Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 115

July 28, 2018

Il diavolo non esiste. L'ha detto lui stesso a Salvini

Strumentalizzare anche il diavolo è proprio della politica e quindi della vita. Per diavolo si intende, ovviamente, il "male", quella calamità che da sempre condiziona la vita di tutti gli uomini.
Chiamatelo come volete, il diavolo ha assunto nel corso dei secoli molti nomi, tanti, troppi, in tutte le lingue, le culture e le civiltà. Ha suscitato un certo scalpore, oltre che una violenta polemica, l'accostamento che è stato fatto in questi giorni con l'uomo politico in questo momento Ministro degli Interni e Vice Presidente del Consiglio, il segretario leghista Matteo Salvini.
Il settimanale "Famiglia Cristiana" l'ha associato niente di meno che a Satana per le sue idee e la sua politica nei confronti dell'immigrazione. "Vade Retro Salvini" suona più di un anatema. Il settimanale cattolico ha usato questa espressione come una clava nei confronti dell'uomo politico. "Niente di personale o ideologico", hanno spiegato in perfetto stile confessionale ipocrita. "Si tratta del Vangelo", hanno aggiunto, mettendo le mani avanti. La sostanza resta sempre la stessa: strumentalizzazione politica, ideologica, religiosa ed anche giornalistica. 
Proprio in questa luce intendo affrontare il problema, da bibliomane quale mi ritengo essere, ricordando alcune delle tantissime "presenze" di scritture diaboliche, per così dire, che si incontrano nei libri. La Rete mi aiuta a seguirne le tracce, anche se è facile smarrirsi, più di quanto non lo fosse nella "selva" dantesca. Forse addirittura, come ho letto da qualche parte, la Rete e Internet sono entrambi luoghi infernali, popolati appunto da "diavoli". Questi siamo noi.
L'idea più intelligente che il diavolo potesse avere è stata quella di far dire a un poeta come Charles Baudelaire, che lui, il diavolo, non esiste. Tanto per iniziare ad ingannare gli uomini. Fu solo un semplice trucco a cui in molti credono ancora. Proprio su questa idea, l'inganno continua. Inizio da quell'opera che ritengo fondamentale per comprendere la vera essenza di questa entità non soltanto misteriosa per la sua fama, combattuta, ed anche in molti casi esaltata. In questa prima citazione letteraria il diavolo non porta questo nome, ma quello che lo qualifica in maniera totale: l'Anticristo.
"I Tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo" sono l’opera 'ultima' di Solov’ëv, l’apice e forse la ritrattazione di tutta la sua precedente riflessione. In queste pagine, scritte poco prima della morte, la fiducia nella storia viene sostituita da una più drammatica interpretazione del divenire terreno. Se nei "Tre dialoghi" il bersaglio polemico di Solov’ëv è costituito soprattutto dal cristianesimo mutilo di Tolstoj, il "Racconto dell’Anticristo" è un testo che continua a inquietare per la chiaroveggenza con cui ci rivela il volto – o, meglio, uno dei volti – dell’Anticristo nell’epoca moderna. Il suo Anticristo irrompe in una storia umana desacralizzata, svuotata di orizzonti trascendenti, agendo nel vuoto, in una frammentazione orizzontale di religioni, culture, popoli, accogliendo ogni aspetto del reale ma spogliandolo al tempo stesso del suo significato essenziale. In questo senso l’Anticristo di Solov’ëv, portatore di un’ideologia conciliatrice, ‘inclusiva’, capace di una quasi infinita capacità di allontanamento dalla Verità, appare particolarmente attuale e minaccioso oggi, nell’odierno deserto del senso e dei valori. 
Vladimir Solov’ëv (1853-1900) è forse l’espressione più universale del pensiero russo moderno. Critico nei confronti del razionalismo occidentale, rimase però sempre estraneo a ogni esclusivismo nazionale. La sua opera deve invece essere considerata un immane tentativo di sintesi, fondata sul concetto di «unitotalità» del reale. Una sintesi religiosa in primo luogo – e Solov’ëv costituisce in effetti una pietra miliare dell’ecumenismo cristiano – ma strettamente collegata a un ideale di concreta trasformazione della realtà terrena. Qui al link il testo integrale.
Nell'Inferno di Dante Alighieri il diavolo ha il nome di Lucifero, che significa, niente di meno "portatore di luce". Un "anticristo" portatore di luce. È Virgilio a raccontare a Dante la storia della "creatura ch’ebbe il bel sembiante". Il grandioso mito cosmico, di origine aristotelico-averroistica, vuole che in origine le terre emerse si trovassero nell’emisfero australe, più nobile perché più vicino all’Empireo. 
Lucifero, il più fulgido tra gli angeli, il più glorioso e vicino a Dio, aspirava orgogliosamente ad essere al pari di Dio e per tale peccato di superbia, primo di tutti i tradimenti, fu scagliato a testa in giù verso la terra; essa, spaventata, inorridita, si ritrasse da lui, rifugiandosi sotto le acque, scambiandosi di posto con esse e andando a occupare l’emisfero boreale.
Lucifero si trova così confitto nel punto "al qual si traggon d’ogne parte i pesi", il centro della terra, che, secondo la dottrina aristotelico-tolemaica, era anche centro dell’universo e della gravitazione universale. È anche il punto più lontano da Dio, che costituisce la punta del cono infernale immaginato da Dante. La caduta di Lucifero, inoltre, presenta somiglianze con quella di Fetonte, più volte citato da Dante: entrambi esseri luminosi, entrambi caratterizzati dall’ambizione di puntare troppo in altro, entrambi, infine, scagliati sulla terra da un dio adirato dal loro peccato.
"Che importa se il campo è perduto? Non tutto / è perduto; la volontà indomabile, il disegno / della vendetta, l’odio immortale e il coraggio / di non sottomettersi mai, di non cedere: che altro / significa non essere sconfitti?" (J.Milton, “Paradiso Perduto”, Libro I, vv. 105-109)
Leggere  il “Paradiso perduto” di John Milton (1608-1674) finire tra le braccia di Satana, essere avvolti dai versi del poeta che ci cullano verso la completa sottomissione alla causa del personaggio Satana. Il “Paradiso perduto” non è semplice. E’ un poema epico in versi sciolti del poeta, pubblicato nel 1667, che narra della caduta dell’uomo nella tentazione di Satana, dopo che il demone è stato cacciato dal Paradiso per aver tentato di usurpare il trono divino. Proprio da qui ha inizio l’opera. Satana e la sua gang di demoni si rianimano dopo essere stati gettati da Dio all’Inferno e, sebbene alcuni dei suoi alleati siano dubbiosi, Satana riesce a convincerli a compiere una nuova azione, questa volta di vendetta nei confronti di Dio, colpendo la creatura che ha fatto a sua immagine e somiglianza: l’uomo. Non è solo pura vendetta e desiderio di rivalsa: è l’eterna lotta tra fede e conoscenza. E’ questo a rendere Satana uno dei "villain" più affascinanti della letteratura mondiale, perché è lui stesso a dirlo:
"La mente è il proprio luogo, / e può in sé fare un cielo dell’inferno, un inferno del cielo. / Che cosa importa dove, se rimango me stesso; e che altro / dovrei essere allora se non tutto, e inferiore soltanto / a lui che il tuono ha reso il più potente? / […] meglio regnare all’inferno che servire in cielo." (Libro I, vv. 253-257 e 263)
"Perché chi mai vorrebbe veramente perdere, malgrado sia ricolmo di tanta angoscia, questo suo essere intellettuale, i pensieri / liberi di vagare per l’eternità, e piuttosto morire inghiottito / nel vasto grembro dell’increata Notte, perduto, / privato dei sensi e del moto?" (Libro I, vv. 146-151)
Nei primi libri del poema Satana è l’eroe classico: forte, possente, orgoglioso, impossibile da scalfire. Ma come tutti gli eroi classici ha anche lui una debolezza: il desiderio di vendetta. Questo mix di elementi contribuiscono a rendere il Satana di Milton a dir poco irresistibile. A compiere la quadratura del personaggio è la sua scelta di perseguire la via della conoscenza, della mente, dell’intelligenza e questo lo contrappone da sempre a Dio, il cui potere deriva invece dalla Fede:
"che finalmente si possa fargli intendere / almeno questo: che chi ha prevalso sul proprio nemico / soltanto con la forza, lo ha vinto soltanto a metà." (Libro I, vv. 647-649)
Scienza e religione sono da sempre in perenne conflitto, perché se la prima presuppone l’uso della ragione, nella religione entra in gioco la fede nel divino, a dir poco impensabile nel mondo oggettivo della scienza. Un argomento a cui il filosofo Bertrand Russell (1872-1970) ha dedicato un intero volume, intitolato appunto “Scienza e Religione”, pubblicato nel 1935:
"Una fede religiosa si distingue da una teoria scientifica perché pretende di incarnare una verità eterna e assolutamente certa, mentre la scienza è sempre sperimentale, pronta ad ammettere presto o tardi la necessità di mutamenti alle sue attuali teorie, e consapevole che il suo metodo è logicamente incapace di portare a una dimostrazione completa e definitiva." (B.Russell, “Scienza e Religione”, p. 12)
Pubblicato nel 1935 in un'Europa attraversata dall'ascesa dei totalitarismi, "Scienza e religione" non è solo un importante testo di filosofia dedicato alla secolare lotta tra pensiero scientifico e autorità religiosa, ma rappresenta, oggi come allora, una preziosissima arma intellettuale contro l'oppressione generata dal pensiero unico di qualunque matrice, teologica o politica. I temi affrontati, gli strabilianti progressi della medicina, l'impatto culturale della rivoluzione copernicana, dell'evoluzionismo di Darwin e della psicologia scientifica, hanno rimodellato la nostra percezione del cosmo e di noi stessi in un contesto ormai privo di rassicuranti certezze sul destino e sul ruolo del genere umano. Di qui, l'inevitabile attacco da parte di chi fonda sulla verità rivelata il controllo e la produzione del sapere. 
A Russell, tuttavia, non preme tanto l'esaltazione dei trionfi della scienza, quanto l'affermazione della costitutiva diversità tra l'approccio scientifico alla conoscenza e, più in generale, alla vita, e quello religioso. Per Russell, infatti, il valore della ricerca scientifica non si misura soltanto in base ai successi della tecnica, rispetto ai quali il lettore è invitato a usare la salutare arma della critica, ma è riconducibile a una scelta di fondo improntata alla libertà di indagine e al riconoscimento della potenziale fallibilità di ogni avventura umana. Una vera lotta tra le due fazioni, proprio come secoli di storia, di letteratura e lo stesso John Milton vogliono dimostrarci. Sta a noi scegliere quale delle due vie scegliere. Oppure non scegliere affatto, in barba a determinismi e confessioni varie.
E’ in nome della vendetta ma anche e soprattutto della conoscenza che Satana vuole corrompere Adamo ed Eva: l’uomo e la donna non conoscono altro che le delizie del Paradiso, sono come dei pesci rossi in un acquario, vivono senza problemi. Ma l’assenza di problemi, domande, questioni, può definirsi vita? Viva Milton, viva la conoscenza. “Better to reign in Hell, than serve in Heav’n.” - "Meglio regnare all'Inferno che servire in Cielo". Ecco la sua arroganza, quella dell'uomo.
Il "Faust" di Johann Wolfgang von Goethe è il protagonista di innumerevoli racconti, testi teatrali, opere e film, uno dei personaggi più celebri della cultura europea. La sua storia è narrata con molteplici varianti, ma generalmente appare come un erudito umanista votato a tutte le scienze, ma frustrato perché i libri non riescono a saziare la sua sete di conoscenza. 
Perciò, per ottenere con i suoi propri mezzi tutti i saperi e piaceri del mondo, ricorre alla magia e invoca l’aiuto del sovrannaturale. Così, una notte crea un circolo magico e pronuncia un incantesimo grazie al quale gli appare Mefistofele, un angelo caduto al servizio di Lucifero.
Mefistofele propone a Faust un patto: potrà godere pienamente della vita per un certo numero di anni — nelle versioni più comuni, ventiquattro —, al termine dei quali dovrà rendere la sua anima a Lucifero e sarà condannato all’inferno. Faust accetta e sottoscrive il patto con il suo stesso sangue, convinto che neanche Mefistofele sarà capace di soddisfare i suoi desideri. 
A partire da allora, consigliato dal maligno, il mago gode di tutte le comodità della vita, conosce amore e bellezza e viaggia nel tempo e nello spazio. Ma alla fine si rende conto della vanità di tutte le sue azioni e interroga il demonio sulla morte e la condanna all’inferno che lo attende, e che non potrà evitare. Nella versione scritta da Goethe, però, Dio interviene in extremis per salvarlo. Ma scopriamolo meglio questo personaggio leggendario, protagonista di innumerevoli racconti,testi teatrali, opere e film!
"Il Diavolo Innamorato" di Jacques Cazotte narra la storia di un diavolo che si innamora di un uomo e si traveste da donna per questo. La vicenda si svolge a Napoli nel 1700 durante la dominazione spagnola. Alvaro, un giovane capitano spagnolo delle guardie del re, in una serata di bevute, scommette con i suoi commilitoni di essere capace di vincere in una sfida persino il diavolo. 
Il diavolo coglierà l'occasione per impadronirsi dell'anima del giovane e, assumendo le sembianze corporee di una bellissima giovane, tenterà con ogni arte seduttrice di farlo cadere in tentazione carnale. In questa tenzone amorosa accade che la donna-diavolo senza volerlo si è innamorata e ora vuole sedurre il giovane per amore naturale. Dalla Spagna arriverà in aiuto del soldato indemoniato la sua cattolicissima madre che tenterà di salvare l'anima innamorata del figliolo. 
La trama si svolge in un’atmosfera di evocazioni e scongiuri, di apparizioni e metamorfosi così misteriose da vanificare il confine fra il possibile e l’impossibile, il sogno e la realtà. L’incontro prodigioso fra Belzebù ed Alvaro, il protagonista che alcuni negromanti avrebbero voluto beffeggiare e ridurre a schiavo della loro volontà, avviene in una caverna. Di continuo il diavolo, senza farsi riconoscere, cambia aspetto. Dapprima fa la parte del servo per compiacere al suo padrone. Si muta poi in cammello, e da questi in cagnetta. E’ alla fine che prende l’aspetto di una suonatrice d’arpa in un salone di marmo screziato. Lei, oltre a suonare, canta e, innamorandosi di lui, l’accompagna nelle diverse peregrinazioni. 
Nel corso della narrazione, tanto fluida quanto accattivante, un dialogo fra i due rivela l’identità effettiva della donna. Lei, chiamata Biondetta, gli svela le trame degli amici e, tessendo elogi per la determinazione da lui assunta nelle decisioni, lo informa della sua vera natura: “Io sono Silfide di origine, e una delle più illustri”. Poi apertamente, quasi come accadeva alle divinità pagane, gli confida il suo amore: “Mi è permesso prendere un corpo per associarmi a una persona dabbene: eccola, l’ho trovata”.
Avrebbe perduto, riducendosi allo stato di donna, le prerogative delle Silfidi, ma in cambio avrebbe amato per essere amata. Infine, gli dichiara una assoluta fedeltà: “Servirò il mio vincitore; lo istruirò riguardo alla sublimità del suo essere, di cui ignora le prerogative: sottometterà a noi, assieme agli elementi di cui non avrò più il comando, gli spiriti di tutte le sfere. E’ nato per essere il re del mondo, e io sarò la regina, la regina che lui adora”. Ad Alvaro sarebbe così spettato il dono del dominio della conoscenza a condizione che si fosse donato per sempre a lei, donna per sua scelta e assetata d’amore per lui. 
Intrigante sia l’episodio in cui Alvaro si intrattiene a parlare con delle chiromanti per sapere dei suoi rapporti con lei, dei suoi timori, delle sue speranze sia il successivo giuoco delle metamorfosi. Spaventoso sogno quello di Alvaro, già strumento nelle mani dell’“avversario”? Chimere quelle generate nel suo cervello? L’epilogo, affidato alle convinzioni di Quebracuernos (in italiano dice la nota “don Rompicorna”) offre una inaspettata chiave di lettura. Ecco un brano del discorso di costui:
“E bisogna ammettere che, dall’epoca in cui questi grandi uomini hanno scritto, il nostro nemico ha prodigiosamente affinato il modo di condurre i suoi attacchi, approfittando dei sotterfugi che gli uomini di questo secolo impiegano a vicenda per corrompersi”. 
Il diavolo di Cazotte non alimenta paure e nemmeno si mostra come tiranno. Egli è tentatore che vuole sedurre, ma anche corruttore che adopera strategie per facilitare il corso delle meschinità umane e che rinnova i suoi attacchi appena gli si dà l’occasione per farlo. Di piacevole lettura il testo. racconto di “desiderio”: carnale e di conoscenza non comune ai mortali.
Nei suoi famosi poetici "Fiori del Male" Charles Baudelaire canta le blasfeme "litanie di Satana": 
"Gloria e lode a te, Satana, nell’alto dei Cieli, ove regnasti, e nel profondo dell’Inferno, ove, vinto, sogni in silenzio! Fa’ che un giorno la mia anima riposi accanto a te sotto l’Albero della Scienza, quando sulla tua fronte, come nuovo Tempio, si spanderanno i rami!" 
Si tratta di una presentazione intensa, oltraggiosa e incredibilmente sincera, che descrive in pochi versi il tema centrale del suo pensiero: il rinnegato. Satana è lo sconfitto, la vittima verso cui dovrebbero indirizzarsi i nostri cuori, gonfi di pianto per colui che è stato vinto in una lotta impari, marchiato a fuoco come “maligno” da Colui che è il suo Signore. L’uomo … creatura prediletta da Dio e da lui scelta al di sopra di tutte le altre, come dominatore e possessore del mondo … eppure il poeta va oltre, vede altro sotto la superficie ormai scheggiata dell’immagine del Prescelto divino. 
L’uomo si avvicina a Dio solo esteriormente, nell’involucro menzognero, perché nei recessi dell’animo egli diviene compagno di sventure dello stesso diavolo. Entrambi hanno subìto l’allontanamento da ciò che amavano proprio da parte di Dio: è stato Lui ad aver cacciato satana negli abissi dell’inferno ed è sempre Lui che ha allontanato l’uomo dal paradiso terrestre. Baudelaire non si sofferma sulla colpa che può aver causato tutto questo, ma sulla noncuranza con cui Dio ha punito, causando sofferenza ad entrambi.
Non vi sono celebrazioni, non vi sono gridi di giubilo: le Litanie condensano l’ammirazione del poeta verso colui che di eroico non ha nulla. Baudelaire si scosta dalla tradizione romantica che vedeva il diavolo trionfare su Dio e occupare il posto che gli spetta. L’ammirazione è tutta rivolta verso le componenti antieroiche, e perciò indelebilmente umane, che la creatura rappresenta. Sconfitta, odio, desolazione e pietà per i vinti: ecco il satana baudelairiano. L’intero inno è costruito basandosi sulla struttura degli inni “Signore, pietà” e “Gloria in excelsis Deo”, parodizzando in maniera blasfema le preghiere di lode al Signore. 
La vicinanza con il “signore del male” non viene vissuta come una condizione immodificabile dell’uomo. Al contrario, lo stesso Baudelaire sente oscillare il suo animo in un moto incessante che lo porta un po’ più vicino a Dio e successivamente al demonio, senza sosta o via di scampo. Entrambi rappresentano il desiderio supremo di elevazione o di abiezione a cui non possiamo sottrarci.
Il parallelo creato fra le due creature divine, uomo e diavolo, comporta una sorta di muto accordo, di fratellanza e consolazione reciproca. Sembra quasi che il poeta voglia dirci “il demone ti è amico, confidati con lui e ne trarrai giovamento”, ma senza malizia o intenzioni malevole. E così il diavolo diventa “taumaturgo di tutte le sofferenze umane”, rivolgendo il suo aiuto anche ai lebbrosi e ai reprobi. Il diavolo acquista importanza e Dio la perde. Il diavolo diventa onnisciente e confessore; il diavolo usurpa il trono divino e viene contemporaneamente eletto al posto di Dio, come un dittatore, il cui assolutismo si fonda sulla comprensione della miseria umana.
Chi conosce Mark Twain non si aspetterebbe da lui questo racconto scritto poco prima che morisse. Leggendolo ci si può rendere conto, dopo tutto quello da lui scritto e mai espresso, quanto in fondo disprezzasse l'uomo e la natura umana. Un breve romanzo favolistico e allegorico, privo di ogni traccia di vernacolo e di gergo, forte di una visione quasi dostoevskiana dell'universo quale gioco spietato. 
Uno dei protagonisti è un angelo il cui nome è Satana, è una forza crudele che irride gli uomini e le loro miserie, senza però che da parte di Mark Twain vi sia alcuna implicazione metafisica. L'opera è l'espressione del materialismo sempre più convinto del grande scrittore americano, negli ultimi anni della sua esistenza. La cupa Austria in cui si svolge il romanzo nel 1590, è una disillusa proiezione del mondo contemporaneo, la cui fiducia, il cui ottimismo razionale lo scrittore mette radicalmente in discussione. Twain scrisse diverse versioni, ciascuna delle quali lasciata incompiuta, ma aventi tutte lo stesso protagonista, Satana, conosciuto anche come N. 44. 
Quindi, Lo straniero misterioso, altri non è che un lavoro redazionale compiuto dal collaboratore di Mark Twain, Paine, e dal redattore della casa editrice Harper, Duneka, sui manoscritti originali, dopo la morte dello scrittore intitolati: "St. Petersburg Fragment, The Chronicle of Young Satan, Schoolhouse Hill e No. 44, the Mysterious Stranger."
La storia si apre ad Eseldorf, un piccolo e sereno villaggio dell’Austria centrale, isolato nella solitudine dei colli e delle foreste che lo circondano. Qui nel 1590, tre ragazzi, Theodor, Nikolaus e Seppi, incontrano un misterioso straniero, giovane, bello e affascinante di nome Satana che dal nulla riesce a realizzare tutti i desideri dei ragazzi: li intrattiene modellando con l’argilla uomini e donne in miniatura, e gli basta un soffio per accendere la pipa. Inoltre, sostiene di essere in grado di prevedere il futuro e informa il gruppo degli sfortunati eventi che presto accadranno a coloro che amano. I ragazzi non credono alle affermazioni di Satana, fino a quando una delle sue previsioni non si avvera. 
I tre, impauriti, chiedono al giovane misterioso di intercedere per loro, ma Satana nella sua natura maligna non compie miracoli quanto cattiva misericordia, come ad esempio sostituire una morte lenta e dolorosa ad una immediata. Il libro si conclude con lo svanimento dello straniero dopo un monologo a sfondo religioso sull’esistenza di Dio: “Tutto quello che ti ho rivelato è vero. Non esiste alcun Dio, nessun universo, nessuna razza umana, nessuna vita terrena, né Paradiso, né Inferno. È tutto un sogno…un sogno grottesco e insensato. Non esiste nulla, tranne tu. E tu non sei altro che un pensiero…un pensiero incostante, un pensiero inutile, un pensiero senza casa, che vaga disperato tra vuote eternità!”. 
A differenza degli altri suoi scritti, Mark Twain non utilizza il suo tipico linguaggio informale e pregno di slang americani come ne Le avventure di Tom Sawyer, ma al contrario adotta uno stile sofisticato e complesso a favore di una narrazione favolistica e allegorica. Protagonista indiscusso è Satana, una figura diversa da quella comunemente nota nella fede cristiana. È un emissario del caos ed è la voce della verità che giunge sulla terra per svelare ed apprendere tutta la crudeltà, l’ipocrisia, la vigliaccheria, la follia e la fragilità della mente umana, nonché la loro fede mal riposta. 
Inoltre, voce narrante del racconto è Theodor che, nell’immaginario di Twain, incarna la difficoltà di vivere degli esseri umani in un mondo sopraffatto dal male. Personalmente, ho apprezzato questa storia da un lato per l’irrealtà dell’ambientazione e l’ingenuità dei ragazzi che sottolineano il mood surreale, paradossale e onirico della storia; dall’altro per il darwinismo pessimista di Twain, che vede l’uomo come un animale crudele che infligge dolore per puro e mero piacere. Un romanzo che fa riflettere sulla negatività della realtà umana utilizzando una visione quasi dostojevskiana dell’universo in cui l’uomo è in continuo conflitto tra purezza e peccato, tra caos e senso della vita. 
"Il Maestro e Margherita" è un romanzo incompiuto dello scrittore e drammaturgo russo Michail Afanas'evic Bulgakov (1891-1940), pubblicato postumo nel 1966. Opera innovativa, di grande complessità strutturale. L'azione si svolge contemporaneamente su tre piani narrativi differenti che, intersecandosi, immergono  il lettore in un caleidoscopio di prospettive e di registri eterogenei (tragico, drammatico, lirico, grottesco, comico, satirico); tutti piani che trovano un equilibrio apparentemente impossibile grazie all'impianto dal deciso forte taglio teatrale.
Una prima "linea" poggia sulla rappresentazione della vita sovietica negli anni Trenta. L'analisi è condotta con tratti che sono insieme realistici e sarcastici (attingendo in questo alla tradizione narrativa di costume dei cosiddetti "compagni di strada").
Qui ha luogo la tragica vicenda dell'anonimo Maestro, che è stato emarginato dalla Cultura ufficiale a causa di un suo ardito romanzo incentrato su Ponzio Pilato. Il Maestro è rinchiuso in un ospedale psichiatrico, e ha perduto la sua amata Margherita. In manicomio il Maestro incontra Ivan, mediocre poeta di regime, il quale però si rifiuta di scrivere altri versi: l'incontro col Demonio ha infatti sconvolto il sistema di certezze entro cui si muoveva e operava.
E qui ci si imbatte nella seconda "linea" del romanzo; la comparsa a Mosca del Diavolo, chiamato Voland (nome d'ispirazione goethiana), che si accinge a celebrare nella capitale un sabba infernale, coadiuvato da una teoria di assistenti e comprimari. Facendosi passare ora per spia, ora per professore di magia nera, ora per un guitto da varietà, Voland compie mille sortilegi, mandando a gambe all'aria le instabili categorie del razionale e del positivo.
Margherita accetta di prendere parte al Sabba: vestirà i panni della regina della cerimonia in cambio del ricongiungimento con l'amato Maestro, cui verrà restituito il suo manoscritto su Ponzio Pilato. Alle due "linee" accennate si aggiunge, mediante lo stratagemma del "racconto nel racconto" (ma anche sfruttando il tema del sogno e quello del manoscritto ritrovato), l'emblematica vicenda di Ieshua Hanozri (Gesù di Nazareth, in semita), dal momento del suo arresto e il successivo confronto con Ponzio Pilato fino alla crocifissione, e l'uccisione del delatore Giuda.
La vicenda è evocata in una dimensione decisamente laica, e viene imbastita tramite un gioco di dilatazioni e di ipotesi filologiche che fanno riderimento alla narrazione evangelica, aquella degli apocrifi, e a una vasta letteratura storico-scientifica. Il finale dell'opera è la parte nella quale maggiormente si avverte l'incompiutezza dell'elaborazione, ma segna anche il momento in cui i tre livelli di narrazione si ricompongono.
Voland, come promesso, ricongiunge Margherita al Maestro; poi, su richiesta di Gesù - che ha ripreso il suo posto nei cieli - dona loro la pace (ovvero: li avvelena entrambi, affinché riposino insieme per l'eternità), mentre Pilato riannoda col suo imputato d'un tempo le fila di un colloquio interrottosi duemila anni prima. Sparito Voland da Mosca, le autorità cercano di fare chiarezza sugli strani fenomeni che hanno avuto luogo, tramite operazioni di polizia che mettono in burletta, satirizzandole, le purghe staliniane degli anni Trenta. L'unico che resta pienamente consapevole di quel che è accaduto è il poeta (ormai ex poeta, in verità) Ivan Bezdomnij, che a ogni plenilunio sognerà nuovamente l'agghiacciante dramma di Jerusalem.
Opera di complessa architettura, ricchissima di invenzioni e densa di riferimenti culturali e filologici, "Il maestro e Margherita" è stato pressoché unanimemente riconosciuto come uno dei capolavori della letteratura russa del Novecento, e ha acceso in URSS un ampio e fecondo dibattito culturale. Il critico Kaverin ha osservato "Leggendo questo romanzo, ti viene da pensare che lo slancio degli anni Venti, determinato dalla presenza di uomini come Eizenstein nel cinema, Meierchold nel teatro, Sostakovic nella musica, Majakovskij e Pasternak in poesia, venga continuato da libri come "Il maestro e Margherita".

Che cosa succede alla piccola Regan, trasformatasi in un mostro blasfemo che urla oscenità e frasi sconnesse? Sua madre, la famosa diva del cinema Chris MacNeil, non riesce a capirlo. Né ci riescono i medici e gli psichiatri né la polizia. Forse solo un esorcista può dare una risposta. Ma la Chiesa impone cautela, esige prove, chiede tempo. Intanto la casa risuona di colpi, i mobili si spostano da soli, un uomo muore con il collo spezzato, il fragile corpo di Regan sembra cedere alla tempesta che lo sconquassa. E lo scontro tra l'uomo di Dio e gli spiriti del Male sembra ormai inevitabile. 
Un giallo soprannaturale, sia il libro che il film. Più di 13 milioni di copie vendute solo in America, 18 traduzioni, 57 settimane consecutive di permanenza nella “New York Times bestseller list”, 17 delle quali al numero 1. Due anni dopo, nel 1973, l’adattamento hollywoodiano si guadagnò 10 nomination agli Oscar e se ne aggiudicò due, di cui uno alla miglior sceneggiatura non originale firmata proprio da Blatty. Si narra di code interminabili ai botteghini, addirittura tentativi di sfondamento, moltissimi casi di malori in sala. Le riviste più prestigiose degli Stati Uniti e del mondo, da Newsweek a Mad, dedicarono raffiche di copertine alla “Exorcism Frenzy”. 
L’esorcista è ancora oggi in testa alle più importanti classifiche dei migliori film horror di sempre, è ritornato più volte in programmazione in occasione dei vari anniversari, ed è rimasto primo del suo genere per incassi fino al 1999, quando è stato superato da Il sesto senso. La mitica scalinata di Washington giù per la quale precipitano prima il povero regista ubriacone Burke Dennings e poi padre Karras è diventata meta di attrazione turistica.
E dire che non doveva neanche essere un horror, almeno non nei piani iniziali di Blatty. Lui voleva scrivere un «thriller teologico». Una «supernatural detective story». Cominciò a intuire che avrebbe potuto funzionare osservando la sua assistente che «era troppo terrorizzata per lavorarci quando era sola nello studio». Ovvio che il libro è un “page-turner”, come si dice in inglese, e sembra scritto con il film già in testa. 
Ovvio che la pellicola almeno in parte era un successo annunciato. Del resto al cinema si va per ridere, per piangere o per farsela sotto dalla paura. E L’esorcista riesce benissimo nell’intento. Ma oltre a tenere la gente incollata alle pagine e alle poltrone Blatty aveva un altro scopo, quando scrisse quel libro, e lo ha sempre ripetuto con la massima tranquillità: «Il mio intento era di fare un’opera “apostolica”».
«Se esistono forze del male immateriali e intelligenti, già solo questo suggerisce la possibilità che esistano altre forze dello stesso tipo che sono buone. E dal momento che l’intelligenza demoniaca risponde al rituale usato dai gesuiti, appare chiaro che Dio c’è». (Ibidem)
Dice il regista William Friedkin nella sua autobiografia: «La mia intenzione e quella di William Blatty era quella di raccontare una storia sul mistero della fede e della vita. Alle alte sfere cattoliche L’esorcista piacque. Qualche importante prelato aveva addirittura la sua copia personale». Nelle scuole gesuitiche americane il libro divenne un vero e proprio oggetto di studio, e Blatty ricordava con soddisfazione la «ampia e favorevole» ricezione del film da parte della stampa cattolica, in particolare la «recensione molto positiva» della Civiltà Cattolica e quella di Catholic News, organo della diocesi di New York, oltre al fatto che una volta un brano del suo romanzo fu letto durante un’omelia niente meno che dal cardinale John Joseph O’Connor per mettere in guardia i fedeli dal potere del diavolo.
Tuttavia ebbe sempre il cruccio di quelli che pensavano che il gesto estremo di padre Karras rappresentasse la vittoria di Pazuzu. Nel 1974 prese carta e penna per spiegarlo di suo pugno alla rivista dei gesuiti America, che in un numero speciale dedicato a L’esorcista aveva accreditato questa lettura. Se al centro della storia c’è l’oggettività di un male e di un bene che sono tali indipendentemente da quello che pensano e fanno i personaggi coinvolti (atei o credenti, medici o preti, madri o poliziotti che siano), Blatty ha sofferto a lungo perché nel montaggio del film erano saltate un paio di scene che riteneva dirimenti. Pensava di non essere riuscito a dire tutto. I film ognuno li interpreta come vuole, certo, ma l’oggettività è un’altra cosa. Blatty sembrava posseduto da questa sensazione e ci ha combattuto per quasi trent’anni, finché nel 2000 ha convinto l’amico ebreo agnostico Friedkin a uscire con L’esorcista – Versione integrale.
In realtà il messaggio «apostolico» di Blatty a quanto pare era passato alla grande nonostante il filtro “laicizzante” di Friedkin. Di “propaganda cattolica” si parlò subito e apertamente in alcuni paesi islamici, dove il film è vietato. La stessa accusa comparve in molte recensioni dell’epoca non certo neutrali. Quella de L’espresso firmata da Alberto Moravia, per esempio; in America fu una regina della critica cinematografica come Pauline Kael a inveire sul New Yorker: «Un film assolutamente spietato sui miracoli». 
«Il più grande manifesto di reclutamento che la Chiesa cattolica abbia avuto dai giorni felici di La mia via e Le campane di Santa Maria». «Come si esorcizzano gli effetti di un film come questo? Non c’è modo. L’industria del cinema è tale che uomini privi di gusto e di immaginazione possono esercitare un’influenza incalcolabile». «Sicuramente sono le persone religiose che dovrebbero sentirsi le più offese».
Si può dibattere all’infinito su quanto fosse necessario ripristinare le scene tagliate, ma Blatty non voleva che si potesse discutere il suo intento. Quel dialogo tra padre Karras e l’esorcista esperto padre Merrin sullo scopo della possessione e la possibilità dell’amore di Dio era imprescindibile per lui. Una cosa che andava detta. Oggettivamente. «Lo scopo del demone – disse un giorno alla rivista Filmfax per spiegare il dissidio con Friedkin – è di farci rifiutare la nostra umanità, di farci credere, ultimamente, che se ci fosse davvero un Dio, non potrebbe mai amarci. Se questo fosse rimasto nel film di Friedkin, avrebbe permesso agli spettatori di non odiare se stessi per averlo apprezzato».
Forse scottato da questa esperienza, la sua “trilogia della fede” Blatty se la completò da solo: diresse e sceneggiò in prima persona La nona configurazione (1980) e pure L’esorcista III – Legione (1990), dopo aver preso tutte le distanze possibili dal disastroso L’esorcista II («Mi spiace, ma questa storia non si può affrontare con un approccio non cattolico o non ebraico. John Boorman ha provato evidentemente a fare qualcosa di mozzafiato e di originale, ma è un orangista, un protestante. Non funziona»).
William Peter Blatty in qualche occasione si è definito un «cattolico rilassato». Ma rilassatissimo non doveva essere uno che ha avuto quattro mogli e sette figli e che certe volte le rogne sembrava proprio cercarle. A parte le sue repliche ai critici e la calorosa difesa della Passione di Cristo di Mel Gibson («una grandiosa rappresentazione del male»), bisogna annoverare, nel 1983 una causa legale da 6 milioni di dollari intentata (e perduta) contro il New York Times che a suo dire aveva deliberatamente escluso Legione dalla classifica dei libri più venduti causandogli un danno commerciale. Poi, nel 2001, ci fu quella, con Friedkin, contro la Warner Bros che secondo i due per anni aveva sottostimato gli incassi de L’esorcista per non pagare loro tutta intera la dovuta percentuale (alla fine le parti si accordarono).
Soprattutto, il 31 maggio 2012 Blatty ha cominciato a raccogliere firme per una petizione indirizzata al cardinale Donald Wuerl, arcivescovo di Washington, per chiedergli di ritirare alla Georgetown il diritto di definirsi università “cattolica”. Oltre duemila sottoscrittori tra ex alunni, docenti e relativi parenti, quasi 200 pagine, 476 note, 91 appendici, 124 testimonianze di «scandali» a dimostrazione del tradimento della costituzione apostolica Ex Corde Ecclesiae e di una secolarizzazione neanche troppo strisciante. A parte una lettera di monsignor Angelo Zani, segretario della Congregazione per l’Educazione cattolica, che definiva la protesta capitanata da Blatty «un reclamo fondato», la cosa non ha avuto sviluppi noti.
«Bill, cosa stai facendo?, gli domanda la gente. Bill, i tempi cambiano, lascia stare. Bill, perché vuoi punire la scuola che ami, la scuola che con le sue borse di studio ti ha salvato dalla povertà, la scuola che ti ha reso possibile questa vita, che ha cementato la tua fede? “Se ami davvero qualcuno che credi che abbia bisogno di disintossicazione, farai tutto il possibile per farlo ricoverare”, dice Blatty. 
L’ultima goccia, spiega, è stato l’invito della Georgetown a Kathleen Sebelius, segretario del dipartimento della Sanità, a parlare alla cerimonia di consegna dei diplomi a maggio dell’anno scorso. Sebelius detiene un record di voti favorevoli all’aborto, e l’aborto è il tema che fa veramente infuriare Blatty. Descrive con voce tremante una particolare procedura abortiva con dettagli espliciti. Fa una pausa. La sua voce è quasi un sussurro. “Questo è demoniaco”». (Dan Zak, Washington Post, 30 ottobre 2013)
La sua ultima opera, ultima in tutti i sensi anche nei progetti di Blatty, è uscita nel 2015 e riguarda suo figlio. Finding Peter. In un certo senso, quella cosa inspiegabile e oggettiva che si era impossessata della vita di Blatty, Peter Vincent Galahad la incarnava direttamente. «C’era qualcosa di soprannaturale» in lui, «era un mistero». Già da piccolissimo, Peter diceva cose che lasciavano tutti di stucco. «Mamma, sai perché sono venuto qui? Sono venuto qui per aiutare le persone». 
«Sai come imparo io papà? Imparo dal cielo, è Dio che mi insegna». Amatissimo dai genitori, fu portato a Washington per essere educato cattolicamente in una scuola dell’Opus Dei. Dopo qualche anno però sviluppò un grave disordine bipolare e prese a drogarsi. Stava facendo un percorso di disintossicazione quando, nel 2006, a 19 anni, rimase improvvisamente ucciso da una miocardite virale.
Nel libro Blatty racconta i segni che secondo lui il figlio perduto ha continuato a mandargli in questi dieci e passa dolorosi anni. Un giorno doveva tenere un discorso in pubblico, era nel panico come al solito; Peter gli fece trovare nel pavimento della doccia la medaglia con le tre croci del Calvario che era appartenuta a lui e che il padre aveva perduto da tempo. Era come se Peter, giunse a pensare lo scettico Blatty, volesse fargli sapere di essere ancora in comunione con lui. Quasi come a confermargli l’oggettività di tutto quello per cui aveva vissuto. La morte non vince. «Non sono sprofondato nell’oblio».
«Alla fine de L’esorcista, la madre riesce a credere al diavolo perché “continua a farsi tutta quella pubblicità”; e Dyer risponde: “Ma allora come si pone di fronte a tutto il bene che c’è nel mondo?”. È questa la domanda che pongono il mio romanzo e implicitamente il film: e cioè, se l’universo è un meccanismo e l’uomo non è altro che strutture molecolari, com’è che esiste un amore come l’amore di cui è capace Dio e che un uomo come il gesuita Damien Karras offre deliberatamente la propria vita per una straniera, per il corpo alieno di Regan MacNeil? È certamente un enigma più misterioso e molto più degno di riflessione dello scandaloso problema del male; è il mistero del bene. È il punto che mancano tutti i critici». (William Peter Blatty, lettera alla rivista America in risposta al numero speciale su L’esorcista, 23 febbraio 1974).
L'errore di un computer, l'incoscienza di pochi uomini e si scatena la fine del mondo. Il morbo sfuggito a un segretissimo laboratorio semina morte e terrore. Il novantanove per cento della popolazione della terra non sopravvive all'apocalittica epidemia e per i pochi scampati c'è una guerra ancora tutta da combattere, una lotta eterna e fatale tra chi ha deciso di seguire il Bene e appoggiarsi alle fragili spalle di Mother Abagail, la veggente ultracentenaria, e chi invece ha scelto di calcare le orme di Randall, il Senza Volto, il Male, il Signore delle Tenebre. 
Nel 1978 Stephen King ha pubblicato una prima versione di questo romanzo; dopo oltre dieci anni, l'autore lo presenta per la prima volta restituito alle forme e alla lunghezza originali, riscrivendo di fatto il romanzo per una nuova generazione di lettori e sviluppando a ruota libera la sua titanica impresa narrativa.
Arnette è un paesotto a circa 180 km da Houston, Texas. Qualche decennio fa ha avuto un periodo abbastanza florido, ma poi la cartiera ha chiuso e lo stabilimento di componenti eletronici è andato in crisi. È andato in crisi anche Stu Redman, un tipo taciturno dall’infanzia durissima che aveva trovato un po’ di pace nel matrimonio ma si è visto portare via la moglie dopo solo un anno e mezzo da un tumore e ora vivacchia tra lavoro e qualche birra alla stazione di servizio assieme ad altri sfigati locali. 
Durante una delle solite bevute, una Chevrolet del ’59 (o era del ’60?) si schianta a bassa velocità sulle pompe di benzina del vecchio Hap: all’interno un uomo in fin di vita scosso da una tremenda tosse catarrosa e una donna e una bambina morte stecchite. Il tizio è fuggito da una base militare nella quale è in corso un esperimento di guerra batteriologica, il Progetto Azzurro: c’è stato un incidente biologico e molti sono rimasti contaminati, compreso lui. Che ora ha trasmesso il virus letale che diventerà presto famoso col nome di Captain Trips a una serie di persone, a loro volta untori inconsapevoli di altri malcapitati e così via, a velocità pazzesca. 
Velocità aumentata dalle losche manovre di alcuni militari, che si premurano di diffondere il contagio anche all’estero per "motivi di sicurezza nazionale". Pochissimi sembrano immuni al virus, e tra questi Stu, una giovane ragazza incinta di nome Frances, il musicista rock appena giunto in hit-parade con la sua "Baby can you dig your man?" Larry Underwood e il giovane orfano muto Nick Andros. Loro e qualche altro sopravvissuto, in un mondo sconvolto, vengono contattati in sogno da una vecchia signora nera che li prega di raggiungerla ad Hemingford Home, nel Nebraska, dove potranno trovare la forza per fronteggiare il Male che ora cammina sulla Terra, incarnato nel sinistro e malvagio Randall Flagg...
Il romanzo-monstre che a Stephen King piace da sempre presentare come il suo manifesto poetico ha (anche) una storia editoriale articolata: finito nel 1978, il quarto libro dello scrittore del Maine fu tagliato di 400 e passa pagine su pressione dell’editore americano, che giudicava invendibile un mattone più spesso dell’elenco del telefono di una metropoli da 10 milioni di abitanti. Una volta raggiunto un peso contrattuale più massiccio a botte di milioni di copie vendute, nel 1990 King ha preteso di dare alle stampe l’uncut version de 
L’ombra dello scorpione, che oltre all’aggiunta di materiale vede anche alcune modifiche del plot e un’attualizzazione della vicenda, ora ambientata negli anni ’90 anzichè nel 1980 (ma curiosando qua e là fioccano i bloopers, alcuni pazzeschi): presente anche una sorta di appendice che fa da ponte con la saga de La Torre Nera, con la quale c’è in comune il cattivissimo Randall Flagg. Ispirato - come racconta lo stesso Stephen King nel suo saggio Danse macabre - dal capolavoro post-apocalittico 
La terra sull’abisso di George R. Stewart, dalla incresciosa vicenda del rapimento dell’ereditiera Patty Hearst e dalla visione di un documentario sulla guerra batteriologica, L’ombra dello scorpione - che ha ispirato canzoni, fumetti, miniserie tv, film - è la summa dei temi-cardine e degli stilemi della scrittura del Re: tante storie diverse che convergono spazialmente, ritmo forsennato, alternanza tra atmosfere urbane o splatter e spazi mistico-bucolici, working class heroes, l’handicap, l’infanzia, la religione, la malattia, la morte. Che qui arriva sotto forma di una terrificante pandemia di super-influenza che spopola il pianeta in meno di un mese soffocando l’umanità nel catarro. Il mondo finisce in uno starnuto moccioloso, etciù. 
Se dobbiamo leggere il romanzo come una gigantesca, escatologica allegoria della fine dell’America moderna, come la cronaca del tramonto di un’era, allora i paragoni con Il Signore degli Anelli - che sin da subito i critici hanno sfoderato - non sono poi così forzati. E la Mordor di King è (e non poteva essere altrimenti, in fondo) una infernale Las Vegas.
La lista dei libri e degli scrittori che si sono occupati del "diavolo" non finisce ovviamente qui. Una selva quanto mai fitta, oscura, impenetrabile nella quale è facile perdersi alla ricerca di Lui, senza rendersi conto che quando si pensa di averlo trovato, ci si rende conto che è stato Lui ad avere trovato te. Dante seppe come muoversi, seppe uscire dal suo regno, quello della sua prima cantica. Il vero regno di quell' "Anticristo" che si manifesta sempre in forme diverse, perchè "Lui", appartiene al "Tempo". Il tempo di oggi, per quelli del settimanale citato, sembra essere segnato da Matteo Salvini. Se non un "Anticristo", a me, sia detto con rispetto e comprensione, Matteo Salvini mi sembra essere piuttosto soltanto un "povero cristo" che crede in quello che fa e gli auguro che lo faccia bene. 
Tutto il resto è letteratura. Il "diavolo" non esiste. Lo ha detto lui stesso, a Salvini.
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Published on July 28, 2018 07:28

July 24, 2018

"Connectography". Come connettersi con il Futuro

Quando mi congedai dall'insegnamento, alla fine del secolo e del millennio passati, nella relazione finale che feci per un corso di cultura online tenuto in Rete dalla Università di Londra, ebbi modo di inventarmi un acronimo inedito ma riassuntivo di quello che avevo studiato in quei cinque mesi di corso. Riassumevo allora per sintesi e per ricordare. Non avrei mai immaginato che quelle tre parole sarebbero rimaste attuali. C.A.C. ----> Connessione Accesso Controllo. Il libro di cui intendo qui parlare in proposito ha per titolo una nuova parola che nasce da Connessione, in inglese Connect. Ad essa è stata aggiunta -graphy ed è nata la "Connectography" vale a dire le mappe del futuro ordine mondiale.
Dalla sua città di residenza, Singapore, il famoso stratega geopolitico indiano Parag Khanna si è spostato verso le mete più disparate, dall’Ucraina all’Iran, dalle miniere della Mongolia a Nairobi, dalle coste atlantiche al circolo polare artico. Grazie ai suoi viaggi ha avuto modo di osservare i mutamenti epocali che stanno investendo il mondo. Migrazioni, megalopoli, Zone Economiche Speciali, comunicazioni e cambiamenti climatici stanno ridisegnando la geografia planetaria: gli Stati non sono più definiti dai loro confini, bensì dai flussi di persone e di legami finanziari, commerciali ed energetici che quotidianamente li attraversano. In questo scenario anche lo scontro fra potenze assume nuove forme, trasformandosi in un forsennato tiro alla fune: gli eserciti vengono usati tanto per difendere i territori quanto le risorse e le infrastrutture che vi sono custodite. Sono i prodromi della definitiva scomparsa delle guerre? Connectography, che chiude la trilogia di cui I tre imperi e Come si governa il mondo sono i primi due volumi, è una mappa dettagliatissima che non solo ci offre una lucida analisi del presente, ma ci propone una visione molto ottimistica del futuro che ci attende: un mondo in cui le linee che lo connettono sono molte di più di quelle che lo separano.
«A chi teme che il mondo stia diventando sempre più chiuso, Connectography offre una nuova prospettiva, più ottimistica».«The Economist»
«La lungimiranza e l’erudizione di Parag Khanna sono impareggiabili: il futuro presidente degli Stati Uniti farà bene a leggere questo libro».Chuck Hagel, ex segretario della Difesa USA
«Si tratta forse del libro più globale mai scritto. È specifico in maniera impressionante, mantenendo l’analisi su ampia scala. Se le infrastrutture determinano il destino del mondo, allora per capire dove il futuro dirige il suo corso basta seguire le reti delle supply chain descritte in questo libro».Kevin Kelly, «Wired»
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"Voglio che reimmaginiate il modo in cui la vita è organizzata sulla terra. Pensate al pianeta come al corpo umano che abitiamo. Lo scheletro è il sistema di trasporti, formato da strade e ferrovie, ponti e gallerie, porti e aeroporti che ci permettono di muoverci da un continente all'altro. Il sistema vascolare che da energia al corpo sono i condotti di olio e gas e le reti elettriche, che erogano energia. E il sistema nervoso delle comunicazioni sono i cavi internet, i satelliti, le reti cellulari e i database che ci permettono di condividere informazioni.
Questa matrice infrastrutturale in continua espansione consiste attualmente di 64 milioni di chilometri di strade, 4 milioni di chilometri di ferrovie, 2 milioni di chilometri di condotti e 1 milione di chilometri di cavi internet. E i confini internazionali? Abbiamo meno di 500,000 chilometri di confini.
Costruiamo una migliore cartina del mondo. Possiamo cominciare superando certi miti antichi. C'è un detto che conoscono tutti gli studenti di storia: "La geografia è il destino." Molto solenne, vero? È una massima molto fatalistica. Ci dice che i paesi senza sbocco sul mare sono condannati alla povertà, che i paesi piccoli non possono sfuggire ai loro vicini più grandi, che le grandi distanze sono insormontabili.Ma in ogni viaggio che faccio in giro per il mondo, vedo a forza ancora più grande che attraversa il pianeta: la connettività.
La rivoluzione della connettività globale, in tutte le sue forme - trasporti, energia e comunicazione - ha reso possible un salto quantico nella mobilità delle persone, dei beni, delle risorse, della conoscenza,tale che non possiamo più immaginare la geografia separata da essa. Infatti, io credo che le due forze si fondano in ciò che chiamo "connettografia".
La connettografia rappresenta un salto quantico nella mobilità di persone, risorse e idee, ma è un'evoluzione, un'evoluzione del mondo dalla geografia politica, che è il modo in cui dividiamo giuridicamente il mondo, alla geografia funzionale, che il mondo in cui in realtà usiamo il mondo, dalle nazioni e i confini, alle infrastrutture e catene di fornitura.
Il nostro sistema globale si sta evolvendo dagli imperi verticalmente integrati del diciannovesimo secolo, attraverso le nazioni orizzontalmente interdipendenti del ventesimo secolo, in una rete globale di civiltà nel ventunesimo secolo. La connettività, non la sovranità, è diventata il principio organizzativo della specie umana.
Stiamo diventando una rete globale di civiltà perché la stiamo letteralmente costruendo. Tutto il denaro speso per la difesa del mondo e per l'esercito ammonta a poco meno di 2 bilioni di dollari all'anno. Nel frattempo, quello per le infrastrutture aumenterà a 9 bilioni di dollari all'anno entro il prossimo decennio.E, beh, dovrebbe essere cosi. Stiamo vivendo su una riserva di infrastruture progettata per una popolazione mondiale di 3 miliardi, mentre noi abbiamo superato i 7/8 miliardi e arriveremo a 9 o più. Di norma, dovremmo spendere circa un bilione di dollari per le necessità infrastrutturali di base di ogni miliardi di abitanti al mondo.
Va da sé che l'Asia è al primo posto. Nel 2015, la Cina ha annunciato la creazione della Banca Asiatica per gli Investimenti nelle Infrastrutture, che insieme a una rete di altre organizzazioni ha lo scopo di costruire una rete di vie della seta di ferro, che vanno da Shanghai a Lisbona.
E mentre questo progetto topografico prende forma, nei prossimi 40 anni spenderemo probabilmente di più sulle infrastrutture, costruiremo più infrastrutture nei prossimi 40 anni, di quanto abbiamo fatto nei passati 4000.
Ora fermiamoci a pensarci per un minuto. Spendere così tanto per costruire le fondamenta della società globale piuttosto che per i mezzi per distruggerla può avere importanti conseguenze. La connettività è il modo in cui ottimizziamo la distribuzione delle persone e delle risorse nel mondo. È il modo in cui l'umanità può essere più della somma delle sue parti. Credo che sia quello che succederà.
La connettività ha una grande controparte nel ventunesimo secolo: l'urbanizzazione planetaria. Le città sono le infrastrutture che più ci definiscono. Entro il 2030, più di due terzi della popolazione mondialevivrà nelle città. E questi non sono semplici puntini sulla cartina, ma vasti arcipelaghi che si estendono per centinaia di chilometri.
Qui siamo a Vancouver, all'inizio del Cascadia Corridor che si estende a sud oltre il confine fino a Seattle. La centrale tecnologica della Silicon Valley parte a Nord di San Francisco, scende fino a San Jose e attraversa la baia fino a Oakland. L'estensione di Las Angeles ora supera San Diego oltre il confine messicano fino a Tijuana. Oggi San Diego e Tijuana condividono un terminal aeroportuale dove si può uscire in ognuno dei due paesi. Infine, una rete di treni ad alta velocità può connettere l'intera dorsale pacifica. La megalopoli del nordest degli USA comincia a Boston, attraverso New York e Philadelphia fino a Washington. Contiene più di 50 milioni di persone e anch'essa ha progettato una rete di TAV.
Ma è in Asia che vediamo le megacittà fondersi davvero. Questa striscia continua di luce che da Tokyo a Nagoya a Osaka contiene più di 80 milioni di persone e quasi tutta l'economia giapponese. È la megacittà più grande al mondo. Per ora.
Ma in Cina, questi agglomerati si stanno unendo con un popolazione che arriva ai 100 milioni di persone. L'anello di Bohai intorno a Beijing, Il delta dello Yangtze intorno a Shanhai e il delta del Pearl,che si estende da Hong Kong a Guangzhou, a nord. E al centro, l'agglomerato di Chongqing-Chengdu,la cui impronta geografica è quasi pari all'estensione dell'Austria.
E ognuno di questi agglomerati ha un PIL di quasi 3 bilioni di dollari, che è quasi lo stesso dell'attuale PIL dell'India. Perciò, pensate se le nostre istituzioni diplomatiche globali, come il G20, basassero la loro adesione sulla forza economica e non sulla rappresentanza nazionale. Alcune megacittà cinesi potrebbero farne parte, mentre interi paesi, come l'Argentina e l'Indonesia, sarebbero tagliati fuori.
Passando all'india, la cui popolazione presto supererà quella cinese, anch'essa ha una serie di agglomerati, come la regione di Delhi e Mumbai. Nel Medio Oriente, Greater Tehran sta assorbendo un terzo della popolazione iraniana. Quasi tutti gli 80 milioni di egiziani vivono nel corridoio tra Il Cairo e Alessandria. E nel golfo, si sta formando una corona di città-stato, dal Bahrain e il Qatar, attraverso gli Emirati Arabi Uniti, a Muscat in Oman.
E poi c'è Lagos, la città più grande dell'Africa e cuore commerciale della Nigeria. Sta pianificando una rete ferroviaria che la renderà l'ancora di un ampio corridoio costiero atlantico, che si estende in Benin, Togo e Ghana, fino a Abidjan, la capitale della Costa d'Avorio.
Ma questi paesi sono la periferia di Lagos. In un mondo con megacittà, i paesi possono essere le periferie delle città. Entro il 2030, avremo 50 agglomerati simili nel mondo. Dunque quale cartina di dice di più? La cartina tradizionale con 200 nazioni separate che sta appesa sulle nostre pareti, o questa cartina di 50 agglomerati?
E tuttavia, anche questa è incompleta perché non si può capire una megacittà senza capire la sua connessione con le altre. La gente si sposta in città per stare connessa, e la connettività è la ragione per cui queste città crescono. Ognuna di esse, come San Paolo o Istanbul o Mosca, ha un PIL che si avvicina a o supera un terzo di metà del loro PIL totale.
Ma allo stesso modo, non si può calcolare il loro valore individuale senza capire il ruolo dei flussi di persone, di denaro, di tecnologia che le aiuta a crescere. Prendete la provincia di Guateng in Sud Africa, che contiene Johannesburg e la capitale Pretoria. Anch'essa rappresenta poco più di un terzo del PIL del Sud Africa. Ma comunque, è sede degli uffici di quasi ogni multinazionale che investe direttamente in Sud Africa e nell'intero continente africano.
Le città vogliono essere parte di catene del valore globali. Vogliono essere parte di questa divisione globale del lavoro. Ecco come pensano. Non c'è un sindaco che abbia detto: "Voglio isolare la mia città." Loro sanno che le loro città appartendono alla rete globale di civiltà tanto quanto ai loro paesi d'origine.
Ora, molta gente teme l'urbanizzazione. Crede che le città distruggano il pianeta. Ma oggi come oggi,stanno crescendo più di 200 reti di cultura tra città. Un numero pari a quello delle organizzazioni internazionali che abbiamo. E tutte queste reti hanno un solo scopo, la priorità numero uno dell'umanità nel ventunesimo secolo: l'urbanizzazione sostenibile.
Sta funzionando? Prendiamo il cambiamento climatico. Sappiamo che i continui summit a New York e Parigi non ridurranno le emissioni di gas serra. Ma possiamo vedere che trasferire la tecnologia e la conoscenza e le politiche tra le città ci ha permesso di ridurre davvero la nostra intensità di emissioni.
Le città stanno imparando l'una dall'altra. Come costruire edifici a consumo energetico zero, come sviluppare sistemi di car-sharing elettrici. Nelle grandi città cinesi c'è un tetto massimo di auto che possono circolare. In molte occidentali, i giovani non vogliono nemmeno più guidare. Le città sono state parte del problema, ora sono parte della soluzione.
L'ineguaglianza è un'altra grande sfida ai fini dell'urbanizzazioni sostenibile. Quando viaggio nelle megacittà da un capo all'altro - ci vogliono ore e giorni - sperimento la tragedia della disuguaglianza estrema all'interno della stessa area. E tuttavia, le nostre riserve globali di risorse finanziarie non sono mai state così ampie, pari quasi a 300 bilioni di dollari. È quasi quattro volte l'attuale PIL mondiale.
Abbiamo fatto debiti enormi dall'inizio della crisi finanziaria, ma abbiamo investito il denaro nella crescita inclusiva? No, non ancora. Solo quando costruiremo sufficienti alloggi pubblici a buon mercato, quando investiremo in reti di trasporto forti per permettere alla gente di connettersi, sia fisicamente sia virtualmente, allora le nostre città e società divise si sentiranno di nuovo intere.
Questo spiega l'inserimento delle infrastrutture negli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile dell'UN,perché è propedeutico agli altri. I nostri leader politici e economici hanno capito che la connettività non è carità, è un'opportunità. Per questo la nostra comunità finanziaria deve capire che la connettività è la risorsa più importante del ventunesimo secolo.
Ora, le città possono rendere il mondo più sostenibile, possono renderlo più giusto, credo anche che la connettività tra città possa rendere il mondo più pacifico. Se diamo un'occhiata alle regioni con densi rapporti tra i confini, vediamo più commercio, più investimenti e più stabilità. È nota la storia europea dopo la II Guerra Mondiale, dove l'integrazione industriale ha avviato un processo che ha fatto sorgere l'Europa pacifica di oggi. E vedete che la Russia, d'altra parte, è la potenza meno connessa nel sistema internazionale. E questo ci dice molto sulle tensioni attuali. I paesi che partecipano di meno al sistemahanno anche meno da perdere nel disturbarlo. Nell'America del Nord, le linee che contano di più non sono il confine USA-Canada o il confine USA-Messico, ma la densa rete di strade e ferrovie e condottie reti elettriche e persino i canali d'acqua che formano un'unione nordamericana integrata. Il Nord America non ha bisogno di muri, ha bisogno di connessioni.
Ma la vera promesse della connettività è il mondo postcoloniale. Tutte quelle regioni i cui confini sono stati definiti arbitrariamente e dove generazioni di leader hanno combattuto tra loro. Ma ora è salito al potere un nuovo gruppo di leader che ha smesso di combattersi.
Prendiamo il sudest asiatico, dove le reti ad altra velocità connetteranno Bangkok a Singapore e i corridoi commerciali dal Vietnam al Myanmar. Questa regione di 600 milioni di persone coordina le sue risorse agricole e il prodotto industriale. Si sta evolvendo in ciò che chiamo Pax Asiana, un pace tra le nazioni del sudest asiatico.
Un fenomeno simile sta accadendo in Africa orientale, dove mezza dozzina di paesi stanno investendo in ferrovie e corridoi multimodali perché i paesi senza sbocchi possano commerciare. Ora questi paesi coordinano i loro utili e le loro politiche d'investimento. Anche loro si stanno evolvendo in una Pax Africana.
Se c'è una regione in cui questo può funzionare questa è il Medio Oriente. Mentre gli stati arabi collassano tragicamente, cosa rimane se non le città antiche, come Il Cairo, Beirut e Baghdad? Di fatto, le quasi 400 milioni di persone del mondo arabo vivono prevalentemente nelle città. Come società, come città, esse sono o ricche o povere d'acqua, o ricche o povere di energia. E l'unico modo per correggere queste discrepanze non è attraverso le guerre e più confini, ma attraverso una maggiore connettività di condotti e canali d'acqua. Purtroppo, questa non è ancora la cartina del Medio Oriente.Ma dovrebbe esserlo, una Pax Arabia connessa, internamente integrata e connessa produttivamente con l'Europa, l'Asia e l'Africa.
Ora, la connettività non sembra essere ciò che vogliamo con la regione più turbolenta del mondo. Ma la storia ci dimostra che una maggiore connettività è l'unico modo per portare stabilità a lungo termine.Perché sappiamo che regione dopo regione, la connettività è la nuova realtà. Le città e i paesi stanno imparando ad aggregarsi in insiemi più pacifici e prosperi.
Ma la prova del nove sarà l'Asia. La connettività può superare gli schemi di rivalità tra le grandi potenze dell'Estremo Oriente? Dopo tutto, è lì che dovrebbe scoppiare la terza Guerra Mondiale. Dalla fine della Guerra Fredda, venticinque anni fa, sono state previste almeno sei grandi guerre in questa regione. Ma nessuna si è verificata.
Prendete Cina e Taiwan. Negli anni 90, tutti credevano che questo fosse il principale scenario di guerra.Ma da allora, il commercio e gli investimenti negli stretti sono tanto aumentati che lo scorso Novembre,i leader di ambo le parti hanno tenuto un summit storico per discutere un'eventuale riappacificazione. E persino l'elezione di un partito nazionalista in Taiwan, che è indipendentista, quest'anno non ha minato questa fondamentale dinamica.
Cina e Giappone ha una storia di rivalità ancora più lunga e hanno schierato forze aeree e navali per dimostrare la loro forza nella loro lotta. Ma ultimamente, il Giappone sta facendo i suoi investimenti esteri maggiori in Cina. Le macchine giapponesi vanno per la maggiore lì. E indovinate da dove viene il più alto numero di stranieri residenti in Giappone oggi? Avete indovinato: Cina.
Cina e India si sono fatte una guerra e hanno tre importanti dispute sui confini, ma oggi l'India è il secondo più grande azionista della AIIB. Stanno costruendo un corridoio commerciale dal nordest dell'India attraverso il Myanmar e il Bangladesh fino al sud della Cina. Il loro volume commerciale è cresciuto da 20 miliardi di dollari dieci anni fa agli attuali 80 miliardi.
India e Pakistan, dotati di testate nucleari, fecero 3 guerre e continuano a contendersi il Kashmir, ma hanno anche negoziato un ottimo accordo commerciale e vogliono completare un condotto che va dall'Iran al Pakistan all'India.
E parliamo dell'Iran. Non era solo due anni fa che la guerra sembrava inevitabile lì? Allora perché ogni potenza fa a gara per fare affare lì oggi?
Signore e signori, non posso assicurarvi che non ci sarà una terza Guerra Mondiale. Ma possiamo certamente capire perché non è ancora successo. Nonostante l'Asia sia la casa degli eserciti più in crescita del mondo, questi stessi paesi stanno investendo miliardi di dollari nelle rispettive infrastrutture e filiere. Sono più interessati alla loro geografia funzionale che alla loro geografia politica. E questo spiega perché i loro leader riflettono, si allontanano dal baratro e decidono di concentrarsi sui legami economici e non sulle tensioni.
Spesso sembra che il mondo stia cadendo a pezzi, ma costruire più connettività è il modo per risolvere le cose, meglio di prima. E avvolgendo il mondo in questa connettività continua fisica e digitale, ci evolveremo verso un mondo nel quale le persone posso ergersi al di sopra dei limiti geografici. Noi siamo le cellule e i vasi che pulsano in queste reti di connettività globale.
Ogni giorno, centinaia di milioni di persone si connette e lavora con gente che non ha mai incontrato.Più di un miliardo di persone attraversa i confini ogni anni, e questo numero salirà a 3 miliardi nel prossimo decennio.
Non costruiamo semplicemente la connettività, la incarniamo. Noi siamo la rete di civiltà globale, e questa è la nostra cartina. Una cartina del mondo in cui la geografia non è più il destino. Al contrario, il futuro ha motto nuovo e più ottimista: la connettività è il destino."
Parag Khanna
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Published on July 24, 2018 12:38

Tutto passa, scorrendo


Non tutti i mali vengono per nuocere. Lo sappiamo e per consolarci ce lo diciamo spesso. Se la vecchiaia è considerata un "male", non credo si possa negare che questa inevitabile condizione umana possa essere considerata un "nocumento", sostantivo del verbo "nuocere". 
Infatti, secondo molti, si pensa che soltanto con la vecchiaia si possa conquistare la "saggezza". Una volta acquisita - non tutti ci riescono, anche se invecchiati - si pensa che, tutto sommato, la vita possa essere considerata un viaggio, un percorso, ed anche una corsa, tra pianure, montagne e colline, mari ed oceani. Si spera che si possa arrivare alla fine, sani di corpo e di mente, in cima ad un monte abbastanza alto, per rivedere quello che abbiamo lasciato dietro alle nostre spalle. 
Un'aspirazione abbastanza legittima nella speranza di rivedere con l'occhio della mente i primi giorni di vita, quando il palcoscenico del mondo ci ha visti diventare attori della rappresentazione dello spettacolo che si chiama "vita". Soltanto in questo modo, scrutando il vasto orizzonte che ci appare davanti con scene ed episodi che ci hanno visto protagonisti, possiamo capire davvero cosa e come abbiamo vissuto i giorni che ci sono stati concessi di vivere. 
Potremo renderci conto che il tempo è passato come scorre una pellicola nella macchina del proiettore della vita, fuggevole, transitoria, effimera. In gioventù si tende a pensare che la vita sia fatta per sempre. Man mano che gli anni passano, ci si accorge che non sono gli anni a passare, ma decenni. Come palle che rotolano, alternando tempi belli e brutti. E' cambiata anche la percezione del tempo. La catena dei ricordi si è allungata e la memoria li raccoglie proponendoli continuamente al tempo presente che sembra restringersi e stare per finire da un momento all'altro. 
Il poeta americano Carl Sandburg (1878-1967) fu molto attento e consapevole di questi momenti della vita. Cercò di affrontare il problema in un suo libro intitolato, "The People, Yes", pubblicato nel 1936. Era il periodo della "grande depressione", il crollo di Wall Street, una grave crisi economica e finanziaria che sconvolse l'economia mondiale e che ebbe forti ripercussioni nel decennio successivo. 
Nel poema, lungo trecento pagine, il poeta voleva dare un aiuto  alla gente comune, incitandoli a reagire, rinnovarsi e ricostruire. Attraverso il recupero di storie, leggende e miti percorre le praterie del suo sterminato Paese di adozione. Figlio di poveri ed incolti emigranti svedesi, già a tredici anni incominciò a lavorare, diventando una delle voci più importanti del cosiddetto gruppo di Chicago. 
Si fece promotore di un rinnovamento della poesia nel senso di una diretta ricerca delle manifestazioni più autentiche della nuova realtà americana e di un linguaggio affrancato dagli schemi stilistici tradizionali, spoglio e quotidiano. La sintesi del suo lungo poema va vista in pochi versi del poema quando racconta la storia di un re che voleva una iscrizione sotto il suo nome in maniera da sfidare il passare del tempo. Ecco i versi che ho tradotto in maniera libera:
"And the king wanted an inscriptiongood for a thousand years and afterthat to the end of the world?"
"E il re voleva una iscrizioneche durasse per migliaia di anni e piùsino alla fine del mondo?"
“Yes, precisely so.”“Something so true and awful that nomatter what happened it would stand?”“Yes, exactly that.”
"Si, esattamente"." Qualcosa che fosse vera e terribile che affrontasse qualunque cosa potesse accadere?""Si esattamente."
“Something no matter who spit on it orLaughed at it there it would standAnd nothing would change it?”
"Qualcosa su cui anche sputarci o riderci su senza che nulla potesse farla cambiare?"
“Yes, that was what the king orderedhis wise men to write.”
"Si, questo ordinò il reordinò ai suoi saggi di fare."
“And what did they write?”“Five words: This too shall pass away.”
"E cosa scrissero?"Cinque parole: Anche questo dovrà passare."
Cinque semplici parole in un inglese biblico. Potranno accompagnarci nelle difficoltà del cammino nella valle della nostra vita.


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Published on July 24, 2018 07:51

July 22, 2018

La casa di Dio è digitale?


Alla domanda che il titolo di questo post pone, la risposta può essere positiva. Cercherò di dimostrare perchè. In molte chiese appare, invece, l'invito rivolto ai fedeli a spegnere il proprio cellulare. Si lascia intendere così che, nella "casa di Dio", questo strumento deve venir meno alla sua principale ragione per cui è stato inventato: comunicare. 
Capita spesso, durante la celebrazione di riti religiosi, sentire lo squillo di un cellulare. Ce ne sono davvero tanti che hanno suoni sconcertanti. Il senso di fastidio è immediato e giustificato. La colpa è ovviamente di chi non sa gestire questo strumento che è diventato quanto mai indispensabile. La soluzione ci sarebbe. Basta eliminare la suoneria. Ma il discorso non si conclude qui. L'invito a spegnere è tassativo. Non sembra ammettere altre possibilità che, invece, a mio modesto parere, ci sono. 
Un trillo nella "casa del Signore" non significa affatto una "Sua" chiamata. Questo appare chiaro a tutti. Ma penso che se il cellulare ormai è diventato il nostro compagno digitale, un'appendice del nostro corpo, ed anche della mente, perchè non potrebbe esserlo anche della nostra "anima", intesa come estensione del nostro "spirito"? Molti in chiesa portano con sè un foglio con le preghiere, un libretto, una sorta di manuale, un breviario, con il quale seguono le celebrazioni. 
Qui vengo al punto che mi interessa sottoporre all'attenzione di chi legge. Se tutti questi supporti sono cartacei, se il cellulare è un'appendice della mia persona, perchè non lo posso usare, nella maniera e nei modi più appropriati si intende, come supporto digitale? In Rete ci sono tutti i testi religiosi ai quali posso accedere in tempo reale ed immediato. Numerose app sono in grado di aiutarmi a comprendere il messaggio religioso. Di qualunque religione. 
Non è stato Papa Francesco a dire la "rivoluzione digitale è un dono di Dio?" Ha detto testualmente: «Aprire le porte delle chiese significa anche aprirle nell'ambiente digitale, sia perchè la gente entri, in qualunque condizione di vita essa si trovi, sia perchè il Vangelo possa varcare le soglie del tempio e uscire incontro a tutti», ha affermato papa Francesco nel suo Messaggio sulle Comunicazioni Sociali. «Siamo chiamati a testimoniare una Chiesa che sia casa di tutti. Dialogare non significa rinunciare alle proprie idee e tradizioni, ma alla pretesa che siano uniche ed assolute. 
Dialogare significa essere convinti che l'altro abbia qualcosa di buono da dire, fare spazio al suo punto di vista, alle sue proposte», ha aggiunto. «Non abbiate timore di farvi cittadini dell'ambiente digitale», ha poi aggiunto il Papa. «È importante l'attenzione e la presenza della Chiesa nel mondo della comunicazione, per dialogare con l'uomo d'oggi e portarlo all'incontro con Cristo». In tale contesto, la «rivoluzione» dei media e dell'informazione «è una grande e appassionante sfida, che richiede energie fresche e un' immaginazione nuova per trasmettere agli altri la bellezza di Dio». 
Se vedo qualcuno che in Chiesa legge il cellulare durante le funzioni, non è detto che stia leggendo la posta, oppure le pagine dei social, o stia chattando con i santi. Se ha tra le mani il breviario o il foglietto della domenica chi si sentirebbe di rimproverarlo? Mi pare ovvio che debba essere sempre il mezzo il messaggio, come ebbe a dire Marshall McLuhan. Il cellulare non è altro che uno dei tanti mezzi, uno dei tanti strumenti, se non una delle tante vie per arrivare a Dio. Non escluso un "dio" digitale. 
C'è qualcuno che mi considererà blasfemo? Chiederò di essere difeso da Padre Antonio Spadaro, direttore di "Civiltà Cattolica" - "CyberSpadaro" per eccellenza.
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Published on July 22, 2018 07:32

La montagna dell'anima

La montagna dell'anima La montagna dell'anima by Gao Xingjian
My rating: 5 of 5 stars

Questa non è una recensione. Seguono alcuni estratti per parola chiave. Parlano da sè. Un libro straordinario.
Realtà(2) Oggi vivi alla giornata, hai seguito con coscienza il percorso necessario a migliorare il tuo sapere, che altro cerchi? Arrivato alla maturità, l’uomo non dovrebbe forse vivere tranquillo, svolgere il proprio lavoro senza darsi troppa pena, occupare una posizione né elevata né bassa, fare il buon marito e il buon padre, vivere in una casa confortevole, lasciar fruttare in banca qualche risparmio per la vecchiaia e magari lasciare, da ultimo, qualcosa agli eredi?
(3) Ma la realtà della vita non coincide con ciò che vedono i nostri occhi e tanto meno basta dire che bisogna raffigurarla in un certo modo. Limitandosi a mettere in un luce una serie di fenomeni che per forza di cose non potevano rispecchiare fedelmente la vita ho deformato, ai loro occhi, la realtà, quindi sono colpevole di aver tradito la verità. Non so se sto avanzando sulla strada giusta, ora. A ogni modo mi sono affrancato da quel mondo, e ho abbandonato il mio appartamento saturo di fumo delle sigarette e traboccante di libri così opprimenti da togliermi l’aria. Libri che illustrano ogni sorta di verità, dalla storica alla morale, tutte vane. Eppure ne ero prigioniero, mi dibattevo tra le loro maglie come un insetto intrappolato in una ragnatela.
(4) La realtà esiste solo nell’esperienza, o meglio nell’esperienza del singolo individuo, e tuttavia nel momento in cui viene trasmessa ad altri si trasfigura, si fa racconto. E’ impossibile dimostrare ciò che è reale, e in fondo non ce n’è alcun bisogno: lasciamo il compito ai filosofi. Ciò che conta è la vita. Reale sono io, seduto davanti al focolare, in questa stanza annerita di olio e di fumo mentre guardo le fiamme danzare nei suoi occhi. Reale sono io come reali sono le sensazioni che provo in quest’attimo, e che non possono comunicare a nessuno. Fuori i verdi monti sono velati dalla spessa coltre di nebbia che li avvolge e il rapido scrosciare delle acque di un torrente risuona nel tuo cuore. E questo basta.
Uomo (5) «…È l’uomo a far paura, non la natura! La natura ti è molto vicinale entri in sintonia con essa, l’uomo è invece una bestia! Certo, è molto intelligente, capace di inventare di tutto, dalle calunnie ai bambini in provetta, ma poi stermina due, tre specie al giorno. Questo è il paradosso dell’uomo». (6) In realtà l’uomo è un animale: ferito può diventare crudele. Ma ciò che lo terrorizza maggiormente è la follia. Una volta impazzito l’uomo è stritolato dalla sua stessa follia.
Immagina(zione) (7) L’importante è la sincerità d’animo? La sincerità d’animo determina la riuscita? Il successo dipende solo dalla buona stella, chi è felice non ha bisogno di perseguirlo? Ti può capitare di incappare per mera fortuna in ciò che ti sei dannato a inseguire per tutta la vita senza trovare mai! Significa che questa Rupe dell’Anima non è altro che un pezzo di stupida roccia? Se non è bene dirlo così, come bisogna dirlo allora? Non è bene dirlo vuol dire che non è il caso di dirlo o che non si può dire? Dipende esclusivamente da te. È come la vuoi vedere tu, se immagini che è una bella donna sarà una bella donna. Se nel tuo animo regna il male non vedrai che mostri.
(l')Intorno a se stessi (1) Poi ci sono i suoni. Ne hai appena udito uno, difficile da captare, che echeggia dal fondo del tuo cuore, si spande dappertutto, sobbalza un istante, come in punta di piedi, e svanisce dietro le ombre nere dei monti, nel cielo tinteggiato di rosso.
(8) Nella gelida notte di fine autunno tenebre profonde e compatte avviluppano il Caos originario, cielo e terra, alberi e rocce si fondono. Anche la strada è svanita. Non puoi che restare lì, immobile, con il busto leggermente in avanti, a braccia tese a palpare, palpare la nera notte. Qualcosa si muove, non è il vento, sono le tenebre. Alto e basso, destra e sinistra, lontano e vicino sfumano, non c’è ordine, ti fondi nel Caos, percepisci la sagoma di un corpo che non c’è più, ma anch’essa poco a poco sfuma nella tua mente, una luce si fa strada in te, cupa come la fiamma di una candela al buio che illumina ma non dà calore, una luce di ghiaccio che ti riempie il corpo, tracima dalla sagoma, quella sagoma stampata nella tua memoria, chiudi le braccia per preservare la fiamma, la tua coscienze gelida e trasparente, hai bisogno di questa sensazione, la custodisci con cura, …
(10) Ai lati del sentiero è pieno di corbezzoli, ma non è ancora il momento di coglierli, chissà dove ti troverai quando saranno maturi. Sono i corbezzoli ad aspettare gli uomini o gli uomini ad aspettare i corbezzoli? Bella domanda! Può avere tante soluzioni che, andando cercando all’infinito la risposta, i corbezzoli saranno sempre corbezzoli e l’uomo pure. O meglio, i corbezzoli di quest’anno non sono quelli dell’anno prossimo e l’uomo di oggi non è lo stesso di ieri. Il problema è capire qual è quello autentico. Come stabilire i criteri di giudizio? Lascia le questioni metafisiche ai filosofi e bada solo ad andare per la tua strada.
(17) È incredibile la natura. Non mostra solo vivacità e bellezza raffinata capace di mutare in un baleno, crea anche il brutto. A sud della riserva naturale dei mondi Wuyi ho visto un enorme Torrefa grandis decrepito e con il tronco completamente vuoto, ottimo nido per i pitoni. Dal fusto nero metallico spuntava qualche ramo su cui tremolavano ancora foglioline verde scuro. Al tramonto, quando la valle sprofondava nell’oscurità, risaltava nel tenue bambù ancora rischiarato dai raggi del sole. I rami spezzati, neri e putrefatti, si proiettavano in tutte le direzioni, sembrava uno spirito maligno. Ho stampato le foto e ogni volta che le guardo mi gela il cuore, non posso farlo a lungo. Mi rendo conto che fa emergere gli aspetti più bui del mio animo, e ciò mi atterrisce. Davanti al bello o al mostruoso posso solo indietreggiare.
(16) Dissolte le immagini, anche lo spazio si dissolve. Dissolto il suono, anche il linguaggio si dissolve. A mormorare senza voce non si capisce di cosa si parla, sopravvive solo un barlume di desiderio al centro della coscienza Ma quando non riesci più a conservare neanche quello, torni nel Nirvana.
(l')Io (9) Non so se hai mai analizzato quella strana cosa che è l’ego, più la osservi e meno ti riconosci, più lo guardi e più ti appare estraneo, come quando ti sdrai su un prato a fissare le nuvole, prima ti sembra somiglino a un cammello, poi a una donna che si trasforma in vecchio con la barba lunga, ma nemmeno quest’immagine è definitiva, perché le nuove mutano in un batter d’occhio.
[…] Poi mi sono messo ad osservare gli altri e mi sono accorto che quell’odioso ego onnipresente interferiva, non tollerava di non intervenire nella percezione degli altri. Un vero guaio, perché ogni volta che scrutavo gli altri osservavo me stesso…Il problema risiede nella presa di coscienza del mio ego, quel mostro che mi tormenta, che non mi dà requie. Narcisismo, masochismo, arroganza, orgoglio, malinconia, gelosia e odio nascono da lui.
[...] L’ego in realtà è la fonte di tutti i mali dell’uomo. Allora, la cura deve passare attraverso l’annientamento dell’io cosciente? Buddha insegna: i fenomeni del mondo sono puro inganno, come è puro inganno l’assenza di fenomeni.
l'Altro (12) Sai che mi limito a parlare a me stesso per alleviare la solitudine. È una solitudine senza speranza, nessuno mi può aiutare, posso solo conversare con me stesso. Nel lungo soliloquio «tu», destinatario del mio racconto, sei solo la mia ombra, l’«io» che si ascolta attentamente.
(15) L’«io» nel «tu» non è altro che il riflesso nello specchio, l’immagine capovolta del fiore nell’acqua. Se non entri nello specchio non riuscirai a tirar fuori nulla. Innamorato invano dell’immagine, non fai che compatirti.
Anima (11) Anima, anima, te la sei spassata, ora torna indietro, presto! A oriente il bambino in blu, a sud il bambino in rosso, a ovest il bambino in bianco ti proteggono, a nord il bambino in nero ti accompagna a casa. Anima smarrita, anima in viaggio non distrarti, il cammino è lungo, tornare a casa non è facile.
Metafisica (13) Mi sono creato il mio sistema, o meglio una logica, o piuttosto una relazione di causa ed effetto. In questo mondo caotico logiche e sistemi sono stati costruiti dagli uomini per affermarsi, perché non dovrei crearmi anch’io i miei? Così posso rifugiarmi in essi, costruirci la mia esistenza e vivere in pace. Le mie disgrazie nascono dal fatto che ho risvegliato il dèmone della malasorte «tu», ma «tu» in sé non è foriero di sfortune, provengono da me, dal mio narcisismo, da questo dannato «io» che ama solo se stesso. Sei «tu» che hai evocato dio e dèmoni, mentre io in origine ne ignoravo l’esistenza, «tu» sei l’incarnazione della mia felicità e della mia disgrazia, quando sparirai anch’essi torneranno nel nulla. Posso affrancarmi da me stesso solo dopo essermi liberato di te. Ma sono io che ti ho chiamato e ora non possa sbarazzarmene. E se prendessi il tuo posto? In altre parole io sarei la tua ombra e tu il mio corpo: un bel gioco. Se tu, al mio posto, mi ascoltassi attentamente, io sarei l’incarnazione del tuo desiderio, e anche questo sarebbe divertente. Ne scaturirebbe un’altra filosofia, bisognerebbe riscrivere il romanzo daccapo.
Anche la filosofia in fondo è un gioco dell’intelletto. Si situa dove matematica e scienze esatte non arrivano e si dedica alla costruzione di raffinate architetture. Terminata la costruzione, finisce il gioco.A differenza della filosofia, il romanzo è un prodotto della sensibilità che fonde in una miscela di desideri un sistema di segni arbitrariamente costruito. Quando la miscela si amalgama e genera nuove cellule nasce qualcosa di nuovo. Osservi il prodotto e lo trovi molto più interessante di qualsivoglia gioco dell’intelletto. E come la vita non ha obiettivo.
(14) Non avere una meta è comunque una meta, e cercare è di per sé un obiettivo, al di là del contenuto. La vita non ha uno scopo, è solo un viaggio.
Maschere(18) La gente confonde il disprezzo verso le bassezze del mondo con la nobiltà d’animo, senza capire che esso non esime dal cadere nel volgare. Meglio mostrare una mediocrità diretta che combattere il mediocre con il mediocre.
(19) Più profondo appare il detto di Xu Wei: «Il mio volto pubblico è falso: è modellato da altri. Il mio volto privato è autentico: sono io a volerlo». Se la mia personalità pubblica è falsa perché gli altri dovrebbero modellarla? Ma, falsa o meno, deve essere per forza modellata da altri? Quanto al mio autentico volto il problema non è se sia vero o falso, è se proprio io sia in grado di determinarlo.
(24) L'uomo non può sbarazzarsi di questa maschera, è il riflesso del suo .corpo e del suo animo, non può togliersi questa immagine diventata una seconda pelle e avrà sempre quell'espressione di stupore, come non volesse credere che quello è lui. Invece è lui. Non può liberarsi da questa sembianza e ne soffre. Una volta indossata, la maschera diventa parte di chi la indossa, non ha più una propria volontà, oppure se ce l'ha non ha gli strumenti per realizzarla, e preferisce non mostrarla. La maschera dà così l'immagine di un uomo che contempla se stesso, incredulo.
Finale (20) Le cose avvengono a mia insaputa e c’è sempre un occhio misterioso. Non capendo, posso solo fingere di capire. Dare a intendere di capire, ma non capire mai. Nulla mi è chiaro in realtà, nulla io capisco. E' così.
___________
Gao Xingjian, La Montagna dell’Anima, 1990 (Ed. BUR)

(1), (2) Cap. 1 - (3), (4) Cap. 2 - (5) Cap. 8 - (6) Cap. 14 - (7) Cap. 15 - (8) Cap. 19 - (9) Cap. 26 - (10) Cap. 42 - (11) Cap. 49 - (12), (13) Cap. 52 - (14) Cap. 57 - (15), (16) Cap. 58 - (17) Cap. 65 (18) Cap. 70 - (19) Cap. 71 - (20) Cap. 81 - (24) Cap. 24

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Published on July 22, 2018 05:58

July 17, 2018

AMA - Un video che celebra la Donna

AMA In occasione della celebrazione della giornata internazionale della donna, è stato realizzato un breve straordinario video interpretato da Julie Gautier, un'affermata e nota cineasta subacquea francese. La danza subacquea è davvero un'arte che senza bisogno di parole o di musica, rivela una bellezza fatta di movimento, eleganza, agilità sia fisica che mentale. Dietro ogni scena o azione subacquea si nasconde un'idea, una fantasia, una esperienza vissuta dall'attrice che la trasmette a chi la guarda. Racconta una storia con grazia, invitando chi la guarda ad essere complice del sua racconto. Non ci sono imposizioni, solo proposte e suggerimenti di condivisione. Si rivolge a tutte le donne, ma il messaggio è rivolto a tutti. Un video che è un vero capolavoro, una mescolanza creativa tra danza e musica, acqua e fotografia, bellezza femminile e magiche allusioni. Le riprese sono state fatte in una piscina di Padova, la più profonda al mondo. (cliccate su AMA per il video)
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Published on July 17, 2018 11:27

Suicidarsi a ventisei anni con le "parole"

Non conoscevo questa poetessa, la sua poesia e la sua tragica vicenda esistenziale. Antonia Pozzi si è uccisa a soli ventisei anni, nel 1938. Era una giovane insegnante. Si lasciò morire su una distesa di neve, lungo i Navigli, mentre gli altri, i suoi studenti, la attendevano invano. 
Eppure, nonostante questa tremenda decisione che la portò a chiudere la sua esistenza, la presenza di Dio si avverte in tutta la sua produzione poetica. La potrete leggere qui online gratuitamente, oppure in versione cartacea in una bella edizione qui accanto
Eugenio Montale scrisse la prefazione a queste sue poesie in una edizione pubblicata nel 1964. Può essere così ricostruito nella sua completezza e autenticità il percorso di un’autrice del tutto ignorata in vita. 
Le sue "Parole", nutrite di una solida cultura e intensamente elaborate sul piano formale, tuttavia lontane dai canoni letterari, dicono con passione vibrante, linguaggio limpido e vivezza di immagini la bellezza e cercava una quiete interiore che la giovinezza forse non era ancora in grado di darle. 
Ma si può scrutare fino in fondo nell'animo di una giovane, scoprire il dolore del mondo, il dramma dell’individuo e quello, più vasto, dell’umanità? Queste poesie giungono con sorprendente forza al cuore del nostro presente, una poesia sempre più capace di parlare alla nostra contemporaneità. Ho scelto tra tutte le sue poesie una che porta la data del 12 novembre scritta a Milano. Aveva soltanto diciannove anni, cercava la pace ...
L'anticamera delle suore
Forse hai ragione tu:forse la pace verasi può trovare solamentein un luogo buio come questo,in un'anticamera di collegiodove ogni giorno sfilano le bambinelasciando alle paretii soprabitini e i berretti;dove i poveri vecchiche vengono a domandaresi contentano di un soldo solodato da Dio;dove la sera, per colpadelle finestre piccine,si accendono presto le lampadee non si aspettadi veder morire la luce,di veder morire il colore e il rilievo delle cose,ma incontro alla notte si vacon un proprio lume alto accesoe l'anima che arde non soffreil disfacimento dell'ombra.
Milano, 12 novembre 1931 
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Published on July 17, 2018 06:43

July 16, 2018

Review: Scrittori italiani di aforismi. Vol. I: I classici

Scrittori italiani di aforismi. Vol. I: I classici Scrittori italiani di aforismi. Vol. I: I classici by Gino Ruozzi
My rating: 5 of 5 stars

Questi due volumi sono libri che non si finiscono mai di leggere. Circa tremila pagine in sottile carta india, nella pregiata collana dei Meridiani della Mondadori, una vera delizia per un bibliomane come me. Definire cosa sia l'aforisma è una definizione al quadrato, un aforisma impossibile. In questi due volumi è stata effettuata una ricerca fondamentale sugli aforisti italiani dalle origini all'Ottocento nel primo volume, il Novecento, nel secondo.
La medicina dell'uomo, questa è l'essenza dell'aforisma. Noi la scopriamo nell'eredità di Ippocrate, che alla indagine sulle cause naturali della malattia univa una partecipazione umana di straordinaria intensità. E la ritroviamo non solo nella rinascita medioevale del genere aforistico, ma anche nel corso sinuoso e sorprendente della sua storia, fino a trasformarsi, nel nostro secolo, in un delta dalle sterminate ramificazioni. Però sempre, pur nelle sue imprevedibili metamorfosi, l'aforisma resta un aiuto che l'uomo offre ad un altro uomo, una guida per evitare l'errore o porvi rimedio, il conforto che l'esperienza può dare a chi deve ancora affrontarla.
La radice della parola aforisma è la stessa di orizzonte. Il verbo greco "horizo" significa "delimitare". Orizzonte è all'origine il cerchio che si apre allo sguardo. Francesco da Buti, commentatore trecentesco di Dante, ci offre una definizione più precisa: "L'orizzonte è circulo terminativo de la nostra vista". Non meno preciso è il Tasso nel "Mondo creato": "Quel che terminò l'umana vista / ne i tenebrosi e lucidi confini / orizonte fu detto".
Leopardi introduce nell'Infinito una siepe che "da tanta parte / dell'ultimo orizzonte il guardo esclude". Qui il limite ultimo viene cancellato da un limite più vicino, così che si aprono al pensiero interminati spazi e sovrumani silenzi e profondissima quiete. L'orizzonte diventa quello che non sarà mai, illimitato, il contrario di ciò che significa "horizo". Perchè l'orizzonte della siepe dilata all'infinito l'orizzonte interiore: "e il naufragar m'è dolce in questo mare". L'orizzonte della poesia comincia dove finisce quello dell'aforisma, in cui sguardo e limite, centro e circonferenza sono sempre in rapporto.
L'aforisma è una riflessione. Presenta pertanto alcune caratteristiche: è in primo luogo il frutto di un ripiegamento della mente su se stessa, di uno sguardo a ritroso. E' da questa investigazione del passato che nasce la frase aforistica, rivolta al presente e al futuro. L'aforisma sollecita il pensiero, sprona nuove azioni e riflessioni. Forse è per questo che di norma si parla di aforismi e non di aforismi. Ogni aforisma chiede nuovi aforismi, successivi sviluppi del pensiero.
Gli aforismi, afferma Bacone, "poichè rappresentano una conoscenza discontinua, invitano a indagare ulteriormente, mentre i sistemi, secondo la parvenza di un totale, rassicurano gli uomini come se essi fossero al culmine della conoscenza". L'aforisma è dunque imperfetto e non rassicura; mobilita e apre alla ricerca e al dialogo. Sta al lettore accettare la provocazione o respingerla. L'aforisma non è uguale in tutti i secoli. Ha nomi, temi e forme diverse nel corso dei secoli.
Di tutti gli aforismi che ho avuto la possibilità di leggere finora, mi è piaciuto uno di Gerardo Bufalino. Eccolo: "E' proprio dell'aforisma enunciare verità che sembrano menzogne e menzogne che sembrano verità". E' proprio il caso di dire che "la vita mi sembra proprio un aforisma".
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Published on July 16, 2018 10:08

July 13, 2018

L'Italia è un "arcipelago"

Il libro
"Arcipèlago s. m. [voce formatasi nell’ital. ant., forse alteraz. (per incrocio con arci-) del gr. Αἰγαῖον πέλαγος «Mare Egeo»] (pl. -ghi). – 1. Aggruppamento di isole sparse nel mare ma abbastanza vicine tra loro e a volte con caratteristiche morfologiche analoghe. In origine, e come denominazione storica, il termine indicò in partic. il mare fra la Grecia, l’Asia Minore e la costa traco-macedone. 2. In usi fig. (sui quali ha notevolmente influito il titolo di un’opera molto diffusa dello scrittore russo A. I. Solženicyn, Arcipelago Gulag nella traduz. ital. del 1974), il termine ha assunto nel linguaggio giornalistico il sign. generico, che di volta in volta si precisa nei diversi contesti, di unione di «isole», cioè di gruppi, comunità o anche persone singole, isolate l’una dall’altra ma affini per condizioni socio-politiche o per orientamento ideologico, e in rapporto di reciproco e più o meno intimo scambio sia tra loro sia anche, spesso, con gli elementi che costituiscono altri «arcipelaghi»: l’a. della contestazione; l’a. della dissidenza; l’a. culturale laico." (Treccani)
Mi è piaciuto riportare per intero il significato della voce che il navigato scrittore inglese John Foot ha voluto dare come titolo del libro al nostro Bel Paese, fissandola su una targa stradale e facendola diventare la copertina. Quasi come a mettere le mani avanti per avvisare il viaggiatore verso l'Italia che sta per imbarcarsi in una quanto mai difficile navigazione, verso una frastagliata destinazione. Meno male che si è data una precisa data di partenza per il suo viaggio, altrimenti si sarebbe potuto perdere tra gli scogli del tempo. La sua storia inizia dal 1945. 
C'era una volta nel 1945 un Paese chiamato Italia che era più agricolo che industriale, più cattolico che secolare, più paese di emigranti che di immigranti. Poi le cose lentamente cambiarono, come del resto sono cambiate anche in altri paesi. L'autore puntigliosamente elenca gli eventi grandi e piccoli i quali hanno causato gli stessi. Evita però di fare confronti con gli altri. Sembra che questi cambiamenti siano accaduti senza che nulla sia accaduto nel resto di quello che lui chiama "arcipelago". E' vero che nel 1946 soltanto ventuno donne sedevano nell'Assemblea Costituente Italiana, ma è anche vero che solamente 24 sedevano nella Camera dei Comuni in Inghilterra. 
A quel tempo la Chiesa Cattolica era al centro della politica tanto da poter lanciare il suo avvertimento ai suoi elettori, che erano anche credenti, che quando andavano a votare, nella cabina elettorale c'era Dio che li vedeva. C'era il rischio di una scomunica alla quale nessun italiano aspirava. Questa spettava di diritto ai comunisti. La Chiesa controllava i giornali, la radio di stato, le banche, le case editrici, le compagnie di assicurazioni, i sindacati. L'autore dice che c'erano circa 250 mila tra vescovi, monaci, monache e preti che fiancheggiavano apertamente un partito che si dichiarava apertamente "cristiano" e che ha governato fino agli anni novanta. 
Eppure, John Foot argutamente fa notare al lettore che quel partito non è mai riuscito ad avere la maggioranza assoluta ed è stato costretto a governare sempre con le più ardite coalizioni politiche. Non riesce a dare una ragionevole spiegazione, nè tanto meno tenta una analisi. Va detto che la stesura del libro è anteriore ai risultati elettorali del 4 marzo 2018 e non si pronuncia perciò sulla disfatta al referendum subita da quello che, in inglese, viene chiamato uno "scrapper", il "rottamatore" per antonomasia Matteo Renzi, finito poi rottamato. 
Sarebbe stato interessante vedere cosa avrebbe scritto dei risultati di queste ultime elezioni. Quelle ardite coalizioni di natura non solo democratica, ma anche cristiana e socialcomunista, hanno generato una vittoria da un punto di vista strettamente tecnico alla coalizione del centro destra. In pratica, però, una vittoria di Pirro. La Santa Romana Chiesa non ci ha potuto mettere le mani. Berlusconi è stato dichiarato morto politicamente, facendo diventare la Lega Nord una semplice Lega, dando vita ad un'inedita alleanza tra opposti estremismi con un Movimento a Cinque Stelle, fondato da un "comedian" chiamato Beppe Grillo.  
Ma il libro non si occupa soltanto di politica. Si legge di ciclismo con Fausto Coppi, di scrittori con Primo Levi, di musica con Arturo Toscanini, di cinema con Visconti e Rossellini, di Domenico Modugno, Claudio Villa e Dario Fo. Ci sono accenni anche al fascismo e all'antifascismo, ma mancano riferimenti ai problemi dell'economia, pur con accenni alle tendenze consumeristiche, all'impatto della tv sui comportamenti della gente, non senza aver cercato invano di dare risposte a domande riguardanti il fenomeno del "berlusconismo", "tangentopoli", la sfiducia generalizzata nella politica, i problemi degli immigranti, uno strisciante razzismo, la crisi del sistema giudiziario, la fuga dei cervelli. 
John Foot conclude il suo libro di ben 496 pagine chiedendosi cosa avrebbe pensato di un Paese come questo "arcipelago" un viaggiatore del tempo vissuto nel 1945. Il libro di Foot, a dire il vero, elenca quasi tutto quello che secondo lui è accaduto, ma non ci dice il perchè. Nessuna meraviglia. Nemmeno noi Italiani sappiamo perchè accadono le cose che accadono in questo nostro amatissimo "arcipelago". Grazie a Dio non è un "gulag". Almeno non ancora! 
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Published on July 13, 2018 08:11

July 12, 2018

Per non annegare nella quotidiana stupidità sociale

Un impegno di scrittura creativa per non annegare nella quotidiana "stupidità sociale" della Rete. Il libro di Neruda si compone di 74 poesie in forma di domande alle quali cercherò di dare risposte creative e significative. Buona lettura e grazie a chi vorrà leggere e commentare.
Ho tra le mani questo libretto di poche pagine. Contiene domande articolate in 74 brevi poesie. L’autore non è un poeta o uno scrittore qualunque, bensì un grande artista che nella sua vita assorbì molte filosofie, diverse dottrine politiche e religiose. Egli sviluppò la sua creatività, attraversando tutta una vasta gamma di esperienze in forma di voci e stili diversi, nel tentativo di dare una risposta alle innumerevoli domande che il suo istinto artistico gli suggeriva. Queste sono contenute in un numero di 320, ma in effetti queste stesse domande possono essere infinite in quanto chi legge queste poesie ne genera a sua volta, altre.
Poco prima di passare a miglior vita, nel mese di settembre del 1973, Pablo Neruda ultimò la stesura di questo libro. Intese “visitare”, per così dire, quel profondo “pozzo dell’eternità interiore” che ogni essere umano porta con sè. Ma, mentre il comune mortale vive prigioniero della quotidianità, il vero artista, il vero poeta aspira a cogliere il significato di quei pensieri il cui senso va oltre se stesso. Pablo Neruda volle completare la sua esperienza di vita formulando queste domande rivolte non tanto a chi avrebbe letto i suoi versi, ma soprattutto a se stesso.
Andò alla scoperta del suo “mistero”, seppe guardare alle cose con occhi non suoi, quelli con i quali aveva vissuto le proprie esperienze. Andò alla ricerca non solo delle ragioni, ma soprattutto del perchè di quelle “radici” sulle quali poggia tutta l’esistenza umana. Egli legge la realtà con gli occhi di un bambino, ma anche con la mente razionale di un adulto. Passa in rassegna i momenti della sua vita, che è anche la vita di ognuno di noi. Leggendo queste domande, il lettore si accorge che non ci sono risposte, perchè di queste ce ne possono essere tante e diverse ... Un impegno di scrittura creativa per non annegare nella quotidiana "stupidità sociale" della Rete. Il libro di Neruda si compone di 74 poesie in forma di domande alle quali cercherò di dare risposte creative e significative. Buona lettura e grazie a chi vorrà leggere e commentare.
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Published on July 12, 2018 13:09

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Antonio   Gallo
Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one.
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