I colori nel Medioevo

Può sembrare strano, perchè noi siamo stati abituati a pensarla come un’epoca grigia e smorta, ma il Medievo era il trionfo del colore: per rendersene conto, basta leggere le splendide pagine che dedica al tema Huizinga nei suoi saggi. Il colore in quei secoli aveva un triplice significato: di costruzione di un’identità , perchè classi, ceti, famiglie, corporazioni, ognuno di questi corpi sociali era associato a una combinazione cromatica, che i suoi membri, per identificarsi, indossavano con orgoglio. La città si distingueva dalla campagna, basti pensare ai dipinti di Giotto e di Lorenzetti, perchè era il trionfo del colore, che si contrapponeva al grigiore degli abiti dei contadini e dei monaci.

Aveva un valore religioso, dato che per i teologi, che fossero seguaci di Platone o di Aristotele, ritenevano accentuassero il valore simbolico della luce e della bellezza interiore, fino ad essere considerati emanazione divina, secondo le tesi filosofiche della patristica medioevale. Ugo di San Vittore scriveva

“Riguardo al colore delle cose non è necessario discutere a lungo, poiché la stessa vista dimostra quanta Bellezza aggiunge alla natura, quando essa è adornata di tanti e diversi colori”.

Psicologico, perchè, associati a un opportuno codice interpretativo, permettevano di comunicare in maniera immediata ed efficace le proprie emozioni all’interlocutore. Il colore, con i suoi contrasti, era pervasivo: riempiva le opere d’arte, gli edifici, i vestiti, i cibi. Ricchissimo di valenze e significati era il colore blu. Simbolo di spiritualità, trascendenza e regalità, è il colore che caratterizza il manto della Madonna e spesso contrassegnava gli appartenenti alle classi nobili.

Ad esempio, così lo definiva Cennino Cennini

Azzurro oltramarino si è un colore nobile, bello, perfettissimo oltre a tutti i colori; del quale non se potrebbe né dire né fare quello che non ne sia più

Il più noto di questi nuovi pigmenti era il blu oltremare, ottenuto dal minerale blu lapislazzuli. Già usata come ornamento dagli Egizi questa pietra si trova soprattutto in Oriente, principalmente in Afghanistan, dove è stato individuato un rozzo oltremare in pitture murali risalenti al VI e VII secolo, mentre in area italiana il blu oltremare era usato prevalentemente tra il XIV e il XVI secolo. Nel 1827 sarà sostituito dalla sua versione artificiale

Il nome conferma che il pigmento doveva essere importato da molto lontano; nel 1464 Filarete scrisse nel suo Trattato di architettura:

“Il blu più bello è ricavato da una pietra e proviene da terre al di là dei mari”

La distanza e il difficile procedimento preparatorio lo resero molto costoso e, quindi, anche molto apprezzato. È un blu intenso dotato di una sfumatura violacea; spesso veniva usato in miscela con biacca e lacca rossa e presenta un discreto potere coprente e si può impiegare nell’affresco, nella tempera nell’olio e nell’encausto. Il suo surrogato era l’azzurrite,già usato dai Romani (Plinio lo chiamava “Lapis armenius”), in Inghilterra era conosciuto come “azzurro d’Alemanna”, mentre i tedeschi lo indicavano come Bergblau, “l’azzurro montagna” largamente usato da Durer. Per riconoscere il vero blu oltremare c’era, però, un metodo: si doveva scaldare la pietra e, se era azzurrite, diventava nera per la perdita di anidride carbonica e acqua; il blu oltremare, invece, resisteva; questo perchè la differenza del costo favoriva le frodi e qualche pittore certo venne imbrogliato: ad esempio si pensa che Durer, a volte abbia usato azzurrite credendo che fosse oltremare.

Nelle normali condizioni ambientali è piuttosto stabile, ma ha tendenza a diventare verde nelle pitture murali sotto l’azione dell’umidità o di altri agenti atmosferici. In pitture murali veniva usata a secco su fondo grigio o morellone; l’azzurrite pura, unita a giallorino o ocra, veniva usata anche per realizzare dei verdi mentre veniva unita a lacca rossa per ottenere un colore viola. Macinata molto, finemente, l’azzurrite produce una tonalità di celeste pallido con una punta di verde, adatta per i cieli, ma molto meno bella della corposità purpurea dell’oltremare. Per una tonalità più scura bisogna macinarla in modo più grossolano, e questo rende il pigmento difficile da applicare e un po’ traslucido; era necessaria quindi una colla animale, piuttosto che una tempera all’uovo, perché queste particelle più grosse si amalgamassero bene, inoltre erano necessarie parecchie mani per ottenere un colore coprente saturo. Il risultato poteva essere molto bello, perché ogni granello riluceva come un microscopico gioiello.

Ancora più economico, come blu, era l’indaco, pigmento organico di derivazione vegetale, utilizzato soprattutto per tingere le vesti. In pittura è usato come sottofondo per altri azzurri e anche nella miniatura. Cennino Cennini ne Il libro dell’arte lo chiama indaco baccadeo perché, durante il Medio Evo, questo prodotto, realizzato in India, giungeva in Europa passando per la città di Baghdad (principale centro di smistamento verso l’occidente). Ha un notevole potere colorante, ma un basso potere coprente e, probabilmente per questo motivo, Cennino Cennini lo descrive con notevole frequenza in miscela con biacca o bianco San Giovanni.

Tipicamente veneziano, come utilizzo, era invece lo smaltino, un sottoprodotto delle vetrerie di Murano. Era usato in tutte le tecniche, prevalentemente nell’affresco e nelle pitture da cavalletto prima su tavola e poi su tela dagli inizi del XVI secolo, ma forse anche prima. Ha uno scarso potere coprente e viene macinato grossolanamente per mantenere il colore.

Il Porpora, in ricordo delle vesti imperiali romane, era associato alla regalità: il problema è che nel Medievo, per gli effetti dell’invasione araba, la materia prima del colore, il murice di Tiro, un mollusco che si pescava in Fenicia, non era più disponibile e si era persa memoria della sua alternativa usata dai romani, il buccino, un parente del murice che vive nella Manica. Per cui si utilizzavano due surrogati vegetali: il primo era il tornasole, in latino fllium, estratto dalla pianta detta “morella” identificata con la Chrozophora tinctoria, originaria della Francia meridionale e chiamata Maurelle in Provenza. Il nome latino fllium può derivare dall’abitudine di conservarlo impregnandone dei pezzi di stoffa, che venivano poi collocati tra le pagine (folia) di libri; tornasole invece deriva da torna-ad-solem, “volgiti verso il sole”, una caratteristica della pianta da cui si ricava la tintura. Per estrarre la sostanza colorante, i semi venivano strizzati, il tessuto veniva imbevuto nel succo ricavato e fatto asciugare finché ne era impregnato. Inumidendone un pezzo con acqua o albume, ne usciva il prodotto finale trasparente, un colore che era molto apprezzato per miniare i codici. Il secondo, invece, era invece un colore estratto da un lichene chiamato Oricello (Roccella tinctoria).

Anche il rosso era associato alla regalità, essendo il colore del porfido, la pietra associata agli imperatori bizantini, che nascevano, per tradizione, in una stanza foderata con quella pietra. Associato al associato al sangue, al fuoco e alla passione, era considerato una sorta di talismano contro il male: non è inusuale notare negli affreschi medievali delle collanine di corallo rosso, spesso poste ad adornare il collo di paffuti bambinelli, aventi lo scopo di allontanare le malattie e proteggere il neonato.

Uno dei pigmenti più costosi era derivato dal cinabro, ottenuto, ai tempi dei romani per macinazione del minerale (estratto soprattutto in Spagna). Dalla letteratura tecnica desumiamo che in epoca medievale al posto del minerale naturale si usava il cinabro di sintesi (vermiglione, che presenta la medesima formula chimica del cinabro). Il metodo per ottenere il vermiglione è stato probabilmente inventato in Cina nei primi secoli dell’età cristiana e pervenne in Europa attraverso il modo arabo intorno all’VIII secolo. Alternative minerali era il minio e il bolo: il primo era ottenuto ottenuto artificialmente riscaldando a 480°C sali di piombo o calcinando la biacca. Ha un colore rosso tendente all’aranciato e presenta un ottimo potere coprente. È alterato dall’acido solfidrico per formazione di solfuro di piombo (PbS, nero), non molto stabile alla luce e all’aria; nelle pitture murali in climi umidi si trova spesso ossidato a PbO2 di colore bruno. Il secondo era un’un’argilla di colore rosso più o meno intenso per la presenza di sequiossido di ferro. È molto usato in epoca medievale. Il bolo più noto veniva dalla Persia o dall’Armenia; il bolo armeno veniva usato come sottofondo per le dorature in pittura. È stabile alla luce, ma non all’umidità.

Le alternative al cinabro, altrettanto costose, di natura vegetale o animale, erano le lacche, rese stabili da reso stabile da una base di tipo minerale, in genere allume di Rocca. Erano brillanti, quasi trasparenti e prodotti sottoforma di pasta quasi gelatinosa oppure fatta seccare e polverizzata. Le sostanze vegetali erano considerate meno affidabili per la loro instabilità alla luce. Le lacche più pregiate erano di derivazione animale e ricavate soprattutto da insetti dette coccidi, diffusi nell’area mediterranea, oppure importate dall’India o dall’America centrale. Si usavano per la tintura di tessuti e avevano diversi nomi: chermes o grana, gomma lacca, cocciniglia messicana. La lacca fina o finissima, la più pregiata, per secoli era usata per tingere tessuti in scarlatto. Il ricorso della lacca di Robbia era molto diffuso nella scuola fiamminga tra XV e XVI secolo. Dalle radici di Robbia si otteneva un colorante rosso e, trattato con allume di Rocca, si otteneva una lacca di ottima qualità.
La sinopis di Plinio, un ocra rosso spento proveniente da Sinope sul Mar Nero, diede luogo al termine medievale sinopia, che poteva valere sia per rosso che per verde, che serviva a tracciare i disegni preparatori degli affreschi.

Nell’Inghilterra e nella Francia medievali un altro pigmento che portava il nome latino di sinopis era invece una lacca rossa composta di «robbia e gomma … brasile e lacca». Questa sostanza divenne popolare nel XIV e XV secolo, però quando Cennini parla di sinopia, si riferisce a un minerale, dicendo che è «un color naturale», noto anche come “porfido”; inoltre chiama “cinabrese” la migliore e la più bella sinopia ottenibile, aumentando così la confusione col cinabro.

Per l’artista medievale l’oro, simbolo del divino, era un colore a pieno titolo. Veniva applicato alle tavole stuccate in lamine sottili, dette foglie. Gli artigiani del Medioevo si fabbricavano la foglia d’oro martellando delle monete, riducendole in lamine sottilissime. Gli artigiani specializzati in questo lavoro, i battiloro, fino al XX secolo misuravano il peso della foglia d’oro sulla base del ducato, moneta d’oro dell’Italia medievale: lo spessore era determinato dal numero di foglie (ognuna di circa 8,5 cm2) ricavate da un unico ducato. Anche il minimo velo di umidità era sufficiente per far aderire queste foglie sottili praticamente a qualsiasi superficie. Albume, gomma, miele e succhi vegetali erano usati per applicare le foglie d’oro alle pergamene dei manoscritti; venivano chiamati “mordenti all’acqua”, ovvero sostanze solubili in acqua che mordenzavano (mordevano o fissavano) l’oro.

La foglia d’oro mordenzata si adattava a tutte le irregolarità della superficie sottostante, facendole diffondere la luce, quindi il risultato appariva di un giallo opaco piuttosto piatto. Solo se la superficie veniva lisciata (brunita), strofinandola con un oggetto duro, riacquistava lo splendore riflettente del metallo; a questo scopo era spesso usata una pietra arrotondata oppure un dente. Brunire, significa letteralmente rendere bruno, poiché scurisce l’oro nelle parti in ombra, mentre rende più brillanti quelle in luce «allora l’oro viene squasi bruno per la sua chiarezza», spiega Cennini. Non tutto quest’oro era steso in forma di foglia: veniva anche usato in polvere; ma essendo un metallo tenero e duttile, pestarlo nel mortaio tendeva più a fondere assieme le particelle che a frantumarle. Eraclio raccomanda di lavorarlo nel vino, mentre Teofilo fornisce, la descrizione di un attrezzo per macinare la foglia d’oro in acqua.

La convinzione degli alchimisti che i metalli non fossero che miscele di ingredienti di base sempre uguali era suffragata dall’osservazione che l’oro può essere amalgamato al mercurio. Questo amalgama è una pasta malleabile, avvolta in un pezzo di tela e strizzata per togliere il mercurio in eccesso, diventa dura e fragile, adatta a essere macinata. Col calore il mercurio vaporizza, lasciando oro in polvere, purché si faccia attenzione a non raggiungere una temperatura tale da provocare la fusione dei granelli d’oro. Una tecnica alternativa era battere l’oro fino a ottenerne un foglio sottilissimo, che veniva poi macinato con miele o sale per evitare che le particelle d’oro si saldassero assieme. Come il surrogato dell’oro, “oro musivo”, o aurum musaicum (in latino medievale), pare fosse usato come falso oro nella doratura delle pergamene, un misto di argento e stagno e l’orpimento, il velenosissimo solfuro di arsenico. Proprio la pericolosità dei pigmenti associati al giallo, lo connotava in maniera negativa nell’immaginario medievale: con questa tonalità venivano realizzate le vesti degli ebrei, dei musulmani e dei traditori.

L’orpimento e il realgar, un altro minerale del solfuro di arsenico, il nome deriva dall’arabo Rahj al ghar, “polvere di caverna” ed è citato da Plinio il Vecchio, erano estratti soprattutto nelle attuali Macedonia e Ungheria, Asia Minore e Asia centrale. Un’alternativa minerale, altrettanto velenosa, era il giallorino o giallolino, nome che indica tre diverse tipologie di pigmenti. Il primo è il Giallo di Napoli, Giallo di Napoli può essere ottenuto per calcinazione del litargirio, di sali di ammonio, di allume e di antimoniato di potassio. Questo pigmento era conosciuto sin dai tempi di Egizi e Assiri. È stato usato in tutte le tecniche pittoriche per la brillantezza del colore, particolarmente dalla fine del Medioevo. Presenta un elevato potere coprente ed è stabile a luce ed umidità. Il secondo e il terzo sono gialli a base di ossido di piombo e stagno. Si distinguono in due tipi: ossido di piombo e stagno tipo I e stannato di piombo tipo II. Compaiono all’incirca nel XIII secolo e, nei due secoli successivi, si presenta prevalentemente nella forma II traendo origine dalla pratica vetraria. Dal XVI secolo il tipo due cade progressivamente in disuso, tranne che in alcune aree (Venezia e Boemia). Entrambe le forme sarebbero scomparse dall’uso all’incirca nel XVIII secolo, perché da allora viene usato il giallo di Napoli ottenuto sinteticamente. Si altera e annerisce a contatto con i solfuri; ha elevato potere coprente ed è stabile a luce e umidità. È stato usato nelle tecniche ad affresco, a tempera e a olio.

Cennini dice esplicitamente che l’alchimia fornisce una lacca gialla che chiama «arzica» estratta dalla guaderella, Reseda luteola detta anche “erba dei tintori”, veniva coltivata per la sua tintura gialla ancora nel XX secolo ed era particolarmente apprezzata per tingere la seta. La lacca gialla ottenuta dalla guaderella poteva essere brillante e abbastanza coprente, un buon sostituto dell’orpimento, senza provocarne le temibili conseguenze. Ma Cennini non ne è entusiasta, afferma che l’arzica «poco s’usa» e ha un «color sottilissimo [che] perde all’aria».

Il colore verde alludeva alla follia e spesso veniva adoperato per ritrarre il diavolo e gli spiriti maligni, oppure i buffoni. Spesso la suddetta tonalità veniva indossata dai mercanti, dai banchieri e dai membri delle loro famiglie; inoltre, era associata ai concetti di fecondità e fertilità. Il principale pigmento minerale e più costoso era la malachite. Non ha un elevato potere coprente, soprattutto se il legante è oleoso. Si conosce il suo impiego da parte di Egizi, Greci, Romani, Bizantini fino al XIX secolo. È stabile all’azione della luce, ma non agli agenti atmosferici; si decompone in acidi e tende a scurirsi se mescolata a pigmenti contenenti solfuri. È stata usata in tutte le tecniche pittoriche tranne nella pittura a fresco. Anticamente veniva usata nella pittura a tempera su muro sopra una base rossa di morellone o nero di vite. Carbonati di rame prodotti sinteticamente sono riscontrati prevalentemente in dipinti di scuola veneta anche nel XVI secolo. Le alternative minerali erano il verde rame e la terra verde. Il primo era era conosciuto sin dal tempo di Egizi, Greci e Romani. Era ottenuto esponendo lastre di rame a vapori di aceto; è scarsamente stabile a luce e umidità. Era usato nella tempera, nella pittura ad olio e nelle opere miniate; era sconsigliato per l’affresco a causa dello scarso potere coprente. Per ovviare allo scarso potere coprente gli artisti ne aumentavano la corposità miscelandolo con la biacca.

Le terre verdi più famose e pregiate erano quella di Verona e quelle provenienti dall’Europa centro–settentrionale (verde boemo e verde d’Alemagna). Dato il basso costo per ottenerlo, le varietà di migliore qualità erano utilizzate anche in sostituzione del verde malachite. Era conosciuto sin dai tempi di Greci e Romani e usato anche durante Medioevo, Rinascimento fino al XIX secolo. È stabile alla luce e all’umidità; è stato usato in tutte le tecniche pittoriche. Nella pittura italiana fu usato come sottofondo per gli incarnati (verdaccio). Dal XVII secolo veniva usato anche nella pittura ad olio e, in questo periodo, si scoprirono lucentezza e brillantezza di questo pigmento. Ha una notevole resistenza all’aria e alla luce.

Paradossalmente, molto più costose erano le lacche di origine vegetali, ottenuta dalla pianta dello zafferano (Crocus sativus) e da altri crochi; mescolato con albume, lo zafferano produceva un giallo intenso puro e trasparente; miscelato con l’azzurrite forniva un verde vibrante. Cennini afferma che una miscela di zafferano e verderame produce

un colore più perfetto che si truova in color d’erba

Il verde iris, ottenuto dal succo di queste piante, mescolato con acqua e forse con un addensante come l’allume, veniva usato per miniare manoscritti. Questo, come il fllium e la guaderella, sono colori provenienti dai prati e non dalle miniere, e quindi facilmente accessibili per il monaco diligente, come osserva Eraclio:

Colui che desidera trasformare i fiori nei vari colori richiesti dalla scrittura della pagina di un libro, deve vagare nei campi di grano alla mattina presto, e allora troverà vari fiori appena sbocciati

Il bianco, nell’immaginario medievale, ha un valore ben diverso da quello moderno, essendo associato alla morte e al lutto: bianchi sono i sudari e le bende che avvolgono i defunti. Conseguentemente diventa anche il colore di chi si appresta a mutare condizione, a transitare fisicamente o spiritualmente da una fase all’altra della vita. I valori di lusso, eleganza come quelli di lutto che, ai giorni nostri, si associano al nero, nell’Italia medievale erano sconosciuti: era infatti associato all’umiltà e di conseguenza alla pazienza, temperanza nel dolore, morte, penitenza e quindi associato alle vesti dei religiosi.

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Published on February 03, 2022 01:47
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Alessio Brugnoli
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