Alessio Brugnoli's Blog, page 8
February 4, 2022
La Venere Dormiente di Giorgione
 
Come tradizione, dato che con Giorgione le cose non sono mai semplici, oggi parliamo di un altra opera dalla storia molto complicata, La Venere dormiente, nota anche come Venere di Dresda, un dipinto a olio su tela (108,5 × 175 cm) di Giorgione. L’opera fu plausibilmente commissionata per le nozze di Gerolamo Marcello con Morosina Pisani, celebrate il 9 ott. 1507. Essendo un dono di nozze, che da una parte doveva simboleggiare l’amore matrimoniale, per questo la Venere è pudica, dall’altra esaltare le pretese di discendenza della famiglia Marcello dalla Gens Iulia, che nell’Eneide è celebrata come stirpe nata dalla dea, per l’epoca doveva il quadro doveva essere bello che pronto.
L’opera venne vista in casa di Girolamo Marcello da Marcantonio Michiel verso il 1525, con questa indicazione
“La tela della Venere nuda, che dorme in uno paese cun Cupidine forono finiti da Titiano”.
notizia che fu riferita anche da Vasari, a riprova di come fosse alquanto diffusa all’epoca. Sappiamo che si tratta proprio di questo quadro, perchè un genialoide di restauratore ottocentesco ebbe la brillante idea di coprire il Cupido, perchè ritenuto troppo danneggiato, ed è attualmente visibile tramite radiografie. Sull’entità e sul perchè dell’intervento di Tiziano, da un paio di secoli si stanno scannando con entusiasmo gli storici dell’arte, però grazie alla tecnologia ne stiamo venendo a capo
L’opera, che ricordiamolo è tra le prime rappresentazioni di Venere a Venezia e tra i primi nudi femminili moderni, ebbe subito un successo strepitoso, ispirando un’intera generazione di artisti in Nord Italia. Il primo a imitarla, probabilmente, fu Domenico Campagnola, pittore che ebbe una vita alquanto romanzesca, che la reinterpretò in ottica raffaellesca, attenuandone la sensualità e rileggendone il contenuto in chiave neoplatonica, come Venere Urania, simbolo dell’amore celeste. Vi è poi la Ninfa nel paesaggio di Palma il Vecchio, che oggettivamente, è quasi un plagio dell’opera giorgionesca. Quadro risalente al 1518 e dato che non appare il Cupido cancellato di Tiziano, il suo intervento deve essere successivo a quella dato
Successivamente è il turno di quel pazzo scatenato di Dosso Dossi, autore di un complessa allegoria mitologica, Pan e la Ninfa, di cui capiamo ben poco, che cita nella figura di Venere quella di Giorgione e la Venere e Cupido di Lotto, in cui, oltre al tono scanzonato, è accentuato il simbolismo matrimoniale; infine lo stesso Tiziano, con la Venere d’Urbino, accentuandone la carica erotica e ambientando la scena in una camera da letto rinascimentale, piuttosto che in un paesaggio al di là del tempo. Ispirò poi le generazioni di artisti seguenti, come Rubens, Ingres o Édouard Manet, la sua Olympia.
Nel 1697 il mercante C. Le Roy la vendette ad Augusto di Sassonia, con attribuzione a Giorgione. Nell’inventario del 1722 è invece riferita a Tiziano e in quello del 1856 è piuttosto registrata come copia del Sassoferrato da Tiziano. In seguito l’attribuzione si assestò su Giorgione, ammettendo l’intervento di Tiziano.
Nell’inventare l’iconografia, Giorgione si ispirò a diverse fonti: Hypnerotomachia Poliphili, che ricordiamolo, nonostante il tema ostico, un viaggio iniziatico alla ricerca del Divino, era un bestseller dell’epoca e stampe e disegni di provenienza romana e centro italiana, che rappresentavano statue e gemme antiche, che sappiamo essere in possesso del socio del pittore, Vincenzo Catena. Quale il modello scultoreo ? Non certo, come citato in diversi siti, la Niobe, che vi scoperta negli Horti Sallustiani a inizio Novecento o l’Ermafrodito, che fu ritrovato attorno al 1608 nelle Terme di Diocleziano. Molto probabilmente fu l’Arianna Dormiente, la cui prima copia, quella del Vaticano, fu scoperta all’Esquilino a tra il 1498 e il 1500. Di fatto Giorgione, con minime variazione, ne riprese la disposizione della figura.
Nonostante il pesante intervento tizianesco, l’invenzione del soggetto è attribuita interamente a Giorgione, che dovette anche aver impostato l’andamento dolce del paesaggio che riecheggia le forme del corpo nudo. Sottili implicazioni erotiche si trovano nel braccio alzato di Venere e nel posizionamento della sua mano sinistra sul suo inguine, che riprende la posa della Venus pudica (Venere pudica), sebbene aggiornandola a una posizione distesa. Si tratta però di un’atmosfera misuratamente sensuale e sognante, molto diversa dalle interpretazioni che daranno gli artisti successivi del tema, dove la donna ben sveglia si rivolge spudoratamente allo spettatore, esibendo apertamente la propria nudità, a volte senza neanche il gesto di coprirsi pudicamente.
Inoltre la Venere di Giorgione si distingue per la “brevità poetica”, ovvero la capacità di condensare il significato mitologico in pochi attributi essenziali, ridotti a un messaggio di immediata e durevole presa emozionale suscitata dal nudo idealizzato, che non esclude però l’allusione a significati più complessi. In altre raffigurazioni successive invece si perderà questa selettività di riferimenti, simbolici, arricchendosi di molteplici segnali iconografico
Il supremo accordo di umanità e natura che rappresenta una costante nella pittura di Giorgione, è dato dall’alternanza dei toni chiari e scuri, cioè della pittura di luce ed ombra che l’artista sviluppa senza l’uso del disegno, attraverso velature sfumate dove è l’ombra che impasta il colore. La maestosità della Venere assume il predominio formale dello spazio, ma diversamente da quanto accadrà nella pittura di Tiziano, essa non avrà carattere scenografico, ma sarà frutto di una solennità interiore.
Allora in cosa consistette l’intervento di Tiziano ? Ora le radiografie mostrano che, per un motivo di cui non abbiamo idea, il quadro fu pesantemente danneggiato, cosa che provocò grosse cadute di colore sullo sfondo: per cui, l’artista fu ingaggiato per compiere una sorta di restauro. Nel far questo, ridusse il lenzuolo ed ampliando il manto erboso, con l’aggiunta del drappo rosso. Sua è anche la massa rocciosa scura dietro la testa della donna, che dà l’idea di un anfratto sotto il quale la donna riposa e il Cupido che avrebbe vegliato su di lei; inoltre curò il cielo e il paesaggio, che da allora usò come repertorio: si trova identico nel Noli me tangere di Londra e speculare nell’Amor Sacro e Amor Profano
February 3, 2022
I colori nel Medioevo
 
Può sembrare strano, perchè noi siamo stati abituati a pensarla come un’epoca grigia e smorta, ma il Medievo era il trionfo del colore: per rendersene conto, basta leggere le splendide pagine che dedica al tema Huizinga nei suoi saggi. Il colore in quei secoli aveva un triplice significato: di costruzione di un’identità , perchè classi, ceti, famiglie, corporazioni, ognuno di questi corpi sociali era associato a una combinazione cromatica, che i suoi membri, per identificarsi, indossavano con orgoglio. La città si distingueva dalla campagna, basti pensare ai dipinti di Giotto e di Lorenzetti, perchè era il trionfo del colore, che si contrapponeva al grigiore degli abiti dei contadini e dei monaci.
Aveva un valore religioso, dato che per i teologi, che fossero seguaci di Platone o di Aristotele, ritenevano accentuassero il valore simbolico della luce e della bellezza interiore, fino ad essere considerati emanazione divina, secondo le tesi filosofiche della patristica medioevale. Ugo di San Vittore scriveva
“Riguardo al colore delle cose non è necessario discutere a lungo, poiché la stessa vista dimostra quanta Bellezza aggiunge alla natura, quando essa è adornata di tanti e diversi colori”.
Psicologico, perchè, associati a un opportuno codice interpretativo, permettevano di comunicare in maniera immediata ed efficace le proprie emozioni all’interlocutore. Il colore, con i suoi contrasti, era pervasivo: riempiva le opere d’arte, gli edifici, i vestiti, i cibi. Ricchissimo di valenze e significati era il colore blu. Simbolo di spiritualità, trascendenza e regalità, è il colore che caratterizza il manto della Madonna e spesso contrassegnava gli appartenenti alle classi nobili.
Ad esempio, così lo definiva Cennino Cennini
Azzurro oltramarino si è un colore nobile, bello, perfettissimo oltre a tutti i colori; del quale non se potrebbe né dire né fare quello che non ne sia più
Il più noto di questi nuovi pigmenti era il blu oltremare, ottenuto dal minerale blu lapislazzuli. Già usata come ornamento dagli Egizi questa pietra si trova soprattutto in Oriente, principalmente in Afghanistan, dove è stato individuato un rozzo oltremare in pitture murali risalenti al VI e VII secolo, mentre in area italiana il blu oltremare era usato prevalentemente tra il XIV e il XVI secolo. Nel 1827 sarà sostituito dalla sua versione artificiale
Il nome conferma che il pigmento doveva essere importato da molto lontano; nel 1464 Filarete scrisse nel suo Trattato di architettura:
“Il blu più bello è ricavato da una pietra e proviene da terre al di là dei mari”
La distanza e il difficile procedimento preparatorio lo resero molto costoso e, quindi, anche molto apprezzato. È un blu intenso dotato di una sfumatura violacea; spesso veniva usato in miscela con biacca e lacca rossa e presenta un discreto potere coprente e si può impiegare nell’affresco, nella tempera nell’olio e nell’encausto. Il suo surrogato era l’azzurrite,già usato dai Romani (Plinio lo chiamava “Lapis armenius”), in Inghilterra era conosciuto come “azzurro d’Alemanna”, mentre i tedeschi lo indicavano come Bergblau, “l’azzurro montagna” largamente usato da Durer. Per riconoscere il vero blu oltremare c’era, però, un metodo: si doveva scaldare la pietra e, se era azzurrite, diventava nera per la perdita di anidride carbonica e acqua; il blu oltremare, invece, resisteva; questo perchè la differenza del costo favoriva le frodi e qualche pittore certo venne imbrogliato: ad esempio si pensa che Durer, a volte abbia usato azzurrite credendo che fosse oltremare.
Nelle normali condizioni ambientali è piuttosto stabile, ma ha tendenza a diventare verde nelle pitture murali sotto l’azione dell’umidità o di altri agenti atmosferici. In pitture murali veniva usata a secco su fondo grigio o morellone; l’azzurrite pura, unita a giallorino o ocra, veniva usata anche per realizzare dei verdi mentre veniva unita a lacca rossa per ottenere un colore viola. Macinata molto, finemente, l’azzurrite produce una tonalità di celeste pallido con una punta di verde, adatta per i cieli, ma molto meno bella della corposità purpurea dell’oltremare. Per una tonalità più scura bisogna macinarla in modo più grossolano, e questo rende il pigmento difficile da applicare e un po’ traslucido; era necessaria quindi una colla animale, piuttosto che una tempera all’uovo, perché queste particelle più grosse si amalgamassero bene, inoltre erano necessarie parecchie mani per ottenere un colore coprente saturo. Il risultato poteva essere molto bello, perché ogni granello riluceva come un microscopico gioiello.
Ancora più economico, come blu, era l’indaco, pigmento organico di derivazione vegetale, utilizzato soprattutto per tingere le vesti. In pittura è usato come sottofondo per altri azzurri e anche nella miniatura. Cennino Cennini ne Il libro dell’arte lo chiama indaco baccadeo perché, durante il Medio Evo, questo prodotto, realizzato in India, giungeva in Europa passando per la città di Baghdad (principale centro di smistamento verso l’occidente). Ha un notevole potere colorante, ma un basso potere coprente e, probabilmente per questo motivo, Cennino Cennini lo descrive con notevole frequenza in miscela con biacca o bianco San Giovanni.
Tipicamente veneziano, come utilizzo, era invece lo smaltino, un sottoprodotto delle vetrerie di Murano. Era usato in tutte le tecniche, prevalentemente nell’affresco e nelle pitture da cavalletto prima su tavola e poi su tela dagli inizi del XVI secolo, ma forse anche prima. Ha uno scarso potere coprente e viene macinato grossolanamente per mantenere il colore.
Il Porpora, in ricordo delle vesti imperiali romane, era associato alla regalità: il problema è che nel Medievo, per gli effetti dell’invasione araba, la materia prima del colore, il murice di Tiro, un mollusco che si pescava in Fenicia, non era più disponibile e si era persa memoria della sua alternativa usata dai romani, il buccino, un parente del murice che vive nella Manica. Per cui si utilizzavano due surrogati vegetali: il primo era il tornasole, in latino fllium, estratto dalla pianta detta “morella” identificata con la Chrozophora tinctoria, originaria della Francia meridionale e chiamata Maurelle in Provenza. Il nome latino fllium può derivare dall’abitudine di conservarlo impregnandone dei pezzi di stoffa, che venivano poi collocati tra le pagine (folia) di libri; tornasole invece deriva da torna-ad-solem, “volgiti verso il sole”, una caratteristica della pianta da cui si ricava la tintura. Per estrarre la sostanza colorante, i semi venivano strizzati, il tessuto veniva imbevuto nel succo ricavato e fatto asciugare finché ne era impregnato. Inumidendone un pezzo con acqua o albume, ne usciva il prodotto finale trasparente, un colore che era molto apprezzato per miniare i codici. Il secondo, invece, era invece un colore estratto da un lichene chiamato Oricello (Roccella tinctoria).
Anche il rosso era associato alla regalità, essendo il colore del porfido, la pietra associata agli imperatori bizantini, che nascevano, per tradizione, in una stanza foderata con quella pietra. Associato al associato al sangue, al fuoco e alla passione, era considerato una sorta di talismano contro il male: non è inusuale notare negli affreschi medievali delle collanine di corallo rosso, spesso poste ad adornare il collo di paffuti bambinelli, aventi lo scopo di allontanare le malattie e proteggere il neonato.
Uno dei pigmenti più costosi era derivato dal cinabro, ottenuto, ai tempi dei romani per macinazione del minerale (estratto soprattutto in Spagna). Dalla letteratura tecnica desumiamo che in epoca medievale al posto del minerale naturale si usava il cinabro di sintesi (vermiglione, che presenta la medesima formula chimica del cinabro). Il metodo per ottenere il vermiglione è stato probabilmente inventato in Cina nei primi secoli dell’età cristiana e pervenne in Europa attraverso il modo arabo intorno all’VIII secolo. Alternative minerali era il minio e il bolo: il primo era ottenuto ottenuto artificialmente riscaldando a 480°C sali di piombo o calcinando la biacca. Ha un colore rosso tendente all’aranciato e presenta un ottimo potere coprente. È alterato dall’acido solfidrico per formazione di solfuro di piombo (PbS, nero), non molto stabile alla luce e all’aria; nelle pitture murali in climi umidi si trova spesso ossidato a PbO2 di colore bruno. Il secondo era un’un’argilla di colore rosso più o meno intenso per la presenza di sequiossido di ferro. È molto usato in epoca medievale. Il bolo più noto veniva dalla Persia o dall’Armenia; il bolo armeno veniva usato come sottofondo per le dorature in pittura. È stabile alla luce, ma non all’umidità.
Le alternative al cinabro, altrettanto costose, di natura vegetale o animale, erano le lacche, rese stabili da reso stabile da una base di tipo minerale, in genere allume di Rocca. Erano brillanti, quasi trasparenti e prodotti sottoforma di pasta quasi gelatinosa oppure fatta seccare e polverizzata. Le sostanze vegetali erano considerate meno affidabili per la loro instabilità alla luce. Le lacche più pregiate erano di derivazione animale e ricavate soprattutto da insetti dette coccidi, diffusi nell’area mediterranea, oppure importate dall’India o dall’America centrale. Si usavano per la tintura di tessuti e avevano diversi nomi: chermes o grana, gomma lacca, cocciniglia messicana. La lacca fina o finissima, la più pregiata, per secoli era usata per tingere tessuti in scarlatto. Il ricorso della lacca di Robbia era molto diffuso nella scuola fiamminga tra XV e XVI secolo. Dalle radici di Robbia si otteneva un colorante rosso e, trattato con allume di Rocca, si otteneva una lacca di ottima qualità.
La sinopis di Plinio, un ocra rosso spento proveniente da Sinope sul Mar Nero, diede luogo al termine medievale sinopia, che poteva valere sia per rosso che per verde, che serviva a tracciare i disegni preparatori degli affreschi.
Nell’Inghilterra e nella Francia medievali un altro pigmento che portava il nome latino di sinopis era invece una lacca rossa composta di «robbia e gomma … brasile e lacca». Questa sostanza divenne popolare nel XIV e XV secolo, però quando Cennini parla di sinopia, si riferisce a un minerale, dicendo che è «un color naturale», noto anche come “porfido”; inoltre chiama “cinabrese” la migliore e la più bella sinopia ottenibile, aumentando così la confusione col cinabro.
Per l’artista medievale l’oro, simbolo del divino, era un colore a pieno titolo. Veniva applicato alle tavole stuccate in lamine sottili, dette foglie. Gli artigiani del Medioevo si fabbricavano la foglia d’oro martellando delle monete, riducendole in lamine sottilissime. Gli artigiani specializzati in questo lavoro, i battiloro, fino al XX secolo misuravano il peso della foglia d’oro sulla base del ducato, moneta d’oro dell’Italia medievale: lo spessore era determinato dal numero di foglie (ognuna di circa 8,5 cm2) ricavate da un unico ducato. Anche il minimo velo di umidità era sufficiente per far aderire queste foglie sottili praticamente a qualsiasi superficie. Albume, gomma, miele e succhi vegetali erano usati per applicare le foglie d’oro alle pergamene dei manoscritti; venivano chiamati “mordenti all’acqua”, ovvero sostanze solubili in acqua che mordenzavano (mordevano o fissavano) l’oro.
La foglia d’oro mordenzata si adattava a tutte le irregolarità della superficie sottostante, facendole diffondere la luce, quindi il risultato appariva di un giallo opaco piuttosto piatto. Solo se la superficie veniva lisciata (brunita), strofinandola con un oggetto duro, riacquistava lo splendore riflettente del metallo; a questo scopo era spesso usata una pietra arrotondata oppure un dente. Brunire, significa letteralmente rendere bruno, poiché scurisce l’oro nelle parti in ombra, mentre rende più brillanti quelle in luce «allora l’oro viene squasi bruno per la sua chiarezza», spiega Cennini. Non tutto quest’oro era steso in forma di foglia: veniva anche usato in polvere; ma essendo un metallo tenero e duttile, pestarlo nel mortaio tendeva più a fondere assieme le particelle che a frantumarle. Eraclio raccomanda di lavorarlo nel vino, mentre Teofilo fornisce, la descrizione di un attrezzo per macinare la foglia d’oro in acqua.
La convinzione degli alchimisti che i metalli non fossero che miscele di ingredienti di base sempre uguali era suffragata dall’osservazione che l’oro può essere amalgamato al mercurio. Questo amalgama è una pasta malleabile, avvolta in un pezzo di tela e strizzata per togliere il mercurio in eccesso, diventa dura e fragile, adatta a essere macinata. Col calore il mercurio vaporizza, lasciando oro in polvere, purché si faccia attenzione a non raggiungere una temperatura tale da provocare la fusione dei granelli d’oro. Una tecnica alternativa era battere l’oro fino a ottenerne un foglio sottilissimo, che veniva poi macinato con miele o sale per evitare che le particelle d’oro si saldassero assieme. Come il surrogato dell’oro, “oro musivo”, o aurum musaicum (in latino medievale), pare fosse usato come falso oro nella doratura delle pergamene, un misto di argento e stagno e l’orpimento, il velenosissimo solfuro di arsenico. Proprio la pericolosità dei pigmenti associati al giallo, lo connotava in maniera negativa nell’immaginario medievale: con questa tonalità venivano realizzate le vesti degli ebrei, dei musulmani e dei traditori.
L’orpimento e il realgar, un altro minerale del solfuro di arsenico, il nome deriva dall’arabo Rahj al ghar, “polvere di caverna” ed è citato da Plinio il Vecchio, erano estratti soprattutto nelle attuali Macedonia e Ungheria, Asia Minore e Asia centrale. Un’alternativa minerale, altrettanto velenosa, era il giallorino o giallolino, nome che indica tre diverse tipologie di pigmenti. Il primo è il Giallo di Napoli, Giallo di Napoli può essere ottenuto per calcinazione del litargirio, di sali di ammonio, di allume e di antimoniato di potassio. Questo pigmento era conosciuto sin dai tempi di Egizi e Assiri. È stato usato in tutte le tecniche pittoriche per la brillantezza del colore, particolarmente dalla fine del Medioevo. Presenta un elevato potere coprente ed è stabile a luce ed umidità. Il secondo e il terzo sono gialli a base di ossido di piombo e stagno. Si distinguono in due tipi: ossido di piombo e stagno tipo I e stannato di piombo tipo II. Compaiono all’incirca nel XIII secolo e, nei due secoli successivi, si presenta prevalentemente nella forma II traendo origine dalla pratica vetraria. Dal XVI secolo il tipo due cade progressivamente in disuso, tranne che in alcune aree (Venezia e Boemia). Entrambe le forme sarebbero scomparse dall’uso all’incirca nel XVIII secolo, perché da allora viene usato il giallo di Napoli ottenuto sinteticamente. Si altera e annerisce a contatto con i solfuri; ha elevato potere coprente ed è stabile a luce e umidità. È stato usato nelle tecniche ad affresco, a tempera e a olio.
Cennini dice esplicitamente che l’alchimia fornisce una lacca gialla che chiama «arzica» estratta dalla guaderella, Reseda luteola detta anche “erba dei tintori”, veniva coltivata per la sua tintura gialla ancora nel XX secolo ed era particolarmente apprezzata per tingere la seta. La lacca gialla ottenuta dalla guaderella poteva essere brillante e abbastanza coprente, un buon sostituto dell’orpimento, senza provocarne le temibili conseguenze. Ma Cennini non ne è entusiasta, afferma che l’arzica «poco s’usa» e ha un «color sottilissimo [che] perde all’aria».
Il colore verde alludeva alla follia e spesso veniva adoperato per ritrarre il diavolo e gli spiriti maligni, oppure i buffoni. Spesso la suddetta tonalità veniva indossata dai mercanti, dai banchieri e dai membri delle loro famiglie; inoltre, era associata ai concetti di fecondità e fertilità. Il principale pigmento minerale e più costoso era la malachite. Non ha un elevato potere coprente, soprattutto se il legante è oleoso. Si conosce il suo impiego da parte di Egizi, Greci, Romani, Bizantini fino al XIX secolo. È stabile all’azione della luce, ma non agli agenti atmosferici; si decompone in acidi e tende a scurirsi se mescolata a pigmenti contenenti solfuri. È stata usata in tutte le tecniche pittoriche tranne nella pittura a fresco. Anticamente veniva usata nella pittura a tempera su muro sopra una base rossa di morellone o nero di vite. Carbonati di rame prodotti sinteticamente sono riscontrati prevalentemente in dipinti di scuola veneta anche nel XVI secolo. Le alternative minerali erano il verde rame e la terra verde. Il primo era era conosciuto sin dal tempo di Egizi, Greci e Romani. Era ottenuto esponendo lastre di rame a vapori di aceto; è scarsamente stabile a luce e umidità. Era usato nella tempera, nella pittura ad olio e nelle opere miniate; era sconsigliato per l’affresco a causa dello scarso potere coprente. Per ovviare allo scarso potere coprente gli artisti ne aumentavano la corposità miscelandolo con la biacca.
Le terre verdi più famose e pregiate erano quella di Verona e quelle provenienti dall’Europa centro–settentrionale (verde boemo e verde d’Alemagna). Dato il basso costo per ottenerlo, le varietà di migliore qualità erano utilizzate anche in sostituzione del verde malachite. Era conosciuto sin dai tempi di Greci e Romani e usato anche durante Medioevo, Rinascimento fino al XIX secolo. È stabile alla luce e all’umidità; è stato usato in tutte le tecniche pittoriche. Nella pittura italiana fu usato come sottofondo per gli incarnati (verdaccio). Dal XVII secolo veniva usato anche nella pittura ad olio e, in questo periodo, si scoprirono lucentezza e brillantezza di questo pigmento. Ha una notevole resistenza all’aria e alla luce.
Paradossalmente, molto più costose erano le lacche di origine vegetali, ottenuta dalla pianta dello zafferano (Crocus sativus) e da altri crochi; mescolato con albume, lo zafferano produceva un giallo intenso puro e trasparente; miscelato con l’azzurrite forniva un verde vibrante. Cennini afferma che una miscela di zafferano e verderame produce
un colore più perfetto che si truova in color d’erba
Il verde iris, ottenuto dal succo di queste piante, mescolato con acqua e forse con un addensante come l’allume, veniva usato per miniare manoscritti. Questo, come il fllium e la guaderella, sono colori provenienti dai prati e non dalle miniere, e quindi facilmente accessibili per il monaco diligente, come osserva Eraclio:
Colui che desidera trasformare i fiori nei vari colori richiesti dalla scrittura della pagina di un libro, deve vagare nei campi di grano alla mattina presto, e allora troverà vari fiori appena sbocciati
Il bianco, nell’immaginario medievale, ha un valore ben diverso da quello moderno, essendo associato alla morte e al lutto: bianchi sono i sudari e le bende che avvolgono i defunti. Conseguentemente diventa anche il colore di chi si appresta a mutare condizione, a transitare fisicamente o spiritualmente da una fase all’altra della vita. I valori di lusso, eleganza come quelli di lutto che, ai giorni nostri, si associano al nero, nell’Italia medievale erano sconosciuti: era infatti associato all’umiltà e di conseguenza alla pazienza, temperanza nel dolore, morte, penitenza e quindi associato alle vesti dei religiosi.
February 2, 2022
L’Arco di Sisto V
 
Molti abitanti dell’Esquilino se ne scordano, ma i confini del Rione non coincidono con la Stazione Termini, ma con le Mura Aureliane: per cui, l’Arco di Sisto V o l’Arco delle Pere è uno dei monumenti che vi parte. L’Arco, che segna i confini tra il Rione XV, Esquilino, e il XVIII, Castro Pretorio, costituisce il proseguimento dell’Acquedotto Felice, che er Papa Tosto aveva fatto costruire per alimentare le fontane della sua villa, chiamata Perretti, dal nome della sua famiglia.
Questa villa, ne ho parlato altre volte, occupava parte dei colli Viminale, Quirinale ed Esquilino e aveva un perimetro di circa sei chilometri. I confini della villa corrispondono al terreno circoscritto dalle moderne Via del Viminale / Viale Enrico Nicola, e Via Marsala (che corre accanto alla stazione di Roma Termini), fino a Porta San Lorenzo e a Via Agostino Depretis, comprese tutta le strutture
Sisto V, all’epoca solo cardinale, si era arricchito in maniera spudorata, però, per non pagare le tasse, millantava di essere povero in canna, tanto, da ricevere, un’indennità dalla Curia pari a 100 scudi al mese: per non farsi identificare come evasore fiscale, utilizzò una serie di biechi trucchi: fece comprare i terreni da prestanome e costrinse Domenico Fontana a dichiarare che non solo stava eseguendo i lavori pro bono, ma addirittura che li stava pagando di tasca propria.
I due edifici principali della villa erano il palazzo di fronte alla strada, prima chiamato “delle terme” e poi “a termini” per la vicinanza alle Terme di Diocleziano, noto come “Palazzo di Sisto V alle Terme”; l’altro era il palazzo che sorgeva all’angolo della moderna “Via Cavour” con “Via Farini”, noto come “Casino Felice”. Fontana era anche responsabile del paesaggio del giardino: di proporzioni enormi, il giardino era diviso in terrazze e intersecato da viottoli che offrivano splendide viste, alcune fiancheggiate da cipressi ed era decorato da numerose opere d’arte e più di trenta fontane, che ovviamente dovevano essere alimentate.
Per farlo, appena eletto papa, fece costruire il primo nuovo acquedotto dai tempi dell’Antica Roma: il 28 maggio 1585, nello stesso mese della sua elevazione al pontificato, Sisto V acquistava da Marzio Colonna, per la somma di 25.000 scudi, i terreni in cui erano presenti le sorgenti dell’Aqua Alexandrina, l’ultimo dei grandi acquedotti di Roma antica, ai tempi di Alessandro Severo. Terreni che erano situato a Pantano Borghese, sulla via Prenestina, alle falde del colle di Sassolello, a 3 km dall’odierno comune di Colonna
Il progetto di convogliamento delle acque fu affidato a Matteo Bortolani, di Città di Castello, millantato “esperto architetto di quel tempo ed in tali affari versato”, i cui errori di calcolo sulla pendenza delle condutture dell’acquedotto impedirono tuttavia il regolare efflusso dell’acqua: questa infatti “si faceva retrograda al suo disegno, tornando indietro”.
Dopo avere speso invano 100.000 scudi, il papa affidò allora il progetto all’architetto Giovanni Fontana, fratello del più noto Domenico, uno dei grandi esperti d’idraulica dell’epoca, che in vecchiaia divenne frate domenicana. Scrisse il Fontana, in una sua relazione sui lavori, che fu “forzato a ricercar altre acque per quelli monti di maggior livello, facendo molte migliaia di tasti, sin tanto che in numero di 50 e più luoghi rinvenni la desiderata quantità d’acqua, altrimenti il detto Pontefice aveva buttato tutta la spesa”, che assommerà alla fine a quasi 300.000 scudi. Nell’agosto del 1586 Camilla Peretti, sorella del papa, portò all’augusto fratello la bottiglia con la prima acqua immessa nelle condotte la quale, analizzata dai farmacisti di Castel Sant’Angelo, fu trovata – forse con una qualche cortigianeria – la migliore delle acque potabili sgorganti in Roma. I lavori furono completati nel 1587 e il percorso si sviluppava, date anche le notevoli capacità tecniche dell’epoca, in buona parte su grandi arcuazioni lungo la curva di livello pedemontana dei Castelli, mentre i tratti sotterranei erano limitati a cunicoli (di 0,80 m di larghezza per 2 di altezza) per oltrepassare le alture
Il condotto, che superava la via Tuscolana scorrendo sopra la cosiddetta Porta Furba, entrava a Roma presso la porta Tiburtina (allora porta San Lorenzo) passando sopra l’Arco di Sisto V e terminava con l’alquanto brutta Fontana del Mosè, oggi visibile in piazza San Bernardo. Come accennato, l’arco è noto anche come Arco delle Pere, a causa di alcune decorazioni, situate nei due fornici più piccoli, raffiguranti un grappolo di pere, emblema araldico di papa Sisto V Peretti. Lo stemma di famiglia, originariamente, era costituito soltanto da un leone d’oro in campo azzurro attraversato da una banda rossa trasversale: quando Felice Peretti divenne papa con il nome di Sisto V modificò lo stemma, aggiungendo alla zampa anteriore destra del leone tre pere, in riferimento al suo cognome, mentre alla banda aggiunse tre monti (probabile riferimento alla sua terra d’origine Montalto) ed una stella, che in araldica rappresenta la mente rivolta a Dio.
L’Arco è costruito in blocchi di peperino, con riquadri in travertino. Ha tre fornici, di cui il centrale, più grande, ha sulla chiave di volta una testa marmorea di leone, simile a quella posta sulla Porta Furba. Due ampie volute, terminanti in acroteri a forma di monti, inquadrano sull’attico una grande targa marmorea per lato, Su quella affacciata su via di Porta San Lorenzo vi è l’iscrizione
  SIXTVS · V · PONT · MAX · VIAS VTRASQ· ET AD S· MARIAM MAIOREM ET AD S · MARIAM ANGELORUM AD POPVLI
COMMODITATEM ET DEVOTIONEM LONGAS LATASQ SVA IMPENSA STRAVIT
ossia in italiano
Sisto V Pontefice Massimo, per favorire la comodità e la devozione del popolo, aprì a proprie spese in lunghezza e in larghezza, entrambe le strade sia verso Santa Maria Maggiore che verso Santa Maria degli Angeli
In effetti, papa Peretti non doveva aver pensato molto a rendere più agevole il cammino di pellegrini e devoti, quanto piuttosto a migliorare la viabilità verso la Villa Montalto, che le due strade cingevano sui entrambi i lati. La prima delle due arterie, che arrivavano in linea retta nei pressi della chiesa di Sant’Antonio Abate, venne sommersa dopo l’Unità d’Italia dai caseggiati umbertini e fu snaturata dagli ampliamenti per la Stazione. La seconda corrispondeva all’attuale via Marsala e correva per oltre un chilometro, fino a piazza dei Cinquecento. Sulla facciata dell’arco rivolta verso piazzale Sisto V, una targa apposta sull’attico riporta l’incisione
SIXTVS V PONT MAX DVCTVM AQVAE FELICIS RIVO SVBTERRANEO MILL · PASS · XIII · SVBSTRVCTIONE ARCVATA VII
SVO SVMPTV EXTRVXIT
ossia
Sisto V Pontefice Massimo realizzò a sue spese la conduttura sotterranea dell’Acqua Felice per tredici miglia su sostruzioni arcuate per sette miglia
Il termine “MILL PASS” è l’abbreviazione di milia passuum, migliaia di passi, ossia un miglio romano, equivalente a circa 1482 m. ossia stimava la lunghezza dell’acquedotto pari a 19,266 km, di cui 10,374 Km su archi. Sempre sul lato rivolto verso nord ovest, subito al di sotto dell’attico, un’iscrizione sul peperino permette di identificare l’anno di realizzazione del monumento:
ANNO DOMINI MDLXXXV PONTIFICATUS I
corrispondente a
Anno del Signore 1585, nel primo anno del pontificato
Analoga iscrizione doveva trovarsi anche sul lato opposto dell’arco ma oggi risulta completamente illeggibile ad eccezione delle lettere “ANN”. Nell’Ottocento la costruzione della stazione Termini impose lo smantellamento di parte dell’acquedotto preservando tuttavia l’arco di Sisto V che oggi appare quasi appoggiato alla parte posteriore del grande edificio della stazione.
February 1, 2022
Gli Ipogei preistorici di Trinitapoli
 
Molti lo ignorano, ma alcuni tra i più importanti siti della Preistoria europea si trovano in Italia: uno di questi si trova nel Tavoliere delle Puglie a Trinitapoli, dove gli scavi condotti dalla Soprintendenza a partire dagli anni ottanta del secolo scorso in località Madonna di Loreto, oggi Parco Archeologico degli Ipogei, e il controllo archeologicodei cantieri di edilizia privata in diversi punti del, hanno permesso di indagare un’ampia superficie a destinazione santuariale, al cui interno sono state rinvenute anche numerose strutture ipogee riutilizzate a scopo funerario.
Lo scavo ha mostrato due diverse fasi di utilizzo della località: sino alla media Età del Bronzo, lo scavo ha messo in luce una ricca stratificazione, con numerosi piani sovrapposti ricchi di azioni rituali svolte col ricorso a forme ceramiche diverse da quelle di accompagno ai defunti, quasi sempre riferibili a grandi contenitori assenti nei corredi funerari; copiosa presenza e spargimento di carbone; ossa di animali.
Per cui, è probabile per secoli, Trinitatopoli sia stata utilizzata per compiere sacrifici in onore forse della Potnia Theron, la Dea Madre, a cui sia associavano dei banchetti sacri che coinvolgevano diverse comunità, che si distribuivano in quello che sarebbe diventato il territorio della Daunia. Probabilmente queste cerimonie erano associati a scambi economici, alla celebrazioni di matrimoni esogamici e dava la distruzione intenzionale dei vasi, di una sorta di Potlatch, in cui le élites, per rafforzare il loro potere, provvedevano alla ridistribuzione delle eccedenze.
Per monumentalizzare l’area, nel Bronzo Medio, si coninciano a scavare ipogei nella roccia calcarenitica molto friabile, tipica dell’area, che presentano delle costanti nella ripartizione degli ambienti e nell’utilizzazione degli spazi. Il sistema di accesso comprende più tratti: si inizia con il dromos, consistente in una rampa rettilinea a cielo aperto, stretta e ripida, mai in asse con l’ambiente principale (alcune buche laterali, larghe e profonde, per l’alloggiamento di pali, indicherebbero la presenza di uno stipite in legno o di una tettoia); al dromos segue un primo segmento di corridoio sotterraneo, che costituisce una sorta di stomion, particolarmente allungato e stretto, la cui volta culmina con un’inconfondibile copertura a cupoletta apicale; lo stomion prosegue con un altro segmento di corridoio con semplice volta a botte che immette in un vestibolo; quest’ultimo è distinto dall’ambiente centrale mediante un restringimento delle pareti dove alcuni fori di palo sul pavimento indicano in quel punto l’esistenza di un elemento divisorio ligneo. La grande sala principale presenta al centro della volta un’apertura circolare, idonea a garantire l’aerazione e la fuoriuscita del fumo dei fuochi rituali. Numerose nicchie, spesso disposte in coppie intercomunicanti, e altri ambienti secondari, come un angusto budello terminante con un tortuoso prolungamento cieco in risalita, completano le strutture. Il pavimento è generalmente battuto nel calcare e le pareti presentano superfici scabre e irregolari.
Numerosi sono i segni di culto rilevati all’interno degli ipogei protostorici della Daunia, dove appunto sono state rinvenute molteplici testimonianze dello svolgimento di suggestivi riti legati alla sfera del sacro. Alla base sembra essere il riferimento ai cicli naturali della morte e della rinascita, intesa quest’ultima come assicurazione della fertilità. Le testimonianze dei riti sono particolarmente riconoscibili nell’ipogeo 3 di Terra di Corte, grazie all’integrità del contesto al momento dello scavo. Il pavimento dell’ambiente principale era occupato quasi per intero da piccoli focolari circolari delimitati da pietre, ciascuno dei quali utilizzato per un tempo limitato, a giudicare dallo spessore dei residui. È possibile che alcuni fuochi siano stati accesi nello stesso momento o dopo un breve intervallo, visto che tra gli uni e gli altri non è stato rinvenuto terreno di separazione. La presenza di resti vegetali carbonizzati, come parti specifiche di spighe di farro, attesterebbe un processo di selezione intenzionale, dovuto a esigenze di culto. Anche le offerte di intere parti di animali giovani (cervi, cinghiali, maialini da latte) e di palchi di cervo, questi ultimi deposti a ridosso delle pareti in tutti gli ipogei, sembrano manifestazioni di un rituale propiziatorio.
Nei vari ipogei si rinvengono pietre di provenienza appenninica, non reperibili nelle immediate vicinanze, che venivano usate come elementi di arredo (per ricavarne capaci bacili e lucerne per rischiarare gli interni) o per colmare ambienti non più utilizzati. È ricorrente la presenza di un singolare, grosso masso di forma sferica irregolare, munito di coppie di fori passanti. Tra i numerosi altri utensili, si trovano oggetti tipici dell’attività metallurgica, come crogioli, attrezzi per colare il metallo, frammenti di spilloni e frustuli informi di bronzo: sono tracce che attestano un legame tra le pratiche religiose e alcune attività produttive, riflesso di un certo “controllo dall’alto” su un importante settore come quello fusorio. La pratica più solenne del rituale pare essere stata la chiusura, con conseguente abbandono, di un ipogeo. Un’operazione lenta e precisa, legata all’ideologia religiosa, mirante a rendere inagibili ad altri le strutture una volta terminato il loro ciclo di utilizzazione. Attraverso il dromos e l’apertura di aerazione si colmavano gli ambienti sottostanti rovesciandovi terra e grossi massi. Lo stesso dromos veniva accuratamente interrato e poi sigillato con poderosi filari di grandi pietre a formare un basso tumulo. Al termine una pietra più grande veniva infissa verticalmente con funzione di sema (segnacolo).
Durante il rito della chiusura si effettuavano cerimonie di tipo propiziatorio che comportavano l’uso del fuoco, si consumavano pasti rituali e libagioni, i cui resti (ossa di animali e stoviglie rotte di proposito dopo l’impiego) venivano mescolati ai materiali del riempimento. La più singolare delle cerimonie legate all’abbandono di un ipogeo era la “semina” di parti di corpi umani. In tutti gli ipogei sono state rinvenute ossa umane disseminate, in più riprese e a differenti quote, tra i materiali del riempimento, mai a contatto col pavimento e disposte con modalità del tutto particolari, cosa che esclude la loro pertinenza a sepolture preesistenti nelle medesime strutture. Nell’ipogeo 3 di Terra di Corte, a meno di un metro dalla volta dell’ambiente principale, un cranio umano privo di mandibola fu intenzionalmente collocato in posizione capovolta al centro di un circolo di grosse pietre, a poca distanza da una fila di grandi palchi di cervo, mentre nel dromos dello stesso ipogeo vi erano una mandibola tra due ciotole frammentate e i consueti palchi di cervo adagiati alle pareti. L’inviolabilità del dromos, luogo in cui appare più pregnante il significato rituale dell’abbandono, era così esplicitata dalla particolare procedura per sigillarlo.
Le cose cambiano con i contatti più frequenti con l’Egeo, in cui i capi, probabilmente, traevano legittimità dalla loro discendenza da antenati divinizzati: così, le èlites locali, volendoli imitare, a Trinitapoli riaprono gli ipogei precedentemente sigillati e ne riutilizzano gli spazi come sepolture collettive, probabilmente associate a specifici gruppi gentilizi, probabilmente per, utilizzando una terminologia cara ai polinesiani, ereditarne il mana.
La presenza, negli impasti dei vasi rinvenuti nei livelli interni,di pomici dell’eruzione del Vesuvio detta di “Avellino” (che le recenti datazioni al Carbonio 14 hanno spostato intorno al 1900 a.C.) collocherebbe la fase di vita dei primi ipogei dopo questa data, probabilmente ancora nel Protoappenninico iniziale (XVIII – XVII secolo a. C.). Allo stato attuale della ricerca, sono quattro gli ipogei monumentali cronologicamente collocati in un momento avanzato dell’Appenninico, cui si aggiunge anche un ipogeo minore all’inizio del Subappenninico (complessivamente, tra XV – prima metà del XIII secolo a.C. circa). Queste strutture per oltre 250 anni furono poi utilizzate come vere e proprie tombe collettive, arrivando ad ospitare anche svariate centinaia di defunti generalmente deposti rannicchiati in posizione fetale su un fianco, con le mani raccolte vicino al capo, a suggerire proprio l’idea del tornare nel grembo della grande Madre Terra e di una successiva rinascita.
Gli Ipogei dei Bronzi e degli Avori, utilizzati per svariate generazioni, hanno restituito sepolture accompagnate da armi in bronzo costituite da cuspidi di freccia, coltelli, pugnali a lingua da presa (tipo Manaccora) o a base semplice (tipo Capurso, Sant’Ambrogio e Gualdo Tadino) e spade a base semplice (tipo Pertosa e tipo Sacile) o con lingua da presa (tipo Manaccora). In entrambi gli ipogei le armi rinvenute erano in relazione ad un numero limitato di deposizioni di individui adulti di sesso maschile sepolti all’interno della sala funeraria, e ad ogni individuo era associata di norma una sola arma. Da ciò si potrebbe riconoscere una distinzione di ruoli sociali rimarcata dal tipo di armaassociata al suo portatore, cui si aggiungono osservazioni sulla distribuzione topografica delle diverse tipologie di armi all’interno degli ipogei che sembra privilegiare gli armati di spada. Non è chiaro se questa arma avesse un effettivo valore militare, ossia se i defunti fossero effettivamente guerrieri, o invece rappresentasse semplicemente un identificativo di status. Nell’ipogeo degli Avori, inoltre, sono stati ritrovati due i idoletti in avorio appartenuti alla sepoltura di un bambino, che non sappiamo se siano stati oggetti sacri o giocattoli.
Gli ipogei di Trinitapoli divennero dunque luoghi di sepoltura collettivi per segmenti di comunità a forte stratificazione interna, che oltre nei corredi, si nota anche nella disposizione dei corpi nelle tombe: i leader, i patroni, per utilizzare una terminologia latina, era posti nelle sale centrali, mentre i clientes erano più sepolti a più livelli nello stretto stomion. Trattandosi di una zona di passaggio, si riscontra maggiore integrità dell’assetto anatomico dei corpi posti nei livelli inferiori, protetti forse da assi di legno, così come di quelli del livello più recente, mentre gli inumati dei livelli intermedi risultano parzialmente accantonati a ridosso delle pareti per favorire il transito di coloro che continuavano ad introdursi nell’ipogeo allo scopo di raggiungere la sala in cui, come detto, erano sepolti le figure più importanti del clan. E’ anche probabile che, come nella cultura megalitica inglese, le ossa di questi antenati divinizzati, venivano periodicamente, nelle feste importanti, tirate fuori dagli ipogei e portate per i campi, affinché potessero benedirli e garantire la loro fertilità.
Tra i resti ritrovati più interessanti, sono quelli della Signora dell’Ambra e del cosiddetto Gigante. La prima era una donna sepolta con preziosi monili tra i quali una parure composta da collana e orecchini in ambra, sostanza resinosa dotata, secondo le antiche credenze, di poteri magici, a testimonianza sia della sua ricchezza sia del suo ruolo nella comunità, forse di sacerdotessa. Il secondo un tizio, la cui altezza stata calcolata intorno a 1,85 m.; in realtà una discreta statura non doveva essere un fatto raro da queste parti, considerata la diffusa presenza di individui alti intorno a 1,70 m., come si è dedotto dalla consistente lunghezza di numerosi femori.
Questo testimonia la prosperità della comunità che viveva nel villaggio situato nella località Mezzana Comunale delimitato da due fossati circolari concentrici con all’interno fossati piccoli a “C”; è questa una caratteristica dei villaggi preistorici del Tavoliere cosiddetti “trincerati”. Probabilmente il fossato serviva per drenare le acque che stagnavano in superficie oltre che a costruire una difesa ai gruppi di capanne,fatte di rami e canne, sostenute da pali, rese impenetrabili all’acqua da strati di intonaco d’argilla. Di queste capanne sono state rilevate due esemplari: una a pianta rettangolare con i lati rettilinei e un portico anteriore d’ingresso, alcune con fondo absidato, con il perimetro segnato nella terra formato da due solchi paralleli – luogo per l’alloggiamento delle pareti perimetrali – l’altra, costruita con la stessa tecnica, a pianta ovale o tonda.
La ricchezza di questa popolazione era fondata un’agricoltura evoluta, integrata da caccia e pastorizia, sul suo ruolo di hub commerciale intermedio tra gli empori commerciali micenei sulle coste e le comunità appenniniche dell’interno e soprattutto, per la produzione di sale marino: nel sito archeologico di Vasche Napoletane, ad ovest dell’abitato dove, ad appena tre metri sul livello del mare, sono state rinvenute alcune piattaforme circolari di varia ampiezza corredate da buche, canali rettilinei e canalette di delimitazione, interpretate dagli studiosi come strutture facenti parte di saline risalenti alla piena età del Bronzo
January 31, 2022
L’assedio di Mozia (Parte II)
 
Il nuovo terrapieno, nella cui costruzione erano state impegnate le legioni del Dionisio durante la sua temporanea assenza, era a questo punto completato, e, da ciò che si può arguire era più di un molo ordinario o un semplice accesso. Si può immaginare che diventasse più largo all’approssimarsi dell’isola, fino a diventare un argine abbastanza ampio o una banchina che permettesse il trasporto di numerose macchine da guerra, di cui, si legge, faceva parte l’equipaggiamento dell’esercito siracusano e lasciasse uno spazio sufficiente di manovra. Si potrebbe qui osservare che il litorale lungo la costa settentrionale di Mozia è particolarmente basso, e che, con l’abbondante numero di uomini che Dionisio aveva a sua disposizione, si può anche pensare che la costruzione di tale argine o banchina non sarà stata una impresa estremamente ardua. Portate le truppe ed i potenti armamenti nei pressi delle mura della città, cominciò l’assalto dei greci scagliando gli arieti contro i bastioni e le fortificazioni, mentre le torri mobili e le altre macchine da guerra riversavano i loro proiettili mortali sugli strenui difensori, portando morte e distruzione da ogni parte.
I moziesi, nonostante sapessero adesso di essere soli e senza più possibilità di invio di rinforzi da parte degli alleati, tuttavia non si demoralizzarono e spedirono dinanzi all’attacco nemico i loro guerrieri protetti da armatura di metallo, posizionandoli sopra degli alti alberi appositamente piantati in punti strategici del perimetro assediato. Gli uomini moziesi da quell’altezza lanciarono delle stoppe imbevute di pece sopra le torri d’assedio dei nemici, che si muovevano su ruote, anche se erano un’invenzione recente, erano state costruite in questa occasione ad una altezza eccezionale, sei piani, e misuravano quanto le più elevate case moziesi contro cui vennero usate, poi vi gettarono delle torce di fuoco per cercare di bruciarle. Il loro stratagemma funzionò, infatti i sicelioti furono costretti a spegnere i vari incendi scoppiati sulle macchine d’assalto. Ma ciò non fu sufficiente a fermare l’attacco dell’esercito dionisiano, il quale prontamente batteva nuovamente con gli arieti sulle mura, fino a quando parte di queste cedettero e si aprì una pericolosa breccia per i moziesi
Così almeno racconta Diodoro Siculo: però probabilmente la realtà, a osservare lo Stagnone, poteva anche essere stata differente. Un po’ più ad ovest dell’accesso settentrionale a Mozia, oggigiorno si vede un plateau roccioso di considerevole estensione. La sua superficie lambisce l’acqua quando questa è al suo livello ordinario ed è notevolmente piatto e levigato, a tal punto da dare l’impressione di essere stato livellato artificialmente, anche se non vi è nulla che lo provi. Può darsi che questo plateau di roccia, apparentemente naturale, sia stato utilizzato dagli assedianti nel loro attacco alla città. Le mura di cinta nelle sue vicinanze non sono resistenti quanto in molte altre parti, ed in un punto mostrano i segni di quello che pare la breccia aperta dai Siracusani
A differenza di quanto racconta Diodoro, dai reperti archeologici parrebbe che l’attacco su Mozia sia stato soprattutto sferrato in questo limitare nord dell’isola ed in prossimità del molo, con i suoi argini, naturali o artificiali, da entrambe le parti. Senza dubbio questa era la sola cosa da aspettarsi perché qui si trovava l’ingresso principale alla città, il grande accesso a nord, nelle cui prossimità si trovavano presumibilmente le case principali ed altri edifici di importanza.
Abbiamo prove certe dei feroci combattimenti che ebbero luogo in luoghi diversi lungo questa parte di costa attraverso la grande quantità di dardi e punte di frecce che sono stati trovati nel terreno e tra i resti delle rovine. Nello stesso tempo, comunque, anche se non ne abbiamo notizia, è anche possibile che altri attacchi siano stati sferrati pure in altre parti della città. Abbiamo infatti prove di ampi preparativi che sono stati eseguiti per difendersi da questi, nelle opere fatte per barricare l’accesso a sud e l’ingresso al Cothon adiacente ad esso.
Il Cothon era un bacino idrico utilizzato all’interno dei porti fenici. Il suo uso, ancora non chiarito da un punto di vista archeologico, rimane sconosciuto: si crede sia stato un luogo di ricovero per le navi da riparare, oppure un bacino artificiale legato a culti locali. Nel caso del Cothon di Mozia, in Sicilia, si tratterebbe di un bacino orientato secondo i punti cardinali, di dimensioni 35,7m x 52,5m e disassato rispetto agli altri monumenti; l’orientamento sarebbe uguale in tutte le fasi, con nell’ultima fase anche elementi egiziani ed una terracotta mutila di cinocefalo, un animale che saluta il Sole. Il Tempio situato nelle vicine, a cui sarebbe collegato, è molto simile al Tempio di Astarte di Kition, a Cipro. L’ingresso è rivolto verso l’area sacra, e le stele del tofet mostrano una schematizzazione di un portale con dentro un betilo. Inoltre il pozzo del tempio sarebbe simile a quello del Tempio degli Obelischi di Biblo.
Nel 1985 Sabatino Moscati identificava una stele al centro della Porta Sud, ipotizzando che si trattasse di una stele portata dal tofet, anche se la teoria oggi viene messa in discussione. Sul lato nord del Cothon di Mozia è stata individuata una polla d’acqua dolce. Secondo le ipotesi di Lorenzo Nigro, ma personalmente sono sempre abbastanza scettico alle elucubrazioni dell’archeo astronomia, durante il solstizio d’inverno e l’equinozio di primavera a 110° sorge la costellazione di Orione (identificata nell’antichità come il dio Baal), per cui è possibile ipotizzare che si trattasse del Tempio di Saturno (come a Nora) o del Tempio di Eshmun (come a Dougga).
Tornando al nostro assedio, anche se la zona del Cothon fosse stata oggetto di attacchi attacchi hanno avuto luogo, probabilmente sono stati meno intensi di quelli effettuati nel nord della città. Tra l’altro, ad oggi non vi sono tracce le quali dimostrano che vi sia stata una strada intorno all’isola, attraverso cui siano stati trasportati gli arieti e le torri mobili dei Siracusani, né, d’altro canto, il passaggio attraverso l’accesso a sud mostra segni di un uso per il traffico a ruote, il che lascia molti dubbi, ma ne parleremo la prossima settimana sull’effettivo utilizzo delle torri d’assedio da parte di Dionisio; potrebbe essere un aneddoto, utilizzato da Diodoro, per infiocchettare la storia e renderla più interessante.
A prima vista può apparire strano che non sia stato sferrato su Mozia nessun attacco per mare da alcuna parte, soprattutto considerando la flotta che Dionisio aveva condotto con sé; ma è molto probabile che la scarsa profondità delle acque intorno all’isola possa essere apparsa come uno ostacolo serio ed imprevisto a tale impresa, ed abbia precluso l’attuazione del tentativo. Aperta la breccia possiamo immaginare cosa sia passato nella testa sia degli attaccanti, sia dei difensori.
I primi credevano che la città era già in mano loro e che incalzavano attraverso il varco effettuato dagli arieti; i secondi, pronti a difendersi con le unghie e con i denti, per tentare di allontanare l’orribile sorte di vedere i loro cari – donne e bambini – venduti come schiavi dai vincitori. Tuttavia, la situazione dei moziesi non era sostenibile: per cui, abbandonarono la difesa delle mura esterne e chiusero con barricate improvvisate le vie d’accesso verso l’interno della città. Poi si diressero verso le case e gli edifici adiacenti alle mura, che, a quanto pare, erano stato costruiti per fungere da una seconda linea di difesa interna. Lo spazio esistente tra questa cerchia di case e le mura era talmente stretto, da impedire ai siracusani l’uso sia degli arieti, sia delle torri d’assedio.
Per cui, si combatteva su due livelli: sulla strada, nel tentativo di sfondare le barricate e in alto sui tetti a terrazza delle case e nei piani superiori degli edifici, su cui, sfruttando le scale, i siracusani cercavano di salire ed entrare, sfruttando le finestre. Assediati e assedianti si ritrovarono quindi a lottare corpo a corpo, con gravi danni per entrambi gli schieramenti. Diodoro narra che essi cadevano giù dai tetti; cadevano già morti oppure morivano successivamente nelle strade, per le gravi ferite riportate. I siracusani rinnovavano l’attacco ogni giorno e tornavano nei loro alloggi di sera, quando veniva suonato dalle trombe il segnale della ritirata.
Questi aspri combattimenti durarono per giorni, preoccupando Dionisio, che si aspettava un successo molto più semplice: il tiranno era consapevole che ogni giorno perso e ogni soldato ucciso era un regalo che faceva a Cartagine, che sta per organizzare una prossima controffensiva. Per cui, decise di cambiare tattica, ricorrendo all’inganno. Non essendo riuscito a soverchiare le forze dei Moziesi di giorno in un combattimento aperto, decise di conseguire il suo intento di nascosto di notte. Un drappello di soldati scelti, sotto il comando di un tale Archylus, un Tirio, fu inviato nel cuore della notte allo scopo di rendere possibile l’ingresso in città o piuttosto nella parte interna della città, nella quale, evidentemente, i Greci non erano ancora riusciti a penetrare.
I Moziesi, abituati ormai alla guerriglia di giorno, seguita regolarmente da un riposo indisturbato di notte, non prevedendo per il momento alcun cambiamento, avevano allentato, senza dubbio, la sorveglianza e così furono colti di sorpresa. Archylus, col suo manipolo di seguaci, riuscì, per mezzo di scale d’assedio, ad arrampicarsi sulle costruzioni semidiroccate e ad assicurarsi alcuni punti di forza che permisero l’accesso alla sua pattuglia ed ai grandi rinforzi che Dionisio teneva pronti a seguirli. Così l’esercito greco, all’alba riuscì a penetrare nella cerchia interna.
I moziesi, che disperatamente avevano trasformato le proprie abitazioni in trincee, furono assaliti dall’invasore, spinto dalla sete di vendetta, che compiva massacri inauditi.I sicelioti furono i più feroci durante l’invasione: essi ricordavano il terribile trattamento ricevuto dai punici quando le loro città vennero assediate e distrutte Dionisio fermò l’eccidio gridando ai suoi soldati di smetterla con il massacro dei cittadini, poiché egli doveva venderli come schiavi e non decimarli sul campo di battaglia, perchè le finanze di Siracusa erano ridotte ai minimi termini e non avrebbero sostenuto una guerra di lunga durata. Ma l’esercito non gli diede ascolto e continuò nella sua opera di devastazione. Allora Dionisio affidò il suo proclama ai banditori pubblici, i quali urlarono per le vie della città che i moziesi per aver salva la vita dovevano rifugiarsi dentro i templi di culto greco che possedevano sul territorio
Con il proclama si salvarono i moziesi che riuscirono ad udirlo, radunandosi all’interno dei templi greci, come il tiranno aveva chiesto loro di fare. Dalla narrazione diodorea non appare tuttavia possibile capire se questi templi di culto greco, appartenessero a divinità venerate sia da greci e fenici, oppure se si trattasse di divinità fenicie venerate dai greci di Mozia; più accreditata la prima ipotesi, poiché esistevano somiglianze religiose come ad esempio il nume fenicio Melqart che i greci chiamavano l’Eracle di Tiro. La presenza greca sull’isola moziese è accertata dai resti archeologici e storiografici del tempo; e proprio i greci di Mozia furono coloro contro i quali Dionisio ebbe maggiore accanimento e nessuna pietà. Essi si erano schierati dalla parte dei punici – probabilmente erano considerati ormai abitanti di Mozia, o vi erano giunti come profughi – incrociando le loro lame contro quelle dell’esercito dionisiano, vennero visti come traditori del nome greco, e per questo vennero condannati a una morte peggiore dei vinti di origine moziese; vennero crocifissi. Daimenes – greco catturato e crocifisso a Mozia – è l’unico nome pervenuto degli elleni moziesi che combatterono quella battaglia.
Cessato l’eccidio, i soldati ebbero in sacco le ricchezze delle case dell’isola. Una grande quantità di oro e argento, ricche vesti e tutto ciò che di prezioso vi fosse, fu prelevato dai soldati dionisiani. Archylus, essendo stato il primo ad essere salito sulle mura, venne ricompensato da Dionisio con somma monetale di cento mine, e a seguire tutti gli altri soldati in base ai meriti dimostrati in battaglia. Gli abitanti superstiti di Mozia vennero venduti all’asta. Dionigi lasciò nell’isola una guarnigione di sicelioti, capitanati dal siracusano di nome Biton[, e affidò al fratello Leptine una flotta di centoventi navi con le quali egli doveva perlustrare il mare siciliano occidentale e respingere un eventuale attacco cartaginese – che evidentemente Dionisio credeva essere prossimo – inoltre gli diede ordine di marciare nuovamente contro Segesta ed Entella; di compiere delle scorrerie per infastidire le alleate siciliane di Cartagine. Poi, tornò a Siracusa, per prepararsi al secondo round…
Mozia, l’anno successivo, fu riconquistata dai Cartaginesi di Imilcone ma il suo declino era ormai segnato. Dopo la presa dei sicelioti, e la conseguente devastazione – nonostante le fonti non parlino di completa distruzione – la nuova fortezza punica, e sicuro luogo di ancoraggio, divenne Lilibeo
January 30, 2022
Eraclea Minoa
 
Il sito dell’ antica Heraclea Minoa, sulla sinistra del Fiume Platani (antico Halikos) è oggi denominato Capobianco da uno sperone marmoso proteso nel mare all’ estremità sud-occidentale dell’ altopiano su cui si estendeva la città antica. Sorta, secondo Eraclide Lembos (Fragm. Histor. Gr., ii, 220, 29), dove preesisteva il villaggio di Macara, si chiamò dapprima semplicemente Minoa, molto verisimilmente in ricordo dell’isoletta omonima presso Megara Nisea (solo più tardi tale nome sarebbe stato cuitualmente connesso con Minosse). Verso la fine del VI sec. a. C. ricevette una colonia spartana condotta da Eurileonte (Herodot., l. c.) il quale, ad onorare il mitico progenitore della sua stirpe, sembra aver aggiunto il nome di Eraclea. La leggenda narra che il nome Minoa fu messo per onorare la morte del re di Creta Minosse venuto in Sicilia per vendicarsi dell’architetto ateniese Dedalo, colpevole di aveva favorito la moglie di Minosse, Pasifae a congiungersi con un toro, dal quale accoppiamento contronatura nacque il Minotauro.
Poco dopo la sua fondazione, fu conquistata dagli agrigentini, per il suo valore economico: Heraclea Minoa era un importante centro di mercato del grano, e gli Heraclesi costruirono un seno di mare per meglio caricare e scaricare le navi. L’economia era basata sul commercio, agricoltura, pastorizia e pesca. I terreni fertili producevano cereali, frutta, vino e olio ed il territorio era ricco di boschi e forniva una produzione di legnami. mentre il pescoso fiume, che era per buona parte navigabile, forniva una grande quantità di pesce. Il territorio ricco di vegetazione mediterranea costituiva un habitat per la selvaggina presente con cinghiali, conigli, istrici e volpi. Si lavorava la palma nana, il giunco e le ristoppie del grano con le quali si producevano gerli e canestri
Terone, tiranno di Agrigento (488-473 a.C.), vi scoprì la presunta tomba di Minosse e ne restituì le ossa ai Cretesi (Diod. IV, 79, 4), e nel 465-461, nelle guerre conseguenti alla caduta dei Diomenidi, la città fu occupata da mercenari siracusani, e quindi liberata dagli Agrigentini e Siracusani. Al cadere del V sec. a.C., scoppiata la guerra tra cartaginesi e greci in Sicilia, Minoa dovette essere presa dai Cartaginesi prima della caduta di Akragas nel 406 a.C.. Durante le guerre greco-puniche il vicino fiume Platani ha segnato per secoli la linea di confine naturale tra la epicrazia cartaginese in Sicilia ed i territori sotto l’influenza siracusana Nel 277 viene tolta ai Cartaginesi da Pirro.
Secondo alcuni studiosi, la battaglia di capo Ecnomo, tradizionalmente situata nei pressi Poggio Sant’Angelo, Licata, avvenne nelle sue acque. Sotto la dominazione romana Heraclea riuscì a conservare la sua grande magnificenza. Furono disposte nuove strade e aggiunte nuove cinte murarie di rinforzo alle preesistenti difese. Nell’ordinamento della provincia di Sicilia fu dichiarata civitates decumanae, cioè tenuta a dare al governo di Roma la decima parte dei prodotti agricoli
Nel 131 a.C. il pretore Publio Rupilio vi dedusse una colonia, da cui si suppone che la città si spopolò quasi del tutto durante la prima guerra servile. Riporta Cicerone che anche Eraclea fu oggetto delle vessazioni di Verre:
Qui Verre non solo prese denaro, come negli altri luoghi, ma anche mescolò categorie e numero di cittadini vecchi e nuovi
Narra lo stesso Cicerone il suo arrivo notturno a Eraclea
Se Lucio Metello lo avesse consentito, o giudici, erano pronte a presentarsi qui le madri e le sorelle di quegli infelici. Una di queste, mentre io mi stavo avvicinando a Eraclea, mi venne incontro con tutte le donne sposate di quella città alla luce di molte fiaccole, e rivolgendosi a me con l’appellativo di salvatore, chiamando te suo carnefice, invocando fra le lacrime il nome del figlio, l’infelice si prostrò ai miei piedi, quasi che io potessi risuscitare suo figlio dai morti.
Il sito di Eraclea Minoa, a parte una breve campagna di scavo condotta nel 1907 dal Salinas, fu esplorato a fondo nel 1950, quando Ernesto De Miro vi scopre il teatro, scavato a più riprese fino al 1964. Il teatro, inserito entro il reticolo regolare della città, articolato su terrazze digradanti verso Sud-Ovest, risale al IV-III sec. a. C. rimaneggiato e ampliato in età successiva e abbandonato nel corso del II sec. a. C. Esso è sistemato nella cavità di una collinetta a N dell’abitato. La cavea, contrariamente alla prescrizione di Vitruvio (v, 32) ma sull’esempio di grandi teatri (Atene, Siracusa), è aperta verso S, di fronte al mare; essa è costruita in conci di marna arenacea mentre ricavati nella roccia sono la praecinctio, alta sull’orchestra m 8,90, e l’ambulacro antistante. Un ambulacro di servizio, ampio m o,6o, separa l’ima cavea dalla proedria, formata di un ordine di banchi con spalliera e braccioli ai limiti delle scalette e poggiante su di un anello di conci a guisa di pedana larga m 0,49. Tra l’orchestra vera e propria e questo anello di conci è un ambulacro-canale, largo m 1,75, continuantesi in un condotto il cui sbocco si apriva nello spessore della cortina muraria che nel IV-III sec. a. C. venne a costituire il nuovo limite orientale della città. Della scena si conserva una sorta di battuto (relativo alla seconda fase del teatro) sopraelevato sul livello originario di orchestra ed esteso all’interno di essa e sulle pàrodoi; vi sono ancora visibili i cavi per il fissaggio delle travi del podio scenico.
La città era protetta da una imponente cinta muraria (calcolato in Km 6 circa), che abbraccia l’intera estensione dell’altopiano, fino al fiume Platani. Le mura erano spesse m 2,50 circa, in assise di piccoli blocchi di gesso, è ricostruibile per un percorso di km 6 circa: di essa si conservano il lato settentrionale e quello occidentale sulle balze lungo il fiume; mentre interamente perduti sono il lato orientale e quello meridionale, quest’ultimo per altro verisimilmente limitato a qualche filare di parapetto sul ciglio dello strapiombo. Imponente è, per alcuni tratti, il lato settentrionale a guisa di ampia ellisse, provvisto di Otto torri quadrangolari a difesa di porte e postierle; esso è terminato all’estremità orientale, là dove era più agevole l’accesso, da un possente baluardo dello spessore di m 6 circa, provvisto di due torrioni, circolare l’uno, quadrangolare l’altro, costruito in duplice tecnica, a basamento di conci bugnati, isodomicamente disposti, ed elevato in mattoni crudi. Col IV-III sec. a. C. la città si contrae limitandosi ad occupare la parte occidentale del pianoro, dalla collinetta del teatro alle balze lungo il fiume; un nuovo muro di fortificazione, impostato sui ruderi del precedente abitato, fu allora innalzato a costituire il nuovo limite orientale della città.
Il nuovo muro di fortificazione avrebbe avuto dapprima uno spessore modesto; successivamente, nella seconda metà del II sec. a. C., in un momento di particolare necessità che possiamo identificare con le guerre servili, la cortina muraria venne rinforzata con un ispessimento alle spalle mediante un’opera a sacco di terra e pietrame, regolarizzata e rattenuta nella fronte interna con assise di piccoli blocchi di gesso. Dell’abitato è stato messo in luce un notevole settore, nel pianoro a Sud del teatro. Sono stati accertati due strati sovrapposti di abitazioni, rispettivamente riferibili al periodo ellenistico e al periodo romano repubblicano.Dell’abitato di II strato (IV-III sec.a.C., contemporaneo al teatro) sono state scavate due case, inserite in un sistema a strade parallele e ortogonali. Le due case messe in luce sono caratterizzate da una pianta semplice: struttura quadrata, chiusa intorno ad un piccolo atrio con cortile centrale.
La casa A era ad un solo piano con cortile fornito di grande cisterna in cui si convogliavano le acque del tetto a falde compluviate. A Nord del cortile era un sacello domestico (lararium), di cui si conservano l’altare quadrangolare addossato all’angolo nord-ovest e l’edicoletta per i lares nella parete est. La pavimentazione del vano è in cocciopesto decorato di tesserine bianche; le pareti conservano avanzi della decorazione a stucco (stile a incrostazione o I stile pompeiano). La casa B aveva un piano superiore con stanze destinate all’abitazione, le cui macerie (mattoni crudi delle pareti, lastroni di soglia, stucchi, intonaci, pavimento in cocciopesto decorato e mosaico), nel crollo, hanno colmato i vani del piano terra. Eccezionale lo stato di conservazione dei muri, non solo nella parte lapidea ma anche nell’elevato in mattoni crudi. Le pareti erano rivestite di intonaco dipinto, di cui rimane il sottofondo di allettamento.
All’abitato di IV-III sec.a.C. si sovrappone, nel II-I sec. a.C., l’abitato di I strato, che può identificarsi con la colonia di ripopolamento dedotta da Rupilio (Cic., Verr., II, 125) al termine della prima guerra servile (132 a. C.). E’ costituito da case costituite generalmente di due o più vani gravitanti su un cortile con focolare. I muri sono costruiti con basamento di blocchetti di pietra gessosa ed elevato in mattoni crudi. L’organizzazione in isolati inquadrati da strade nord-sud che si incrociano con strade est-ovest, ricalca lo schema della fase precedente. Verso il termine del I sec. a.C. la città fu abbandonata e cala il silenzio nelle fonti letterarie. L’area extra-urbana tornò ad essere occupata in epoca paleocristiana e bizantina (III-VII sec. d.C.), con la costruzione di una grande basilica e da un connesso cimitero.
January 29, 2022
I vestiti nuovi dell’Imperatore
 
Cosa c’è di così affascinante nel voler essere ossessivamente al centro dell’attenzione? Cosa c’è di così gratificante nel vedersi avanguardia comunque, sia pure del nulla? Da giornalista quasi pensionato che si diletta di scritture di fantascienza, weird e ucronie, mi sono imbattuto più volte sia nel narcisismo, sia nei paradossi, e ormai mi sento abbastanza preparato a riconoscerne i sintomi, quando questi si manifestano. Ma andiamo per ordine.
Punto di partenza, il narcisismo. Non tanto quello patologico, quella distorsione di sé che porta ad abusare degli altri secondo la propria utilità, che comunque ce n’è molto in giro e come cantava Giovanni Lindo Ferretti, bisogna essere attenti per essere padroni di se stessi; no, mi riferisco al narcisismo che ti porta, magari giovane e ambizioso, o al contrario, vecchio e altrimenti dimenticato – e diciamolo, anche dimenticabile – a voler invece spalmare di te se non il mondo…
View original post 1.155 altre parole
La Kalsa nel Trecento
 
Sorta in epoca araba come cittadella fatimide, come accennato la Kalsa è menzionata in una miniatura del Liber ad honorem Augusti, composto da Pietro da Eboli alla fine XII secolo, insieme al Cassaro e al Seralcadio. Nei documenti del Trecento il quartiere è denominato Alcia, Halcia e Chalcia, ma quest’ultimo termine è il più diffuso. La decadenza dell’area urbana, cominciata con i normanni e proseguita sotto gli Svevi, si interruppe grazie ai mutamenti della politica siciliana.
Dal momento in cui Re Carlo aveva messo piede in Sicilia, una serie di rivolte avevano minato il potere angioino sull’isola, per una serie di motivi: lo spostamento della capitale a Napoli,oltre a offendere l’orgoglio locale, aveva danneggiato i commerci e gli interessi economici sia della borghesia locale, sia delle colonie di mercanti stranieri. A questo si aggiungeva sia la politica di centralizzazione angioina, poco gradita dalla nobilità, sia l’aumento delle tasse. Dall’altra parte del mar Mediterraneo, nel Regno di Aragona, la regina Costanza, figlia di Manfredi e unica discendente della dinastia sveva, premeva il marito Pietro III d’Aragona per ritornare in Sicilia, dove la popolazione manteneva ancora il ricordo dello splendore raggiunto con il nonno l’imperatore Federico II.
Così, appena scoppiò la rivolta del Vespro Siciliano, , la flotta aragonese, sbarcata il 30 agosto 1282 a Trapani, era già a Palermo e con l’occupazione della città da parte di Pietro III, Carlo d’Angiò fu costretto a ritirarsi nel settembre 1282 a Napoli. Pietro III fu così libero di impadronirsi del trono e di ottenere il titolo di Re di Sicilia. Mantenne però divise le corone di Aragona e Sicilia. Però, sia a causa della guerra civile, sia dell’invasione francese della Navarra, dovette tornare in Spagna. In sua assenza nominò un luogotenente per sostituirlo. Si avvicendarono così nella conduzione del regno Alfonso III d’Aragona e Giacomo II d’Aragona.
La situazione politica, a vent’anni di distanza dalla prima rivolta, non era ancora chiara. Carlo II d’Angiò rivendicava ancora l’isola e gli Aragonesi, in difficoltà in Spagna, cercarono con un accordo con gli Angioini una via d’uscita dal conflitto che si stava venendo a ricreare, abbandonando così i siciliani e le loro aspettative. In questo contesto il Parlamento siciliano, riunito al Castello Ursino di Catania, elesse come Re di Sicilia il fratello di Giacomo Federico III d’Aragona, molto sensibile alle istanze della Sicilia.
Il Parlamento siciliano in epoca aragonese, composto da feudatari, sindaci delle città, dai conti e dai baroni era presieduto e convocato dal re. La funzione principale era la difesa dell’integrità della Sicilia, come valore massimo anche nei confronti dell’assolutismo del re e nell’interesse di tutti i siciliani. Il re, infatti, non poteva né stringere accordi di qualunque natura (politica, militare o economica) né dichiarare guerre senza aver prima consultato e ottenuto l’approvazione dell’organo parlamentare che, per costituzione, doveva essere convocato almeno una volta l’anno nel giorno di «Tutti i Santi». Il Parlamento costituzionalmente aveva il compito di eleggere il re e di svolgere anche la funzione di organo garante del corretto svolgimento della giustizia ordinaria esercitata da giustizieri, giudici, notai e dagli altri ufficiali del regno.
Il piano di alleanze fu stravolto: da questo momento i siciliani continuarono la lotta sotto la reggenza di Federico, contro sia gli Angioini sia gli Aragonesi di Spagna del Re Giacomo. Nel 1302 si firmò infine la pace di Caltabellotta, che divideva il regno di Sicilia in regno di Trinacria (solo l’isola), affidato a Federico e quello di Napoli (la parte della penisola), guidato da Carlo d’Angiò. Federico, affidata la corona al figlio Pietro, cercò di aggirare la pace e la guerra riprese nel 1313. Si riuscì a trovare un accordo finale solo alla morte di Pietro (1342), quando salì al trono il figlio Ludovico sotto tutela di Giovanni d’Aragona. Fu probabilmente grazie alla diplomazia di Giovanni che si raggiunse un primo accordo di pace con gli Angioini detto la «Pace di Catania» l’8 novembre 1347.
Ma la guerra fra Sicilia e regno di Napoli si sarebbe chiusa solo il 20 agosto 1372 dopo ben novanta anni, con il Trattato di Avignone firmato da Giovanna d’Angiò e Federico IV d’Aragona, con l’assenso di Papa Gregorio XI. In questo caos, Palemo cominciò a cambiare volto: la città nel l Trecento era divisa in cinque quartieri: Cassaro, Albergheria, Seralcadio, la nostra Kalsa e Porta Patitelli (o Conceria). Il governo cittadino aveva una durata annuale, entrava in carica il 1° settembre ed era presieduto da un baiulo (chiamato pretore a partire dal 1321), affiancato da sei giudici che si occupavano in prima istanza di cause civili, sei giurati addetti all’urbanistica, alla viabilità e ai rifiuti, sei maestri di xurta (o magistri excubiarum) con funzioni di sorveglianza e di polizia urbana, sei acatapani che controllavano prezzi, pesi, misure e qualità delle merci. Ogni quartiere eleggeva un rappresentante per ciascuna categoria di funzionari, tranne il Cassaro che ne designava due, poiché includeva anche la Galca dove era stato fondato in epoca normanna il Palazzo Reale. Con il ritorno di Palermo nel grande commercio mediterraneo, la Kalsa, data la sua vicinanza al Porto, divenne la dimora privilegiata dei mercanti, prestatori di denaro e cambiavalute toscani che si erano trasferiti in città, che si dedicarono attivamente anche all’amministrazione locale.
Durante il regno di Federico III tra i problemi quotidiani del quartiere Kalsa figura lo smaltimento dei rifiuti, poiché gli abitanti gettavano la spazzatura sotto le mura, tra Porta Polizzi e Porta Cordari, e alla marina si formavano cumuli d’immondizia alti quasi quanto le mura che venivano trascinati nel porto dalle piogge, insomma a Palermo le cose non cambiano mai. Per ovviare alla disastrosa situazione, nel settembre del 1332 il sovrano ordinò: 1) di rimuovere la spazzatura dividendo a metà le spese tra gli abitanti dell’intera città e quelli della Kalsa, che avrebbero dovuto pagare in base al reddito; 2) di elevare il livello delle mura; 3) di rimuovere le scale utilizzate per gettare la spazzatura; 4) di vietare con un bando di gettare rifiuti sotto le mura, pena un’ammenda
Un ulteriore evoluzione del quartiere si ha nel 1320 nel quartiere della Kalsa, su un terreno confinante con il tracciato delle mura e della porta settentrionale della Halisah, Manfredi I Chiaromonte, conte di Modica, costruisce l’Hosterium, il grande Palazzo di famiglia articolato intorno ad un cortile centrale porticato. Nella struttura dello spazio urbano la sua collocazione si rivela simmetrica a quella di un altro imponente palazzo edificato da Matteo Sclafani, conte di Adernò, e congiunto di Manfredi Chiaromonte al confine col tracciato delle mura orientali della Galca, sull’altura del Cassaro. In antitesi con le due sedi reali del Palazzo normanno e del Castellammare, i due fortilizi si pongono in posizione bilanciata rispetto all’area centrale e perfettamente equidistanti dalle difese turrite di Porta Patitelli, sul fronte del porto.
Sono simboli anche visivi, di come il potere stia progressivamente, per la debolezza del ramo siciliano degli Aragonesi, migrando dalla Corona ai nobili locali: per sottolineare questo concetto, i Chiaromonte da una parte si appropriarono di una delle principali prerogative regie, la protezione della Chiesa: è innegabile il loro apporto alla permanenza e alla dislocazione degli ordini mendicanti nei quartieri della città, e in particolare dei Francescani all’interno della Kalsa, al cui sostegno contribuiscono con il completamento della chiesa e con la costruzione di diverse cappelle interne. Dall’altra, definiscono un loro specifico stile architettonico, il gotico chiaromontano, lo strumento immediato con cui il Potere costruisce e fa percepire al Popolo la sua immagine: stile che riprende e reinterpreta creativamente l’esperienza arabo normanna, proponendo i Chiaramonte, come veri eredi spirituali degli Altavilla, alternativi agli Aragonesi.
Nel 1325 le truppe di Carlo, duca di Calabria e figlio di Roberto d’Angiò, assediarono per tre giorni Palermo e si combatté tra Porta Termini e Porta dei Greci. Nuove nubi si addensarono sulla città nel 1339, quando Benedetto XII lanciò contro l’isola l’interdetto e, alla difficile congiuntura politica, si aggiunse la carestia. Il 13 dicembre il popolo minuto assaltò manu armata diversi magazzini pieni di frumento posti alla Kalsa, presso la chiesa di Santa Maria della Catena.
Tre giorni dopo Pietro II entrò a Palermo, fece arrestare 200 persone e impiccare 5 rivoltosi. La peste giunse in Sicilia durante il regno di Ludovico, portata a Messina da 12 navi genovesi. A Palermo l’epidemia generò cladem et mortalitatem e toccò il suo picco nel febbraio del 13489 mese in cui dettarono le ultime volontà al notaio Bartolomeo de Bononia, giacendo infermi a letto, otto abitanti della Kalsa, sei dei quali risiedevano in prossimità del porto poiché erano parrocchiani di San Nicolò della Kalsa (dei Latini, de Francis, de Navi), un tempo ubicata nell’attuale piazza Santo Spirito, e fecero legati al vicino ospedale di San Bartolomeo. Quattro testatori scelsero come luogo di sepoltura San Nicolò, tre San Francesco, uno San Giacomo nell’attiguo quartiere Porta Patitelli. La Kalsa fu particolarmente colpita dalla peste non solo perché vicina al porto, ma anche per la presenza di parecchi mercanti esposti più degli altri al contagio
La cinta muraria che proteggeva la Kalsa era allora intervallata da sei porte: Porta della Vittoria, corrispondente alla Bab ’al-Futuh della cittadella fatimita di Al-Halisah descritta da Al-Idrisi, Porta Termini, menzionata per la prima volta nel XII secolo, Porta dei Greci e Porta Polizzi citate a partire dalla fine del XIII secolo, Porta di Mare e Porta dei Cordari ricordate in documenti del Trecento. Le mura e le porte richiedevano continui lavori di manutenzione, commissionati dai re o dall’universitas. In data anteriore al 22 aprile 1328 Federico III prese parte del giardino dei Teutonici, ubicato nei pressi di Porta Termini, pro heddificando de novo menia ipsius urbis pro tuciori municione urbis predicte, prima del 21 agosto 1336 la città fece riparare il tetto di Porta Termini. Nel 1340 l’universitas decise di eseguire lavori nelle mura all’altezza di contrada Santa Maria della Catena; nel 1349 fece chiudere cavernas et puntellos delle mura di contrada Porta dei Greci, per evitare che durante la notte fossero estratte di nascosto vettovaglie senza pagare il diritto di esportazione, intaccando le scorte alimentari della città.
Da Porta Termini e Porta dei Greci si dipartivano due grandi strade (ruga magna Porte Grecorum e ruga magna Porte Thermarum), altre due traevano il loro nome dall’ordine dei Teutonici della Magione (ruga nova de Alamannis e ruga nova Mansionis), la ruga Viridi attestava la presenza di giardini, la ruga Malvalonis (o Malvalluni), dietro la chiesa di San Francesco, rendeva ragione di un avvallamento accidentato. Alcune strade e contrade derivavano la loro denominazione dalle attività artigianali prevalenti (ruga di li Balistreri, ruga di li Macharunari, contrata Sellariorum), altre dalla presenza di comunità straniere (ruga di li Schisani, ruga de Lipari, ruga Pisarum), altre ancora da persone
note nel quartiere, ancora vive come il cavaliere Andrea de Lombardo (contrata hospicii Andree de Lombardo) e il chirurgo Oliviero Lancia (ruga magistri Oliveri medici), o defunte come il nobile Enrico de Adam (ruga habitacionis quondam nobilis Henrici de
Addam) e il notaio Angelo de Confalono (contrata hospicii condam notarii Angeli de Confalono)
La toponomastica e i contratti notarili attestano, oltre al rilancio economico del quartiere rispetto all’età Sveva, che un consistente numero di abitanti della Kalsa, soprattutto di contrada Porta dei Greci, praticava come oggi mestieri connessi al mare. Si andava dai semplici marinai, pescatori e cordai ai più facoltosi comiti (posti a capo delle flottiglie pescherecce) e rais (ai quali il padrone della tonnara affidava la responsabilità di crociare, ossia di posizionare le reti nella zona più adatta). Fra le comunità legate alle attività marinare si segnalano i Liparitani, che vivevano nella ruga de Lipari ubicata in contrada Porta dei Greci, vicino alle mura della marina, dove abitavano il comito Ray
de Griffis e l’artigiano Silvestro de Magistro Rogerio di Lipari Numerosi erano anche gli Ischitani che nel 1312 si dedicavano alla pesca e davano nome a un cortile e a una strada menzionati ancora nella seconda metà del XV secolo.
Fra i maestri excubiarum della Kalsa ricordiamo il comito Andrea Spallitta, il magister Federico Skisano, il comito Pucio Vusso. La ruga raysii Buccacii, citata nel 1367, traeva il suo nome da un rais molto noto ed era caratterizzata da case, cortili dotati di pozzi, piccoli giardini. Un altro rais, Nicola de Carnilivario, possedeva una taverna alla Kalsa. In mezzo alla ruga magna Grecorum c’era un pozzo e una piccola strada conduceva al porticciolo di mezzo. La principale chiesa era San Nicolò dei Greci o de la Carruba, dietro la quale correva una vanella (piccola strada), con case solerate e terranee. Nella contrada figuravano beni immobili di persone qualificate come nobilis, basti ricordare le case e il giardino di Manfredi Chabica, le case, il giardino e la senia (bindolo) di Filippo de Alagona.
La zona commerciale si trovava sul piano della Fieravecchia, collegata tramite la ruga magna Porte Thermarum all’omonima porta. Nella Fieravecchia, una parte della quale era anche detta ruga Mineo, si concentravano grandi taverne, rifornite dalle vigne delle vicine contrade Porta Termini e Porta Sant’Agata, poste a ridosso della cinta muraria, macelli, botteghe di fabbri e di altri artigiani, molte delle quali appartenevano a note famiglie della Kalsa (Lombardo, Bandino, Abbatellis, Pampara), alla Cattedrale di Palermo, all’ordine dei Teutonici, al monastero di San Martino delle Scale, fondaci, come quello di Bartolomeo de Ferro con una macelleria formata da quattro vani congiunti, un cortile con un pozzo e un pagliaio. Non mancavano eleganti abitazioni, come la domus magna di Giovanni de Abbatellis senior, giardini di giudici e mercanti. Lungo
la vicina ruga Pisarum si distinguevano botteghe appartenenti a cavalieri, mercanti e notai.
Numerosi mercanti pisani abitavano in contrada San Francesco e avevano cappelle nella chiesa omonima, scelta come luogo di sepoltura anche da mercanti genovesi, catalani, amalfitani e da parrocchiani di San Nicolò della Kalsa. La famosa compagnia bancaria fiorentina dei Peruzzi aveva costruito un hospicium (palazzo) nella strada dei Maccaronai dietro la chiesa di San Francesco, dove si trovava il grande tenimento di case con cortile e pozzo di Bartolomeo de Altavilla, giudice della Magna Regia Curia. Rimangono poche, ma significative, opere pittoriche realizzate nel Trecento nella chiesa di San Francesco, come l’affresco raffigurante San Matteo Evangelista e San Gregorio) e la Madonna dell’Umiltà di Bartolomeo da Camogli, datata 1346. Vivevano di fronte al convento di San Francesco i fratelli Giacomo e Oliviero Lancia, rispettivamente medico fisico e chirurgo. Il magister Antonio di Simone Andrea, professore in scienza medicinale abitava in contrada Porta Polizzi. Dimorò temporaneamente alla Kalsa anche il medico messinese Leonardo Salvacoxa, ospitato nelle case del defunto Enrico de Adam.
Altra importante istituzione religiosa della Kalsa era la Magione dei Teutonici, che tra il 1292 e il 1391 contava un consistente patrimonio immobiliare, formato dal grande giardino chiamato Hartilgidie (Hârat aldjadîda) protetto da un muro e coltivato a olivi e alberi da frutta, il giardino de Muto, due giardinetti, ventidue case, quattro botteghe nella Fieravecchia, un fondaco, due casette e un casalino. L’ospedale principale del quartiere era San Bartolomeo della Kalsa, invece l’ospedale di Sant’Antonio di Porta Termini era ubicato al confine col quartiere Albergheria. Cospicui erano i beni del monastero di San Martino delle Scale, concentrati nel piano della Fieravecchia, nella ruga Mineo e in contrada Porta dei Greci
Nell’aspra lotta civile che insanguinò il regno alla metà del Trecento, i Chiaromonte, vertice e guida della parzialità latina ostile a re Ludovico e al di lui tutore Alagona, furono in Sicilia gli ottimi alleati della corte napoletana, con la quale gli esponenti chiaromontani tennero solidissimi rapporti sino alla fine del secolo, quando Gaeta divenne il principale rifugio di coloro che da Palermo opposero feroce resistenza alla recuperaciò aragonese guidata dai Martini. La straordinaria ascesa dei Chiaromonte a Palermo può collocarsi tra 1353-1354, quando cioè, scomparsa la famiglia antagonista degli Sclafani e la morte di Matteo Palizzi, si aprì la fortunata stagione che portò in meno di dieci anni (nel 1367) i Chiaromonte a detenere, incontrastati, la signoria sulla città e il controllo su importanti centri nella Sicilia meridionale come ad esempio Licata e Girgenti, godendo di fatto del più ampio consenso cittadino. Massimo esponente della signoria, Manfredi III può essere considerato promotore originale della rinnovata apertura internazionale per la potente famiglia palermitana. Egli seguì l’esempio dell’avo Giovanni II Chiaromonte, capace di saper cogliere importanti vantaggi da relazioni intrecciate con re Roberto d’Angiò, con la signoria veronese degli Scaligeri e perfino con l’imperatore Ludovico il Bavaro. Dalla metropoli palermitana infatti, eletta a centro del proprio potere, Manfredi III intratteneva rapporti diretti con la Santa Sede romana, con Napoli, Firenze, Genova, Pisa e Venezia. Per misurare il successo della signoria chiaromontana, credo sia importante sottolineare questa forte inclinazione mediterranea certamente ispirata dalla lunga tradizione monarchica regnicola ma soprattutto assimilata dalla naturale vocazione di Palermo, la felix urbs marittima, capitale dinamica e ambiziosa.
Sul terreno della propaganda ideologica, il Chiaromonte investì molto nel palesare a tutte le realtà sottoposte al suo dominio, Palermo in particolare, la netta discontinuità tra il potere signorile incarnato dalla sua persona e la monarchia siciliana: difatti, pur muovendosi come un autentico ‘principe’ non stabilì mai la propria residenza nel palazzo reale palermitano, tradizionale luogo simbolo della monarchia siciliana, che pure incontrastato avrebbe potuto occupare. Preferì invece ingrandire e magnificare il palazzo di famiglia, lo Steri, arricchendolo con architetture e pitture ammirate ancora oggi per rarità e bellezza: un unicum tra i grandi palazzi nobiliari della Sicilia trecentesca Sotto travi e architravi affrescate della celebre sala magna che tra gli altri raccolgono – non dimentichiamolo mai – gli stemmi araldici delle élites nobiliari regnicole, il visitatore dei nostri tempi avverte la sensazione di trovarsi alla corte di un sovrano; medesima sensazione provata dai visitatori del Trecento, ambasciatori stranieri, mercanti, cittadini, ricevuti in quella sala principesca. Maestosità tutt’altro che vanagloriosa se pensiamo non soltanto a quando il gran signore dello Steri si tolse il capriccio di umiliare addirittura un re, Federico IV, lasciandolo fuori le porte di Palermo impedendo fermamente al sovrano di entrare in città senza il proprio volere, ma principalmente a come negò ripetutamente a Federico IV la solenne incoronazione a Palermo l’antico cerimoniale dei reali isolani, mostrando alla Sicilia ed al mondo il proprio peso politico. Talmente vasto divenne il potere esercitato dal signore di Palermo che, già nel 1378, Artale Alagona preferì associarlo al vicariato, confermandogli il titolo di ammiraglio del regno, pur di scongiurare un sanguinoso conflitto con la famiglia leader del vecchio partito latino, sancendo di fatto il definitivo riconoscimento del dominio chiaromontano su civitates e terrae ormai gravitanti intorno a palazzo Steri.
A riprova di una tensione ad espandere la propria attività da parte del Chiaromonte, occorre considerare l’episodio della spedizione cristiana lungo le coste barbaresche, principalmente rivolta a riconquistare l’isola di Gerbe. A lungo appartenente al regno di Sicilia, Gerbe era stata donata da Federico IV a Giovanni III Chiaromonte solo formalmente poiché l’isola insieme alle Kerkenne divenne presto covo strategico della pirateria saracena in agguato sul Canale di Sicilia. Nell’agosto 1385, una prima spedizione tutta siciliana salpata da Palermo fallì miseramente; nel 1388 l’irriducibile Manfredi III ci provò ancora, questa volta facendo leva su rapporti influenti: con l’ufficiale benedizione di Urbano VI, impartita insieme al permesso di « crociata », Manfredi III riuscì a coagulare attorno alla sua persona una coalizione cristiana formata, oltre che dal signore di Catania, da veneziani, genovesi e pisani, tradizionalmente ostili tra loro ma disposti a porre le proprie galee sotto le insegne del gran signore di Palermo che muovendosi alla stregua di un principe, perpetrava le traiettorie dei sovrani siciliani che dall’epoca normanna in poi guardarono con certo interesse al dominio delle coste nordafricane
Tradizionalmente vicino alla corte angioina, Manfredi III consolidò l’alleanza con gli Angiò-Durazzo combinando nel giugno del 1390 le nozze tra la propria figlia, Costanza, e re Ladislao. Il matrimonio di una Chiaromonte con una casa regnante ci offre non soltanto un prezioso indizio del peso politico effettivamente raggiunto alla fine del Trecento, ma è segnale importante dei grandiosi scenari desiderati dal vecchio signore di Palermo. Il progetto di assicurare stabilità alla signoria dei Chiaromonte legandone i destini alla casa dei regnanti angioini rappresentava per Manfredi III il coronamento ultimo dei suoi ambiziosi programmi di affermazione signorile estesa ben oltre le zone della Sicilia già sottoposte a Palermo. Progetto il cui modello di riferimento sarebbe, almeno in parte, ispirato dalla fortunata affermazione delle ben note signorie statali peninsulari, che in più ricalcasse ideologicamente le fortunate parabole della lunga stagione normanna quantomeno nella sua traiettoria magrebina.
Questo atteggiamento assolutamente inedito per la Sicilia tardo medievale, si diceva, trova alcune similarità nel più ampio e variegato panorama peninsulare, dal quale tuttavia riscontriamo nette diversità se pensiamo al superamento proprio entro le universitates del regnum isolano di lotte degne di rilievo tra fazioni cittadine contendenti del primato sociale e politico intra moenia. E il pensiero non può non andare alla Roma di metà secolo XIV, lacerata al suo interno da partiti e fazioni, durante gli anni di esperimento signorile tentato senza successo da Cola di Rienzo
Contrariamente all’esperienza romana, prò, entro le città siciliane fu solo la parte legata ad un’unica famiglia dominante ad uscire assoluta vincitrice, riuscendo poi ad esercitare il controllo della vita pubblica attraverso reti clientelari, consenso politico e, non ultimo, il controllo sulle magistrature cittadine. A segnalare il gradimento verso tali governi, basti ricordare che il modello signorile siciliano non implose, come invece nell’esperimento romano, e nemmeno ebbe termine con la morte naturale della vecchia generazione, ma passò pressoché intatto ai vari successori designati per via testamentaria.
Nel 1387, per propiziare l’incremento di nationes mercantili in Sicilia, Manfredi III accordava protezione e speciali franchigie a tutti i veneziani residenti nel suo distretto, e anche dopo la scomparsa del signore dello Steri, questi rimasero ancora i principali fornitori insieme ai genovesi di armi e provviste alle città chiaromontane assediate dalle armate aragonesi. I grandi signori seppero dunque accogliere nelle città del regno i mercanti, attirando quindi capitali e merci provenienti dalle piazze del Levante o da empori inglesi e fiamminghi, per soddisfare sia la richiesta di articoli necessari alla stragrande maggioranza della popolazione sia lussi e stravaganze di cittadini danarosi. Non si può negare che sul finire del XIV secolo la Palermo dei Chiaromonte fosse una città mercantile in pieno fermento: piazza di scambio frequentata da operatori economici internazionali, fu vivace anche sotto il profilo della concorrenza internazionale, come ammette nel 1387 il mercator Gherardo Pacini, preoccupato perché i veneziani « vengono di Fiandra e qui ischaricano panni assai, che molto nocierà à panni di Firenze e agli altri ». Non possiamo stabilire con certezza quanto allo scadere del secolo fosse massiccia la frequentazione veneziana nell’isola, pari ad esempio a quella genovese o toscana. Ma stando alla testimonianza del Pacini, è assodato che in quelle occasioni in cui le imbarcazioni della Serenissima raggiungevano i porti siciliani le mercanzie dei veneziani procuravano disagi agli operatori economici di altre nationes, catalani inclusi. La vivacità degli scambi di beni di lusso è attestata innanzitutto dai provvedimenti regi adottati per regolamentare l’ostentazione dello sfarzo, o da testimonianze grazie alle quali sappiamo ad esempio che Artale Alagona era solito inviare dalla Sicilia in Catalogna preziosi « pannos de scarlatu et de serico ». Tessuti che già alla prima metà del secolo il mercante Francesco Balducci Pegolotti ritrovava frequentemente nei porti siciliani insieme ad altri articoli. Ma anche restando cauti nel rilevare l’affluenza di mercanzie di lusso nei porti siciliani, resta chiara la vivacità energica delle grandi città.
Possiamo solo immaginare la quotidiana attività di bottegai e tavernieri ad esempio palermitani i cui esercizi si affacciavano direttamente sul porto e nei vicoli circostanti; le banchine affollate da mastri d’ascia, carpentieri, marinai, schiavi, galeotti, prostitute, grandi e piccoli mercanti, grossisti, proprietari di strutture abitative adibite a ostelli o magazzini, creditori, usurai e notai; si concludono affari, si stilano contratti, girano lettere di cambio e moneta internazionale, ed insieme a questa trovano spazio anche l’arte e la cultura; gli stessi pauperes riescono a racimolare il necessario per sopravvivere prestando forza lavoro come scaricatori di porto. Come i cives, anche gli habitatores delle campagne trassero i loro benefici, recandosi nelle affollate piazze della città per vendere le eccedenze agricole dei campi. La prosperità attestata per i gruppi cittadini si traduce in capitali spesso reinvestiti in forma di terreni coltivabili, disponibili nel territorio attiguo alle grandi città o sparsi tra le realtà urbane minori; terreni che rappresentano così un prezioso sostentamento per quei contadini chiamati a lavorarli.
Anche tra gli ebrei di Sicilia non mancarono sentimenti positivi nei riguardi delle grandi signorie attente, dal canto loro, a non stravolgere antiche consuetudini concesse dai sovrani siciliani, principalmente in termini di giustizia. Durante la recuperaciò fra le comunità giudaiche era ugualmente sentita la simpatia all’una o all’altra fazione, favorevoli e contrari all’insediamento aragonese, non fosse altro per i rapporti finanziari istaurati con i grandi signori siciliani o per le novità introdotte dalla Catalogna, queste ultime non sempre accolte favorevolmente: il discorso vale ad esempio per l’ufficio del giudice generale per i giudei di Sicilia, di pertinenza regia, istituito a partire dal 1396 per dirimere le cause di diritto mosaico in sostituzione dei tribunali locali, sino ad allora attivi nelle singole comunità e quindi presenti anche nella stagione dei vicari.
Tutto questo fermento si conclude con Con la decapitazione di Andrea Chiaromonte: questo non significa la crisi della Kalsa. Gli aragonesi si rendono contro della sua trasformazione nel cuore pulsante dell’economia palermitana e siciliana e decidono di trasformare l’Hosterium in prestigiosa sede della corte aragonese, recuperando così la dimensione politica e simbolica che il quartire aveva nell’età araba.Il quartiere della Kalsa diviene il luogo privilegiato della politica, dell’economia, della finanza, della cultura. Grandi famiglie di aristocratici e imprenditori insieme a numerosi ordini religiosi innalzano palazzi, conventi, chiese lungo le strade di antica e nuova pianificazione, attuando forti investimenti in arte e architettura. L’arteria preferita diviene la via Alloro, storico asse del quartiere, dove si insedia la più facoltosa e intraprendente nobiltà cittadina.
January 28, 2022
La Vecchia di Giorgione
 
Uno dei quadri più fraintesi dal grande pubblico è la cosidetta Vecchia di Giorgione, dipinto a olio su tela (68×59 cm) ,che come tutti i quadri di questo pittore, ha una storia alquanto complicato: assieme a La Tempesta, questo dipinto apparteneva alla collezione di Gabriele Vendramin, anche se, stranamente, Michiel sembrerebbe non citarlo, benché l’opera appaia nell’inventario del 1528 della sua collezione, con il titolo di Testa di donna vecchia con un velo intorno al capo. Nel successivo inventario del 1569, fatto redigere da Luca Vendramin in occasione della trattativa di vendita – peraltro mai avvenuta – della collezione di famiglia al principe elettore Alberto V di Baviera, il quadro è citato come il ritratto de la madre del Zorzon, de man de Zorzon, cioè della madre di Giorgione, per mano di Giorgione, idea fantasiosa e romantica, che però, ci porteremo dietro per uno sproposito di tempo
L’ opera fu successivamente acquistata dal mercante Cristoforo Orsetti, che la ricorda nel proprio testamento del 1664 e quindi passò per eredità nella collezione del figlio di questi, Giovanni Battista. Solo successivamente, in data imprecisata, passò nelle raccolte Manfrin da dove, nel 1856, fu acquistata dallo Stato italiano insieme ad altri importanti dipinti. In seguito, senza una plausibile ragione stilistica, salvo per un lontano richiamo della donna ritratta con una vecchia effigiata nella Pala della Madonna e Santi nella Basilica di San Zeno, datata al 1520, del veneziano Francesco Torbido (1482 – 1562), il dipinto gli fu attribuito
Francesco che ebbe, come dire, una vita alquanto avventurosa: seconda quanto racconta Vasari, che però, diciamolo quando non sa le cose romanza assai, per sfuggire alle conseguenze di un feroce litigio, l’aretino lo definì
“alquanto manesco”
scappò in fretta e furia a Verona, nel 1500 quando aveva diciotto anni, per entrare poi nella bottega del miniatore Liberale di Verona: il problema è che, come sempre accade con Giorgione, le date stridono. Se il pittore di Castelfranco, come appurato è nato nel 1474, il racconto di Vasari implica che a vent’anni, da esordiente, la sua bottega era già così avviata, da potersi permettere un apprendista, il che, dagli altri dati biografici che abbiamo, sembrerebbe esagerato. Francesco, che ricordiamolo è uno dei più abili ritrattisti del primo Cinquecento, probabilmente avrà studiato a fondo l’arte di Giorgione in un secondo momento.
Comunque l’attribuzione a Francesco durò nel tempo, tanto che l’opera fu a lungo ignorata, finché Gino Fogolari (1875 – 1941) che vi identificò il presento ritratto della madre citato nell’inventario del 1569 dei beni di Gabriele Vendramin, committente della Tempesta, n cui è anche scritto che il fornimento, ossia la cornice, reca dipinta l’arma de cà Vendramin, le cui tracce effettivamente si notano sulla cornice dell’opera. Agli nizi del Novecento, quindi, iniziarono a proporsi le prime ipotesi di attribuzione a Giorgione, ma solo nel 1949, però, il dipinto fu definitivamente riconsegnato a Giorgione, e fu comprovato tutto dopo il restauro del 1949, considerate la preziosità della coloristica e l’alta carica umana della vecchia effigiata, accentuata ulteriormente dal nuovo restauro.
Cosa rappresenta il quadro ? Su uno sfondo scuro, dietro un parapetto, si vede una donna anziana ritratta a mezza figura di tre quarti, voltata a sinistra. Essa guarda lo spettatore e con un’intensa espressione di dolore dischiude la bocca e sembra rivolgergli delle parole, quelle che sono scritte sul cartiglio che essa tiene in mano: “Col tempo”. La donna indossa una berretta bianca floscia, che lascia scoperto un ciuffo di capelli grigi, e una veste rosata, oltre a un panno bianco con frange sull’orlo, appoggiato sulla spalla. Interessante è la doppia rotazione, del busto verso sinistra e della testa verso destra, che dà una particolare intensità all’effigie, e il gesto della mano destra, appoggiata al petto come durante il mea culpa.
Tutto converge nel volto sofferente della donna, la bocca socchiusa con un’intensa espressione come per parlare, lasciando intravedere la lingua dietro la dentatura irregolare; il naso è carnoso, la pelle incartapecorita e segnata dalle rughe e gli occhi, lucidissimi, inchiodano quelli dell’osservatore. Effetto accentuato dalla tecnica pittorica di Giorgione, che creò l’immagine per campiture cromatiche dense e materiche, senza contorni netti e senza un disegno sottostante, direttamente sulla tela, con estrema libertà. Ciò porta una voluta mancanza di uniformità nella stesura, ben visibile a una distanza ravvicinata, che crea un’opera di straordinaria modernità.
Che rappresenta il quadro ? Ovviamente non è un ritratto della madre del pittore, anche se lei o una sua vecchia balia potrebbe avere fatto da modella. Tenete conto che il restauro, oltre a recuperare i valori cromatici originali, ha recuperato i lineamenti originali della figura, che gli interventi precedenti avevano alterato: per ragioni puramente ‘estetiche’, avevano infatti accentuato l’età della donna, che appariva sporca (l’incarnato era di un improbabilissimo color tabacco) e rugosa (una ‘Vecchia’ non può che essere tale).
Ora, Giorgione non dipendeva per sè, ma per il committente che pagava: per cui il quadro avere significato soprattutto per Gabriele Vendramin, che come abbiamo visto per la Tempesta era fissato per allegorie di ogni genere e risma. Ciò è testimoniato dall’inventario Vendramin del 1601, si desume che La Vecchia fosse conservata con una “coperta” (o che serviva a tale scopo), raffigurante un’effige maschile: il dialogo tre le due figure doveva quindi rappresentare il senso compiuto del quadro. Allo stata attuale, avendo solo uno dei due termini della rappresentazione, possiamo limitarci soltanto a considerarla una meditazione sulla Vanitas e sul Tempo, che consuma ogni cosa, donando però la saggezza.
L’opera, come tutte quello dello stesso periodo, rappresenta una meditazione sui principali riferimenti artistici di Giorgione dell’epoca: Leonardo, si noti la somiglianza tra la Vecchia e l’apostolo Filippo all’interno del Cenacolo di Santa Maria delle Grazie, Bosch con il suo espressionismo e Dürer che al Ritratto di giovane di Dürer di Vienna che aveva sul retro una figura di anziana donna con un sacco di monete. Probabilmente Giorgione incontrò l’artista tedesco durante il secondo soggiorno di Durer a Venezia (1505-1507) e quindi in questa circostanza ne avrebbe potuto fornire il prototipo, poiché il pittore tedesco lo teneva con sé durante il suo secondo viaggio a Venezia. Se ciò fosse vero, ma è solo un’ipotesi, allora la Vecchia di Giorgione potrebbe essere datata intorno al 1508. Se invece l’opera di Giorgione fosse precedente, attorino al 1506, allora il modello iconografico sarebbe dato dal pittore veneto e da lui sarebbe nato un vero e proprio tema motivo iconografico.
Alcuni studiosi, tra l’altro, ipotizzano che il quadro fosse visto opera da Michelangelo di passaggio a Venezia, che ne rimase colpito e la tenne a mente quando creò le figure espressive delle Sibille nella volta della Cappella Sistina: anche questo caso le date non coincidono. Sappiamo che Michelangelo fece due soggiorni veneziani: uno nel 1495, uno nel 1529. Nel primo, la Vecchia era lungi dall’essere dipinto, nel secondo, la Volta era stata completata da parecchio
January 27, 2022
Presidiare il passato per difendere il futuro
Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato.
George Orwell– 1984 (1949)
Oggi ricorrono i 74 anni dell’arrivo ad Auschwitz dei soldati dell’Armata Rossa e la scoperta di ciò che il Terzo Reich aveva significato per milioni di ebrei. Sei milioni, per l’esattezza. Oltre che per un numero inferiore ma comunque rilevante di prigionieri sovietici (almeno due milioni), polacchi non ebrei (circa due milioni), slavi (1-2,5 milioni), dissidenti politici (1-1,5 milioni), zingari (forse mezzo milione), omosessuali (5-15 mila), disabili e portatori di malattie mentali (duecentomila). Secondo stime variabili, un numero compreso tra i 12 e i 17 milioni di vittime furono sterminate con un’applicazione sistematica. E l’incertezza delle stime serve a rendere ancora più terribile l’orrore, per quanto possibile, conferendo alle proporzioni dell’Olocaustoun ulteriore livello di atrocità: quello che è toccato a chi si è visto cancellare dalla grande tela della storia…
View original post 1.496 altre parole
Alessio Brugnoli's Blog
 

 
   
  
