L’assedio di Mozia (Parte II)

Il nuovo terrapieno, nella cui costruzione erano state impegnate le legioni del Dionisio durante la sua temporanea assenza, era a questo punto completato, e, da ciò che si può arguire era più di un molo ordinario o un semplice accesso. Si può immaginare che diventasse più largo all’approssimarsi dell’isola, fino a diventare un argine abbastanza ampio o una banchina che permettesse il trasporto di numerose macchine da guerra, di cui, si legge, faceva parte l’equipaggiamento dell’esercito siracusano e lasciasse uno spazio sufficiente di manovra. Si potrebbe qui osservare che il litorale lungo la costa settentrionale di Mozia è particolarmente basso, e che, con l’abbondante numero di uomini che Dionisio aveva a sua disposizione, si può anche pensare che la costruzione di tale argine o banchina non sarà stata una impresa estremamente ardua. Portate le truppe ed i potenti armamenti nei pressi delle mura della città, cominciò l’assalto dei greci scagliando gli arieti contro i bastioni e le fortificazioni, mentre le torri mobili e le altre macchine da guerra riversavano i loro proiettili mortali sugli strenui difensori, portando morte e distruzione da ogni parte.

I moziesi, nonostante sapessero adesso di essere soli e senza più possibilità di invio di rinforzi da parte degli alleati, tuttavia non si demoralizzarono e spedirono dinanzi all’attacco nemico i loro guerrieri protetti da armatura di metallo, posizionandoli sopra degli alti alberi appositamente piantati in punti strategici del perimetro assediato. Gli uomini moziesi da quell’altezza lanciarono delle stoppe imbevute di pece sopra le torri d’assedio dei nemici, che si muovevano su ruote, anche se erano un’invenzione recente, erano state costruite in questa occasione ad una altezza eccezionale, sei piani, e misuravano quanto le più elevate case moziesi contro cui vennero usate, poi vi gettarono delle torce di fuoco per cercare di bruciarle. Il loro stratagemma funzionò, infatti i sicelioti furono costretti a spegnere i vari incendi scoppiati sulle macchine d’assalto. Ma ciò non fu sufficiente a fermare l’attacco dell’esercito dionisiano, il quale prontamente batteva nuovamente con gli arieti sulle mura, fino a quando parte di queste cedettero e si aprì una pericolosa breccia per i moziesi

Così almeno racconta Diodoro Siculo: però probabilmente la realtà, a osservare lo Stagnone, poteva anche essere stata differente. Un po’ più ad ovest dell’accesso settentrionale a Mozia, oggigiorno si vede un plateau roccioso di considerevole estensione. La sua superficie lambisce l’acqua quando questa è al suo livello ordinario ed è notevolmente piatto e levigato, a tal punto da dare l’impressione di essere stato livellato artificialmente, anche se non vi è nulla che lo provi. Può darsi che questo plateau di roccia, apparentemente naturale, sia stato utilizzato dagli assedianti nel loro attacco alla città. Le mura di cinta nelle sue vicinanze non sono resistenti quanto in molte altre parti, ed in un punto mostrano i segni di quello che pare la breccia aperta dai Siracusani

A differenza di quanto racconta Diodoro, dai reperti archeologici parrebbe che l’attacco su Mozia sia stato soprattutto sferrato in questo limitare nord dell’isola ed in prossimità del molo, con i suoi argini, naturali o artificiali, da entrambe le parti. Senza dubbio questa era la sola cosa da aspettarsi perché qui si trovava l’ingresso principale alla città, il grande accesso a nord, nelle cui prossimità si trovavano presumibilmente le case principali ed altri edifici di importanza.

Abbiamo prove certe dei feroci combattimenti che ebbero luogo in luoghi diversi lungo questa parte di costa attraverso la grande quantità di dardi e punte di frecce che sono stati trovati nel terreno e tra i resti delle rovine. Nello stesso tempo, comunque, anche se non ne abbiamo notizia, è anche possibile che altri attacchi siano stati sferrati pure in altre parti della città. Abbiamo infatti prove di ampi preparativi che sono stati eseguiti per difendersi da questi, nelle opere fatte per barricare l’accesso a sud e l’ingresso al Cothon adiacente ad esso.

Il Cothon era un bacino idrico utilizzato all’interno dei porti fenici. Il suo uso, ancora non chiarito da un punto di vista archeologico, rimane sconosciuto: si crede sia stato un luogo di ricovero per le navi da riparare, oppure un bacino artificiale legato a culti locali. Nel caso del Cothon di Mozia, in Sicilia, si tratterebbe di un bacino orientato secondo i punti cardinali, di dimensioni 35,7m x 52,5m e disassato rispetto agli altri monumenti; l’orientamento sarebbe uguale in tutte le fasi, con nell’ultima fase anche elementi egiziani ed una terracotta mutila di cinocefalo, un animale che saluta il Sole. Il Tempio situato nelle vicine, a cui sarebbe collegato, è molto simile al Tempio di Astarte di Kition, a Cipro. L’ingresso è rivolto verso l’area sacra, e le stele del tofet mostrano una schematizzazione di un portale con dentro un betilo. Inoltre il pozzo del tempio sarebbe simile a quello del Tempio degli Obelischi di Biblo.

Nel 1985 Sabatino Moscati identificava una stele al centro della Porta Sud, ipotizzando che si trattasse di una stele portata dal tofet, anche se la teoria oggi viene messa in discussione. Sul lato nord del Cothon di Mozia è stata individuata una polla d’acqua dolce. Secondo le ipotesi di Lorenzo Nigro, ma personalmente sono sempre abbastanza scettico alle elucubrazioni dell’archeo astronomia, durante il solstizio d’inverno e l’equinozio di primavera a 110° sorge la costellazione di Orione (identificata nell’antichità come il dio Baal), per cui è possibile ipotizzare che si trattasse del Tempio di Saturno (come a Nora) o del Tempio di Eshmun (come a Dougga).

Tornando al nostro assedio, anche se la zona del Cothon fosse stata oggetto di attacchi attacchi hanno avuto luogo, probabilmente sono stati meno intensi di quelli effettuati nel nord della città. Tra l’altro, ad oggi non vi sono tracce le quali dimostrano che vi sia stata una strada intorno all’isola, attraverso cui siano stati trasportati gli arieti e le torri mobili dei Siracusani, né, d’altro canto, il passaggio attraverso l’accesso a sud mostra segni di un uso per il traffico a ruote, il che lascia molti dubbi, ma ne parleremo la prossima settimana sull’effettivo utilizzo delle torri d’assedio da parte di Dionisio; potrebbe essere un aneddoto, utilizzato da Diodoro, per infiocchettare la storia e renderla più interessante.

A prima vista può apparire strano che non sia stato sferrato su Mozia nessun attacco per mare da alcuna parte, soprattutto considerando la flotta che Dionisio aveva condotto con sé; ma è molto probabile che la scarsa profondità delle acque intorno all’isola possa essere apparsa come uno ostacolo serio ed imprevisto a tale impresa, ed abbia precluso l’attuazione del tentativo. Aperta la breccia possiamo immaginare cosa sia passato nella testa sia degli attaccanti, sia dei difensori.

I primi credevano che la città era già in mano loro e che incalzavano attraverso il varco effettuato dagli arieti; i secondi, pronti a difendersi con le unghie e con i denti, per tentare di allontanare l’orribile sorte di vedere i loro cari – donne e bambini – venduti come schiavi dai vincitori. Tuttavia, la situazione dei moziesi non era sostenibile: per cui, abbandonarono la difesa delle mura esterne e chiusero con barricate improvvisate le vie d’accesso verso l’interno della città. Poi si diressero verso le case e gli edifici adiacenti alle mura, che, a quanto pare, erano stato costruiti per fungere da una seconda linea di difesa interna. Lo spazio esistente tra questa cerchia di case e le mura era talmente stretto, da impedire ai siracusani l’uso sia degli arieti, sia delle torri d’assedio.

Per cui, si combatteva su due livelli: sulla strada, nel tentativo di sfondare le barricate e in alto sui tetti a terrazza delle case e nei piani superiori degli edifici, su cui, sfruttando le scale, i siracusani cercavano di salire ed entrare, sfruttando le finestre. Assediati e assedianti si ritrovarono quindi a lottare corpo a corpo, con gravi danni per entrambi gli schieramenti. Diodoro narra che essi cadevano giù dai tetti; cadevano già morti oppure morivano successivamente nelle strade, per le gravi ferite riportate. I siracusani rinnovavano l’attacco ogni giorno e tornavano nei loro alloggi di sera, quando veniva suonato dalle trombe il segnale della ritirata.

Questi aspri combattimenti durarono per giorni, preoccupando Dionisio, che si aspettava un successo molto più semplice: il tiranno era consapevole che ogni giorno perso e ogni soldato ucciso era un regalo che faceva a Cartagine, che sta per organizzare una prossima controffensiva. Per cui, decise di cambiare tattica, ricorrendo all’inganno. Non essendo riuscito a soverchiare le forze dei Moziesi di giorno in un combattimento aperto, decise di conseguire il suo intento di nascosto di notte. Un drappello di soldati scelti, sotto il comando di un tale Archylus, un Tirio, fu inviato nel cuore della notte allo scopo di rendere possibile l’ingresso in città o piuttosto nella parte interna della città, nella quale, evidentemente, i Greci non erano ancora riusciti a penetrare.

I Moziesi, abituati ormai alla guerriglia di giorno, seguita regolarmente da un riposo indisturbato di notte, non prevedendo per il momento alcun cambiamento, avevano allentato, senza dubbio, la sorveglianza e così furono colti di sorpresa. Archylus, col suo manipolo di seguaci, riuscì, per mezzo di scale d’assedio, ad arrampicarsi sulle costruzioni semidiroccate e ad assicurarsi alcuni punti di forza che permisero l’accesso alla sua pattuglia ed ai grandi rinforzi che Dionisio teneva pronti a seguirli. Così l’esercito greco, all’alba riuscì a penetrare nella cerchia interna.

I moziesi, che disperatamente avevano trasformato le proprie abitazioni in trincee, furono assaliti dall’invasore, spinto dalla sete di vendetta, che compiva massacri inauditi.I sicelioti furono i più feroci durante l’invasione: essi ricordavano il terribile trattamento ricevuto dai punici quando le loro città vennero assediate e distrutte Dionisio fermò l’eccidio gridando ai suoi soldati di smetterla con il massacro dei cittadini, poiché egli doveva venderli come schiavi e non decimarli sul campo di battaglia, perchè le finanze di Siracusa erano ridotte ai minimi termini e non avrebbero sostenuto una guerra di lunga durata. Ma l’esercito non gli diede ascolto e continuò nella sua opera di devastazione. Allora Dionisio affidò il suo proclama ai banditori pubblici, i quali urlarono per le vie della città che i moziesi per aver salva la vita dovevano rifugiarsi dentro i templi di culto greco che possedevano sul territorio

Con il proclama si salvarono i moziesi che riuscirono ad udirlo, radunandosi all’interno dei templi greci, come il tiranno aveva chiesto loro di fare. Dalla narrazione diodorea non appare tuttavia possibile capire se questi templi di culto greco, appartenessero a divinità venerate sia da greci e fenici, oppure se si trattasse di divinità fenicie venerate dai greci di Mozia; più accreditata la prima ipotesi, poiché esistevano somiglianze religiose come ad esempio il nume fenicio Melqart che i greci chiamavano l’Eracle di Tiro. La presenza greca sull’isola moziese è accertata dai resti archeologici e storiografici del tempo; e proprio i greci di Mozia furono coloro contro i quali Dionisio ebbe maggiore accanimento e nessuna pietà. Essi si erano schierati dalla parte dei punici – probabilmente erano considerati ormai abitanti di Mozia, o vi erano giunti come profughi – incrociando le loro lame contro quelle dell’esercito dionisiano, vennero visti come traditori del nome greco, e per questo vennero condannati a una morte peggiore dei vinti di origine moziese; vennero crocifissi. Daimenes – greco catturato e crocifisso a Mozia – è l’unico nome pervenuto degli elleni moziesi che combatterono quella battaglia.

Cessato l’eccidio, i soldati ebbero in sacco le ricchezze delle case dell’isola. Una grande quantità di oro e argento, ricche vesti e tutto ciò che di prezioso vi fosse, fu prelevato dai soldati dionisiani. Archylus, essendo stato il primo ad essere salito sulle mura, venne ricompensato da Dionisio con somma monetale di cento mine, e a seguire tutti gli altri soldati in base ai meriti dimostrati in battaglia. Gli abitanti superstiti di Mozia vennero venduti all’asta. Dionigi lasciò nell’isola una guarnigione di sicelioti, capitanati dal siracusano di nome Biton[, e affidò al fratello Leptine una flotta di centoventi navi con le quali egli doveva perlustrare il mare siciliano occidentale e respingere un eventuale attacco cartaginese – che evidentemente Dionisio credeva essere prossimo – inoltre gli diede ordine di marciare nuovamente contro Segesta ed Entella; di compiere delle scorrerie per infastidire le alleate siciliane di Cartagine. Poi, tornò a Siracusa, per prepararsi al secondo round…

Mozia, l’anno successivo, fu riconquistata dai Cartaginesi di Imilcone ma il suo declino era ormai segnato. Dopo la presa dei sicelioti, e la conseguente devastazione – nonostante le fonti non parlino di completa distruzione – la nuova fortezza punica, e sicuro luogo di ancoraggio, divenne Lilibeo

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Published on January 31, 2022 10:05
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Alessio Brugnoli
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