Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 110

October 13, 2018

"Munuscula Musae" ovvero "Il Tempo Ritrovato"


Visitare una biblioteca privata e personale è sempre un viaggio tanto intrigante quanto affascinante.  Un cammino misterioso, come quando affronti un sentiero in un giardino segreto che non sai mai dove ti porterà. Anche se non si tratta di una grande biblioteca, non sai mai cosa ti diranno quei libri che prendi in mano, li apri, li sfogli per la prima volta, li spolveri. Sei costretto, addirittura, a "tagliare" le pagine, per poter sfogliare quei fogli così come il libro è uscito dalla tipografia, ripiegato in formato ottavo o sedicesimo, per poi essere "rifilato" e rilegato.
E' quello che mi capitato con questo libretto che vedete qui di fianco. Era ancora intonso, così come era uscito dalla tipografia di famiglia la "Arti Grafiche M. Gallo & Figli" di Sarno, nella Valle dei Sarrasti, edito per conto della "Editrice Intercontinentalia" di Napoli. L'ho dovuto leggere usando il coltello per staccare le pagine, come si usava fare un tempo, oggi non più. Mentre giravo le pagine, mi sembrava che "sfogliassi" anche quelle del tempo, il "mio tempo", quello "perduto" perchè "passato" e che in quel momento ritrovavo improvvisamente, grazie ai libri di mio fratello Domenico, detto "Mimmo". Li mettevo in ordine, li preparavo per dare loro una nuova e diversa destinazione, una nuova vita: in dono alla Biblioteca di Sarno, città che gli aveva dato i natali. L'anno di pubblicazione del libretto 1959, anzi in cifra latina, MCMLIX. L'autore "AEMILII MERONE", "prefatio" di "BENEDICTI RIPOSATI", con questa dedica:
AD FRANCISCUM SBORDONE 
Haec mea, quantulacumque, levis munuscula musae, sensus et gratum cor tibi ferre volunt pro tot consiliis quae, sicut fidus amicus, vel potius, frater, dasque dabisque mihi.
Trenta composizioni in latino, l'Autore, "sua iura servabit" e dedicava il libretto ad "un gruppo di amici e di ex allievi che hanno voluto ricordare i miei venti anni di laurea con la pubblicazione di questi "Munuscula Musae", la mia riconoscenza e l'assicurazione del mio perenne ricordo". 
Correva l'anno del Signore 1959. Avevo venti anni. Mentre scorrevo quelle parole latine mi resi conto che stavo per ritrovare il tempo perduto. L'avevo conosciuto questo signore che scriveva poesie in lingua latina. Una lingua questa che, con suo fratello, il "greco", aveva tormentato i miei anni al ginnasio, prima che riuscissi ad evadere dalle loro "gabbie". Mi ero diplomato altrove e avevo deciso di "evadere" nel futuro. Mi ero iscritto a Lingue Moderne. Mio Padre mi aveva mandato da lui, per portargli le bozze proprio di questo libro. Le avevo letto in treno mentre andavo a casa sua con la Circumvesuviana. 
Lui abitava a Sant'Anastasia, a pochi passi dalla stazione. Era un affermato latinista. Era stato anche docente e preside, se non ricordo male, proprio nella città dei Sarrasti. Oggi lo ritrovo in Rete insieme a chi scrisse la prefazione al suo libretto Benedetto Riposati. Lessi le bozze durante il viaggio e ricordo di non avere molto apprezzato quelle composizioni che ora ritrovo in forma di "Hexametri" e "Hendecasyllabi". 
Un'ovvia ed evidente insufficienza che mi porto appresso da quei giorni del "tempo perduto" della mia gioventù.  La ritrovo oggi, riveduta e corretta dalle lingue moderne che mi hanno poi aiutato a costruire il futuro. Questo libretto di composizioni in latino che, a dire il vero, nemmeno mio fratello, più intelligente e studioso di me, aveva molto apprezzato, tanto da averlo conservato "intonso", mi ha confermato che se vuoi conquistare il futuro devi sapere imparare dal passato per poi disimparare ed imparare di nuovo. 
Poetare in lingue diverse dalla propria non è cosa di poco conto. Figurarsi poi saper farlo in una lingua che nessuno ha mai sentito parlare. Se leggo in latino la composizione scritta su Sarno che il Prof. Emilio Merone scrisse oltre mezzo secolo fa, e la rileggo nella traduzione in italiano moderno così come l'ha pensata il carissimo amico di quel "tempo perduto" e oggi "ritrovato", prof. Pasquale Califano, mi accorgo della permanenza nel tempo della bellezza del nostro territorio. Ancora oggi frotte di giovani, eredi dei Sarrasti, invadono questo territorio in cerca di quei saperi antichi che possano aprire loro le porte del futuro.  

Ritorno sulle rive del Sarno e sui colli splendidi che sovrastano  la città, che ampia si distende nei campi. Osservo la pianura dall'alto e l'ammiro nella sua vastità, ed essa, come un mare verdeggiante, diletta gli occhi miei, mentre il fiume serpeggiante taglia i campi con onde luccicanti: il monte Lattario è qui, là l'alto Vesuvio. Ecco, gli allievi giungono, ricorrono al maestro: discutiamo di molte cose, della lingua Latina, Greca, mescolando cose serie e scherzose mentre, servi della gara, i ragazzi trepidanti si chiedono tra loro la commedia antica cosa sia, quanto Flacco  sorridente valga a descrivere i costumi. Il preside si affretta, gli alunni tutti insieme si alzano, di essi sono esaminati i primi.

Il sonetto esalta la bellezza dell'Agro nocerino-sarnese, attraversato dal fiume Sarno, che dà anche fertilità ai campi e ne fa uno dei siti più famosi in Italia e anche nel mondo, grazie al pomodoro San Marzano. La seconda parte rappresenta il ricordo nostalgico di qualche lezione relativa alle lingue classiche, madri del nostro italiano ormai infestato da espressioni linguistiche straniere, che rendono impossibile la comprensione e innaturale il fondamento della comunicazione, cioè la chiarezza.


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Published on October 13, 2018 11:27

October 12, 2018

"Chi sa, fa. Chi non sa, insegna"



Non so chi abbia espresso questo pensiero che dà il titolo al post. Viene spesso ripetuto senza che si sappia veramente cosa voglia dire. Lo si usa sopratutto quando si vuole mettere in cattiva luce chi non sa cosa fare, e perciò si dedica all'insegnamento. Non è, però, sempre vero che chi sa, sappia fare le cose nel modo giusto. Nè tanto meno sembra essere vero che, chi insegna non sappia sempre bene cosa stia facendo. Il fatto è che le parole hanno una latitudine di significati molto ampia. Bisognerebbe saperle usare, come qualsiasi altro strumento nelle mani degli esseri umani. La parole sono strumenti di libertà, come giustamente ha messo bene in evidenza nella sua settimanale rubrica "Abitare le parole" Mons. Nunzio Galatino, vescovo e presidente dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica. Se leggete attentamente il suo articolo che qui di seguito riporto integralmente, vi renderete conto che il monsignore sa "amministrare" bene anche le sue parole oltre i beni della Santa Sede. Dalla rubrica "Abitare le parole/Insegnamento Il Sole 24 Ore 7 ottobre 2018":
"Insegnamento deriva dal latino "insignare" - composto dal prefisso in unito al verbo "signare" (imprimere, fissare, segnare) - che, a sua volta, rimanda al sostantivo "signum" (marchio, sigillo). Basterebbe questo per affermare che l'insegnamento è un'attività tesa a "segnare" la vita trasmettendo un metodo e dei contenuti abilitando a vivere in maniera riuscita e consapevole il proprio contesto. 
È quanto riteneva anche Don Milani. «Non ho bisogno - affermava il prete fiorentino - di lasciare un testamento con le mie ultime volontà perché tutti sapete cosa vi ho raccontato sempre: fate scuola, fate scuola; ma non come me, fatela come vi richiederanno le circostanze». Al di là degli aspetti specifici e delle circostanze irripetibili, Don Milani non riduceva l'insegnamento alla programmazione o alle funzioni strumentali. L'insegnamento l'ha inteso piuttosto come esperienza di relazione nella quale si offrono gli strumenti scientifici per diventare persone libere e creative in un contesto. Un contesto visto come una rete serrata e inevitabile di relazioni educative; una rete che si declina in una pluralità di forme che prevedono la trasmissione di un patrimonio fatto di informazioni, di teorie e di prassi. 
La sfida dell'insegnamento, soprattutto di quello moderno, è tentare di trasferire il patrimonio culturale e far appassionare a esso con mezzi contemporanei (i metodi didattici), con un linguaggio adeguato e soprattutto con l'ascolto appassionato. «Non ho mai insegnato ai miei allievi - affermava Albert Einstein - ho solo cercato di metterli nelle condizioni migliori per imparare». 
L'insegnante infatti può dire quel che vuole, può avere anche le più solide e fondate convinzioni, può essere in grado di argomentare per ore, ma se lo studente non "capisce" in modo autentico, tutto scivola via e prima o poi viene dimenticato. Anche l'insegnante. Diverso è per l'insegnante che è riuscito a motivare lo studente e a fornirgli gli strumenti critici per orientarsi nel suo tempo. Così facendo egli contribuisce ad aprire la sua mente a un pensiero nuovo e a una nuova comprensione, sollecitandone la curiositas: la voglia di non accontentarsi delle conoscenze acquisite. 
Per questo. penso, si possa affermare che l'insegnamento non è un lavoro e non è una professione. È un'arte. L'insegnante è un artigiano dotato di talento, competenza, inventiva e capacità relazionali. Ciò ne fa un intellettuale vero, che comprende prima di far comprendere, ascolta prima di farsi ascoltare, impara prima di trasferire conoscenza. Insomma, «Un buon insegnante è come una candela: si consuma per illuminare la strada per gli altri». (Proverbio turco). (Nunzio Galantino)

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Published on October 12, 2018 06:10

October 7, 2018

"Come è umano lei!" diceva Fantozzi

Il libro e il suo Autore
Questo è uno dei libri più scovolgenti che io abbia mai letto. Al titolo "Essere una macchina" segue il sottotitolo "Avventure tra "cyborgs", utopisti, pirati e futuristi per risolvere il problema della morte". Se non conoscete il termine inglese "cyborg" vi dirò subito che nel linguaggio della fantascienza, si intende un individuo umano al quale sono stati trapiantati membra o organi sintetici. Così siete sicuri di capire di cosa si parla in questo libro e in questo mio post. Io mi sono divertito a leggerlo, cercherò di farvelo piacere anche a voi. Desidero avvisarvi che tutti i nomi e i luoghi fatti in questo articolo sono facilmente rintracciabili in Rete ai link evidenziati per chi non volesse credere in cosa scrivo.
C'è un signore in America che si chiama Max More, è il titolare di una società di nome Alcor. Per 200 mila dollari ibernerna il vostro corpo in un liquido di nitrogeno e lo conserverà fino a quando la scienza non sarà in grado di riportarvi in vita. Tim Cannon è un programmatore di computer il quale ha inserito delle schede elettroniche nel suo braccio senza usare anestetici. Zoltan Istvan è stato un candidato alle recenti elezioni presidenziali fecendo campagna elettorale in una macchina a forma di bara. 
Questi sono soltanto alcuni dei personaggi che Mark O' Connell, autore del libro, ha conosciuto e ha intervistato prima di scriverlo. Un libro sul transumanesimo, quel movimento che si propone di inserire nel corpo umano forme di tecnologia per prevenire l'invecchiamento e ogni eventuale causa di morte. Alla domanda di chi vuole farsi ibernare che chiede se potrà vivere mille anni, un addetto della società che risponde al nome di Aubrey de Grey, dice che le possibilità sono al 50/50. Tutto dipende dai finanziamenti futuri del progetto.
Chi scrive queste cose, l'autore del libro, non è uno qualunque, ma è un osservatore abbastanza attento e preciso, uno scrittore tanto scettico quanto inorridito e divertito nel raccontare le cose che ha visto e documentato in maniera tanto puntuale quanto sconvolgente. Dice spesso nel libro che quello che scrive non è soltanto la storia di persone che possono sembrare degli eccentrici o degli imbroglioni. E' gente spesso molto ricca ed influente nella società in cui vivono. Hanno scelto la filosofia del transumanesimo legandola a quella della fede nella tecnologia che si manifesta nella famosa Silicon Valley.
Peter Thiel ad esempio, è una di queste persone e non è uno qualunque. Tra le altre cose è co-fondatore di PayPal il famoso istituto di credito digitale internazionale, sostenitore di Facebook e finanziatore della campagna elettorale di Trump. Pompa milioni di dollari in una campagna che mira a prolungare la vita umana. Ritiene che il potere computazionale è destinato a dominare sempre di più la biologia, tanto da poter far diventare il mistero della morte un problema risolvibile come quello di un " bug " per il computer. Un "problema" risolvibile, la morte.
Ray Kurzweil, il mago della tecnologia di Google, quello che ingoia 150 pillole al giorno, in prevalenza vitamine, ha dichiarato all'autore del libro che se riuscirà a vivere 120 anni, potrà sperare di aumentare le sue conoscenze su come rigenerare le cellule del corpo umano che portano all'invecchiamento. Egli è anche il sostenitore e profeta della "Singolarità Tecnologica", quella teoria con la quale si pensa, per usare le parole di O' Connell, quando la IA (Intelligenza Artificiale) diventerà compatibile con il corpo umano. 
Un evento questo previsto tra una decina di anni. Gli uomini saranno in grado, per mezzo della "singolarità", di "trascendere", superare i limiti biologici sia del nostro corpo che del nostro cervello. Saremo padroni del nostro destino. Avremo la morte in pugno. Google ha investito centinaia di milioni di dollari nella ricerca anti invecchiamento. Tutto però è strettamente segreto.
Sono diversi i multimilionari americani che credono e sperano di poter superare, con le possibilità che hanno a loro disposizione, di fermare l'invecchiamento e la prevista conclusione di tutto. Potrebbe esserci una soluzione tecnica, anzi tecnologica. Pensate ad esempio ad un problema di salute che avete con il vostro corpo. Bene. Nessuna preoccupazione. Sono in grado di fare l' "upload" della vostra mente e di quello che avete dentro la scatola del cervello. Iberneranno la vostra testa, quando sarà pronto l'automa, la impianteranno, scaricheranno il contenuto del cervello e potrete continuare a "vivere" con la vostra "mente" su di un robot. Insomma un "cyborg". Un caso limite? Non sembra. Questa è gente che è convinta di quello che fa. Dicono che ci riusciranno.
In “Essere una macchina” Mark O’Connell accompagna il lettore in un viaggio fantascientifico, eppure reale, alla scoperta del transumanesimo: tra impianti di crioconservazione, progetti di secessione dalla razza umana e definitiva sconfitta della morte. Superintelligenze di robot e flussi di informazione in comunione estatica con la tecnologia che ci fa diventare "transumani". Il libro analizza minuziosamente le idee e i presupposti incorporati in questi futuri possibili, che già strutturano il nostro presente. Tutto accade a Scottsdale, una città di 250.000 abitanti, nei pressi di Phoenix, Arizona.
C’è la sede di "Alcor Life Extension Foundation", una no-profit nata nel 1972 che fa ricerca nel campo della crionica. Alla Alcor, per 200.000 dollari, è possibile far conservare il proprio corpo in un "dewar"", “giganteschi thermos pieni di azoto liquido”, o più economicamente (80.000) la propria testa. I corpi, o le teste, sono considerati in sospeso, come nel Limbo, in uno stato intermedio tra la vita e la morte. Alla Alcor (dati al 31 agosto 2018) ci sono 161 pazienti, cioè corpi crioconservati. La Alcor è la manifestazione fisica del nucleo concettuale su cui si fonda il transumanesimo. Secondo O’Connell è 
“un movimento di liberazione che rivendica nientemeno che una totale emancipazione dalla biologia. Esiste una concezione alternativa, uguale e contraria, secondo cui questa liberazione sarebbe, in realtà, soltanto un asservimento alla tecnologia”.
Il Transumanesimo è un movimento fatto di anime diverse, legate da assunti comuni. Un punto fondamentale è la visione della mente umana, e della cognizione, nei modi del cognitivismo classico o del computazionalismo, nella versione di Marvin Minsky, per cui il cervello è una "meat machine", ua macchina fatta di carne. Esisterebbe una dicotomia tra mente e corpo, due entità distinte: l’una afferente alla sfera delle informazioni del cervello, quella spirituale, della coscienza, l’altra, la parte fisica, invece, sarebbe un semplice sostrato. L’io come un software che gira sull’hardware del cervello.
Da questa metafora, che O’Connell definisce metastasi, nasce l’idea di emulare la mente su un hardware diverso da quello del corpo fisico, con tutte le conseguenze del caso: l’abbandono di massa dai corpi biologici, l’immortalità dell’io o della sua copia digitale, dunque la sconfitta della morte (“La morte da questo punto di vista è un problema tecnico. E ogni problema tecnico presuppone una soluzione tecnica”), in una vera “secessione dalla razza umana”. 
Ovviamente, l’aumento della potenza cognitiva della mente, non più limitata dalla capacità di calcolo della biologia, libera verso la Superintelligenza Artificiale (questa in realtà è una questione limitrofa, ma indipendente). I corpi e le teste mozzate a Scottsdale attendono il giorno in cui la loro mente sarà emulata su un nuovo corpo, convinti che la morte è un "errore biologico". Ho detto all'inizio che questo è un libro sconvolgente, forse il più sconvolgente che abbia mai letto. 
Più passa il tempo, più leggo libri e più credo di sapere, e invece mi rendo conto di essere sempre più ignorante. Meno male che i libri mi fanno compagnia in questo viaggio nella conoscenza sin da quando ho imparato a leggere e scrivere nella tipografia di mio padre. Lui aveva nella sua piccola biblioteca di famiglia ""Il Mondo Nuovo" di Aldous Huxley pubblicato nella collana della Mondadori "La Medusa" nel 1932. Lui aveva 26 anni. Io avevo una quindicina di anni quando tentai di leggerlo e non ci capii assolutamente nulla. Non so cosa comprese lui, buona anima.
Se lo rileggo oggi e lo confronto con questo libro di Mark O' Connell, mi fa la stessa impressione di quando, oggi, leggo "L'Amante di Lady Chatterly" di D. H. Lawrence uscito nel 1928. Mi spiego: il libro di Lawrence fu messo all'indice, processato e condannato per tutte le oscenità possibili riguardanti il sesso. Quando lo rileggo oggi, dopo di avere letto quello che si scrive e si fa oggi con il sesso, a distanza di pochi anni, mi pare che Lady Chatterly sia stata una educanda. 
Allo stesso modo, per quanto riguarda la scienza, e nella scienza il "sesso" continua ad avere la sua centralità, quando leggo il libro di Huxley e lo confronto con questo di O' Connell mi sembra un libro per bambini. Forse esagero. Io vi consiglio di leggere, anzi rileggere, questi libri e vi invito a riflettere su quanto e come il tempo sia il vero segreto nel quale è avvolto il mistero della nostra vita. Tutto scorre e tutto cambia. E son contento che le cose vadano in questa maniera. Voi no? Eppur si muove! "Come è umano Lei!", diceva Fantozzi


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Published on October 07, 2018 20:28

Review: Come essere stoici

Come essere stoici Come essere stoici by Massimo Pigliucci
My rating: 2 of 5 stars

Sto per affrontare uno studio sistematico dello stoicismo nel tentativo di mettere ordine alle esperienze di vita che ho accumulato nel corso di tutti questi anni. Ormai sono tanti e pesano sia come momenti esistenziali che come letture e scritture. Confesso che mi aspettavo di più da questo libro che non mi ha dato quello che mi aspettavo. Sarà perchè l'ho letto in versione kindle, si sa che quella lettura è piuttosto "liquida" ed avanescente. Bisogna avere il libro cartaceo tra le mani per poter impossessarsi di quanto l'autore ti propone. Questo è proprio quanto mi riservo di fare con la lettura cartacea di questa filosofia di vita chiamata "stoicismo". Sono grato, comunque, a Massimo Pigliucci per avermi introdotto a questo argomento.
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Published on October 07, 2018 06:49

Review: Per ridere aggiungere acqua

Per ridere aggiungere acqua Per ridere aggiungere acqua by Marco Malvaldi
My rating: 3 of 5 stars

Per apprezzare e capire questo libro ... un momento: meglio dire capire e poi apprezzare questo libro non basta l'acqua. Bisogna conoscere l'informatica, il cervello, la matematica, la filosofia e non so quante altre cose ancora. Sono sicuro, comunque, che se saprete tutte queste cose, incluse quelle che non ho menzionate, vi passerà la voglia di ridere, o meglio di far ridere il vostro computer. Mi piace l'idea che sta dietro la Intelligenza Artificiale. La speranza cioè che un giorno ci possiamo liberare della stupidità umana. L'autore di questo libro spera che lo si possa fare aggiungendo acqua ... Io aggiungerei anche un po' di spirito ...
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Published on October 07, 2018 06:47

October 5, 2018

L'antibiblioteca di Mimmo




L'antibiblioteca di Umberto Eco


Tutti sappiamo cos'è una biblioteca. Non mi riferisco alle biblioteche pubbliche ma piuttosto a quelle private che ogni famiglia o persona di cultura custodisce con cura in casa. Penso alla mia, ad esempio, cresciuta a dismisura con il passare del tempo. Da cartacea è diventata anche digitale. E' il destino di ogni biblioteca che si rispetti, quello di crescere sempre. 

La mia, anzi la nostra, (posso includere anche i libri di mia moglie), origina da quella che mio padre nel secolo e nel millennio trascorsi custodiva gelosamente in quel mobile con i vetri grigliati di colore verde finito poi ingloriosamente in garage a raccogliere memorie di poco conto. 
Ricordo quei tre scaffali che contenevano i libri ben allineati, sistemati con cura per grandezza, colore e genere. Il verde della collana mondadoriana Medusa, i gialli della Bompiani, il paglierino della Corbaccio, il grigio della B.U.R. In questi giorni sto mettendo in ordine quelli di mio fratello. Li sto preparando a partire, per continuare a vivere la loro esistenza di libri altrove. 
Dopo la sua prematura scomparsa, non potendo "accudirli" io tutti, ho deciso di farne dono alla Biblioteca della Città di Sarno. Domenico, tutti lo chiamavano "Mimmo", sarebbe certamente contento. Sono sicuro che dove si trova approverà questa mia decisione. 
Non sono libri che possono affiancarsi ai miei. Forte è la differenza che li separa dai miei libri, anche se da ogni libro c'è sempre da imparare qualcosa. Differenze non solo di contenuti, ma anche di interessi, di studi, di letture e di ideologie. In fondo, lo sappiamo tutti, i libri portano con sè tutto ciò che noi uomini siamo: vizi e virtù. 
Mettendoli in ordine, sfogliandoli, così come Mimmo li aveva raccolti, conservati, letti e poi fatti anche rilegare da nostro Padre, stampatore e tipografo, ma anche accanito lettore, credetemi. Questa sistemazione mi ha portato a scoprire quello che con il titolo dato a questo post voglio significare: l' "antibiblioteca". 
Che cos'è? Non è altro questa che una biblioteca fatta di libri che ognuno può avere, fatta di libri che non hai mai letto per varie ragioni. Oppure anche libri che non si potrebbero mai leggere, perchè manca il tempo, si è letto solo il titolo e la copertina. "Antibiblioteca" anche perchè fatta di libri che, chi la possiede, non può convidere quei libri per il contenuto, per l'autore o per altre ragioni. E' proprio quello che mi sono sorpreso a pensare sfogliando quei libri che formavano la biblioteca di mio fratello. 
Politica, filosofia, arte, scienza, giornalismo, chimica, religione, argomenti tutti condivisibili, ma che ritrovi pensati, scritti e pubblicati in maniera diversa, opposta a quella con la quale avevi scelto, comprati e collezionato i tuoi libri. Una vera e propria "antibiblioteca", appunto. Pensandoci bene, ogni biblioteca personale ha il suo carattere, la sua fisionomia, la sua ragion d'essere. In quanto tale, e seguendo questo ragionamento, ogni biblioteca diventa una "antibiblioteca" nel confronti di un'altra. 
E' vero che siamo felici quando, scrutando tra gli scaffali della biblioteca di un amico, un collega, scopriamo di possedere quel libro, quella collana, quella raccolta, quell'autore. Il piacere della condivisione, comunque, è tanto forte quanto quello del contrasto, della diversità, addirittura del conflitto che quei libri possono suscitare in chi non li possiede, oppure non li avrebbe mai letti o acquistati. Pensieri strani che mi si sono presentati nella mente man mano che sfoglio questi della biblioteca di Mimmo. 
Ritrovo in questi libri le ragioni delle diversità che ogni libro pensato, scritto, letto, pubblicato ed acquistato porta con sè e che trasmette a chi li possiede. La mia biblioteca e quella di mio fratello non erano certamente biblioteche simili a quella che potevano avere personaggi della cultura quali ad esempio Mario Praz o Umberto Eco. 
Eppure, quelle stesse biblioteche hanno caratterizzato la specificità di uomini di questo tipo che hanno fatto dei libri la loro essenza di vita. Alla classica domanda che si fa in situazioni del genere: "ma li hai letti tutti questi libri?", sia Eco che Praz avrebbero saputo rispondere da pari loro dicendo che le biblioteche personali non sono appendici esteriori del proprio ego, bensì strumenti di studio e di conoscenza. 
Questo ho capito scorrendo le pagine dei libri della biblioteca di mio fratello. Dietro ogni "antibiblioteca" si nasconde un titolare, un lettore, anche lui "anti". Se non un bibliofilo o bibliomane, qualcuno che ha fatto delle scelte, ha seguito dei percorsi, si è alimentato di idee nelle quali ha creduto, per le quali ha lottato, pensato e sofferto. Ed anche tanto. Magari si è nascosto a se stesso ed agli altri e in solitudine è finito. 
Arrivo a pensare quello che pensò Socrate quando disse: "Più so, più mi rendo conto di non sapere". Avvolti come siamo nella illusione di ciò che chiamiamo "conoscenza", ci illudiamo non solo di comprendere, ma anche di dominare il mondo. Non ci rendiamo conto che questa "conoscenza" rimane soltanto una "nebbia" nella cui finta "luce" della vita siamo condannati a vivere.


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Published on October 05, 2018 05:28

September 29, 2018

Review: Il Vesuvio universale

Il Vesuvio universale Il Vesuvio universale by Maria Pace Ottieri
My rating: 5 of 5 stars

Mai scelta di titolo fu più corretta per descrivere il contenuto di un libro. "Il Vesuvio Universale", infatti, rima con "il diluvio universale", con una differenza di sostanza. Mentre nel "diluvio" gli elementi determinanti sembrano essere la terra e l'acqua, nel caso del Vesuvio c'è l'aggiunta del terzo elemento che in questo caso è l'interprete principale di questo spettacolo: il fuoco. Si spiegano così anche quei versi di Giorgio Caproni con i quali l'Autrice ha voluto presentare il libro ai suoi lettori:
"Ho provato anch’io. /E’ stata tutta una guerra/d’unghie. Ma ora so. Nessuno/potrà mai perforare/il muro della terra."
Ho letto alcune pagine di questo straordinario libro di Maria Pace Ottieri dalla vetta del Monte Chiunzi. Soltanto da questo spettacolare palcoscenico naturale, che si affaccia sull'antica Valle dei Sarrasti, attraversata dal fiume Sarno, si può comprendere a pieno la forza narrativa del libro. Per tutta questa sterminata, antica e ricca valle si sono infatti sempre, ad ogni eruzione, estesi i fumi, le piogge e la sabbia che da queste parti si chiama "rena".
Quella "rena" che arrivava sin sui tetti delle case della Città di Sarno, ai piedi del dirimpettaio del Vesuvio, il Monte Saro. Ricordo ben poco di quella eruzione del 1944, avevo solo cinque anni. In casa si raccontava che mio padre si beccò una terribile sciatica per liberare il tetto di casa dal peso della "rena", che poteva far venire giù il soffitto.
Questo libro non è un romanzo, nè un saggio o un reportage e neanche un racconto. Non è cronaca, giornalismo, storia, fantasia, o politica. Il libro della Ottieri è tutto questo. L'autrice ha seguito il consiglio del poeta Caproni nei versi citati all'inizio del libro: ha cercato di "perforare il muro della terra, con una guerra d'unghie". Che ci sia riuscita o meno, sta il lettore decidere alla fine della lettura del libro.
Un acquerello anonimo del 1812 sulla copertina segnala la volontà della scrittrice di non personalizzare il personaggio principale del suo racconto: un vulcano chiamato Vesuvio ha una valenza universale. Che alla radice di questo nome ci sia quello che ho detto essere il principale interprete di questa rappresentazione, il "fuoco", non sembra essere un caso. Avrebbe potuto scegliere uno dei tanti dipinti di artisti i quali nel corso dei secoli lo hanno ritratto in innumerevoli quadri, cercando di dare un volto e un nome a questo vulcano.
Matilde Serao raccontò di un giovane focoso di nome Vesuvio che si innamorò della giovane e pudica Capri. Ma sappiamo bene che è solo una favola. La verità è che "lui", il leopardiano "Sterminator Vesevo" significava "fuoco" in sanscrito “vasu“, in latino “vescia“, "favilla o scintilla", "Vesbio", condottiero dei Pelasgi, un popolo del mare che governava queste terre ben prima dell’avvento dei Greci.
Ci fu, addirittura, un sacerdote chiamato Camillo Tutini, seguace di Masaniello, che stravolse l’etimologia del Vesuvio in occasione di un’eruzione. Egli volle prendere l’accadimento eruttivo come un incitamento a ribellarsi agli oppressori spagnoli e ricondusse il nome del vulcano alla frase latina “vae suis” (“guai ai suoi”).
Altre interpretazioni come “Maevius” (“Mordace”), “Maeulus” (“Beffardo”) e, addirittura, “Lesbius” (“Osceno”) concorrono a fare di questo vulcano un vero "mostro". Comunque sia, i Campani di oggi hanno creato anche un "Vesuvio buono" per esorcizzarlo e ne hanno fatto un centro commerciale a Nola. La Ottieri non lo dice, me lo sono ricordato io. Il Bello, il Brutto e il Cattivo.
Il libro è suddiviso in diciassette capitoli. All'inizio di ogni capitolo l'Autrice apre una sorta di "finestra narrativa" stampata in corsivo dalla quale fa sentire la sua presenza sui vari scenari che si susseguono senza respiro nella sua scrittura. Il presente scappa dal passato ed anticipa il futuro, facendo diventare la sua narrazione prima cronaca, poi storia. Si susseguono fatti, persone, luoghi, eventi, attività, descrizioni, indiscrezioni. L'economia si fonde con la politica, l'umanità con la socialità, la lingua con il linguaggio.
Passato, presente e futuro scorrono davanti agli occhi del lettore invitato dalla Ottieri a "perforare quel muro della terra" e portarlo a rompere quello della comunicazione superficiale. Tenta di condurlo a capire quello che accade da sempre e che potrà ancora accadere in un previsto e prevedibile futuro. Sembra quasi come se ci volesse avvertire della necessità di una universale comunione contro una realtà sfuggevole, fragile e miseriosa allo stesso tempo. La sconfitta sembra destinata ad essere "universale".
Nessuno potrà mai scalfire quella barriera che è posta tra gli uomini e l’essenza profonda della terra, che diventa metafora dell’esistenza e della realtà. Nessun uomo potrà quindi avvicinarsi tanto all’essenza della terra, neanche dopo aver combattuto, anche con le unghie. La terra coltiverà sempre il suo segreto, lontano dagli uomini e dalla loro comprensione, restando un arcano segreto che nessuno potrà mai svelare, un muro che non può essere perforato dietro cui si cela la verità irraggiungibile del tutto. Le sue parole alla chiusura del libro sembrano non dare speranza:
"Il vulcano allena i suoi abitanti a vivere in una vacillante realtà sempre sull'orlo della dissolvenza, della metamorfosi, a riempire il vuoto al centro, il cratere nella vita di ognuno, con l'immaginazione, trovando nell'invisibile il senso più vero dell'essere al mondo".
Fatalismo? Destino? Caso? Determinismo sociale? Provvidenzialismo? Incoscienza? Passività? Come potrà il "meschino" di leopardiana memoria de "La Ginestra" sfuggire al "flutto rovente/che crepitando giunge, e inesorato/durabilmente sovra quel si piega"?
L'altro ieri, ieri, oggi e domani. Come sempre, cercando di riempire quel "vuoto al centro" del vulcano e che si trova anche in ognuno di noi. Un "vuoto" fatto di "mistero". Qoelet lo chiamò "hebel"-"nebbia". Un mistero che vale "cinque stelle".

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Published on September 29, 2018 07:36

Quando cominciai a capire che parlavo ...

Babele
"In Principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta".
Se è vero questo, allora, come fu il Verbo del Principio? Questo è un interrogativo senza risposta che mi sono sempre posto sin da quando cominciai a capire che parlavo. Resta poco chiaro se l'uomo nacque con il potere di parlare, se ha imparato dopo a parlare, oppure se è stato lui che si è inventato la lingua. C'è qualcuno che sostiene che le parole e la loro grammatica non sono invenzioni della mente umana, e che gli uomini hanno imparato a parlare dalla Natura (con la maiuscola). Da questa avrebbero appreso a leggere e capire l'universo, perchè dalla Natura nascono tutte le "cose" che la lingua stessa descrive.
Questo è quanto pensa e ha detto il poeta inglese Simon Armitage durante un convegno in uno degli ultimi famosi festival dedicati ai libri ed alla cultura che si tengono ogni anno nel piccolo paese di Hay-on-Wye in Galles. Discutendo la natura della lingua e del perchè questa è l'elemento più vivo ed importante che caratterizza la vita umana, così si è espresso: 
"Penso che gran parte della lingua che usiamo, in specie quella della poesia, derivi direttamente dalla natura".
Con questo suo pensiero Armitage si viene a collocare nella tradizione Romantica secondo la quale le parole e la grammatica non sono invenzioni arbitrarie della mente e del cervello degli uomini, sono piuttosto elementi del tutto naturali che la stessa Natura ci trasmette. La lingua ed il linguaggio diventano così sistemi quanto mai adatti a  comprenderla perchè di essa sono fatti. Le parole hanno un'anima, posseggono una vitalità che rispecchia la vita interiore di ogni essere vivente e di quanti al mondo sono connessi. I poeti sono i più attenti a questo collegamento in maniera consapevole. E lui lo è, dal suo punto di vista.
Stiamo parlando, in maniera molto semplificata, delle origini della lingua. Un argomento da sempre ampiamente disputato. La scienza moderna smentisce la grande la teoria Romantica delle parole che hanno un'anima. Gli studiosi e gli scienziati sostengono che le parole sono segni neutri, scelti per definire oggetti e simboli in modo da facilitare la conoscenza. Ci sono, ovviamente, approcci diversi al problema della lingua. Non è come chiedersi se è nato prima l'uovo o la gallina. Una teoria  sostiene che la lingua nacque per permettere agli esseri umani di scambiarsi informazioni sul mondo fisico. Altri sostengono, invece, la lingua nacque per unire. Si affermò perchè serviva per vivere e poi per spiegare le cose che si dovevano fare. 
Tutto ciò, ovviamente, ha poco a che fare con l'anima delle parole. Siamo noi che diamo ad esse un senso, un valore, un'anima. Costruiamo metafore, aggiungiamo colori, immagini, inventiva, arriviamo al punto di fuorviare la realtà, alterandola addirittura. Diamo uno spirito al vento, una saggezza alla montagna, una sapienza agli alberi. Senza rendercene conto arriviamo persino a trasmettere informazioni inesistenti. Se le cose stanno così, la lingua non può nascere dalla Natura. Nasce dalla mente, spesso distorta, di un cervello umano.
Nel suo bellissimo libro Breve Storia dell'Umanità lo storico israeliano Yuval Noah Harari sostiene appunto questo: la più grande caratteristica del linguaggio umano è quella di trasmettere informazioni su cose che non esistono, o meglio, che esistono soltanto nella nostra umana immaginazione. Sono cose che non sembra esistano in Natura. Dalla Natura proviene, invece, quall'altra teoria, quella che fece nascere la lingua degli uomini sulla così detta "teoria dei grugniti". 
Su per giù le cose dovettero andare così: gli uomini primitivi, i nostri cugini nella evoluzione, cominciarono ad indicare le cose di cui avevano bisogno: una banana; qualcosa di cui avevano paura, la tigre; una sensazione che avvertivano, il freddo, il caldo, la meraviglia, e così via grugnendo. A poco a poco questi grugniti divennero segni, come quelli del mangiare, della scarpa o di qualcosa da coprirsi dal freddo. Con il passare del tempo si sviluppò gradatamente quello che poi il linguista scienziato cognitivo Steven Pinker chiamò L'istinto del linguaggio
Dopo la "grammatica" venne un momento che è stato chiamato "la fase della metafora". Gli uomini cominciarono cioè a fare "salti" linguistici. Dalle parole che avevano inventato per individuare e distinguere oggetti fisici, iniziarono a usare parole riferite a sensazioni meno tangibili, per così dire. Fu in questo momento che nacquero, forse, i "poeti" e con essi anche le fantasie che presto divennero superstizioni. 
Nacquero gli spiriti, gli dei, divinità visibili ed invisibili. Questo spiega ad esempio perchè la parola "pneuma" che in greco antico significava "spirito", significò anche vento, respiro, alito. Dopo di questo, venne quella che noi chiamiamo "letteratura": tutto ciò che la mente umana può pensare e far conoscere agli altri. Un momento straordinario questo della evoluzione umana. Il momento in cui veniva fuori qualcosa di nuovo e di sconosciuto da un mondo altrettanto ignoto. Quello della realtà inconscia.
Non tutti sono disposti ad accettare questo percorso evolutivo della lingua. Molti continuano a ritenere che come le origini della vita, così l'origine della lingua sia una cosa misteriosa. Forse è vero, forse no. Forse da un "grugnito" iniziale, forse dalla Natura, forse Adamo ed Eva possedevano già la parola, anzi il Verbo. Questo era per loro già pensiero, anche se non tradotto fisicamente in parola, ma espresso attraverso forme, colori e vibrazioni. Quando parlavano comunicavano interiormente con tutta l'anima e tutto il cuore con le piante, gli uccelli, le stelle, gli angeli ed i pianeti. Si rivolgevano al mondo visibile e quello invisibile. Il Verbo era il linguaggio universale impresso nella materia dell'universo. 
Verrà un giorno in cui gli uomini comunicheranno tra loro grazie alle proprie emozioni, e si comprenderanno perchè solo il Verbo è sia lingua che linguaggio, universali. Dobbiamo renderci conto che tutto ciò che creiamo nel mondo sottile, non solo con le nostre parole, ma anche con pensieri, sentimenti, gesti, ogni cosa è sia lingua che linguaggio, l'unico, quelle vero, reale ed originario, quello che è inscritto nella materia universale. Dobbiamo sempre "parlare", sempre creare, soltanto per il bene che la Natura ci indica. Essa è sottomessa al Verbo. Come lo siamo tutti noi. Il mistero del Verbo. Il Verbo oltre il mistero.




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Published on September 29, 2018 07:19

September 27, 2018

Socialisti & narcisisti



Salvador Dalì: "La Metamorfosi di Narciso" (1937)
















Non abbiate timore, non intendo parlare di socialismo politico, ma di chi frequenta i "social" e di chi si richiama a Narciso. Lo so già cosa state pensando. Proprio tu parli che ti dai tanto da fare sui "social". Vero, verissimo. La centralità dell'essere è diventata davvero insostenibile. Ognuno vuole essere al "centro". Il problema è stabilire cosa si intende per centro. 

Il fatto è che da quando aiutavo mio padre nella piccola tipografia postgutenberghiana di famiglia, per "centro" intendo sempre la "forma" che i compositori davano ai caratteri allineati sul tavolo per la composizione che avrebbe poi dato vita alla pagina stampata: la comunicazione. Nella mitologia greca Narciso si innamorò della sua immagine riflessa nell'acqua. Tanto si ammirò, che ne morì. 
Oggi siamo tutti tesi a vedere la nostra immagine riflessa non più e non solo sulla pagina di un libro o di un giornale, quanto sullo schermo di un pc, un tablet o uno smartphone. Un vortice continuo nel quale cadiamo e ci piace lasciarci andare. Una novità? Non direi, se sappiamo guardare indietro. Siete mai stati nella Portrait Gallery di Londra? Sapete quanti ritratti dipinti ci sono un quella famosa galleria? E quanti ce ne sono in tante altre gallerie d'arte e fotografiche, pubbliche e private, sparse in tutto il mondo? 
Milioni e milioni di ritratti. Tutti Narcisi. Che dire poi dei diari scritti in tutte le forme possibili nel mondo occidentale, come in quello orientale? Quante sono le gallerie d'arte che espongono statue di uomini e donne di tutti i tempi e in tutte le occasioni? Quante sono le chiese nel mondo con le immagini di tutti quei santi? Ognuna di queste opere d'arte non fanno altro che riproporci la vanità umana, con tutti i nostri pensieri espressi, nascosti, velati o esibiti sul palcoscenico di un mondo sul quale scorrono da millenni. 
Oggi continuano a mostrarsi sugli schermi liquidi della moderna tecnologia che si confronta con quella vecchia e continua a documentare, non solo noi stessi e l'ambiente in cui viviamo, ma anche la realtà alla quale apparteniano o siamo appartenuti. Ma dobbiamo renderci conto che il modello mediatico, il modo in cui questa realtà si manifesta e viene documentata è davvero unico ed originale. 
Sono chiamate "piattaforme". Sono in grado di contenere le varie realtà che ci circondano e, sopratutto, sanno come comunicare a milioni di persone in un modo mai visto prima. Si mescolano culture, bisogni, necessità, velleità, idee, aspirazioni, momenti di vita che possono essere testimoniati, fermati nel tempo e nello spazio, conservati e trasmessi come "memorabilia" umana. Un vero e proprio fiume che scorre senza mai fermarsi, in un susseguirsi di notifiche, immagini, suoni e accadimenti. 
Non sai più distinguere la realtà dalla fantasia, il vero dal falso, il mobile dell'immobile. L'immagine di Narcisio appare e scompare sotto le forme più impreviste ed imprevedibili. Politica, religione, scienze, filosofia, morale, economia tutto viene consumato nei meccanismi chiamati algoritmi, costruiti per prevedere le cose del mondo prima che esse possano accadere e manifestarsi. I media social non solo ci mettono in connessione, ma hanno fatto della comunicazione un culto, un idolo, un totem al quale siamo costretti ad affidare le nostre vite, stretti come siamo dal bisogno di essere connessi e presenti. Il rischio è quello di trovare Narciso ma perdere noi stessi.

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Published on September 27, 2018 07:05

September 22, 2018

Il mondo è un bellissimo posto per nascere ...

Questo libro, la più recente e aggiornata antologia di un autore che è una vera e propria icona mondiale della poesia dal secondo Novecento a oggi, conferma intatta la sua vitalità intellettuale, la sua piena apertura di fronte al mondo, e insieme la capacità davvero unica di cogliere e valorizzare poeticamente gli elementi più disparati del reale e offrirceli sulla pagina. Leopoldo Carra, curatore e traduttore dell'edizione scrive: 
«La poesia di Lawrence Ferlinghetti conquista il lettore grazie a molte seduzioni, una delle quali risiede nell'apparente semplicità di certi versi, nella loro disponibilità giocosa, nel loro contatto vivo e ininterrotto con i sentimenti della gente comune». Ma poi precisa, opportunamente, che «il miracolo di questa poesia è l'essere riuscita a pronunciare con la stessa scioltezza numerose allusioni a una complessa tradizione testuale, innanzitutto in lingua inglese». 
Ciò significa che il grande interprete della beat generation, il poeta che è anche editore - e tra l'altro di "Urlo" di Ginsberg -, ha innovato sulla consapevole base di un immenso patrimonio culturale, a partire dal quasi coetaneo Dylan Thomas, per comprendere Pound o Yeats, su su fino a Whitman, ma anche a tutta la grande poesia inglese dell'Ottocento. L'insieme è il variegatissimo messaggio (impegno civile, ambientalismo, descrizione del quotidiano, struggente meditazione sui genitori perduti) di un artista che concepisce il mondo, pur nella sofferenza che tutti coinvolge, come un «bellissimo posto / per nascere», un posto dove «il poeta come un acrobata / si arrampica sui versi». 
Leggere questa poesia, scritta da un poeta che il prossimo anno festeggerà i suoi cento anni pubblicando un altro romanzo che sarà l'ultimo della "beat generation" non è cosa che può passare inosservato anche da uno come questo blogger che "beat" non lo è mai stato, ma che invidia questo grande poeta italo-americano, prossimo centenario, per aver saputo essere presente sul palcoscenico del mondo in maniera sempre sperimentale. Non a caso il libro sarà intitolato "Little Boy". A quanto si sa fonderà elementi di autobiografia, critica letteraria, poesia e filosofia, secondo il criterio del flusso di coscienza tipico di uno degli animatori della City Lights di San Francisco, che in proposito ha dichiarato: "È un romanzo sperimentale, diciamo così." 
Continuare a sperimentare a cento anni? Bellissimo! Il mondo è proprio un bellissimo posto, come uno stage di teatro, per sperimentare sfidando il tempo. Per questa ragione ho pensato di omaggiare Ferlinghetti mettendolo sul palcoscenico del mio modesto blog, a fianco di chi del palcoscenico è stato maestro di lingua, di vita e di poesia: William Shakespeare. Qui di seguito ci legge troverà le sue poesie tradotte in italiano. Ai link evidenziati le letture in lingua inglese su YouTube. Per far conoscere Ferlinghetti a chi non ne ha mai sentito parlare, trascrivo dalla rivista Vogue un self-questionnaire ispirato al questionario di Proust con le risposte di Ferlinghetti su se stesso.
Passioni, piaceri, paure: confessione d’autore liberamente ispirata al questionario di Proust. Il tratto principale del mio carattere. Sono spensierato. Lo stato del mio spirito. Folle. Quel che apprezzo di più nei miei amici. L’amicizia. Quel che c’è di male in me. Scaccomatto. Quel che detesto più di tutto. Scaccomatto. Un talento o una qualità fisica che vorrei possedere. La genialità. Che cosa cerco di più in un romanzo. L’illuminazione. Il luogo dove sono stato più felice di lavorare. Certamente Parigi. Il libro che ha avuto il maggiore impatto sulla mia vita.  “Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane” di James Joyce (in Italia tradotto da Cesare Pavese e pubblicato nella Piccola Biblioteca Adelphi, ndr). I miei artisti preferiti. Me stesso. Il mio poeta preferito. Dylan Thomas, assolutamente. Il mio sogno di felicità. Non la dimenticherò mai… qual era il suo nome? La cosa più preziosa che possiedo. La memoria. Il modo migliore di passare il tempo. Ammazzando il tempo. Il mio miglior pregio. Gli occhi azzurri. Il mio motto nella vita.  Mangia bene, ridi spesso, ama molto, e don’t fuck up! Un personaggio che metterei sulla copertina di Vogue. Mamma mia! (è un’esclamazione!). Lawrence Ferlinghetti, 99 anni, è una leggenda della Beat Generation e della controcultura. Poeta, romanziere, drammaturgo, libraio, editore, pittore, nel 1953 fonda a San Francisco la libreria e casa editrice City Lights.
 (Intervista di Guido Andruetto.Vogue Italia, luglio 2018.)
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Il mondo è un bel posto      per esserci nati se non v'importa che la felicità     non sia sempre        così divertente  se non v'importa un po' d'inferno      una volta tanto   proprio quando tutto va bene       perché anche in paradiso    mica cantano      sempre
   Il mondo è un bel posto      per esserci nati se non v'importa che qualcuno muoia      tutti i momenti   o magari solo di fame      se non siete voi
 Oh il mondo è un bel posto     per esserci nati  se non v'importa molto     qualche cervello morto   nelle alte sfere     o una bomba o due    di tanto in tanto      nei vostri visi alzati  o certe altre improprietà     di cui è preda    la nostra Società      coi suoi uomini distinti    e quelli estinti      i suoi preti    e altri poliziotti      le sue varie segregazioni  le investigazioni congressuali      e altre costipazioni   che la nostra carne sciocca      eredita
 Si il mondo è il migliore posto     per un mucchio di cose come  far buffonate    e fare all'amore esser tristi   e cantare canzoni triviali e avere ispirazioni vagabondare   guardando ogni cosa      odorando fiori e dare pizzicotti alle statue    e perfino pensare     e baciare la gente e  far bambini e portare pantaloni      e agitare cappelli e     ballare      e andare a nuotare nei fiumi    a fare picnic      a mezza estate   e insomma     "godersela"
 Già  ma poi sul più bello di tutto questo       arriva sorridendo    l'imprenditore delle pompe funebri.
Greatest Poems
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COME VI PIACEWilliam Shakespeare
Tutto il mondo è una palcoscenico, e gli uomini e le donne sono soltanto attori. Hanno le loro uscite come le loro entrate,e nella vita ognuno recita molte parti, ed i suoi atti sono sette età.Prima, l'infante che miagola e vomita in braccio alla nutrice. 
Lo scolaro poi, piagnucoloso, la sua brava cartella, la faccia rilucente nelmattino, che assai malvolentieri striscia verso la scuola a passo dilumaca. E poi l'innamorato, che ti sospira come una fornace, e intasca una ballata tutta lacrime sopra le ciglia della sua adorata.
Poi, un soldato, armato dei moccoli più strambi, un leopardo baffutogeloso dell'onore, lesto di mano, pronto a veder rosso, che va acercar la bubbola della reputazione persino sulla bocca d'un obice. 
E poi il giudice, con un bel ventre tondo, farcito di capponi, occhiosevero, barba ritagliata a regola d'arte, gonfio di sentenze e di luoghicomuni: e in questo modo recita la sua parte. 
L'età sesta ti muta l'uomo in magro pantalone in ciabatte, le lenti al naso, la borsa sul fianco, e quelle braghe usate da ragazzo, ben tenute ma ormaispaziose come il mondo per i suoi stinchi rattrappiti, e il suo vocione da maschiaccio che ridiventa un falsetto infantile, un suono fesso e fischiante.
L'ultima scena infine, a chiuder questa storia strana, piena di eventi,è la seconda infanzia, il mero oblio, senza denti, senz'occhi o gusto,senza niente.
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Published on September 22, 2018 08:50

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Antonio   Gallo
Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one.
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