informazione, disinformazione, controinformazione, ognuno può dire quello che pensa, sentirsi quello che non è, proporre quello che non sa, scegliere quello che non capisce. 
Dopo soltanto quindici anni, questo "giovanetto sociale" è riuscito a cambiare il mondo. Per il meglio o per il peggio? Difficile dirlo. Folte sono le schiere dei sostenitori e degli oppositori a questo tipo di mondo e di vita vissuta "socialmente" legata e condizionata da una tecnologia che è sempre più invadente, fredda ed aggressiva, al servizio di un mercato sempre più avido di denaro e di potere. 
Difficile prevedere cosa accadrà quando Facebook diventerà grande, diciamo avrà venti, trenta anni. Il che significa prevedere, pensare il futuro. Uno sport nel quale nella storia del campionato del vivere, gli uomini hanno sempre perso la partita. Il futuro non si costruisce, non si prevede: accade. Nel momento stesso in cui questo succede, è già passato. 
Sul giornale oggi c'era una notizia interessante: una segretaria che lavorava in uno studio medico è stata definitivamente licenziata con sentenza della Corte d'Appello per avere trascorso troppe ore su Facebook durante le ore di lavoro. Sarebbe bene che il suo datore di lavoro le spiegasse una buona volta la differenza tra vita reale e vita digitale. Una doppia vita comporta i suoi rischi ... 
P.S. Nella immagine il giovane quindicenne egiziano premiato da Facebook per avere scoperto alcune falle nel sistema.



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Published on February 02, 2019 05:37

January 29, 2019

Review: Life in the English Country House: A Social and Architectural History

Life in the English Country House: A Social and Architectural History Life in the English Country House: A Social and Architectural History by Mark Girouard
My rating: 4 of 5 stars

Il mio è un rapporto tanto particolare quanto personale quello che ho con le "Country Houses" inglesi. Tutto nasce da lontano, al termine del corso degli studi universitari all'I.U.O.di Napoli nel secolo e nel millennio trascorsi. Un lavoro di traduzione, una "scoperta" che feci nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Mi ricorda i migliori anni della mia vita da studente in quella straordinaria città.
Mio padre tipografo, mio zio editore, ed io medesimo, conoscemmo una persona straordinaria che lavorava in quel posto dedicato ai libri. Era la dottoressa Talò alla quale devo, tra tante altre cose, anche la fortuna di avere scovato per me, in quel paradiso dei libri che è quella biblioteca, i quattro volumi dei dell’economista inglese Arthur Young.
Quei libri facevano parte della collezione privata della biblioteca dei Borboni direttamente fatti arrivare da Londra, con speciale dedica. Su di essi ho avuto la possibilità di redigere la mia tesi di laurea ed effettuare poi le successive ricerche per la borsa di studio quadriennale ministeriale sulla Rivoluzione Agricola Inglese sotto la guida di quell’indimenticabile Maestro e Anglista che fu Fernando Ferrara.
Quei volumi profumavano d’Inghilterra e della sua storia, ma anche di un odore napoletano e borbonico. Ecco dove mi ha condotto la lettura di questo libro a distanza di oltre mezzo secolo. Arthur Young nella stesura dei suoi resoconti sulla Rivoluzione Agricola non mancò di occuparsi delle tante Country Houses che facevano parte di quella realtà agricola terriera che stava attraversando la più grande rivoluzione della storia di quel Paese.
Una rivoluzione tanto importante quanto necessaria da conoscere. Precedette e condusse a quella altrettanto rivoluzionaria, che va sotto il nome di Rivoluzione Industriale. Il caso, ma non solo questo, ha voluto che la prossima estate mi si è data la possibilità di seguire un ennesimo corso di studio su questo argomento durante una Summer School al Marlborough College, in Inghilterra.
Le etichette che ho assegnato a questo libro identificano la qualità del libro. Un caso personale di bibliomania, ma anche di identità della storia di un popolo vista in un determinato periodo che va dal Medio Evo e che continua ancora oggi anche se in maniera diversa. Microstoria che diventa storia, in un passato che per la penna di chi scrive diventa un piacevole viaggio nel tempo toccando temi che sono trasversali ed anche universali.


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Published on January 29, 2019 13:38

January 28, 2019

πάντα ῥεῖ digitale


Dalla balconata di Villa Cimbrone in Costa d’Amalfi si ha la conferma che tutto scorre. I seguaci di Eraclito (V-VI sec. a.C.) esprimevano l’eterno divenire della realtà, paragonando quest’ultima a un fiume che solo apparentemente rimane lo stesso. Invece ogni cosa continuamente si rinnova e si trasforma. Non è dato tuffarsi più di una volta, perché la seconda volta non è lo stesso fiume della prima.
Questa concezione costituisce l’antitesi di quella dell’assoluta, eterna unità e immutabilità dell’essere, affermata dalla scuola eleatica. Sono trascorsi millenni e le cose sembrano continuare ad andare in questa maniera.
Qualcuno, non di poco conto, Zygmunt Bauman, in epoca recente, si è calato in questo flusso continuo e ha confermato che la corrente di quel fiume di cui parlava Eraclito era e continua ad essere “liquida”: la metafora della nostra modernità.
In questo post desidero parlare di come questa antica “liquidità” mi abbia coinvolto sempre di più. Sin da quando sono nato, ho imparato a leggere e scrivere e ho continuato a navigare, nella corrente ed anche contro corrente, in questo fiume di realtà che continua ad essere la vita umana.
Ho subìto ed affrontato trasformazioni. Posso dire di avere le prove in maniera diretta e personale, non solo come protagonista, ma anche come testimone, personaggio ed interprete di me stesso. Io, come del resto tutti gli altri, consapevoli o no, di essere nella corrente.
Me lo consente il tempo trascorso nella continua sensazione di essere in quel flusso e di essere inseguito dalla segreta, interiore necessità di connessione non solo con me stesso, ma anche con gli altri e con tutto ciò che ci circonda.
Anche quando sembra di essere “asciutti”, fuori dall’acqua che continua inarrestabile il suo corso, in solitudine, fuori dal mondo, siamo immersi in essa. Sempre parte di una realtà che continua a scorrere mentre ci cambia.
L’esperienza della Rete me lo conferma. Son passati, ormai, oltre trenta anni da quando scoprii quella realtà che venne chiamata “ipertesto” sulla quale il mitico Commodore 64 costruì il suo successo e fece diventare l’informatica quasi uno sport popolare di massa, cambiando in breve tempo il nostro modo di vivere.
Il mio, in particolare, ho avuto modo di viverlo disseminando in Rete innumerevoli tracce del mio vagare. Forse questo termine può sembrare riduttivo, se penso a quanto mi sia stata utile l’esperienza culturale che ho maturato in questi ultimi decenni.
Tutte tracce digitali, tante da dimenticarle perchè troppe e tutte sperimentali. Non è d’altronde un mistero, per chi è diventato un navigatore di questa realtà che nessuno aveva previsto una realt di questo tipo se non con una terminologia quanto mai vaga ma tanto interessante quanto inquietante: MONDO NUOVO che è poi quello in cui mi ritrovo oggi, su MEDIUM.

Io, blogger, vero e proprio “dinosauro” che ha navigato per molti fiumi, sono sfociato in diversi mari, poi rientrato in diverse acque da poter dire, non senza timore, di essermi smarrito, ma anche di non aver mai perduto o svenduto se stesso.
Una realtà nuova, diversa, evanescente, cangiante, sempre “liquida”, appunto, ma che non ti “bagna”, però ti cambia, senza che tu neppure te ne accorgi. Credi che non sia successo nulla ma poi, improvvisamente, senti che qualcosa in te è cambiato e avverti la necessità di andare oltre.
Si spiega soltanto vagamente perchè io, qualche anno fa mi iscrissi a questo sito, una piattaforma di scrittura che vuole essere diversa dai soliti siti, blog o luoghi dedicati alla scrittura digitale. Ci rimasi per qualche tempo, litigai con alcune gentili operatrici del sistema e cancellai tutto quello che avevo scritto. Vi sono ritornato, nella sezione internazionale in lingua inglese.
Scrivo sia in italiano che in inglese, convinto come sono che soltanto scrivendo si capisce quello che si pensa. Cerco di farlo nelle due lingue che conosco. Una piccola quota annuale di iscrizione protegge la qualità del mio impegno e mi mette in condizione di condividere al meglio esperienze comunicative navigando in molti “fiumi”, bagnandomi in “acque” diverse, con il solo intento di capire me stesso e il mondo. Una vera e propria UNIDEADIVITA
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Published on January 28, 2019 09:01

January 25, 2019

Una persona ragionevole. Chi l'ha visto/a?


Può essere tanto maschio che femmina, la persona ragionevole dovrebbe sempre esserlo. Al giorno d'oggi diventa, però, piuttosto difficile incontrarla. La ragione è che sono diversi gli standard di riferimento. Se non è sempre possibile stabilire cosa sia la ragione, sempre quasi impossibile è accertare cosa sia la ragionevolezza. 
Qualcuno potrebbe pensare che la persona ragionevole è la persona comune, quella che in lingua inglese viene detta "the man in the street", l'uomo della strada, il quale si rifà sempre a quell'altro stereotipo che passa sotto la frase "common sense": il senso comune dell'uomo della strada. Come capirete siamo sempre nel vago e nell'opinabile, se non strettamente nel pensiero soggettivo e personale. 
Potremmo dire, allora, che la persona ragionevole è colui/colei che non fa cose irragionevoli. Qui saremmo nell'area di chi dovrebbe fare delle cose "ideali". Ma queste cose, per definizione, si oppongono a quelle reali. E così ritornamo al punto di partenza. Trovare colui/colei che riesce a fare "cose" con buone conseguenze, seguendo norme morali. 
Questa persona dovrebbe, quindi, essere oltre che buona, anche comune, che non crei problemi agli altri, anche se cerca di risolvere qualche suo problema. La ragionevolezza appare così manifestarsi non come una misura statistica ed empirica nel comportamento pubblico ma, piuttosto, come una misura normativa, un comportamento di qualcuno, giustamente adottato, per risolvere un suo problema. 
Non ci può essere, allora, niente di comune, perchè cadremmo nell'astratto. Non tutti sarebbero disposti ad accettare questa idea. In un tribunale i fatti sono valutati e giudicati in base alle leggi. Ma la domanda è: sono queste leggi tutte ispirate da principi "ragionevoli"? Non si direbbe se pensiamo che ogni popolo, ogni paese ha le sue leggi. Il che significa che il senso "comune" può anche essere "fuori" del comune, e l'uomo può anche non essere in "strada", è rimasto a casa. 
Ma, allora, chi è davvero una persona ragionevole? Una persona ideale, che vive nel regno dell'utopia, una concezione antropomorfica che spera di impersonare la giustizia? Non credo la pensino così gli uomini di legge, i politici nè tanto meno l'uomo/la donna comune. 
La persona ragionevole è un essere "ibrido", una mescolanza di ciò che è comune e ciò che è buono. Forse. Auguriamoci di averci a che fare. Temo che sia molto difficile.


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Published on January 25, 2019 09:02

January 6, 2019

Coincidenze significative: sapete l’inglese?


Quando stamattina la deliziosa Angela mi ha dato i giornali del mattino (anche se sono un “dinosauro digitale”, leggo ancora in cartaceo) ho incrociato un caro collega, apprezzatissimo docente di lingua e letteratura italiana, nonchè giornalista e scrittore, il prof. Franco Salerno che prendeva i suoi. Mi ha detto che c’era qualcosa sul supplemento 7 del “Corriere” che mi riguardava. Beppe Severgnini proponeva nel numero del settimanale da lui diretto, un auspicio per il nuovo anno: imparare bene l’inglese. Ho sorriso, ci siamo dati gli auguri. A casa ho scattato questa immagine sul mio pc … Si è messa in moto la macchina dei pensieri … Son passati oltre sessanta anni da quando intuii che l’inglese sarebbe diventata la “lingua del mondo”. C’è sempre qualcuno che dice che bisogna imparare l’inglese, e impararlo bene … Dovrò scrivere qualcosa in merito … questo è soltanto un assaggio … Buona giornata a tutti!
Questo è il messaggio che ho postato sulla mia pagina di Facebook. Devo dare corso ai pensieri a seguito di questo incontro dovuto a quelle situazioni che, di solito, vengono chiamate “coincidenze significative”. Se non ricordo male, proprio il prof. Franco Salerno, in anni ormai lontani, deve avere scritto uno dei suoi tanti libri proprio su questo argomento. Sia come sia, l’incontro ha dato la stura ai miei ricordi.
Con Franco Salerno siamo stati colleghi di insegnamento al Liceo di Sarno dove tuttora, credo, continua a svolgere la sua quanto mai apprezzata attività didattica di docente di italiano e di lettere classiche. Negli anni novanta è stato insegnante di mio figlio (e di sua moglie) in un momento molto particolare della vita culturale e sociale del nostro Paese, inteso come Città di Sarno, nella Valle dei Sarrasti, e il Paese Italia.
Una conoscenza di altri tempi, risalente agli anni del dopoguerra, quando i rumori delle attività provenienti dalla Tipografia di mio Padre si incrociavano con i profumi provenienti dalla Pasticceria di suo Padre in quel retro-cortile antistante Piazza Municipio. Lo spazio temporale di trenta anni che va dagli anni sessanta alla fine degli anni novanta. Meriterebbe uno studio serio ed approfondito, sia a livello locale che nazionale. Fu proprio in quegli anni che avvenne la grande trasformazione sulla quale questa “coincidenza” mi ha portato a riflettere:
come la lingua inglese abbia spodestato in poco tempo la presenza non solo del francese e sia potuta diventare “lingua del mondo”.
Non credo sia possibile fare una cosa del genere in un scritto affrettato come questo post. Pensieri che nascono, infatti, da un fortuito incontro di due persone che si conoscevano bene un tempo, occasionato anche dalla pubblicazione di un servizio giornalistico sulla necessità di apprendere la lingua inglese. Ho parlato prima di “coincidenze significative” e credo che non sia soltanto questo. Sono in gioco i non tanto felici ricordi dei miei travagliati anni trascorsi in quel tempo, in quello stesso Liceo Ginnasio che mi vide indegno studente di una classicità troppo ingombrante per me.
Bussavano alle porte di un mondo che parlava in inglese per mezzo della tecnologia. Non perchè in quanto inglesi, americani, australiani, ma in quanto personaggi ed interpreti di una rivoluzione nella comunicazione di un mondo diventato improvvisamente non solo piatto ma anche globale. Il buon Beppe Severgnini nel suo settimanale 7 chiede: “Sapete l’inglese?” e aggiunge se lo conoscete davvero “bene”. In questa piccola, minima parola si racchiude la vera essenza del problema.
Conoscere “bene” sia Shakespeare che Trump non è cosa facile, sia ben chiaro. Lui parla di un inglese che non solo è diventata “lingua del mondo”, ma anche una vera lingua “ubiqua”. Pochi sanno che questo aggettivo include l’idea a cui ho accennato prima: un mondo piatto con una lingua globale non può essere che una comunicazione “ubiqua”. Un esempio? Mia nipote, in un liceo di Bologna studia il latino e la matematica in inglese.Chiara Severgnini, (credo che sia una figlia di Beppe) in apertura del servizio su Settimanale 7 così apre il suo reportage
“L’inglese è a portata di mano in TV, al cinema, sugli smartphone, in viaggio. Eppure, in Italia, fatica ad attecchire. La nostra conoscenza della lingua migliora, ma lentamente. I motivi? A scuola si fa troppa grammatica. I professori che cercano di innovare non vengono incentivati abbastanza. E i fondi scarseggiano”. Segue il titolo di apertura del servizio: “Siamo ignoranti in Inglese?
Oggi, anno del Signore 2019, siamo ancora agli anni sessanta quando mi bocciarono in latino e in greco, preferivo il francese, non potetti studiare l’inglese perchè non esisteva. Lo imparai in Inghilterra, a nord di Londra, in un … ospedale mentale! Che tempi! Sono sicuro che andrà meglio per mia nipote Chiara …
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Published on January 06, 2019 10:40

January 4, 2019

Per un futuro stoico: cinque anni di domande e risposte

Ogni anno che passa, si consuma un diario. Quello di un giorno, come quello di un anno. Tutta la vita si riassume in un diario in quanto ogni uomo è un libro, ogni libro è un uomo. Vera o immaginaria, digitale o cartacea, ognuno di noi scrive la sua storia. 

Potrà avere la forma di un racconto, una poesia, un romanzo, un saggio, oppure anche una canzone, tanto una melodia quanto una sinfonia, un quadro, una fotografia, una pittura, una scultura. Sia quello che sia, il futuro dovrà avere una sua forma, immaginata, sognata, desiderata da chi scrive su quelle pagine, giorno dopo giorno: che dico? contano anche le ore ed i minuti. 

Non sono altro che momenti vissuti un attimo soltanto, fermati sulla carta del diario. Un diario come questo di cui mi accingo a parlare, che sembra abbia avuto un successo editoriale in tutto il mondo, nelle sue varie edizioni.

In lingua inglese lo hanno chiamato "The Q&A a Day Journal", "Il Diario delle Domande & delle Risposte". Vi chiedono di rispondere ad una domanda per ogni giorno dell'anno. Fin qui nulla di eccezionale.Tutti i diari chiedono cose del genere ed invitano a rispondere invitando il lettore scrittore a riflettere sulla propria quotidianità. 

Ma questo diario si distingue nettamente dagli altri perchè su ogni pagina-giorno dell'anno, chi scrive dovrà dare cinque risposte per i prossimi cinque anni, una per ogni anno. In tre righe potrà rispondere alla domanda che resta sempre la stessa. 

Nello scorrere del tempo il lettore potrà rileggere la sue risposte, confrontare i suoi pensieri nel passato, ipotecare la sua risposta per il futuro. Un modo abbastanza originale per valutare la propria volubilità nei rapporti con se stessi e con il mondo.  Le domande sono quasi sempre delle provocazioni, veri e propri stimoli ed inviti alla riflessione sulle ragioni del proprio essere e rimanere al mondo. 

Faccio un esempio proponendo  a chi legge questa domanda posta il primo giorno dell'anno: ""What is your mission?" in italiano sarebbe "Qual è la tua missione?", quali sono le tue intenzioni con il nuovo anno?. Oppure ancora: "Who are you?" che suona tanto "Chi ti credi di essere?", "Write down five words that describe today" - "Scrivi cinque parole che descrivono questa giornata".  

Il diario si apre con una citazione di Andy Warhol che dice: "They always say time changes things, but you actually have to change them yourself".  "Si dice sempre che il tempo cambia le cose, dovresti essere invece tu a cambiarle". 

Mi pare che ci sia tutta una filosofia affatto semplice o banale su cui hanno costruito questo diario. un invito a vivere i giorni nella non sempre possibile consapevolezza che la vita cambia ogni momento. 

L'arte del diario consiste, allora, nel saper conoscere e controllare i nostri pensieri, la nostra mutevolezza, i nostri cambiamenti, senza perdere di vista la direzione verso la quale stiamo marciando con tutte le nostre speranze, le idee ed illusioni. Per questa ragione ho deciso di seguire questo diario insieme a quello che terrò in rete sulla mia esperienza di stoico.


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Published on January 04, 2019 06:48

December 29, 2018

Tutti parlano, tutti scrivono, nessuno ascolta, nessuno legge


Leggiamo poco, stampiamo troppo. Così ha scritto qualcuno commentando il rapporto appena pubblicato dall’ISTAT per l’anno 2017 sulla produzione e la lettura di libri nel nostro Paese. Io direi piuttosto che tutti parlano, tutti scrivono, nessuno ascolta, nessuno legge. 
Se la lettura e la scrittura sono una logica conseguenza del pensiero, da quello che si legge nel rapporto, dovremmo dedurre che l’invenzione sia della comunicazione cartacea che quella digitale, invece di portare ad un miglioramento delle relazioni, sta causando danni enormi a tutti i tipi di manifestazioni del pensiero umano. 
Intendiamoci, con l’invenzione della stampa a caratteri mobili, mezzo millennio fa, gli uomini hanno attraversato momenti di grande crescita sociale, civile, morale e spirituale. Con l’arrivo, però, della comunicazione digitale, con lo sviluppo inarrestabile e sempre più imprevedibile della tecnologia delle comunicazioni degli ultimi tre decenni, le cose sembrano andare in maniera imprevista. 
Non è che non si pensi, non si legga, non si scriva e non si pubblichi più. E’ che si parla molto, molto di più, ma la gente sembra solo sentire, ma non ascoltare per capire.  Una vera e propria frenesia a parlare si sublima ogni giorno di più in una scrittura che non è più quella di una volta, manuale o a macchina, ma si realizza con un vero e proprio furore comunicativo, digitando su tastiera tutto quello che al momento passa per la testa. 
Si arriva anche a trasformare il pensiero in una comunicazione vocale o video-registrata, trasmessa dallo stesso aggeggio chiamato cellulare. Lo si chiama “messaggio video-vocale”, evitando perfino la tastiera delle varie “tavolette” che sono diventate vere estensioni del proprio corpo. Si è in tal modo evitato totalmente di fare uso del proprio cervello: il bypass digitale!
Se questo è lo scenario comunicativo, la domanda sullo stato di salute del libro e della lettura in Italia, come altrove, avrà una risposta piuttosto preoccupata. Ecco la produzione e la lettura di libri in Italia da cui si possono trarre cifre interessanti: nel 2017 il 41% degli italiani sopra i 6 anni ha letto almeno un libro. Il 59% non ne ha letto neppure uno. 
Spesso quell'«uno» sono le ricette di Suor Germana, o l'autobiografia di un calciatore, o di una showgirl, o un giallo da autogrill. Gli editori sono 1.459 editori, a mio parere anche troppi. I titoli pubblicati circa 62mila all'anno, 130 milioni di copie stampate. I cosiddetti «lettori forti», cioè quelli che leggono almeno 12 libri all'anno, uno al mese, sono meno del 14%. 
Da un sondaggio dell'Istat, sui motivi per cui le persone non leggono, risulta che il prezzo dei libri non c'entra: non si legge per noia, mancanza di passione per la lettura, poco tempo libero a disposizione e preferenza per altre forme di intrattenimento. Leggendo il rapporto dell'Istat si scopre anche che nel 2017 è rimasta invenduta oltre la metà dei titoli pubblicati. 
Cioè, gli editori stampano moltissimo, pur sapendo di non vendere, per due motivi: per ricevere gli anticipi dalle librerie (su libri che non sono stati ancora venduti); e per sperare, nella massa, di imbroccare il bestseller. Tutto il resto, va al macero. Va detto poi il fatto che, nonostante per anni si sia parlato così tanto di ebook e di morte del libro di carta, il libro digitale si attesta su uno scarso 5% di quota di mercato. 
Conclusioni. In Italia si legge sempre meno, ed è inutile chiedersi perchè. I conti economici, tolto un ristrettissimo numero di grandi editori, vanno male per tutti. Si accusa la Scuola di non fare abbastanza; i Comuni e le Regioni fanno fatica a stanziare soldi per iniziative di promozione della lettura. 
E poi ci sono gli editori che tra Milano e Torino bisticciano per meri interessi politici, economici e strumentali che nulla hanno a che fare con il libro e la cultura. La domanda da farsi, in un mondo sempre più tecnologizzato da un punto di vista comunicativo, è: serve ancora leggere in una società in cui pensare sembra che sia diventata un’attività sempre più difficile da praticare? 

Pensare è diventata una opzione: saranno forse gli algoritmi di Google, Amazon, Facebook, Twitter, Instagram e tutti gli altri social a guidarci verso un futuro sconosciuto? In un recente libro pubblicato con i discorsi letti dai vincitori del premio Nobel ci si è posta la domanda: Perché si scrive? Per chi si scrive? Sarebbe anche lecito chiedersi: perchè si legge? A che serve leggere se sono state fatte già tutte le domande e molti ritengono di poter trovare la risposta in un “bit & byte”?
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Published on December 29, 2018 11:53

December 27, 2018

Strani compagni di viaggio i libri


I libri sono compagni per chi ama leggere durante il viaggio della vita. Viaggiano in maniera strana, imprevista ed imprevedibile. Prendete questi due che ho fotografato sul pc. Si ritrovano sul mio Chromebook, un posto dove gli autori non avrebbero mai immaginato potessero incontrarsi. 
Forse Yuval Noah Harari lo avrebbe potuto immaginare, se non prevedere, ma il buon prete sconosciuto Gaetano Volpi, credo, giammai. In questo post intendo spiegare il perchè di tutto questo e perchè i libri possono essere strani compagni di viaggio. Nella breve presentazione che ho scritto sul libretto di Gaetano Volpi, pubblicata sulla mia biblioteca virtuale di GoodReads, ho scritto:
"Non si può mai smettere di dare importanza alla comunicazione su carta che sempre più sta acquisendo un contenuto importante nel panorama tecnologico e mediatico del nostro tempo iperconnesso e globalizzato. Un libro del genere è come un ritorno alle origini perchè si tratta di un libro pubblicato nel 1756 a Padova. Un altro mondo in cui i libri erano considerati oggetti preziosi, da conservare, amare, riservati soltanto a pochi eletti. Questo piccolo volume si colloca a metà strada tra una piccola enciclopedia della stampa e una guida corretta per la conservazione dei libri. Lo scrisse un abate di nome Gaetano Volpi, editore ed esperto delle tecniche di stampa del tempo. Un testo prezioso, una testimonianza dello spirito bibliomane che non è poi così lontano dalla passione e dall'amore che molti editori e lettori anche di oggi continuano ad avere nei confronti di questo oggetto straordinario chiamato "libro". A distanza di secoli dalla sua invenzione continua ad essere per molti di noi un compagno di strada, un sostegno, una finestra sul mondo e su noi stessi, una meravigliosa tecnologia per apprendere, emozionarsi, condividere."
Ma non credo avere detto tutto, come spesso accade quando vuoi parlare di un libro e ne fai una recensione online. Il libretto non lo conoscevo prima che me lo desse mio figlio in occasione delle feste di fine anno. Lui si occupa di comunicazione digitale, l'aveva ricevuto in omaggio in una edizione fuori commercio per il quarantennale di una azienza  tipografica milanese con la quale è in contatto. 
L'occasione è stata quella di festeggiare i loro quaranta anni di attività, il libro è stato "stampato su carta proveniente da foreste gestite in maniera responsabile secondo i criteri standard ambientali, economici e sociali definiti dal Forest Stewardship Council." Non è per pignoleria che riporto tutto questo. Soltanto per far comprendere a chi legge il giusto contesto di questo "viaggio" di due libri nel tempo.
"Varie Avvertenze Utili e necessarie agli Amatori de' buoni Libri, disposte per via d'Alfabeto" si legge nel sottotitolo del libro scritto dal "religioso" Volpi. In copertina viene riportata una delle oltre cento "voci" che l'autore ha creduto opportuno far conoscere ai suoi lettori e clienti nella Padova del Settecento (1756) sulle qualità, la cura, la conservazione e l'uso dei libri. 
Ce ne sono molte che sono davvero esilaranti, tanto incredibili quanto strane ed incomprensibili per un lettore (superficiale) del mondo di oggi. Un mondo, allora, chiamato "futuro", che è poi, tutto sommato, quello di cui parla il compagno di viaggio di oggi, lo scrittore e storico Harari. Ecco cosa scrive il Volpi alla voce "odori". Sono, ovviamente, quelli dei libri:
"ODORI. I Libri di vari paesj odorano, a chi ciò avverte, diversamente. Quei d'Inghilterra hanno un odore grave e tetro, e così, presso a poco, ancor quei di Germania, benchè diverso: migliore l'hanno quei di Francia, e d'Ollanda: poco sensibile quei d'Italia. Ciò provverrà forse principalmente dall'acque. Odori buoni o rei contraggono anche i Libri dal sito in cui da lungo tempo sen giacciono, come succede ne' scrigni odorosi: o in luoghi terreni, nitrosi, rinserrati, e di cattiva aria, o vicini ad immondezze. Noi conserviamo un bel testo Greco di Sofocle in ottavo dal Colineo impresso in Parigi nel 1528, di gratissimo odore. Vedi le lettere di S. Caterina da Siena in 4 di Venezia del 1562 spiranti soave fragranza".
Sono centinaia le voci che circondano quello che l'autore settecentesco chiama "furore" di avere, amare e possedere libri. In un contesto sfumato nel tempo, paradossale, spesso anche ridicolo, per noi oggi inaccettabile. Eppure quello era l'aria del tempo, come si suole dire. Gaetano Volpi ci trasmette questo  "atto d'amore" per il libro, un amore che avrebbe dato poi vita ad una patologia chiamata "bibliomania". L'azienda tipografica che l'ha ristampato produce da quattro decenni libri che parlano di racconti, fiabe, storie, innovazioni. 
Sono figli di una tradizione da più di cinquecento anni, da Gutenberg in poi, per diffondere le dantesche "virtute e canoscenza". A distanza di poco meno di tre secoli la tradizione continua, in maniera abbastanza diversa, in un presente che era futuro per Volpi e che è presente per noi oggi con il libro di Harari. Un libro che non ho ancora finito di leggere e che richiede un impegno ben diverso di quello che lo accompagna nella foto.
Yuval Noah Harari è uno studioso, uno storico di fama internazionale. Il suo libro è stato selezionato come libro dell'anno 2016 dalle maggiori testate anglosassoni. Scorre per oltre cinquecento pagine, pubblicato dalla Bompiani in una edizione anche economica, in una elegante sagoma editoriale, oltre che in edizione Kindle. L'indice prevede un nuovo programma per l'umanità. 
Diviso in tre parti l'homo sapiens è visto alla conquista del mondo, dall'antropocene, alla fatidica scintilla. Nella seconda parte si vede come riesca a dare un senso al mondo, il suo vissutro come narratore, la strana coppia, il patto per l'alleanza e la successiva rivoluzione umanista. Nella terza parte lo si vede perdere il controllo quando entra in contatto con la fatidica bomba a orologeria fatta in laboratorio, la successiva grande separazione, l'entrata nell'oceano della sua coscienza nel quale rischia di annegare con la sua fatidica religione per i dati. Harari scrive:
"Il mondo sta cambiando in modo più veloce che mai, e noi siamo sommersi da quantitativi impossibili di dati, di idee, di promesse e di minacce. Gli umani stanno cedendo autorità al libero mercato, alla saggezza delle masse e agli algoritmi esterni in parte perchè non possiamo affrontare il diluvio dei dati. In passato, la censura operava bloccando il flusso di informazioni. Nel XXI secolo la censura opera inondando la gente di informazioni irrilevanti. Noi proprio non sappiamo a che cosa prestare attenzione, e spesso spendiamo il nostro tempo a indagare e a discutere su questioni marginali. Nei tempi antichi deteneva il potere chi aveva accesso alle informazioni. Oggi avere potere significa sapere cosa ignorare. Quindo, considerando tutto quello che sta ccadendo nel nostro mondo caotico, su cosa dovremmo concentrarci? .... Se vogliamo guardare allo sviluppo della vita in maniera davvero ambiziosa e lungimirante, tutti gli altri problemi e cambiamenti saranno messi in ombra da tre processi interconnessi: 1. La scienza sta convergendo verso un dogma onnicomprensivo, che sostiene che gli organismi sono algoritmi e la vita è un processo di elaborazione dati. 2. L'intelligenza si sta affrancando dalla consapevolezza. 3. Algoritmi non conosciuti e inconsapevoli ma dotati di grande intelligenza potranno presto conoscerci meglio di quanto noi conosciamo noi stessi."
Scuserete la lunga citazione, ma adesso ho capito quello che intendeva il recensore del "Guardian". Un viaggio lungo, difficile, tanto affascinante da fargli scrivere scrivere che è impossibile leggere questo libro senza avvertire un brivido di vertigine. Il suo libro precedente che aveva per titolo "Homo Sapiens" diventa ora "Homo Deus". Nulla di blasfemo. Tutto ormai sembra possibile oggi. Il libro si apre, a pagina 6, con una emblematica immagine che ha per sottotitolo questa frase: "Fertilizzazione in vitro: il dominio sulla creazione".
Strani compagni di viaggio capitati a stare insieme, un una dinamica imprevista che riesce a segnare il tempo del passato, l'esistenza di un presente che rincorre un inevitabile futuro. Quale sarà questo futuro, impossibile dirlo. Storia, filosofia, scienza e tecnologia sono tutte qui insieme in questi due libri. L'uomo con questi due libri dimostra che il genere umano non vuole e non può rendersi "superfluo". 
Dovrà essere sempre più in grado di proteggere se stesso e la sua intera umanità solo se riuscirà ad assumere e trovare nuovi poteri che abbiano almeno qualcosa di divino. Se questo accadrà, ed è possibile che possa accadere, allora vuol dire che la sfida si ripeterà per la seconda volta. Non credo, però, che potrà esserci scampo per lui se mancherà quella "scintilla" di divino che lo caratterizzò sin dal "principio". Intendo noi uomini, noi esseri umani. "LUI", non credo che sarà disposto a perdonare per una seconda volta.






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Published on December 27, 2018 08:49

December 20, 2018

Ritorno al passato con la Brexit

La Brexit ha segnato un colpo di grazia alla storia inglese. Ho letto un bell’articolo di Tony Damascelli che potete leggere qui al link. Parla della situazione in cui sì è venuta a trovare la “perfida Albione” con quel referendum passato alla storia con il termine di Brexit.

Ricordo quando, due anni fa, a pochi giorni dal risultato che segnava la volontà del popolo britannico di uscire dalla Unione Europea, mentre il primo ministro Cameron si aspettava un risultato esattamente opposto, il tassista che ci stava portando da Victoria a Marlborough per una “Summer School”, era euforico ed esultante per il risultato. Lui aveva votato per l’uscita, ne era fiero.In un’ora e più di guida ci elencò tutte le sue ragioni. Non potrò mai incontrarlo di nuovo e chiedergli come si sente oggi, nella situazione in cui la sua Britannia sta per precipitare. Chissà se la pensa come la premier May o come il suo antagonista Corbyn; se avrà cambiato idea sul suo voto, oppure se sarebbe disposto a rivotare. Interrogativi che non solo gli inglesi in questi giorni si stanno ponendo, ma un pò tutti gli europei.Il giornalista nel suo articolo ricorda i favolosi anni sessanta, la “swinging London”, lo sbarco sull’isola di migliaia di giovani alla ricerca del nuovo, del diverso, la svolta ad una vita continentale piatta. Le notizie sulle conseguenze di quel voto sono minacciose, tanto da far pensare che si voglia ritornare al passato. Un passato che conobbi bene, benissimo direi, pieno di sogni vissuti sull’onda della libera circolazione(ma fino ad un certo punto!), alla ricerca del sogno di un mestiere, di un lavoro, un’avventura che cambiasse la vita e costruisse un avvenire.

C’ero anche io in quella onda immigratoria fatta di camerieri, barbieri, facchini, studenti veri o travestiti. A dire il vero non soltanto europei, ma anche provenienti da oltre mare, da quei paesi che un tempo facevano parte del “Commonwealth”. Tanti “British subjects”, (“sudditi britannici”, era la voce del tempo), tanti connazionali che magari avevano già avuto un’esperienza estera con il soprannome poco elegante di “magliari” e che cercavano un futuro risalendo fin su negli Highlands o in Scozia.C’ero anche io tra loro, “lavoratore” in cerca di un lavoro che mi permettesse di restare per imparare la lingua. Conservo ancora il passaporto del tempo. Quando riuscii a trovare un lavoro fisso, dopo le tre settimane trascorse come “ospite”, il Consolato Italiano me lo rinnovò con tanto di dicitura scritta a mano, in un bell’inchiostro nero: “lavoratore”.Ne sono fiero ed orgoglioso. Finii in un ospedale mentale per oltre due anni come infermiere semplice, poi student. Superai l’esame del primo anno in “Mental Deficiency Nursing”, il Ministero mi versò in premio la favolosa somma di 80 sterline. Io e io mio carissimo amico di colore di origine indiana Shabu, potemmo fare il primo volo in vacanza a casa. Lui per Dar-es-Salaam, io per Napoli via Pisa, via Alitalia.Molte acque son passate sotto i ponti non solo del Tamigi, ma anche degli altri fiumi europei. Dagli anni della “swinging London”, dei Beatles, della minigonna di Mary Quant, della pubblicazione libera del mitico libro di “Lady Chatterly”, dell’affare Profumo. Per decenni siamo entrati e usciti da queste isole con una semplice carta di identità, senza controlli ai nostri bagagli, senza che nessuno sia stato respinto. Tutti di ogni razza, colore, ideologia o religione hanno pouto esperimere liberamente le proprie idee a Marble Arch, “all’angolo degli oratori”. Ogni cosa sembra destinata a cambiare con le trattative della Brexit.
Front cover of ‘Lady Chatterley’s Lover’, Penguin edition, 1960
Forse non ci sarà più spazio per i sogni e le avventure. Chi vuole mettere piede su queste isole dovrà avere i requisiti, avere un posto di lavoro, richiedere il visto che sarà a durata limitata. La premier ha detto che saranno ammessi soltanto persone qualificate e con reddito. Le Isole Britanniche sono isolate. Anzi, no! Mi correggo. E’ famoso quel titolo che apparve molti anni fa sul “Times”: “Fog on the Channel. Continent isolated”. Nebbia sulla Manica, il Continente isolato. La premier si dice sicura che soltanto così la “perfida Albione” riconquisterà l’antico benessere.Non sembra che tutti si rendano conto che il mondo è radicalmente cambiato nel corso di questi ultimi decenni. Bene fa Tony Damascelli nel suo articolo a ricordare una frase di Sir Winston Churchill sul suo paese e suoi concittadini:“Io affermo che quando una nazione tenta di tassare se stessa per raggiungere la prosperità è come se un uomo si mettesse in piedi dentro un secchio e cercasse di sollevarsi per il manico”.
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Published on December 20, 2018 23:34

MEDIUM

Antonio   Gallo
Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one.
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