Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 101

June 28, 2020

Antonio Saro Gallio a Pompei

Il libro
Sono trentatrè i personaggi che Alberto Angela, autore di questo libro, fa apparire nella sua narrazione sugli ultimi tre giorni di Pompei tra il 23 il 25 ottobre d. C. ora per ora, quando va in scena sicuramente la più grande tragedia dell'antichità.
Tra immaginari e reali, sono soggetti umani che hanno vissuto in prima persona gli eventi in quei tre giorni. Nel racconto vengono descritte in maniera davvero magistrale le tre giornate, lo scorrere delle ore e dei minuti nelle loro vite. 
Non so se è corretto chiamare questa narrazione un libro. In effetti l'Autore, che nasce per formazione naturalista e paleontologo, sa essere anche giornalista e divulgatore scientifico. Lo fa in maniera tanto elastica quanto moderna.
Alberto Angela è anche autore e conduttore di programmi televisivi di grande successo, in una logica culturale ereditata dalla ditta e dal nome paterno, Piero, anche lui grande comunicatore sia di storia che di scienza, nel passato come nel presente e nel futuro.
In poco meno di cinquecento pagine questa narrazione può essere "vista" come in un film, un documentario, come srotolata su un papiro, letta su un manoscritto, in un romanzo, un saggio, un reportage. Alla fine si scopre che il libro è tutte queste cose insieme. 
Non so quante volte sono stato a Pompei nel corso degli anni, a partire dai tempi ormai lontani della gioventù. Ogni volta da solo o in compagnia, in fuga dalla scuola, il classico "filone", l'avventura amorosa, la gita scolastica, la visita di studio, l'accompagnamento con esperto e ospite straniero. Ogni volta, la visita ha avuto la sua differenza. 
Ha sempre, comunque, influito il fatto di essere vissuto a poca distanza da questi luoghi che trovano la giusta collocazione spaziale e mentale nella mappa acclusa alla fine del volume. Vi propongo di leggerla per meglio capire quanto questa lettura, a distanza di tanti anni, abbia fatto la differenza. Per quanto mi riguarda.
La "Campania Felix", la vita di una regione antica e fertile, ricca sia di storia che di  cultura, che non ha mai smesso di sorprendere, testimone ancora oggi di un passato glorioso che la rende unica nel mondo. Una questione di storia e di identità.
Polibio, storico greco, individuò i suoi punti di forza: la fertilità, la bellezza, la vicinanza al mare, la possibilità di fruire di scali e di navigazione interna. Fu Plinio a definirla con un attributo ancora oggi spesso citato ed utilizzato, dall’immenso valore simbolico, destinato a grandissima fortuna: “Campania illa Felix”, appunto.
Comprendeva territori che si estendevano dalle pendici del Monte Tifata (a nord) fino a lambire l’area flegrea e vesuviana (a sud). Plinio distingueva la Campania Antiqua, cioè quella del primo periodo, meno estesa e collocata intorno a Capua, dalla Campania Nova, quella della divisione augustea, che comprendeva anche una parte del Lazio, cioè la Campania di Roma. 
Dunque, la Campania antica (Antiqua) andava dalle pendici del Monte Massico, al Nord, fino ai Campi Flegrei a Sud. Fu Plinio il Vecchio a parlare di “Campania Felix”, sia per sottolineare la fertilità della regione, sia per distinguere la Campania antica. 
Ed proprio la "ditta" Plinio, per così dire, il "vecchio" e il "giovane", a fare da attori e interpreti principali di questa vicenda davvero allucinante ed unica nel suo genere.

Diamo attentamente uno sguardo a questa cartina. Al centro, ovviamente, ha il posto d'onore "Vesuvius". Va ricordato che nasce "dopo" l'evento. Prima era soltanto monte Somma. Sul golfo, lungo il litorale, a partire da Napoli, subito dopo Ercolano, vediamo il luogo dove tutto comincia nella narrazione: la Villa di Rectina. 
Chi è costei? "Nobildonna appartenente all'elite romana: organizza un banchetto nella Pompei che conta a poche ore dalla tragedia. Si salverà". Così la descrive Alberto Angela iniziando a presentare l'elenco dei personaggi del suo racconto, in ordine di apparizione. 
Prosegue poi con Plinio il Vecchio, lo schiavo Eutico, il politico Gaio Cuspio Pansa, l'affarista Gaio Giulio Polibio, il banchiere Lucio Cecilio Giocondo ... fino a concludere con Tiberio Claudio Anfio, addetto alla gestione della fattoria del banchiere, che si stringe attorno alla sua padrona per proteggerla (come li hanno trovati) e si conclude con Faustilla, usuraia che tenta di riscuotere i suoi crediti persino durante il fuggi fuggi generale. 
Non c'è che dire, un ricco campione di vasta umanità. Ci si sarebbe potuto trovare chiunque fosse proveniente da questa vasta regione nella quale abbondavano i traffici e gli scambi. Sarebbe potuto esserci magari anche un "Antonino Saro Gallio", antenato di un reincarnato Antonio Gallo, come quello menzionato qui al link , nella Valle di Tramonti.
Da Pompei, un salto storico in avanti nel Medio Evo di oltre un millennio, ma anche un salto storico all'indietro nella Pompei che si apprestava ad essere distrutta da "Vesuvius" fino ad allora uno  sconosciuto vulcano. Se l'Antonio Gallo dei Monti Lattari era un "guarnimentaio" che trafficava dalla Valle del Sarno a quella di Tramonti, nulla ostava a che ci sarebbe potuto essere anche un Antonino Saro Gallio, proveniente dalla falde del Monte Saro, dove si potevano trovare le sorgenti del fiume Sarno, che bagnava Pompei ed alla città dava un ricco porto. Poteva trafficare in oggettistica pregiata con Rectina, la nobildonna dell'elite pompeiana. 
Sarno era anche il fiume che permetteva ai pompeiani di trafficare e dava il nome alla città che ancora oggi porta quel nome con la quale Pompei aveva un forte rapporto. Non a caso Alberto Angela cita molte volte nel suo libro sia il paese che il fiume. Dalla mappa si vede chiaramente sia il percorso del fiume la strada che collegava i due paesi. 
In un territorio così traboccante di storia qualsiasi evento immaginario può essere pensato come reale, anche se le ceneri del tempo e dei vulcani possono cancellare le tracce degli uomini. Leggendo questo libro, che mi è piaciuto molto e che ha dato senso alla mia identità sui luoghi così come sono stati illustrati in questa mappa, mi è sembrato possibile vivere realtà. Di sicuro, per le possibilità che offre la reincarnazione e per la legge dei "ritorni", può esserci stato un Antonino Saro Gallio, scampato all'evento solo per caso. La lettura di questo libro mi ha convinto ...


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Published on June 28, 2020 09:13

June 24, 2020

La mente di Dio

La mente di Dio La mente di Dio by Paul Davies

My rating: 4 of 5 stars


"La tesi centrale che ho esplorato in questo libro dice che attraverso la scienza noi esseri umani siamo in grado di comprendere almeno una parte dei segreti della natura. Abbiamo decifrato una parte del codice cosmico. Perchè sia accaduto, perchè l'Homo Sapiens abbia in sè una scintilla di razionalità che gli dà la chiave dell'universo, resta un profondo enigma. Noi, figli dell'universo - polvere di stelle animata - ciononostante possiamo riflettere sulla natura dell'universo stesso e perfino intravedere le regole che lo fanno funzionare. Come sia nato il nostro legame con questa dimensione cosmica è un mistero, ma il legame stesso non può essere negato. Che significa tutto questo? Che cos'è l'Uomo, per partecipare di un simile privilegio? Non posso credere che la nostra presenza in questo universo sia solo un gioco del fato, accidente della storia, una battuta casuale del grande dramma cosmico. Il nostro coinvolgimento è troppo intimo: la specie fisica Homo può anche non contare nulla, ma l'esistenza della mente in un organismo di un pianeta dell'universo è sicuramente un fatto d'importanza fondamentale. L'universo ha generato, attraverso degli esseri coscienti, la consapevolezza di sè: non può essere un dettaglio banale, un sottoprodotto secondario di forze cieche e senza scopo. La nostra esistenza è stata voluta".

Con questi pensieri l'Autore conclude il suo pregevole libro. Io, che non sono uno scienziato, ma sono soltanto un semplice lettore che concede allo scienziato Paul Davies la possibilità di pensare all'esistenza di Dio e che questi abbia poi anche una sua "mente" alla quale è lecito rivolgere una semplice, banale domanda: ma se Lui è la Mente di tutto, che ragione, motivo aveva di creare un soggetto chiamato Uomo, così come Lui stesso l'ha concepito, permesso di nascere ed esistere senza che potesse avere la possibilità di darsi una risposta? Capace sì di dare una risposta ai primi quattro interrogativi chi-cosa-quando-dove? ma incapace di rispondere all'ultimo?



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Published on June 24, 2020 16:08 Tags: dio, mente, perchè

June 19, 2020

Quel che resta dei ricordi: "La strada non presa"



“Con il passare degli anni, chi invecchia è portato a non meravigliarsi più di nulla. Tutto diventa un “dèja vu”. Si finisce di vedere anche quello che non c’è … “.

Così ho scritto in un post su FB parafrasando un pensiero di Marcel Proust, letto non ricordo bene dove, nella sua “Ricerca” tra tempo “perduto” o tempo “ritrovato”. So bene che le “cose” del passato, quando finiscono in mano al tempo che passa inesorabile, diventano ricordi, e si trasformano in “ombre troppo lunghe del nostro breve corpo” come dice il poeta.
E’ vero, ma siamo fatti di ricordi che diventano fatti concreti quando li puoi fermare sulla carta, come nel caso delle immagini che corredano questo post. Contano le date che hanno fermato il tempo sul mio passaporto del secolo e del millennio trascorsi. L’ho ritrovato nella foresta di carte che maniacalmente ognuno di noi conserva. Su queste tre immagini cerco di scrivere un ricordo che diventa una narrazione, più per me stesso che per gli altri.
Avevo una ventina di anni, dopo un travagliato percorso di studi ero arrivato al diploma e mi ero iscritto a lingue all’I.U.O. Una follia, lo dico adesso, ma non la pensavo così allora. Erano gli anni sessanta, non sapevo ancora che sarebbero poi diventati, almeno per qualcuno, “gli anni del nostro incanto”, i “ruggenti” o “maledetti” anni sessanta per altri. Per loro, ma non di certo per me.
Quello che sapevo allora, e me ne ricordo bene oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, era la mia forte volontà di trovare una “via di fuga” da quel mondo di cui ero stato fino ad allora prigioniero nella Valle dei Sarrasti, uscire da quel portone di Via Fabricatore al numero 14. Sto qui a spiegarlo sopratutto a me stesso.

Leggere quel libro cui ho fatto cenno prima, con un titolo sull’incanto che invita a guardare al passato, attività che non amo molto fare, ma che poi il più delle volte si è costretti a svolgere quando ti imbatti non in ombre brevi o lunghe che siano del nostro corpo.
Il poeta Cardarelli nella sua strepitosamente triste poesia intitolata “Passato”, considera i ricordi “uno strascico di morte” bruciato sull’altare della vita in nome del tempo. Certamente non anni di “incanto”, e nemmeno di “vita bruciata”. Ma devo andare in ordine se non voglio confondermi e far diventare questi miei anni un incubo vissuto tra ombre.


Era un anno bisestile se non erro. Le cose non andavano bene nella piccola azienda tipografica fondata prima della guerra. Si potevano intravedere i primi segni di quello che sarebbe stato poi il grande mutamento. Sarebbe finito tutto. Il mio desiderio di evadere e di cambiare va trovato sopratutto nella decisione (folle! ma lo dico oggi) di studiare l’inglese e il tedesco che non conoscevo affatto.
Mi ritrovai queste due lingue davanti al francese nel corso di laurea con un ordinamento di studi che aveva dell’impossibile: inglese quadriennale, scritto e orale, tedesco triennale, francese biennale. Quest’ultima era l’unica materia di studio che mi aveva veramente interessato al ginnasio, a scapito delle lingue classiche che furono le mie pecore nere.
Come fare, allora, per studiare queste lingue? Decisione immediata: evadere. Passaporto. Fu così che nel mese di marzo 1960, mentre esce nelle sale cinematografiche italiane il film della “Dolce Vita” di Fellini, vado in Germania a divento anche io un “magliaro” sulla scia del film cult di Francesco Rosi uscito l’anno prima.
Studente lavoratore, finisco per diversi mesi tra magliari, pizzaioli e venditori di tappeti nella speranza di imparare la lingua di Goethe. Fu un disastro annunziato che non seppi leggere tra le pieghe del tempo. Ritornai a casa ma qualche mese dopo, con lo stesso passaporto sbarcai a Dover, arrivando in una fredda sera di ottobre dell’anno successivo alla stazione Victoria dopo un viaggio di oltre 48 ore. Entrai con un permesso di soggiorno per tre settimane. Riuscii a trovare un lavoro, al Consolato di Londra mi rinnovarono il passaporto, la mia qualifica di “lavoratore” mi venne confermata.
A distanza di oltre mezzo secolo, anche negli anni del “mio incanto”, ritrovo una Vespa nella mia vita, come nel libro di Giuseppe Lupo. Salvador Rodriguez era un caro amico e collega, rifugiato politico anti-franchista spagnolo. Possedeva una Vespa e dall’Ospedale dove lavoravamo, andavamo spesso a Londra, la “Swinging London” dei Beatles e delle minigonne a Carnaby Street, con i libri da Foyles. Conoscete la nota poesia del poeta inglese Robert Frost “The Road not Taken”-”La Strada non Presa”?

Divergevano due strade in un boscoingiallito, e spiacente di non poterle fareentrambe uno restando, a lungo mi fermaiuna di esse finché potevo scrutandolà dove in mezzo agli arbusti svoltava.
Poi presi l’altra, così com’era,che aveva forse i titoli migliori,perché era erbosa e non portava segni;benché, in fondo, il passar della gentele avesse invero segnate più o meno lo stesso,
perché nessuna in quella mattina mostravasui fili d’erba l’impronta nera d’un passo.Oh, quell’altra lasciavo a un altro giorno!Pure, sapendo bene che strada porta a strada,dubitavo se mai sarei tornato.
lo dovrò dire questo con un sospiroin qualche posto fra molto molto tempo:Divergevano due strade in un bosco, ed io…io presi la meno battuta,e di qui tutta la differenza è venuta.
Testo originale
Two roads diverged in a yellow wood,And sorry I could not travel bothAnd be one traveler, long I stoodAnd looked down one as far as I couldTo where it bent in the undergrowth;Then took the other, as just as fairAnd having perhaps the better claim,Because it was grassy and wanted wear;Though as for that, the passing thereHad worn them really about the same,
And both that morning equally layIn leaves no step had trodden blackOh, I kept the first for another day!Yet knowing how way leads on to way,I doubted if I should ever come back.
I shall be telling this with a sighSomewhere ages and ages hence:two roads diverged in a wood, and I —I took the one less traveled by,And that has made all the difference.
E’ vero. Anche io presi quella non frequentata e ha fatto la differenza. Potrei chiedermi, come fa spesso chi rimpiange il passato: “cosa resta di quel tempo?” Ma a quale “realtà” dovrei pensare? A quella che lasciai e poi ritrovai quando ritornai in Italia, oppure a quella che trovai e poi lasciai quando me ne andai dall’Inghilterra?
Ecco a questa domande mi ha riportato il ritrovamento di questo documento, questo passaporto rinnovato al Consolato Generale Inglese di Londra che porta la data di gennaio 1962. Memoria senza ombre lunghe di un dinosauro che conserva le differenze …
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Published on June 19, 2020 12:51

June 18, 2020

Leggere e scrivere come Pontiggia



Un Meridiano di ben 1971 pagine non è che lo leggi dalla mattina alla sera. Maestro di stile e di misura, cultore di letterature classiche, appassionato bibliofilo, Pontiggia è uno degli autori più originali del secondo Novecento italiano.
Il Meridiano, uscito a un anno di distanza dalla sua prematura scomparsa, presenta tutti i suoi libri in ordine cronologico e senza distinguere tra narrativa e saggistica, che nelle sue opere sono continuamente intrecciate, e permette di cogliere il suo personalissimo progetto a tutto campo sulla letteratura, la ricchezza e la varietà di generi letterari e di toni della sua opera, la raffinatezza essenziale del suo stile, l’intelligenza (talmente ironica e acuta da diventare tagliente) delle sue osservazioni sulla realtà, le persone, gli avvenimenti, il suo concetto di estetica che mai prescinde da un vigile e severo sentimento etico. 
La letteratura in «prima persona» di Giuseppe Pontiggia. Cronologia. Nota all’edizione. La morte in banca. L’arte della fuga. Il giocatore invisibile. Il raggio d’ombra. Il giardino delle esperidi. La grande sera. Le sabbie immobili. Vite di uomini non illustri. L’isola volante. da «I contemporanei del futuro». Nati due volte. Prima persona. Notizie sui testi. Bibliografia.




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Published on June 18, 2020 13:50

June 16, 2020

I "tic" del bibliomane digitale



Libri e tag su GoodReads











Questo è un post un pò strano specialmente per chi non è abituato a navigare nelle biblioteche digitali.Chi ha avuto a che fare con i database, (archivi di informazioni) invece, avrà certamente sentito parlare di “metadati” (dati che descrivono i dati), ovvero di informazioni supplementari che consentono di classificare meglio gli elementi di conoscenza in nostro possesso.
Non sapere, o anche non essere consapevoli, di ciò che si possiede, equivale praticamente a non possedere nulla.In termini informatici potremmo dire che i dati non valgono niente se non esiste uno strumento per classificarli e quindi organizzarli nel modo di più opportuno
Apporre una parola o una serie di etichette/tag ad un oggetto o un argomento, significa associargli un elenco di attributi che ne descrivono svariati aspetti, così da poter più facilmente reperire ciò che ci occorre.
Ad esempio, la lunga lista che vedete qui accanto ai miei libri nella immagine riguarda le etichette/tag che ho usato per catalogare i miei libri sulla piattaforma di GoodReads. Ad ogni libro, quando lo inserisco, ne scrivo o ne faccio una recensione, assegno una parola-chiave, tag/etichetta, per classificare la sua identità.
Questo permetterà di trovare più facilmente tutti i libri di un certo tipo (di un dato genere, di un dato autore ecc.) Nel suo famoso best-seller “La magia del riordino” la scrittrice giapponese Marie Kondo ha conquistato l’attenzione e l’interesse dei disordinati di tutto il mondo, così come quelli di coloro che amano organizzare il loro spazio personale.
Il suo libro ha offerto preziosi consigli che possono essere applicati non solo al processo di ordinare gli oggetti di casa, ma anche ad altri settori della vita quotidiana. Con i libri si costruisce quella che io definisco la biblioteca digitale. Il collezionista di libri, quella persona che in passato amava raccogliere su scaffali di legno i propri libri.
Li sistemava per colore della copertina, per soggetto, per autore, per grandezza o per qualsiasi altro sistema.Formava così la sua biblioteca personale di amatore, collezionista e lettore di libri. Per la legge dell’evoluzionismo, solo qualche anno fa, si è trasformato in qualcosa d’’altro una volta diventato digitale. Man mano che i libri aumentavano, questo antico lettore avrebbe fatto un passaggio di grado, da semplice collezionista sarebbe diventato un bibliofilo.
Quando poi, col passare del tempo, con il cambiamento degli interessi e l’allargamento delle conoscenze, la sua passione sarebbe diventata una mania, si sarebbe trasformato in un bibliomane. Al tempo, cartaceo. come era mio Padre. Ma Lui non era soltanto un accanito lettore. Apparteneva anche ad una famiglia di tipografi. Ma questa è un’altra storia che ho già raccontato.
Mi preme qui continuare il racconto con l’avvento della IT, la Informazione Tecnologica. Questo lettore cartaceo non sapeva che avrebbe avuto la possibilità di trasformare i suoi “testi”, i tradizionali libri, in “ipertesti” scritti in “bits & bytes”, in scrittura digitale. Il cartaceo sarebbe stato trasformato in digitale. Alla vecchia libreria/biblioteca si sarebbe affiancata quella digitale, attraverso il computer e i suoi derivati. Sarebbe così nato un nuovo modo di sistemare i libri, la conoscenza, i saperi.
Sarebbero arrivati i tag o le etichette, magiche parole-chiave per un modo nuovo e diverso di classificare il mondo. Cos’è un tag? E’ una parola che aggiunge ulteriori informazioni o descrive meglio un oggetto, un prodotto, un testo o un dato, attribuendogli una precisa caratteristica. Nel caso del libro si lega e inizia con la sua scheda identitaria. Quella che una volta compilava il bibliotecario e la tirava fuori dallo schedario quando cercavamo un libro in biblioteca.
Quando parliamo di dati di un libro ci riferiamo ad un record, una registrazione, intesa come “quantificazione di un insieme costituito da una serie di attributi”, il nome di ciascun attributo è un tag. Il record di un libro può essere costituito da diversi elementi: nome e cognome dell’autore e di altri collaboratori al libro con le proprie qualità, editore, edizioni del libro, collana e via specificando.
Più sono gli elementi di conoscenza che abbiamo a disposizione, più il record è completo. Tutti dati propri del libro al quale il lettore dovrà assegnare la sua valutazione, che sarà personale e verrà data in forma di “review” (recensione) e di “tag” (etichetta) di sua scelta. In questo caso l’etichetta diventa un valore aggiunto al libro, in positivo o in negativo. La lista può essere lunga, come nel caso che riguarda le mie, nell’immagine che vi ho proposto con il lungo elenco.
I tag si facilitano i compiti di molte attività per chi si occupa di vendita e di marketing. Si può migliorare la qualità della comunicazione sia interna che esterna di un qualsiasi luogo, ovvero tra l’impresa ed i clienti sia reali che potenziali.
Nel caso dei libri, dell’editoria e di tutto quanto riguarda il mondo della comunicazione. Grazie alle informazioni aggiuntive disponibili per ciascun partecipante interessato, scrittore, lettore, editore, bibliofilo o bibliomane che sia. Cartaceo o digitale. Tutti potranno lavorare in modo più accurato ed efficiente in tempo reale.
Si tratta di molti dati, tutti utili non solo a categorizzare il prodotto, nel nostro caso i libri, ciascun utente, ma anche a dare un profilo di chi di usa la biblioteca per far vivere i suoi libri, ma anche per lanciare un messaggio all’esterno al mondo ed ai mercati con i quali gli uomini interagiscono. Non a caso GoodReads appartiene al colosso delle vendite online che va sotto il nome di Amazon.
Non intendo ulteriormente estendere questa mia analisi dei “tag”, o dei “tic” di un bibliomane, nato cartaceo diventato digitale per naturale evoluzione, per non annoiare chi legge. Desidero solamente dire che in una biblioteca digitale di questo tipo il bibliomane può anche inserire libri che non possiede o che non ha letto. Un pò come l’antibiblioteca di cui parlava tempo fa Umberto Eco.
Ne ho scritto anche io in un precedente post. Quante cose puoi fare in una biblioteca digitale! Puoi mettere anche libri che non solo non possiedi, nè in cartaceo nè in digitale. Puoi dire spiegare le ragioni per le quali ci metti un libro che non vorresti mai leggere spiegando le tue ragioni, ma non vuoi rinunciare a leggere di cosa parla e cosa dicono altri che quello stesso libro o scrittore hanno inserito, letto e recensito.
Altre cose, di non poco conto, che caratterizzano questa piattaforma sono gli spazi offerti a chi si iscrive, sempre in maniera gratuita e in lingua inglese, con Forum mirati di discussioni, scambi, ricerche, giochi altre mirabilie anche in lingua italiana, spazi dedicati alla scrittura, un blog personale, citazioni, riferimenti bibliografici. Queste sono le mie buone ragioni per definirmi un dinosauro bibliomane digitale.





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Published on June 16, 2020 10:47 Tags: biblioteca-digitale

June 15, 2020

La biblioteca dei libri viventi




"In tutti i paesi troverete migliaia di biblioteche piene di libri; con tutti quei libri l’umanità si è certamente istruita, ma non è migliorata. Ciò che serve, d’ora in poi, sono dei libri viventi. Se il mondo invisibile invia sulla terra degli Iniziati, dei santi, dei grandi Maestri, è perché essi sono dei libri viventi. Gli esseri umani hanno più bisogno di questi libri che degli altri, perché gli altri li si legge e poi li si lascia su uno scaffale senza mettere nulla in pratica. Quando invece appare un libro vivente, si è stimolati, trascinati. Certo, i più preferiscono i libri di carta, perché sono pacifici, gentili, inoffensivi. I libri viventi, invece, danno sempre degli scossoni. Ma le persone non amano ricevere scossoni, e dicono: «Lasciateci tranquilli, abbiamo le nostre biblioteche, i nostri Libri sacri da leggere…» Allora i libri viventi replicano: «Può darsi, in effetti, che li leggiate, però non li applicate. Noi siamo qui per mostrarvi come applicarli».

Così Omraam Mikhaël Aïvanhov ha scritto in uno dei suoi "Pensieri quotidiani". Quanto mai visionario e anticipatore questo illuminato, grande filosofo e pedagogo bulgaro. Non solo esistono i libri viventi ma anche le biblioteche viventi. In molte città del mondo, invece di compulsare soltanto dei libri è possibile prendere a prestito anche una persona e porle delle domande. 
Così si riesce a dare voce a figure minacciate dal pregiudizio. La gran parte dei lettori di questi libri invece di limitarsi a scegliere un libro da leggere, ha la possibilità di avere una persona che gli parla del contenuto e del problema contenuto nel libro stesso.
Sarà così in grado di affrontare il problema che gli interessa senza pregiudizi e attingere corrette informazioni in argomento direttamente dalla fonte. Potrà condividere esperienze e risolvere problemi. Un libro vivente è una persona che ha scelto di rappresentare un certo gruppo. 
Un esempio di come la gente debba essere se solo le menti e le mentalità fossero più aperte su quel determinato argomento. Ma sopratutto sono persone che hanno il coraggio di sostenere apertamente le loro idee ed opinioni, disposte a discuterle con gli altri.
Un aspetto particolare ed interessante di queste biblioteche di libri viventi è che in casi del genere non si fanno domande stupide. Accanto alle persone che si offrono ci sono i libri i quali possono dare risposte documentate ad eventuali domande complesse che presuppongono risposte ardue. Tutti sappiamo cosa sono gli stereotipi e quanto siano difficili da estirpare. 
Ad esempio la letteratura cosi detta gay, il multiculturalismo, le religioni, l’alcolismo, la droga, i diritti civili sono tutti argomenti che scottano. Chi è disposto ad esporsi e parlare su argomenti del genere è sempre un volontario che si offre liberamente alla “lettura” del suo problema per aiutare il lettore nella comprensione del problema stesso.
«Il nostro bestseller? Indubbiamente l’imam, ma anche i travestiti e le coppie omosessuali sono molto apprezzati». Chi parla è Linda Willander, di mestiere bibliotecaria. Lavora per la Stadsbibliotek di Malmö, una grande città della Svezia. Da alcuni anni la biblioteca offre l’opportunità di consultare, accanto ai volumi cartacei e ai cd-rom, anche delle persone in carne e ossa.
Persone disposte a incontrare il pubblico in quanto esponenti di particolari categorie sociali, verso le quali non di rado si nutrono dei pregiudizi: genitori omosessuali, donne musulmane col velo, punk, animalisti, skinheads, transgender e via dicendo. Umanità difficile e controversa che sfida la vivibilità e i pregiudizi di società in cui spesso è difficile vivere. 
La selezione dei volontari “libri viventi” è una cosa molto seria e chi decide di partecipare deve rispondere a requisiti ben precisi. «Malmö è una città cosmopolita, abitata da oltre 140 nazionalità diverse. È un centro d’immigrazione molto intensa e rappresenta bene le difficoltà d’integrazione che toccano l’Europa dei nostri giorni - spiega Linda -. 
In genere proponiamo temi legati all’attualità. Ad esempio la giornata dedicata al matrimonio tra omosessuali, che ha avuto una notevole partecipazione di pubblico, è stata organizzata anche in considerazione del fatto che tra poco in Svezia il rito potrà essere celebrato in chiesa».
Gli incontri con i “libri viventi” si svolgono in media quattro volte a semestre, nel caffè della biblioteca. Dopo essersi prenotati, si può parlare con loro per tre quarti d’ora. Ogni “libro” viene prestato tre-quattro volte nell’arco del pomeriggio. A fine giornata vengono distribuite le schede di valutazione e accolte le richieste per l’acquisizione di nuove categorie di persone da incontrare. 
La sessione viene documentata dal giornale «Ventiquattro», ha visto la partecipazione del popolarissimo imam Ali Ibrahim, di un giocatore d’azzardo, del travestito Tina/Håkan Jönsson, di due musicisti e di una persona afflitta da disturbi mentali. 
Gli incontri non vengono né filmati né registrati, perché l’esperienza deve restare nella sola memoria dei partecipanti. «Non ci sono limitazioni ai temi da trattare, ma ciascun “libro” può rifiutarsi di rispondere a domande che reputi inappropriate, evenienza che però non si verifica di frequente» , spiega Catharina Noren.
È lei che nel 2002 ha avviato il progetto, traendo spunto al di là del ponte sull’Öresund, in Danimarca: nel 2000 aveva assistito a un primo esperimento di biblioteca vivente ospitato dal Festival di Roskilde. «In quel caso l’iniziativa era stata promossa dall’organizzazione non governativa “Stop Violence” che aveva lo scopo di prevenire scontri tra i giovani nelle città e nelle periferie di Copenhagen». 
Catharina capì che il progetto aveva altre potenzialità e che, specie in una città agitata da tensioni migratorie come Malmö, sarebbe valsa la pena di trasformarlo in un appuntamento stabile.
Da allora l’esperienza è stata ripresa in diversi altri centri svedesi, ma anche in Inghilterra, Ungheria, Danimarca, Portogallo e - fuori dall’Europa - Australia e Giappone, per un totale di trenta Paesi. È un esperimento di educazione non-formale che estende nel mondo fisico i modi di raccogliere, organizzare e diffondere sapere affermatisi negli ultimi anni in internet.
Il progetto di Malmö parrebbe perseguire in maniera efficace un obiettivo indicato in ambito scientifico come cruciale per le biblioteche contemporanee vale a dire quello di diventare luoghi sociali di scambio e di costruzione condivisa della conoscenza, spazi per la gente invece che spazi per i materiali. 
«Grazie al progetto della "living library" i tradizionali utenti della biblioteca (donne tra i 45 e i 65 anni) sono stati affiancati in questi anni da ogni altro tipo di persone, compresi i giovani e gli uomini», aggiunge Catharina Noren. 
L’attenzione mediatica è stata notevole, tanto che persino un esponente di spicco della famiglia reale svedese, la principessa Victoria, si è offerta alla biblioteca di Malmö per essere consultata come libro. Sinora non ha però potuto essere “prestata” per motivi di sicurezza.
Anche l’Unione Europea è sensibile all’iniziativa: nel 2005, il Consiglio d’Europa ha commissionato una sorta di prontuario per fondare, gestire e sviluppare una living library . 
L’allora segretario generale del "Council of Europe" sottolineava la novità dell’esperimento, e la sua utilità nel favorire l’integrazione culturale perché «i diritti umani non possono essere sostenuti dalla sola emanazione di leggi o pubblicazione di testi».
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Published on June 15, 2020 05:55

June 14, 2020

A che serve un libro come questo?



53792346. sy475 Il libro
Per chi ama la lettura è importante assegnare al libro che si decide di leggere il genere letterario. Non per mera volontà di inquadrare tutto, ma per dare un senso a questa decisione. Del resto una operazione del genere viene fatta anche da chi decide di scrivere un determinato libro.
Sembra essere questa una cosa fondamentale perché permette tanto a chi scrive di riconoscere e utilizzare i “topos” letterari specifici del genere scelto in maniera da seguire la logica struttura coerente all’argomento senza perdere di vista il pubblico, quanto al lettore finale di decidere di acquistarlo o meno e di non rimanere deluso.

Se ho deciso di leggere questo libro, le ragioni ci sono. Non sono un addetto ai lavori, un esperto di Storia dell’Arte Medioevale. Sono soltanto un bibliomane digitale, figlio di un tipografo post gutenberghiano. Sapevo bene cosa mi aspettavo quando mi son fatto arrivare da Amazon questo volume di oltre cinquecento pagine. Sapevo anche qualcosa di più, a dire il vero.

Sono nato in quella stessa «terra operosa» del Comune di Tramonti, di cui si occupa il libro che racconta di Matteo Camera, dotta figura culturale amalfitana dell’ottocento. Trascorro gran parte del tempo nella frazione di Novella, sono di madre Tramontina, ho conosciuto il Padre di chi ha curato questa stampa anastatica della «Istoria della Città e Costiera di Amalfi» di Matteo Camera per i tipi di Francesco D’Amato, il prof. Gaetano Milone, indimenticabile ed eminente figura culturale della Città di Sarno.

Buone ragioni, quindi, per arricchire non solo le mie sempre poche conoscenze, ma anche la ricca biblioteca della Chiesa Parrocchiale di San Bartolomeo Apostolo in Novella, una delle tredici frazioni del Comune di Tramonti. La gestisce egregiamente don Emilio D’Antuono, parroco da quaranta anni. Fu tra questi scaffali che, più di una decina di anni, fa ebbi il piacere di conoscere l’opera di Matteo Camera, l’illustre amalfitano oggetto del Prof. Antonio Milone, curatore del libro.

Lo studioso dell’Università Federico II aveva avuto modo già di scriverne nel prezioso volume “Tramonti, la Terra Operosa”, edita dal Comune di Tramonti e dal Centro di Cultura e Storia Amalfitana nel 2008, con un suo intervento tra Medioevo e Età Moderna. Anche chi scrive ebbe modo di scrivere su questo argomento quando nel mese di aprile 2007 pubblicai il volume “Un’Idea di Vita. Una Chiesa e un Villaggio da salvare”.

Una operazione di assoluto “no-profit” che non ebbe esiti, sfumata poi nelle buone idee degli uomini. Intenzioni di un libro che presentava, guarda caso, in copia anastatica un estratto da un altro libro di Matteo Camera, pubblicato nel 1876 e intitolato: “Memorie Storico Diplomatiche dell’antica Città e Ducato della Città di Amalfi”.

Due volumi di quasi duemila pagine. Il mio libro può essere consultato in “open source” qui al link di “Internet Archive”: “Una storia locale che diventa “microstoria” senza per questo perdere la dignità della Storia con la maiuscola. Anzi, la precede e ad essa dà forma e sostanza, facendo provare al lettore il gusto dei saperi perduti, i migliori, per conoscere il passato”. Così scrissi nella presentazione.

Sono circa quaranta le pagine che lo storico Amalfitano dedicava a Tramonti in quella successiva opera datata 1876, quaranta anni dopo rispetto a questa del 1836 di solo dieci. Un arco di tempo piuttosto ampio che segnala il progressivo impegno che Matteo Camera avrebbe poi dato al suo lavoro di ricerca storica sul Ducato di Amalfi.

La Valle di Tramonti, moderno “polmone verde della Costa d’Amalfi”, pur essendo rimasta “terra operosa” è diventata una “valle dormitorio”. Nella presentazione del mio volume ricordo che dichiaravo l’ “ambizione di gettare le basi per il recupero della memoria civile e religiosa della comunità di Tramonti e di indicare alle nuove generazioni il percorso da intraprendere per la costruzione di un futuro migliore.”

Se diamo uno sguardo alla realtà contemporanea, anche alla luce degli sconvolgenti recenti eventi pandemici, avere oggi tra le mani un volume del genere, mi chiedo quale topos letterario, del tipo di quelli a cui facevo riferimento all’inizio, potrebbe avere.
Pur con il grande ed intelligente lavoro fatto dai curatori del libro e con l’impegno dell’editore, mi sembra giusto porsi una domanda: ma servono davvero libri di questo tipo in un’epoca come la nostra nel terzo millennio?

“Amalfi tra cronaca e mito riedita l’Istoria di Camera” ha titolato un quotidiano nella recensione del libro. Io, con amarezza, mi permetto di chiosare: “ … bypassando la realtà senza creare il futuro”. A futura memoria.
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Published on June 14, 2020 08:38

June 13, 2020

La mente come un giardino

Viewed from a purely private garden perspective, this has been a ver mirabilis. The blossom has been wonderful and long-lasting, the sun has shone on the daffodils and tulips, and there has been enough moisture in the ground for impressive growth in trees, shrubs and vegetables. Thanks to lockdown and all its confinements, I have enjoyed an intensity of engagement with my garden I’ve rarely experienced since the days when I was a young, mustard-keen apprentice gardener. I feel as if I have watched every leaf unfurl, every flower open, every bird swoop across the lawn. Spring gardening, with its pleasant, mindful monotony of pricking out seedlings and pulling up speedwell, has soothed my nerves, consoled my sadness, calmed my fears, and brought a welcome sense of proportion. There is a lot to be said for indifferent, imperturbable nature.
None of this has come as a surprise to me, or anyone else I know who puts their hands in the soil. After all, people have believed for centuries that gardening is a therapeutic endeavour, beneficial and healing to body, mind and spirit. That is why there are dozens of charities running worthwhile gardening projects and programmes to help the disabled, traumatised, depressed, drug-addicted, abused, excluded, unemployed, homeless, imprisoned, sick, injured, dying, bereaved or just plain lost.
Now, thanks to Sue Stuart-Smith and The Well Gardened Mind, we have the intellectual underpinning for our instinctive response. The author is a psychiatrist, psychotherapist and keen gardener, who has spent years investigating why it is that gardening and nature are so good for our mental and physical health. To do this she mixes — sometimes without much preamble — neuroscience, physiology, psychoanalysis and personal anecdote.
Despite some awkward sentences, this is a readable and blessedly comprehensible account which, considering the complexity of much of the subject matter, especially to do with the brain, is an impressive achievement. It contains, au fond, both a very personal and a universal narrative. The author’s grandfather was imprisoned by the Turks at Gallipoli, finally escaped and, after a horrendous 4,000-mile journey, arrived home, suffering from malnutrition.
The way he recovered his physical strength and mental balance was with serious gardening, and she was later a witness to that success. Widening the focus, she writes of the gardens made in Western Front trenches and in Syrian refugee camps. She connects the theoretical to the everyday, with the help of anonymous interviews with prison inmates, community garden leaders, schizophrenics and traumatised veterans throughout the world.
One of her recurring themes is that for almost all our history, humans have been hunter-gatherers, foragers and, at least since the late Paleolithic era, gardeners, and this history has shaped how our brains and psyches function. Moreover, we early acquired an aesthetic sense in our garden-making, as Genesis 2:9 makes abundantly clear. To distract and cloud our brains endlessly, as we do, with a kaleidoscope of screen images, Facebook ‘likes’ and Twitter bitterness is to risk jangled, restless unhappiness and, crucially, a lack of resilience. Slow, peaceful gardening is a powerful antidote. Her conclusions on the baleful effects of urbanisation and human isolation are uncomfortable but, despite all, this is an optimistic book, for she points to solutions as well as problems.
What she writes will resonate with any reader who has tended so much as a windowsill basil plant or suffered pain, loss or disconnection — which is frankly pretty well everybody. For me, the passages with the most impact concern grief. I now accept (although I would have hotly denied it at the time) that my decision to train as a professional gardener — not the most obvious career choice for a Cambridge history graduate — stemmed from a desire to escape the disabling, bottled-up grief I experienced after my mother’s early death. I wished once more to inhabit the summer afternoons of childhood, when I worked companionably alongside her in the garden. Stuart-Smith also lost her father in his forties. As she puts it:
“In tending a plot and nurturing and caring for plants, we are constantly faced with disappearance and return. The natural cycles of growth and decay can help us understand and accept that mourning is part of the cycle of life, and that when we can’t mourn it is as if a perpetual winter takes hold of us.
THE SPECTATOR - Ursula Buchan From magazine issue: 30 May 2020
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Published on June 13, 2020 07:54

June 12, 2020

Un "giardino per l'anima" al tempo del "coronavirus"




Hanno scelto Villa Doria Pamphilj, una residenza storica e istituzionale che comprende il terzo più grande giardino pubblico di Roma, nella speranza di dare non solo un’anima ma anche un futuro a questo nostro Bel Paese, dopo lo scoppio della pandemia dovuta al Covid 19.
Ha riaperto anche il Giardino Segreto dell’Anima, firmato dalla nobile ed antica famiglia patrizia locale Telese-De Marco nella Valle di Tramonti in Costa d’Amalfi. Porte aperte alla Natura per il semplice piacere del bello e del conforto dell’anima che sembrano essersi perduti nel tentativo di sfuggire all’arrivo di un nemico invisibile venuto da lontano.
Che siano i rappresentanti politici del Governo in carica, oppure i semplici ma importanti esponenti di storiche famiglie locali alle quali quali appartengono Enza, Antonio e Giancarlo, come anche scrittori ed esperti italiani e stranieri poco importa.
Ciò che conta è la necessità di riaffermare la conoscenza ed il ritorno alla Natura, con la sua capacità di rigenerare il corpo e lo spirito dell’Uomo in momenti gravi e difficili come questo che il Pianeta Terra sta vivendo.
L’occasione per parlare di questi eventi me la offre, per una di quelle misteriose ma significative coincidenze che capitano spesso nella vita, l’uscita di un libro in lingua inglese. La sua lettura ben si abbina con la Conferenza degli Stati Generali a Roma e con la riapertura del Giardino Segreto nella frazione di Campinola a Tramonti.Il Giardino Segreto dell’Anima
Non è la prima volta che mi occupo del Giardino dei Telese-De Marco. Non sarà l’ultima. Sono onorato di essere un loro amico, anche se di un altro villaggio. Il Comune di Tramonti ne conta tredici, ognuno ha la sua “perla”, in questa Valle che a ragion veduta, è stata chiamata “il polmone verde della Costa d’Amalfi”.
Qui al link, chi legge potrà navigare tra bellezza e poesia, ricordi e memorie ogni qualvolta ne ho scritto. Come ha fatto l’autrice di questo libro appena pubblicato in Inghilterra nel quale trovo conferma che la mente umana, se ordinata come un giardino è la cura migliore per i suoi mali. Incluso il “coronavirus”.The Well Gardened Mi
Sono da sempre un appassionato cultore di “gardening” inglese, sin dai tempi degli studi universitari, come dal tempo trascorso in quelle Isole così bene cantate da Shakespeare.
“ Tis in ourselves that we are thus or thus. Our bodies are our gardens to the which our wills are gardeners”-“È in nondi stessi che siamo così o così. I nostri corpi sono i nostri giardini ai quali le nostre volontà sono giardinieri”.

Così si esprime il Bardo nell’ “Otello” e non ci resta che acconsentire. Questo deve essere il libro di giardinaggio più originale che io abbia avuto opportunità di leggere. In parte è antropologia, in parte psicoterapia e in parte autobiografia, oltre a molti consigli corroboranti su come mantenersi in salute.
Sia la psichiatria che il giardinaggio possono essere delle opportune terapie per ridurre lo stress e favorire il benessere mentale. Il giardino è spesso visto come un rifugio, un luogo dove dimenticare le preoccupazioni mondane, rimosso dalla vita “reale” che si trova all’esterno.
Ma quando mettiamo le mani sulla “terra”, ci connettiamo con il ciclo della vita nella Natura attraverso il quale la distruzione e il decadimento sono seguiti da ricrescita e rinnovamento. Si chiama “mutazione”.
Il giardinaggio è una delle attività di nutrimento per antonomasia e tuttavia ne sappiamo così poco. “The Well-Gardened Mind” fornisce una nuova prospettiva sulla capacità del giardinaggio di cambiare la vita delle persone.
L’autrice, Sue Stuart-Smith, psichiatra, psicoterapista e scrittrice oltre che giardiniera, indaga sui molti modi in cui la mente e il giardino possono interagire ed esplora come il processo di curare un trauma possa essere un modo per sostenere un sé più intimo.
L’amore di Stuart-Smith per il giardinaggio si è sviluppato mentre studiava per diventare una psicoterapeuta psicoanalitica. Tom Stuart-Smith, il cognome di suo marito, fu uno dei principali progettisti di giardini. Sua moglie Sue è diventata famosa nella sua sfera di psichiatra e psicoterapeuta.
Questo libro, unisce le loro carriere. I casi di studio di cui si parla nel libro mostrano come la Natura, più specificamente il giardinaggio, possano influenzare la mente in maniera determinante: la Natura può essere una terapia.
La pubblicazione di questo libro è stata quanto mai opportuna in questo momento di grande isolamento. La vita degli uomini ha come rallentato il ritmo naturale, ma solo in apparenza. La Natura ha continuato a seguire i suoi ritmi tradizionali ai quali dobbiamo ritornare se vogliamo rientrare nei suoi cicli sia previsti che imprevedibili.
Imprevedibile è stato l’arrivo di questo nemico invisibile, ma sapevamo che poteva sempre ritornare come la storia ci dimostra. Per recuperare le forze, lo spirito e l’anima perduta, se vogliamo aiutare i disabili, i traumatizzati, i depressi, i tossicodipendenti, gli abusati, gli esclusi, i disoccupati, i senzatetto, i prigionieri, i malati, i feriti, i morenti, o semplicemente coloro che si sono persi in questa onda pandemica, dobbiamo ritornare alla Natura, quella vera cercando di dare alla nostra mente la magia di un giardino ben ordinato e costruito.
Nel Genesi si legge: “Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male”. Ma dobbiamo fare bene attenzione: “dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti».
Noi esseri umani siamo stati cacciatori-raccoglitori, falciatori e anche giardinieri. Questa storia ha plasmato il funzionamento del nostro cervello e della nostra psiche. Inoltre, abbiamo presto acquisito un senso estetico nel nostro giardino, strettamente legato all’idea di bellezza.
Facile distrarre e annebbiare il nostro cervello all’infinito, come facciamo, con un caleidoscopio di immagini su schermi di ogni tipo, i milioni di “like” di Facebook, la violenza di Twitter e degli altri social generano confusione, infelicità irrequieta e, soprattutto, mancanza di capacità di recupero.
Il giardinaggio lento e pacifico è un potente antidoto. Le conclusioni alle quali giunge l’autrice del libro sugli effetti nocivi dell’urbanizzazione e dell’isolamento umano possono suonare scomode. Nonostante tutto, si tratta di un libro ottimista, poiché indica anche soluzioni.
Una semplice pianta di basilico sul davanzale, un fiore in un vaso o una passeggiata tra le cinquecento rose del Giardino Segreto dell’Anima a Campinola possono avere un effetto terapeutico imprevisto.
“Nel curare una trauma, coltivando e prendendoci cura delle piante, siamo costantemente di fronte ai cicli della scomparsa e del ritorno. I cicli naturali di crescita e decadimento possono aiutarci a capire e accettare che il lutto fa parte del ritmo della vita e che quando non possiamo piangere è come se un inverno perpetuo ci afferrasse”.
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Published on June 12, 2020 09:25

June 10, 2020

Quella famiglia in Vespa ...



La lettura di un libro è sempre una esperienza personale di ricerca, scoperta e conoscenza. Il libro di cui intendo parlare ha per titolo "Gli anni del nostro incanto". In poco più di un centinaio di pagine Giuseppe Lupo, un giovane scrittore che non conoscevo, tra i tanti stimoli ricevuti, mi ha dato la possibilità di aprire diverse “finestre di lettura”, per così dire, facendomi rivisitare non solo il mio recente/lontano passato e quello di tanti della mia generazione, ma anche di leggere quella realtà in maniera davvero straordinaria.
Nella edizione domenicale de “Il Sole 24 Ore” ho visto questa foto a corredo di un suo articolo che parlava del suo libro distribuito dal giornale. Il libro non è nuovo, è uscito qualche anno fa per Marsilio.
Il giornale ha colto l’occasione dell’attualità dei problemi del presente per favorire in maniera opportuna il rilancio del nostro Paese dopo i gravi problemi che ha causato la recente pandemia.
La lettura dell’articolo che segue, scritto da Lupo e che riporto in maniera integrale, confermerà in chi legge questa mia impressione. Nell’articolo sopratutto mi ha colpito l’analisi quanto mai approfondita che l’autore fa di questa immagine.
Non vi rivelo il modo che lui usa per far entrare il lettore del libro nella vicenda di quegli anni in cui il racconto prende l’avvio. Vi dirò soltanto che la narrazione sta tutta nella mente di quella bambina tra le braccia di suo madre, dietro suo marito alla guida della Vespa, in una piazza del centro di Milano, agli inizi degli anni sessanta.
Quando avrò ultimato la lettura del libro ci sarà modo di parlarne ancora. Quegli anni per molti anni “ruggenti”, per chi scrive furono tutt’altro. Tanto per cominciare, dirò che la Vespa non l’ho mai avuta e nemmeno una bicicletta. Ecco un’altra delle tante “finestre narrative” che ha aperto nella mia mente di “dinosauro” la lettura di questo libro.
Per ora leggete quello che scrive Giuseppe Lupo. Lui nasce nel 1963 mentre io ero a lavorare in un manicomio inglese e in Italia sembrava esserci quello che lui chiama “incanto”. Ben altre immagini appaiono nella mia mente. Ma Lupo è davvero bravo a “leggere” quella realtà e in particolare far rivivere questa ed altre immagini con il suo racconto.
“Quando la fotografia di copertina di un libro prende vita: il nipote di una coppia scelta per simboleggiare la Milano degli anni del boom economico ha contattato l’autore che ci racconta la storia. 
Un paio di settimane fa ricevo un messaggio da un contatto sconosciuto. Mi parla della fotografia finita sulla copertina di un mio libro, Gli anni del nostro incanto: marito, moglie e figli a bordo di una vespa, una famiglia in bianco e nero nella Milano degli anni Sessanta, città simbolo del benessere economico, con le guglie del Duomo in lontananza e Piazza Fontana sullo sfondo, non ancora diventata tristemente famosa.
La voce mi dice che sono i suoi nonni, suo padre è il bimbo in piedi tra le gambe del capofamiglia, all’epoca ha quattro anni e l’altro, quello tra le braccia della donna seduta dietro, è lo zio, di appena sette mesi. Io resto sorpreso: sarà vero?
La foto l’avevo trovata per caso sul Corriere della Sera e mi aveva subito colpito: da dove veniva e dove stava andando quella vespa nella centralissima Via Larga? Senza dubbio già solo il colpo d’occhio attribuiva fascino allo scatto: la gradazione dei colori grigi, i palazzi, l’incrocio di destini che nasceva dalle quattro figure al centro della scena, perfettamente simmetriche nel confronto generazionale tra adulti e bambini. Non conoscevo nulla di loro, ma certo essi riassumevano l’Italia di Carosello, dei frigoriferi, dei televisori, delle automobili Fiat.
A guardarla bene, però, la foto dichiarava altri elementi della loro ipotetica storia. Per esempio, mi incuriosiva il cellophane sul sellino, un particolare oggi insignificante, ma che all’epoca poteva essere indizio di una condizione economica: quella famiglia, mi dicevo, avrà affrontato tali e tanti sacrifici da voler preservare il veicolo dall’usura, in quell’Italia gli oggetti dovevano durare nel tempo.
C’era un altro aspetto ad attrarmi: il piede mancino del capofamiglia mi suggeriva una persona audace, baldanzosa. Io ci trovavo una rassomiglianza con il gomito fuori dal finestrino che esibiva il personaggio interpretato da Vittorio Gassman nel film Il sorpasso: era una spavalderia. Da quel piede venne l’dea che egli fosse figlio di un calzolaio meridionale e che in virtù del suo carattere renitente alle regole fosse approdato nella capitale morale del Paese per una sorta di ribellione alla immobile civiltà dei padri. Più stavo a guardare, più il mio ragionare sulla foto assumeva le forme di un’indagine dentro la sostanza di una stagione democraticamente felice, gli anni del boom, di cui la famiglia era una specie di icona.
Che mestiere, mi domandavo, poteva esercitare un emigrato a Milano dalla Bassitalia? All’epoca si chiamava così. In base alle statistiche gli avrei potuto ritagliare un impiego da operaio in una fabbrica alla periferia di Lambrate. Ma la foto mi svelava ancora altro di inedito. La distanza tra ginocchio e caviglia della donna, in confronto a quella del marito, dichiarava l’appartenenza geografica: lei era più alta dell’uomo che aveva sposato, la sua origine era di sicuro in Piemonte o in Lombardia o in Veneto.
Mi occorreva interrogare di nuovo le statistiche: nulla di più facile che un meridionale, com’era nella maggior parte dei matrimoni misti celebrati in quegli anni, prendesse in moglie una veneta. Ed è così che per loro due ho immaginato un incontro casuale in una balera lungo il Naviglio, mentre un’orchestrina attaccava Laggiù nell’Arizona. Restava un ultimo enigma da risolvere per dare corpo e anima alla donna che sedeva con composta eleganza sulla vespa. 
Non era certo la velocità e nemmeno il vento a muovere alcune ciocche di capelli. Forse, congetturavo tra me, il mattino in cui fu scattata la foto poteva essere domenica, indossano abiti piuttosto eleganti, nel portapacchi della vespa c’è finanche un mazzo di fiori, dunque stanno andando a festeggiare un anniversario. Un ultimo sguardo alla foto: capelli, abiti, fiori. Solo una parrucchiera sceglie un’acconciatura ambiziosa come il toupet, purtroppo si pettina in fretta, visto il ritardo, perciò i capelli sfuggono alle forcine.
Eccoli qua, Luigi detto Louis e Regina, la coppia dell’Italia industriale, avviarsi insieme verso un futuro di luci, in quella vita milanese che un aggettivo del dialetto lombardo mi spingeva a definire sbarluscenta. Così dunque è stato l’avvio di una storia finta ricavata da un’immagine vera. Naturalmente mentirei se dicessi che dal giorno in cui il libro ha cominciato a circolare nelle librerie, nell’autunno del 2017, io non abbia sperato di incontrare i miei personaggi in carne e ossa. Ogni volta, durante le presentazioni, sbirciavo tra i presenti: non è che all’improvviso spunta fuori qualcuno di loro?
Poi mi arriva il messaggio dal contatto sconosciuto. Ci siamo trovati finalmente, mi sono detto, e il primo pensiero è stato di chiedere conferma: da dove venivano i nonni quel giorno, dove andavano, dove abitavano, in cosa differiva la loro storia reale da quella ipotizzata da me. In qualcosa mi ero sbagliato, in altri aspetti no.
L’invenzione narrativa veniva sospinta verso la radice più autentica, che è l’esistenza concreta delle quattro persone diventate per causa mia personaggi di un libro, ciascuna con la propria sostanza interiore, ciascuna con un suo destino da percorrere fino all’ultimo capitolo. Il romanzo, che era nato dalla concretezza di una foto per capovolgersi in una trama di verosomiglianze, invertiva adesso la sua rotta per tornare alla natura originaria, che è la vita e di cui la foto rappresenta soltanto un emblema. 
Credo avesse ragione William Faulkner quando affermava che tutto comincia “con un personaggio e, una volta che si alza in piedi e inizia a muoversi, non resta altro da fare che andargli dietro con carta e penna, cercando di tenere il suo passo per annotare quel che dice e che fa”. È stato esattamente questo il mio esercizio. Inseguendo la vespa con carta e penna, ho cucito una storia sulle spalle di chi ci stava a bordo.

Giuseppe LupoIl Sole 24 Ore
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Published on June 10, 2020 13:10

MEDIUM

Antonio   Gallo
Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one.
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