Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 112
August 31, 2018
"Ti hanno detto che il mondo è tondo e tu ci credi"

Si tratta di dare un significato al senso della comunicazione contemporanea in tutte le diverse facce che la stessa assume a seconda del mezzo che viene usato per trasmetterla. I sinonimi ci aiutano a mettere a fuoco la dimensione semantica di questa parola. Sono molti e importanti da conoscere perchè, anche se ci mettono al sicuro dalle "fake news", ci espongono anche a quelle sono chiamate "fufale".
Era una frase che mio padre, nato agli inizi del novecento, era solito ripetere spesso. Lui era un tipografo, uno "stampatore", come lo chiamavano in paese. Come lo era stato suo padre e gli altri suoi fratelli. Lui, le notizie le "creava", mettendo insieme le lettere sul compositore, riga dopo riga. In tipografia davano vita a quella che chiamavano la "forma", ci passavano sopra con un cilindro di caucciù l'inchiostro e il tutto veniva impresso sul foglio che dava vita alla "pagina". La "notizia" era pronta, così come era stata ordinata da chi l'aveva scritta, per essere servita a chi la voleva/doveva leggere. Lui non si curava tanto di chi gli diceva cosa stampare, nè tanto meno si chiedeva il perchè. Insomma non ne faceva una storia di "reputazione", come è il caso dell'autrice di questo importante libro da poco uscito sia in edizione italiana che in inglese.
Un termine che segnala la sua forza comunicativa sia da un punto di vista personale che sociale. Anche per questo libro, che parla proprio di reputazione, vale il fatto che questa parola sta per considerazione, credito, fama, gloria, onorabilità, opinione, popolarità, nome, celebrità, decoro, etichetta, marchio, nomea, fiducia, stima, vaglia, buon nome, concetto, affermazione, prestigio ...
Siamo sicuri che chi ha scritto questo libro possiede la necessaria "reputazione" per dire quello che dice? Siamo sicuri che ogni qualvolta ascoltiamo, leggiamo, discutiamo una notizia abbiamo opportunamente controllato quello che diciamo? Su cosa poggia quello che questo blogger scrive cercando di capire quello che pensa? Possono sembrare domande oziose o filosofiche, ma qui siamo arrivati al punto che non soddisfa più l'ormai classico e tradizionale "Cogito ergo sum".
Con il solo fatto di pensare, mi viene il dubbio che non posseggo la necessaria "reputazione" di cui mi sto occupando. E' un paradosso poco apprezzato della conoscenza moderna in questa nostra epoca nella quale siamo tutti sempre più connessi. Più informazioni abbiamo a disposizione, maggiore è il nostro bisogno di sapere quanta "reputazione" hanno i mezzi ai quali ci affidiamo per raccogliere le informazioni.
Il paradosso è, appunto, ciò che ci crea questa grande mole di notizie a nostra disposizione. Non aumenta, anzi mette in pericolo le nostre conoscenze. Siamo, infatti, sempre più dipendenti da chi ci fornisce queste informazioni. Possiamo, allora, smettere di parlare di "età dell'informazione" e passare a quella della "reputazione".
Un'informazione corretta, affidabile e puntuale dovrà essere filtrata, valutata e commentata da chi ne possiede le dovute competenze. Il pilastro fondamentale della intelligenza moderna è questa affidabilità che crea la "reputazione" in una duplice direzione: reputazione per chi la distribuisce e per chi la riceve e ne deve/vuole fare uso.

Si possono dare alcuni esempi storici di questo paradosso i quali poi, nel tempo, si sono succeduti con l'accelerazione della tecnologia comunicativa, dando vita alle "bufale" o "fake news" che dir si voglia. Il "falso" è diventato, così, sempre più attraente del "vero". Diventa simile al "vero" per combattere il messaggio che porta con sè, con il risultato che il "vero" diventa "falso".
Facciamo alcuni esempi di questo paradosso. Se dobbiamo credere ai grandi cambiamenti del clima e su quello che, a causa di questi, sarà il futuro del nostro pianeta, dovremo prendere nella giusta misura la "reputazione" delle fonti alle quali ci rivolgiamo per saperlo.
Giornali, riviste, siti ed istituzioni formeranno lo scenario informativo al quale ci rivolgeremo. Il che significa che diamo a questi la dovuta "reputazione" per la conoscenza dei fatti. Non possiamo fare altro e di meglio.
Un altro esempio può essere quello basato sulla incontrovertibile verità che sono stati gli atterraggi lunari effettuati dal programma Apollo dal 1969 al 1972. C'è stato qualcuno che ha innescato una "miccia", per così dire, che ha fatto poi diffondere a livello planetario, la "bufala". L'autore indiscusso è stato Kill Kaysing il quale pubblicò nel 1976 un libro intitolato "We never went to the Moon: America's $30 Billion Swindle". ("Non siamo mai andati sulla Luna: la truffa americana di 30 milioni di dollari").
Mai come in questo caso sono valide le canoniche domande che scaturiscono da "chi-cosa-quando-dove-perchè" per rispondere alla fatidica ultima domanda "perchè?". Si scopre così che Kill (un nome che è tutto un programma!) aveva lavorato in una delle società partecipanti al progetto lunare. Un ottimo punto di partenza per scoprire come andarono effettivamente le cose. Eppure, da quel libro nacquero innumerevoli movimenti di scettici lunari.
Medesima cosa accadde con l'11 settembre 2011 per l'attacco alle Torri Gemelle di New York. Inutile dare qui spiegazioni e risposte alle domande canoniche. Eppure, sorge spontaneo l'interrogativo che ognuno può chiedersi quante e quali sono le prove che uno come me e come voi può avere personalmente per fatti così eclatanti. Sono sempre prove relative dipendenti da altri i quali poggiano su altri e poi altri ancora. Ma, allora, il problema non riguarda più la grande massa di informazioni, quanto la loro "reputazione".
Si parla di "misinformazione" o "disinformazione" che poi diventano "bufale" o "fake news". Quello che si chiede a noi cittadini multimediali e digitali non è più tanto e solo il controllo di quello che sentiamo o leggiamo, quanto la capacità di ricostruire, attraverso il predetto canone, la "reputazione" della notizia in termini di credibilià accertata. Si tratta di saper leggere la realtà che ci circonda e ci coinvolge in ogni momento in questa società quanto mai più "liquida".
Come didtricarsi in un sistema esistenziale che oltre ad avere una sua vivibilità di superficie, ma non superficiale, comporta anche una precisa e profonda necessità di saper vivere in "profondità" sia interiore che esteriore. Ad esempio: saper comprendere la possibile correlazione che esiste tra i vaccini e il problema dell'autismo sarebbe una missione impossibile per chi non possiede gli strumenti necessari per conoscerne il nesso.
In questa epoca di "reputazione" non conta tanto e solo la conoscenza dei contenuti, quanto quelle che sono le correlazioni sociali con le quali ci si deve sapere collegare e che formano un corretto uso della conoscenza. Una "epistemologia" di secondo ordine, intesa studio critico della natura e dei limiti della conoscenza scientifica. Per influsso del corrispondente termine inglese, il vocabolo viene sempre più usato per designare la teoria generale della conoscenza, quindi, gnoseologia.
Saper porre e porsi domande per acquisire conoscenza partendo dal principio che gli uomini costruiscono la loro civiltà beneficiando di conoscenze che non posseggono. Stiamo creando un "cybermondo", un mondo in cui tutto ruota intorno all'informatica. Molti pensano sia Internet, la Rete, il Web, chiamatelo come volete. Invece va ben oltre. Una realtà esistenziale nella quale ognuno di noi dovrebbe sapere essere ed avere una identità sia individuale che sociale. Sono sicuro che se potesse ritornare mio Padre continuerebbe a dire: "Ti hanno detto che il mondo è tondo e tu ci credi". Io gli risponderei: "Eppur si muove!".

Published on August 31, 2018 07:49
August 29, 2018
Pensare il pensiero nella nebbia

My rating: 3 of 5 stars
L'ho scritto su in un post prima di leggere questo libro. Pensare per me significa dare una risposta quanto più esauriente possibile alle classiche, canoniche domande "chi-cosa-quando-dove-perchè". Le devi rivolgere prima a te stesso e poi al mondo che ti circonda. Ho scritto alla fine di quel post: "Spero davvero in una risposta di Mancuso. Spero di non finire ancora una volta in quella "nebbia" che Qoelet chiamò "hebel" e che qualcuno ha chiamato "vanità"."
Mi ripromettevo di parlarne a lettura del libro ultimata. Eccomi qui a scriverne. Date una occhiata ai tag che ho scelto per classificare il libro. Molta carne a cuocere, come si suol dire. Il filosofo, il professore, il credente Mancuso ha cercato di spiegare a modo suo, e in maniera eccellente, quanto poteva dire su questo elementare, naturale, quanto mai umano "bisogno" di pensare.
E' riuscito a dare una risposta? Anzi, è riuscito a rispondere alle cinque domande canoniche? Temo di no, e non per sua incapacità, intesa come scienza, coscienza e conoscenza. Lui ha ovviamente tutti gli strumenti per studiare, conoscere, pensare. Ma rimane il fatto che la parola alla quale lui non è riuscito a rispondere è quella di sempre: "mistero". Svelare il nostro mistero dell'essere. Perchè la chiave di tutto, a mio parere, sta proprio qua: decantare, svelare, squarciare, sfondare il "muro" di quello che per rimane il mistero dell'essere.
Perchè "siamo" quello che diciamo/pensiamo di essere, con tutti i nostri pensieri e bisogni? In un universo quale quello che affermiamo oggi di conoscere, un universo non più "unico" ma "multi-verso", il nostro "universo" interno si è ulteriormente allargato, espanso oltre il nostro tradizione "essere". E allora, questo significa che rimane impossibile sfondare quel "muro" che continua ad essere impenetrabile.
Una quanto mai insostenibile "leggerezza" che ci opprime dentro e fuori. Possiamo, forse, dare una risposta ai primi quattro interrogativi, ma quello finale è destinato a rimanere oscuro. Il bisogno di pensare sarà quanto mai vano perchè noi non sapremo/potremo mai dare una risposta. La "nebbia" di Qoelet continua ad avvolgerci e così sarà fino alla fine. Amen!
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August 28, 2018
"Il bisogno di pensare"

Così ho scritto in un "status update" qui su GR che ha un limitato numero di battute. Per questa ragione continuo a scrivere qui in questo spazio del mio blog. Dopo dieci anni scopro che continuo a leggere, collezionare libri, sia in cartaceo che in digitale. Ogni giorno ne scopro di nuovi, ritrovo di vecchi, in un alternarsi di nomi, date, luoghi, emozioni, ricordi, sensazioni e illusioni.
Ecco, questa mi sembra la parola finale che ben riassume quello che penso in questo momento e che sto cercando di trascrivere senza fermarmi in questo spazio. L'illusione di capire quello che faccio leggendo. Non importa se sullo schermo o sulla carta.
Lo spunto me lo offre anche un recente libro, l'ultimo in ordine di tempo, qualche minuto fa, che sono stato costretto a scaricare in Kindle. E' un libro del filosofo Vito Mancuso e ha un titolo ed un inizio quanto mai provocanti: "Il bisogno di pensare".
Qui sta il problema: il pensiero, il bisogno di pensare. Un bisogno che è una trappola, quella del tempo. Già, perchè il tempo è proprio una "trappola". Non l'ha detto Agostino, ma lo dico io, più modestamente. Questi dieci anni su GoodReads non sono stati altro che un continuo intrappolamento nel pensiero, nei pensieri di tutti, di ciascuno di noi che pensiamo, leggiamo, scriviamo.
Io non sono uno scrittore, non mi considero tale, pur avendo letto e scritto tutta la vita. Oggi con gli anni che ho vissuto li leggo a decine, tanti decenni da potermi considerare un "dinosauro" che ha imparato a leggere e scrivere mettendo in fila i caratteri di piombo nella piccola tipografia paterna, oggi che conto a migliaia i libri che ho raccolto qui in digitale, e li ritrovo in cartaceo dove mi accade di vivere, l'illusione di capire, oggi, scopro che rimane una mera illusione.
Me lo conferma l'inizio di quanto scrive Vito Mancuso nel suo libro: "Quanti anni avete? Diciassette, ventuno, cinquantacinque, ormai quasi sessanta, o forse sono già ottanta? Qualunque età abbiate, io vi chiedo qual è il vostro punto di orientamento in questa vita che scorre, che viene da una bianca sorgente che non conosciamo e va verso un mare nero che conosciamo ancora meno. Io, alla mia età, ancora mi chiedo a cosa affidarmi ..."
Lui, alla sua età, il 1962 ... Io, allora, quando lui nacque, ne avevo 23 ed ero a nord di Londra a lavorare in un ospedale mentale come studente infermiere per "guadagnarmi" la lingua. Ora comincio a leggere il suo libro che mi conferma l'illusione del pensiero.
Avendo finora scritto di getto, mi rendo conto che se non mi controllo non so dove questi pensieri mi porteranno. Non so nemmeno dove mi porterà la lettura di questo ennesimo libro che cerca di dare una risposta ai miei classici "chi-cosa-quando-dove-perchè" sui quali ho costruito non solo la mia vita di docente, cercando di trovare risposte utili per i miei studenti nella loro ricerca di un "mestiere" per vivere.
Spero davvero in una risposta di Mancuso. Spero di non finire ancora una volta in quella "nebbia" che Qoelet chiamò "hebel" e che qualcuno ha chiamato "vanità".
P.S. A lettura di libro ultimata completerò il discorso ...

Published on August 28, 2018 07:41
Dieci anni su GoodReads
Oggi fanno esattamente dieci anni che sono iscritto a goodreads. Non sono molti, ma non sono pochi se pensiamo in tempi digitali. Non cercherò ancora una volta di trovare la definizione giusta del tempo. Mi basta ricordare l'idea che ne aveva Sant'Agostino: «Se nessuno me lo chiede, lo so; se cerco di spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so». Se rivedo tutto quello che ho pensato, letto e scritto annego ...
Così ho scritto in un "status update" qui GR che ha un limitato numero di battute. Per questa ragione continuo a scrivere qui in questo spazio del mio blog. Dopo dieci anni scopro che continuo a leggere, collezionare libri, sia in cartaceo che in digitale. Ogni giorno ne scopro di nuovi, ritrovo di vecchi, in un alternarsi di nomi, date, luoghi, emozioni, ricordi, sensazioni e illusioni.
Ecco, questa mi sembra la parola finale che ben riassume quello che penso in questo momento e che sto cercando di trascrivere senza fermarmi in questo spazio. L'illusione di capire quello che faccio leggendo. Non importa se sullo schermo o sulla carta.
Lo spunto me lo offre anche un recente libro, l'ultimo in ordine di tempo, qualche minuto fa, che sono stato costretto a scaricare in Kindle. E' un libro del filosofo Vito Mancuso e ha un titolo ed un inizio quanto mai provocanti: "Il bisogno di pensare".
Qui sta il problema: il pensiero, il bisogno di pensare. Un bisogno che è una trappola, quella del tempo. Già, perchè il tempo è proprio una "trappola". Non l'ha detto Agostino, ma lo dico io, più modestamente. Questi dieci anni su GoodReads non sono stati altro che un continuo intrappolamento nel pensiero, nei pensieri di tutti, di ciascuno di noi che pensiamo, leggiamo, scriviamo.
Io non sono uno scrittore, non mi considero tale, pur avendo letto e scritto tutta la vita. Oggi con gli anni che ho vissuto li leggo a decine, tanti decenni da potermi considerare un "dinosauro" che ha imparato a leggere e scrivere mettendo in fila i caratteri di piombo nella piccola tipografia paterna, oggi che conto a migliaia i libri che ho raccolto qui in digitale, e li ritrovo in cartaceo dove mi accade di vivere, l'illusione di capire, oggi, scopro che rimane una mera illusione.
Me lo conferma l'inizio di quanto scrive Vito Mancuso nel suo libro: "Quanti anni avete? Diciassette, ventuno, cinquantacinque, ormai quasi sessanta, o forse sono già ottanta? Qualunque età abbiate, io vi chiedo qual è il vostro punto di orientamento in questa vita che scorre, che viene da una bianca sorgente che non conosciamo e va verso un mare nero che conosciamo ancora meno. Io, alla mia età, ancora mi chiedo a cosa affidarmi ..."
Lui, alla sua età, il 1962 ... Io, allora, quando lui nacque, ne avevo 23 ed ero a nord di Londra a lavorare in un ospedale mentale come studente infermiere per "guadagnarmi" la lingua. Ora comincio a leggere il suo libro che mi conferma l'illusione del pensiero.
Avendo finora scritto di getto, mi rendo conto che se non mi controllo non so dove questi pensieri mi porteranno. Non so nemmeno dove mi porterà la lettura di questo ennesimo libro che cerca di dare una risposta ai miei classici "chi-cosa-quando-dove-perchè" sui quali ho costruito non solo la mia vita di docente, cercando di trovare risposte utili per i miei studenti nella loro ricerca di un "mestiere" per vivere.
Spero davvero in una risposta di Mancuso. Spero di non finire ancora una volta in quella "nebbia" che Qoelet chiamò "hebel" e che qualcuno ha chiamato "vanità".
Il bisogno di pensare
Così ho scritto in un "status update" qui GR che ha un limitato numero di battute. Per questa ragione continuo a scrivere qui in questo spazio del mio blog. Dopo dieci anni scopro che continuo a leggere, collezionare libri, sia in cartaceo che in digitale. Ogni giorno ne scopro di nuovi, ritrovo di vecchi, in un alternarsi di nomi, date, luoghi, emozioni, ricordi, sensazioni e illusioni.
Ecco, questa mi sembra la parola finale che ben riassume quello che penso in questo momento e che sto cercando di trascrivere senza fermarmi in questo spazio. L'illusione di capire quello che faccio leggendo. Non importa se sullo schermo o sulla carta.
Lo spunto me lo offre anche un recente libro, l'ultimo in ordine di tempo, qualche minuto fa, che sono stato costretto a scaricare in Kindle. E' un libro del filosofo Vito Mancuso e ha un titolo ed un inizio quanto mai provocanti: "Il bisogno di pensare".
Qui sta il problema: il pensiero, il bisogno di pensare. Un bisogno che è una trappola, quella del tempo. Già, perchè il tempo è proprio una "trappola". Non l'ha detto Agostino, ma lo dico io, più modestamente. Questi dieci anni su GoodReads non sono stati altro che un continuo intrappolamento nel pensiero, nei pensieri di tutti, di ciascuno di noi che pensiamo, leggiamo, scriviamo.
Io non sono uno scrittore, non mi considero tale, pur avendo letto e scritto tutta la vita. Oggi con gli anni che ho vissuto li leggo a decine, tanti decenni da potermi considerare un "dinosauro" che ha imparato a leggere e scrivere mettendo in fila i caratteri di piombo nella piccola tipografia paterna, oggi che conto a migliaia i libri che ho raccolto qui in digitale, e li ritrovo in cartaceo dove mi accade di vivere, l'illusione di capire, oggi, scopro che rimane una mera illusione.
Me lo conferma l'inizio di quanto scrive Vito Mancuso nel suo libro: "Quanti anni avete? Diciassette, ventuno, cinquantacinque, ormai quasi sessanta, o forse sono già ottanta? Qualunque età abbiate, io vi chiedo qual è il vostro punto di orientamento in questa vita che scorre, che viene da una bianca sorgente che non conosciamo e va verso un mare nero che conosciamo ancora meno. Io, alla mia età, ancora mi chiedo a cosa affidarmi ..."
Lui, alla sua età, il 1962 ... Io, allora, quando lui nacque, ne avevo 23 ed ero a nord di Londra a lavorare in un ospedale mentale come studente infermiere per "guadagnarmi" la lingua. Ora comincio a leggere il suo libro che mi conferma l'illusione del pensiero.
Avendo finora scritto di getto, mi rendo conto che se non mi controllo non so dove questi pensieri mi porteranno. Non so nemmeno dove mi porterà la lettura di questo ennesimo libro che cerca di dare una risposta ai miei classici "chi-cosa-quando-dove-perchè" sui quali ho costruito non solo la mia vita di docente, cercando di trovare risposte utili per i miei studenti nella loro ricerca di un "mestiere" per vivere.
Spero davvero in una risposta di Mancuso. Spero di non finire ancora una volta in quella "nebbia" che Qoelet chiamò "hebel" e che qualcuno ha chiamato "vanità".

Published on August 28, 2018 07:16
•
Tags:
pensiero, qoelet, vito-mancuso
August 24, 2018
La "vendetta" del blogger

Nelle tre immagini che corredano questo articolo posso racchiudere graficamente i miei pensieri. Mi riferisco all'edificio nel quale, nella Valle dei Sarrasti, nella città di Sarno, feci i miei studi giovanili. Un edificio dalle linee chiaramente dettate dallo stile del tempo. Ogni tempo, si sa, ha il suo. Sia detto senza ipocrisia, questo stile dimostra ancora oggi, la sua forza espressiva e la sua voluta "pesantezza" dell'essere. Metteteci dentro tutto quello che può contenere una parola che allora si poteva chiamare "cultura" e che, oggi, chiameremmo "conoscenza".
Qualcuno ha scritto che "il tempo si muove in una direzione, i ricordi in un'altra". E' vero. E' il tempo stesso a confermarmelo ogni giorno, man mano che scrivo per capire quello che penso. Questo scritto è la sequela di un post precedente, in cui ho parlato della straordinaria diffusione della lingua inglese negli ultimi tempi. Un "leviatano" dalle mille teste, con il quale ho dovuto confrontarmi per vivere, col passare degli anni. Mi ripropone continuamente i ricordi e mi dimostra come questi emergono man mano che il tempo si dilata.
Un edificio costruito per ospitare le "Scuole Elementari" che dovevano formare i cittadini di un "mondo" che sarebbe diventato "nuovo". Come, infatti, è diventato. Nessuno, però, avrebbe potuto immaginarlo come quello di oggi. Non ricordo molto dei giorni trascorsi in questo edificio, quasi nulla. Dall'Asilo Scuola delle suore di Ivrea in piazza Croce, venni trasferito qui per i successivi tre anni. Ricordo vagamente una insegnante vestita di nero, la signora Tura. Poi, per i tre anni della Scuola Media, i ricordi cominciano a apparire molto più chiaramente.
Scendemmo, in mancanza di meglio, (eravamo in pieno dopoguerra), al di sotto del livello stradale, nelle famose "cantinelle". Quei buchi neri, che si intravedono nella foto a livello della strada, segnalano le finestrelle di quelle che furono le aule per le classi che frequentai nei tre anni. In diversi post precedenti su questo blog ho pubblicato anche alcune foto delle classi, instantanee tradizionali che si facevano a fine anno scolastico.
Nel frattempo, quell'edificio aveva visto "nascere" sulle sue spalle "fasciste" un altro piano, il terzo, nel quale sarei poi salito per accedere alle vette del "Parnaso della conoscenza": era nato quel "Liceo-Ginnasio T. L. Caro" che sarebbe stato la culla della cultura non solo della città di Sarno, ma di gran parte del suo territorio, nella storica Valle che fu dei Sarrasti.

Quei due anni del ginnasio per me furono un travaglio. Come ho avuto modo di dire in diverse occasioni il problema era strettamente personale. Poca voglia di studiare, specialmente quei due "mostri" classici, il latino e il greco. Capivo poco e qualche "professore", nemmeno laureato, allora molto noto e consultato dalle "elites" culturali del "Circolo dei Signori" sarnesi, ebbe modo di dire a mio padre che mi avrebbe potuto far lavorare con lui nella tipografia paterna.
Non era detto che dovevo per forza studiare in una scuola che non era fatta per me. Avrei dovuto frequentare invece del liceo quella scuola che allora si chiamava "Avviamento Professionale". Forse aveva ragione. Forse, però, sarebbe stato anche bene chiedersi perchè il "ciuccio" fosse tanto "ciuccio". Ma questo lo avrei capito dopo. Per questa ragione sto qui a scriverne.
Fui costretto così ad "emigrare" altrove, lasciare il prestigioso ginnasio-liceo, come fu costretto a fare anche mio fratello. Per quanto riguarda la volontà e l'intelligenza, lui, buona anima, ne aveva da vendere, molto di più di quanto ne avessi io. Sono ricordi questi che ti marcano a fuoco nella memoria e che il tempo non riesce a cancellare. Ma la mia "partita" era ancora tutta da giocare, quella con le lingue "morte", intendo.
Questa fu la ragione per la quale non scelsi di studiare all'università il francese che, tutto sommato, mi piaceva molto. In maniera del tutto (in)conscia, quando mi diplomai altrove, decisi di studiare le lingue "vive". Scelsi l'inglese e non il francese. Lo feci seguendo le indicazioni della rivista "Le Lingue del Mondo" che era edita a Firenze dalla casa editrice Valmartina.
Un professore anglo-fiorentino, che si chiamava William Edmondson, autore di una delle prime brillanti grammatiche di lingua inglese che aveva per titolo "L'Inglese, lingua del mondo" mi convinse che quella era la scelta giusta. Quella lingua sarebbe diventata la lingua del mondo. Fu così. Una intuizione che mi avrebbe permesso conoscere il "mondo nuovo" al quale aspiravo e al quale, nè il latino nè il greco, avrebbero potuto mai introdurmi.
Ma avrei dovuto percorrere ancora molte altre diverse vie che sarebbero diventate strade per condurmi di nuovo in questo edificio che, nel frattempo, aveva mutato faccia. Il terzo piano ospitava ora il Liceo. A dire il vero ci arrivò prima mia moglie con la quale avevo condiviso il percorso universitario. Era la seconda metà degli anni settanta, il "mostro inglese" allungava giorno dopo giorno sempre più i suoi tentacoli.
Dal "Seminario di Lingua e Letteratura Inglese" dell'I.U.O. di Napoli, alla "Martin School" in piazza Borsa a Napoli,, dalla Badia di Cava al Seminario Vescovile di Nola, tutte le vie che questo blogger aveva percorso partendo dalla "Rotebühlstraße" di Stuttgart, all' "Harpebury Hospital" di St. Albans, ogni via percorsa sembrava indirizzarmi verso le origini, verso quel terzo piano dove avrei potuto vivere la mia "vendetta". Con l'aiuto di quell'indimenticabile "manager" che fu il preside Francesco d'Avino, fondammo la sezione del Liceo Linguistico del "Liceo-ginnasio T. L. Caro". Il "mostro-leviatano inglese" aveva favorito l'evoluzione della specie.

Oggi, a distanza di tanti anni, quel terzo piano è scomparso. Il caso, nel quale io fermamente credo, ha voluto che proprio mentre scrivevo questo post, FB mi trasmettesse la notizia riguardante la ricostruzione di questo edificio che in questa foto vedete nel suo aspetto attuale. Hanno abbattuto quel terzo piano, dicono, per motivi di sicurezza. I "ricostruttori", non so per quali ragioni, hanno inteso riproporre il suo "rigore" architettonico originale gettando nella sua infinita ricostruzione non so quanti milioni di lire-euro.
Nella comunicazione su FB che ho citato, chi vuole può leggere e soddisfare la sua eventuale curiosità qui al link. Non mi interesso di politica, non la pratico, non essendone capace. Mi basta soltanto riflettere su quanto il tempo possa essere implacabile giustiziere delle tante indiscusse stupidità che gli uomini, che si chiamano politici, sono capaci di fare.
A poca distanza da questo edificio si eleva un'altra storica "vergogna" della città dei Sarrasti: il cosidetto "Teatro 5 Maggio". Ma questa è un'altra storia della quale io faccio soltanto la parte di spettatore. Il "Liceo T. L. Caro" continua a vivere la sua felice ed attiva vita nel "mondo nuovo" che anche questo blogger, pur se in minima, piccola parte, non ha timore di dire, ha concorso a creare con l'aiuto del "leviatano" inglese. Anche con l'aiuto del tempo, l'unico vero amico: la "vendetta del blogger".

Published on August 24, 2018 04:23
August 23, 2018
Flatulenza inglese

Graham Norton è un attore, presentatore, scrittore e commediografo inglese che gestisce la pagina dei lettori sul prestigioso quotidiano inglese The Telegraph. Nei giorni scorsi ha pubblicato la lettera che riproduco qui sopra in una clip così come è apparsa sul giornale. Chi è curioso può cliccare al link del quotidiano e entrare nella pagina. Una lettera esilarante, come lo è anche la risposta che Graham dà alla sua lettrice. Ecco quanto scrive Karen, dalla regione dell'Hantshire:
Caro Graham,
sono sposata con mio marito da nove anni, lo amo molto, ma non amo le sue continue cattive abitudini. In particolare il suo lasciar passare continuamente grandi quantità di aria nelle sue vie aeree, sia di sopra che di sotto. Gli ho chiesto di smettere molte volte e di astenersi specialmente quando ci sono altre persone, oltre a familiari ed amici. Trovo la cosa molto imbarazzante e disgustoso. Lui dice che lo faceva anche suo padre. Cosa faccio?"
Karen, HantsMia moglie mi ha segnalato questa chicca epistolare sul giornale e non posso fare a meno di commentarla a riprova che il mio blog non è poi tanto "barboso" come pensa uno dei miei cinque affezionati lettori.
La lettera mi ha riportato alla mente qualcosa di simile che mi accadde molti anni fa durante la mia lunga, giovanile permanenza in Inghilterra agli inizi degli anni sessanta del secolo scorso. Vivevo nello "staff block" del personale dell'ospedale dove lavoravo a nord di Londra. Un edificio di tre piani dove alloggiava il personale residente. Le stanze per dormire, il ristorante, la biblioteca, gli uffici, la lavanderia, la sala giochi, radio, i telefoni.
Nel salotto con la televisione, (allora c'erano tre canali, BBC1, BBC2, ITV), ogni sera ci ritrovavamo per vedere ognuno di noi la trasmissione preferita. Chi arrivava per primo aveva il diritto di vedere quello che voleva. Spesso capitava di trovarci mr. Murphy, un irlandese molto educato, acculturato ma anche abbastanza strano e alquanto originale. C'erano della grandi e comode poltrone e ci sedevamo in cerchio davanti allo schermo.
L'irlandese era un soggetto alto, con baffi sottili e ben curati. Era un piacere conversare con lui, pronto a discutere con noi che eravamo di molte nazionalità, lingue e culture diverse. Parlava con tutti, ascoltava, tutti, piaceva a tutti. O quasi ...
Aveva un difetto per il quale non tutti lo apprezzavano. Spesso, mentre stavamo a guardare la tv, si sollevava dalla poltrona con metà del suo sedere e dava via libera alle sue flatulenze in maniera sonora: scoreggiava in libertà. Poi, con un classico: "excuse me, gentlemen!" continuava a guardare come niente fosse successo.
Meno male che lui veniva a guardare soltanto il telegiornale, e il programma di attualità quotidiana della BBC "Panorama". Erano flatulenze sonore che non lasciavano dietro profumi vietati. Ma sempre sgradevoli flatulenze erano. Non tutti erano disposti ad accettarle.
Molti non rimanevano nel salotto quando c'era lui, altri ci ridevano su. Il compromesso era la soluzione. Nella risposta Graham consiglia appunto questo alla sua lettrice: convincere il marito a non fare flatulenze in pubblico e magari accettarle in privato. Se il marito insiste, allora vuol dire che lei, per lui, vale meno di una scoreggia ...

Published on August 23, 2018 09:43
August 22, 2018
La (in)sostenibile leggerezza della lingua inglese

Nessuna lingua nella storia umana ha dominato, e continua a dominare, come e quanto la lingua inglese. Ho deciso di scrivere questo post dopo di avere letto un lungo articolo pubblicato sul quotidiano inglese The Guardian intitolato: "Behemoth, bully, thief: how the English language is taking over the planet" ovvero "Mostro, bullo, ladro: come la lingua inglese sta conquistando il pianeta".
Behemoth è un mostro biblico, un gigantesco "octopus", compagno del Leviatano, un nome che l'autore dell'articolo si è compiaciuto di dare a questa lingua, certamente per attirare l'attenzione del lettore. E' ritratto nell'immagne qui sopra. Non ha poi tutti i torti. Nel mio piccolo, per quanto mi riguarda, ho deciso di raccogliere la sua provocazione e raccontare anche la mia esperienza con questo "mostro".
Un fatto quanto mai personale che inizia oltre mezzo secolo fa e che tocca in gran parte quella romantica, affascinante e misteriosa area personale che ognuno di noi si costruisce con le proprie mani ogni giorno e porta con sè sin dalla nascita, fino alla conclusione dei suoi giorni: la biografia di se stessi. Un mondo pieno di ricordi, che riguarda la propria persona come tante altre, denso quanto mai di fatti e avvenimenti accaduti nell'arco di diversi secoli nei quali sono stati coinvolti popoli, nazioni, lingue e culture diverse.
Ma vediamo prima cos'è questa lingua mostro, bullo, ladro, presente dappertutto, dominatore e predatore. Sin da inizi piuttosto poco propizi e oscuri, nata ai limiti di un arcipelago minore europeo, questa lingua, lentamente si è estesa ovunque, in maniera imprevista, insinuandosi furtivamente dappertutto, come un ladro, appunto. Oltre quattrocento milioni di persone la parlano come prima lingua, un miliardo come seconda lingua. E' lingua ufficiale in una sessantina di paesi, e lingua franca in un'altra dozzina o più. Nessun altra lingua si è diffusa così rapidamente ed è usata in tutto il pianeta. Una lingua alla quale tutti "aspirano" ad imparare in maniera "internazionale", per operare nel mondo del commercio, oppure anche per sfuggire da una realtà personale fatta di miserie e difficoltà.
L'inglese è diventata in tal modo la lingua degli affari, di internet, della scienza, delle arti, della diplomazia, una stella necessaria per "navigare" nella vita di ogni giorno. Riesce ad insinuarsi, "ruba" e lascia una "traccia" ovunque venga usata. Annienta lingue locali, travolge dialetti, oscura e inizia tradizioni, crea ed influenza letterature. Nell'arco di un millennio e più si è alimentata da fonti classiche europee e non. Non si contano i furti e i prestiti linguistici dal greco, dal latino, dall'hindi, dall'arabo, dal francese. Non c'è stato un posto al mondo dove un parlante la sua lingua, navigatore, esploratore, conquistatore, colonialista, politico, amministratore, schiavista, letterato che non abbia lasciato traccia della sua presenza.
Questo fino al ventesimo secolo. Quando poi, quei rozzi ed incolti ex-coloni, i "yankees", diventarono gli Usa, la potenza mondiale, ebbe inizio la fase che possiamo chiamare della "connessione" mondiale del pianeta, non solo attraverso il commercio, ma anche per mezzo della scienza diventata tecnologia. Uno studioso di nome Manfred Görlach, di nazionalità tedesca, ha fatto un minuzioso e preciso lavoro di ricerca linguistica che solamente un tedesco avrebbe potuto fare, documentando il grande numero di varietà regionali che la lingua inglese ha assunto nel tempo in una ventina di lingue europee.
Un influsso inarrestabile ed imprevedibile sino ad arrivare a parole ultime come ad esempio queste due: "geek" e "nerd". C'è un dizionario inglese online che si chiama Urban Dictionary che ogni giorno milioni di lettori aggiornano inviando parole nuove ed in uso le quali vengono votate e classificate, collocandole in contesti significativi. Provate a testare le parole geeg e nerd e vi renderete conto di come questa lingua sia davvero "liquida", in un mondo che ha fatto della liquidità connettiva la sua ragion d'essere. Cercano di difendersi molti paesi come la Francia e Israele, ergendo muri a questo "tzunami" linguistico senza riuscirci.
Basta ricordare che i francesi si ostinano a chiamare, con poco senso del ridicolo, il pc col nome di "ordinateur". Anche in Italia non mancano dotti e tradizionalisti puristi che si ostinano a risponderti in latino quando sui "social" si imbattono in una parola inglese. I "social", appunto, hanno finito di fare il resto. L'autore dell'articolo pubblicato dal Guardian, Jacob Mikanowski, è uno scrittore americano di origini polacche che vive in California. Può essere portato ad esempio di quello che può fare una lingua nel suo processo di internazionalizzazione del sapere e delle conoscenze.
Tutto ciò è avvenuto in questi ultimi decenni. Posso indicare con precisione la data per fatto personale. Questo mi porta a lasciare la traccia che mi ha dato finora l'articolo del giornalista del giornale inglese e passare a scrivere della mia esperienza personale, come ho indicato all'inizio del post. L'articolo è in inglese, è molto lungo ed interessante. Rimando il lettore al suo testo. Qui continuo a scrivere invece della mia piccola, privata e personale esperienza con questa lingua. Ne ho parlato in diverse occasioni su questo blog, in maniera episodica.
Quello che sto per dire farà scoppiare a ridere qualcuno, ma è la pura verità. Sono arrivato a questa conclusione in questi ultimi tempi che vivo da "dinosauro", riflettendo sul passato. Fu precisamente agli inizi degli anni cinquanta del secolo e millennio trascorsi, quando frequentavo il ginnasio "T.L. Caro" a Sarno, nella Valle dei Sarrasti, mia città di adozione, nella quale ho trascorso gran parte degli anni della vita familiare e professionale. A quel tempo decisi di studiare la lingua inglese, pur avendo amato il francese che quella straordinaria insegnante nolana, dai fiammanti capelli rossi, mi aveva trasmesso con tanta passione.
Lo decisi perchè detestavo le lingue classiche, il latino e il greco. Col tempo mi sono reso conto che la colpa era in gran parte mia. Dicevano, ero svogliato e distratto, ma era anche colpa di chi insegnava guardando all'indietro invece che in avanti. A distanza di tanti anni, circa settanta, ne ho avuto la conferma. Mia nipote frequenterà il liceo classico a Bologna e studierà queste due lingue anche in lingua inglese, con il metodo "natura". Fu colpa, quindi, del latino e del greco del ginnasio del mio tempo, se decisi di studiare le lingue vive e moderne, inglese, tedesco e francese. Guardavo e pensavo al futuro, quel futuro che oggi è arrivato e che molti si ostinano a non voler accettare, perchè non sanno leggere ... l'inglese!
Si spiega così il titolo che ho deciso di dare a questo mio post che è anche un ricordo. Il peso del passato può essere davvero insostenibile, se non si riesce a saper guardare in avanti per costruire il futuro. Soltanto se si riuscirà a rendere "sostenibile" il "passato", in maniera costruttiva ed intelligente questa presenza, potremo/sapremo costruire un futuro migliore. Da questo punto di vista mi sento di dire che la lingua inglese, ha dimostrato di possedere quella necessaria leggerezza dell'essere lingua che l'ha messa in condizione di creare un mondo nuovo e diverso, simile a quello che i latini riuscirono a fare qualche millennio fa.

Published on August 22, 2018 08:29
August 21, 2018
Ieri, oggi, domani

My rating: 3 of 5 stars
Questo libro è stato scritto da un esimio "cugino" francese e parla di cose e "tempi andati" francesi. Naturale. Ma almeno il 90% di questi "tempi" sono anche tempi italiani, nostrani. Se poi mi allungo da questo ambiente familiare tra francesi e italiani ed entro in un ambito anglo-sassone questa percentuale scende alla metà. Ciò significa che lo spazio condiziona il tempo, ma le cose sostanzialmente restano le stesse. Rimane il fatto che se si fa "zooming-out" si scopre che tutto il mondo è paese. Con l'operazione inversa "zooming-in" si scopre che le cose nel mio condominio si fanno in maniera diversa da quelle del condominio del palazzo accanto. Oggi come ieri. Domani come oggi. Questo significa che i tempi passati presenti e futuri non sono né belli né brutti, né migliori o peggiori. Sono soltanto tempi da vivere nel modo in cui ognuno riesce a vivere. In Francia come in Italia ...
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August 18, 2018
Sapete cos'è il "book bragging"?

Mi pareva esagerato e ho digitato in rete queste semplici quattro parole: "self accused of book bragging". "Self" è il nome dello scrittore, "accused" è la parola "accusato", "book bragging" sta per il vantarsi di leggere, in questo caso 50 libri.
Perchè scrivo questo post? Semplice: esprimere la mia meraviglia non solo per la notizia, ma sopratutto perchè in un baleno, tra le montagne della Costa d'Amalfi, a Tramonti, dove mi trovo, poter verificare una notizia del genere in tempo reale, dalla carta del quotidiano acquistato a Maiori in mattinata, al collegamento al link del quotidiano inglese per verificare la notizia, tutto in tempo reale, mi pare incredibile.
L'altra settimana, ho letto una recensione su "Il Sole24Ore" di una mostra Ginevra sui giardini in letteratura. Si parlava di un ricco catalogo in vendita. Per curiosità ho fatto una ricerca su Amazon e in tempo reale mi hanno detto tutto del libro. Se avessi fatto l'ordine di acquisto il libro me lo avrebbero spedito qui tra le montagne della Costa d'Amalfi il giorno dopo. Tramonti-Amazon-Ginevra-Tramonti, in tempo reale, in 24 ore. Mi chiedo: ma in che mondo viviamo? Qui al link potrete leggere l'articolo sul "Daily Telegraph" così come l'ho letto io.

Published on August 18, 2018 09:58
Fortuna, Prudenza e Ragione sul ponte di Genova

"Nessuno può gettare sopra il fiume della vita il ponte sul quale tu devi passare, nessun altro che tu." Così ha scritto Friedrich Nietzsche. Questa immagine del ponte Morandi, crollato a Genova nei giorni scorsi, è passata alla storia. Quello che ha detto il filosofo tedesco in questo pensiero, è tratto da un suo libro su Schopenhauer e ci invita a riflettere.
A leggere in maniera superficiale, può sembrare che Nietzsche dica: ognuno si costruisce il proprio ponte per attraversare il fiume della vita. Nessuno può costruirlo per te. Invece, quel ponte maledetto crollato, che passa sul letto di un torrente in secca, fu costruito per unire la città e facilitare gli incontri tra i cittadini di Genova. Chi è stato costretto a passarci su, suo malgrado, ha sempre rischiato la vita, pur non avendolo costruito lui.
Ne avrebbero benissimo fatto a meno quelli che hanno pagato con la morte quel passaggio. Ma era scritto diversamente. Lo hanno attraversato ed hanno pagato tristemente il pedaggio del loro destino. Pioveva forte a Genova quel mezzogiorno della vigilia di Ferragosto. Il torrente era ancora in secca, ma non ci fu abbastanza "prudenza" per una "fortuna" che sembrava non avere avuto la necessaria "ragione".
Notate bene: ho usato tre parole tra virgolette, sulle quali intendo costruire questi pensieri: "Fortuna" - "Ragione" - "Prudenza". Parole-chiave alle quali faccio spesso riferimento per aiutarmi a vivere. Risalgono al ricordo di un corso che frequentai nei miei anni universitari. Un libro che conservo gelosamente del prof. Mario Santoro. La fortuna, la ragione e la prudenza, come tre sorelle che caratterizzano la vita degli uomini. E' vero solo in parte che, come dice Nietzsche, ognuno di noi costruisce il suo "ponte", la sua fortuna, il suo destino.
Cosa fu a stabilire la "fortuna" di quel giovane autista che riuscì a bloccare il suo furgone a pochi metri dal limite che segnò la frattura del ponte maledetto? Chi devono ringraziare quegli automobilisti i quali riuscirono ad attraversarlo senza che precipitassero nel vuoto? Perchè gli "stralli" che reggevano il ponte cedettero proprio al passaggio di quelle auto che finirono nel vuoto con quegli innocenti automobilisti? Interrogativi ai quali è impossibile rispondere. Fortuna, ragione e prudenza sembrano intrecciarsi tra di loro in maniera inesplicabile. Come queste tre "sorelle" che governano la nostra esistenza.
La "Prudenza" dice che gli "stralli" non avrebbero dovuto cedere se qualcuno fosse stato attento a segnalare un loro possibile cedimento in qualsiasi momento. La "Fortuna" ha potuto salvare chi ha lasciato passare sotto la pioggia battente, chi ha attraversato il ponte prima del cedimento. Sarebbe stato compito della "Ragione" prevenire tutto quello che è successo, soltanto se questa stessa "Ragione" non fosse stata usata in maniera così "irragionevole".
In quel corso monografico ricordo che si diceva in maniera chiara che il "prudente" è un uomo "fortunato" soltanto se ha "ragione" a costruire argini quando il fiume è in secca. Sul ponte Morandi, le tre sorelle "Fortuna" "Ragione" "Prudenza" sono state tragicamente ignorate.

Published on August 18, 2018 06:56
MEDIUM
Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one.
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