Alessio Brugnoli's Blog, page 3

March 28, 2022

La Guerra di Corinto (Parte II)

Tebe, accettato l’oro persiano, invece di affrontare direttamente in battaglia l’esercito spartano, contando nel malumore degli alleati della Lega Peloponnesiaca e sulle limitate risorse economiche e umane dei Lacedemoni, decise di applicare una strategia temporeggiatrice e di guerra indiretta… Una strategia di logoramento, non potendo Sparta mantenere a lungo più eserciti su fronti distanti da loro, l’avrebbe costretta a ritirarsi dall’Anatolia. Così i tebani avrebbero ottenuto il risultato, senza perdere unoplita

A riprova di questo, Senofonte racconta che Beoti scelsero di far scoppiare la guerra incoraggiando i Locresi, loro alleati, a riscuotere le tasse dal territorio della Locride conteso con i Focesi. Il problema è che fecero i conti senza l’oste, non tenendo conto del rischio di possibile escalation. I Focesi, invece di abbozzare o lamentarsi con Sparta invasero la Locride saccheggiandone il territorio; di conseguenza i Tebani attaccarono la Focide, che si appellò all’alleata, Sparta, la quale attendendo il pretesto per combattere contro la riottosa Tebe ordinò la mobilitazione generale

Non volendo affrontare una guerra a cui non erano preparati, un’ambasciata tebana fu inviata ad Atene per chiedere aiuto; gli Ateniesi, desiderosi di rivincita contro Sparta, votarono per assistere Tebe e venne stretta una alleanza perpetua tra Atene e la Lega beotica. L’intervento spartano promosse un’offensiva in Beozia. Vennero organizzati due eserciti, uno comandato da Pausania, composto da truppe spartane e peloponnesiache, e l’altro da Lisandro, composto dai Focesi e dagli altri alleati del nord-ovest della Grecia; le due armate si sarebbero ricongiunte nei pressi di Aliarto per effettuare un attacco coordinato

Aliarto era posta sulla sponda meridionale del Copaide, un lago prosciugato nel XIX secolo, di fronte alla città di Orcomeno, quest’ultima sulla sponda settentrionale del lago. Queste località sono state popolata in epoche molto antica, dall’età del rame e le sue più antiche mura risalivano all’epoca micenea. Il mito ne attribuiva la fondazione all’eroe eponimo Aliarto, il quale venne adottato da Atamante, suo zio e re di Orcomeno, dal quale ebbe in eredità il regno. Si ipotizza, in base al mito e ai segni della presenza micenea, un antico ordinamento monarchico.

Dal punto di vista archeologico, l’acropoli dell’Aliarto micenea sorgeva su un’area più ristretta, di circa 250×150 m, nel punto più alto della collina; il suo bastione è conservato abbastanza bene a sud e a ovest. Sul lato occidentale della collina è visibile un secondo tipo di muro, costituito da grandi blocchi quadrangolari disposti orizzontalmente, è databile al VII secolo a.C. Sul pendio meridionale e nell’angolo di sud-est vi sono i resti di due torri, risalenti alla fine del VI o all’inizio del V secolo a.C. Un quarto tipo di muro, del quale rimangono solamente le fondamenta, fu costruito in mattoni attorno al IV secolo a.C. e fu distrutto dai romani nel 171 a.C. Sulla sua superficie possono essere osservate tracce di un quinto muro, romano o bizantino costruito con piccole pietre.

Scavi sulla sommità dell’acropoli eseguiti nel periodo 1926-30 hanno portato alla luce un tempio di Atena circondato da un peribolos, un grande edificio, e un corridoio che collegava peribolos ed edificio; il tempio, costruito nel VI secolo a.C. fu distrutto verosimilmente nel 171 a.C. A sud-est dell’acropoli, una piccola necropoli fornisce evidenza che il luogo è stato occupato durante l’età romana.

Lisandro, arrivando prima di Pausania, riuscì a persuadere la città di Orcomeno a ribellarsi alla confederazione beota, e avanzò verso Aliarto con le sue truppe e una divisione di Orcomeno. A questo punto inviò un messaggero a Pausania, invitandolo a raggiungerlo presso Aliarto e assicurandogli che, all’alba, sarebbe che, all’alba, sarebbe stato presso le mura della città; il messaggio, però, fu intercettato dai Tebani, che chiesero ed ottennero rinforzi dagli alleati.

Pausania, tuttavia, impiegò più tempo del previsto per arrivare al punto stabilito; quindi Lisandro arrivò ad Aliarto con le sue truppe, mentre Pausania era ancora a diversi giorni di distanza. Secondo Plutarco, Lisandro, figlio di Aristocrito, faceva parte della stirpe degli Eraclidi, anche se non era direttamente imparentato con le case reali. Invece la tradizione di Filarco ed Eliano riporta che appartenesse alla condizione sociale inferiore di motace, ossia di quei casi abbastanza bizzarri, di nati da un padre spartiate e una madre ilota: a differenza degli Iloti veri e propri, godevano di alcuni privilegi, come la possibilità di ricevere la stessa educazione dei cittadini di pieno diritto e il poter essere ammessi occasionalmente ai sissizi, ma erano privi dei diritti politici. Potevano diventare cittadini con pieni diritti solo in casi eccezionali per i propri meriti in guerra o nella gestione dello stato

Però le fonti che accennano a tale origine, riflettono una propaganda ostile a Lisandro e discordano dal resto delle testimonianze che spesso specificano che a rivestire l’importante carica di navarco, ossia ammiraglio, o polemarco, fosse uno spartiata, per cui possiamo ritenerla una sorta di fake news. Tra l’altro, nella struttura dell’esercito spartano il polemarco era il comandante di una mora di 512 uomini (in seguito 36), una delle suddivisioni dell’esercito.n alcune occasioni, tuttavia, erano autorizzati a portare le armi. I sei polemarchi spartani avevano probabilmente poteri uguali ai re nelle spedizioni all’esterno della Laconia ed erano generalmente discendenti della casa reale, sempre a riprova della fake news. Erano membri del consiglio reale dell’esercito e della scorta reale. Erano supportati o rappresentati da ufficiali. I polemarchi erano anche responsabili dei viveri pubblici, da quando, secondo le leggi di Licurgo, i Lacedemoni mangiavano e combattevano insieme. Oltre alle loro responsabilità militari e altre relative, i polemarchi erano anche responsabili di alcuni incarichi civili e giuridici.

Però, indipendentemente dalle sue origini, Lisandro aveva un motivi ben preciso per ottenere la massima gloria in battaglia: dopo le vicende della rivolta di Ciro il Giovane, il generale spartano aveva cominciato a crearsi una base di potere nella Ionia, cosa che aveva portato ai sospetto del re spartano Agesilao, che ne approfittato per destituirlo. Plutarco narra che Lisandro tentò di chiarire la sua posizione con il re affermando: “Tu sai bene come sminuire i tuoi amici, Agesilao”. Secondo Plutarco, il re gli rispose: “Sì, se vogliono essere più grandi di me; chi invece accresce il mio potere, è giusto che ne partecipi”

Sia per desiderio di vendetta nei confronti di Agesilao, sia perchè si era reso conto dell’inadeguatezza del sistema spartano a governare un territorio più ampio dalla sua Chora, Lisandro si accinse ad attuare profondi cambiamenti all’ordinamento costituzionale spartano, affinché il potere non fosse patrimonio esclusivo delle case reali degli Euripontidi e degli Agiadi, ma fosse condiviso da tutti gli Spartani o, almeno, dai discendenti di Eracle, i quali avrebbero eletto ogni magistratura, inclusa quella regia. In un primo momento Lisandro decise di agire di persona, convincendo gli Spartani ad approvare il suo progetto costituzionale con un’orazione scritta per lui da Cleone di Alicarnasso, ma in seguito preferì attendere il momento propizio, per preparare il quale tentò di corrompere la Pizia, l’oracolo di Dodona e quello di Ammone affinché rilasciassero oracoli a lui favorevoli; un successo militare poteva, dal punto di vista propagandistico, rafforzare ulteriormente la sua proposta di riforma.

Per cui, per prima cosa, cerco di istigare la rivolta del partito filo lacedemone di Aliarto, in modo che aprisse le porte delle mura al contingente spartano.Fallito il tentativo di prendere la città provocando una ribellione, decise di lanciare un assalto alle mura. Per individuare il loro punto debole, Lisandro andò personalmente in perlustrazione.Però i difensori, a sua, era stata raggiunti dai rinforzi beoti. Così, quando il generale spartanoo giunse alle porte i Tebani fecero una sortita, cogliendolo di sorpresa, e lo uccisero con i suoi pochi compagni, mentre gli altri battevano in ritirata presso il campo base.

I Tebani, tuttavia, inseguirono i soldati allo sbando troppo a lungo e, quando arrivarono ad un territorio accidentato e ripido, i soldati in fuga si voltarono e costrinsero i Tebani a ritirarsi, infliggendo loro pesanti perdite. Questa ritirata scoraggiò momentaneamente i Tebani, ma il giorno seguente i resti dell’esercito di Lisandro si sciolsero ed ogni contingente ritornò al proprio paese d’origine. Alcuni giorni dopo la battaglia Pausania raggiunse Aliarto con il suo esercito. Volendo recuperare i corpi di Lisandro e degli altri uccisi in battaglia, chiese una tregua, che i Tebani accettarono di concedere solo a condizione che i nemici se ne andassero dalla Beozia. Pausania accettò questa condizione e, raccolti i corpi dei morti, tornò a Sparta.Al suo ritorno la fazione che parteggiava per Lisandro lo fece processare per essere arrivato in ritardo e per non essere stato in grado di attaccare al suo arrivo; Pausania, capendo che sarebbe stato condannato e giustiziato, se ne andò in esilio.L’esilio di Pausania, insieme alla morte di Lisandro, tolse dalla scena greca due dei tre principali generali e politici spartani, lasciando solo Agesilao, che dettò la politica spartana per gli anni a venire.

Alla fine del 395 a.C., Corinto e Argo entrarono in guerra come alleati di Atene e Tebe nonostante la prima fosse sempre stata storica alleata di Sparta. Un Consiglio fu istituito a Corinto per gestire gli interessi di questa coalizione; gli alleati poi inviarono ambasciatori a un certo numero di Stati più piccoli e ricevettero il sostegno di molti di loro.Allarmati da queste vicende, gli Spartani si prepararono a inviare un esercito contro di loro, e mandarono un messaggero ad Agesilao, ordinandogli di tornare in Grecia. Cosa che indispettì il comandante che invece si attendeva ulteriori incarichi in Asia Minore. Al momento di abbandonare l’Asia, Agesilao disse che veniva cacciato da diecimila arcieri del Re, poiché le monete persiane avevano su di sé l’immagine di un arciere e tanto era il denaro versato dal Re ai Greci, perché facessero guerra a Sparta.Così tornò indietro con le sue truppe, attraversò l’Ellesponto e marciò attraverso la Tracia occidentale.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on March 28, 2022 05:07

March 25, 2022

Gli ultimi ritratti di Giorgione

Il successo di Giorgione dopo la commissione del Fondaco dei Tedeschi, è testimoniato da due dati: il primo il boom di ritratti che sappiamo dalle fonti essergli stati commissionati, il secondo il fatto che, con meritata vanità, sia sia rappresentato in un autoritratto, a riprova del suo ruolo sociale. Ora, di ritratti attributi a Giorgione risalenti al periodo tra il 1508 e il 1510 ce ne sono a iosa: molti di questi non sono stati oggetto di radiografia, che per la peculiare tecnica del pittore, sarebbe risolutiva nel risolvere i dubbi, per cui bisogna andare a naso e a sensazione personale, con il rischio oggettivo di prendere granchi.

Ad esempio, Gentiluomo con un libro, anche se non ci metterei la mano sul fuoco che sia stato dipinto da Giovanni Cariani, molti dubbi sul fatto che sia di Giorgione li ho. Invece, sono molto più possibilista sul ritratto Terris, dal nome del collezionista che lo possedette, un olio su tavola di 30 x 26 cm. custodito nella Fine Arts Gallery a San Diego (California). A riprova di questo, c’è l’antica scritta sul retro

“15 .. di man de m.” Zorzi da Castelf…”

la cui grafia sembrerebbe simile a quella di chi, sul disegno di Sidney tenne memoria della data di morte del pittore. Le perplessità stilistiche, anche motivate, non tengono del fatto che il quadro ci appaia molto diverso da come era in origine, a causa degli effetti dell’ossidazione dei colori: la veste era originariamente viola ed erano più forti i toni rossi. Il ritratto che oggi ci pare severo e costruito sui toni scuri, invece doveva colpire l’osservatore per la sua luminosità e per il contrasto cromatico.

Facendo riferimento alla tradizione locale, l’uomo è ritratto di tre quarti girato a sinistra, su sfondo neutro verde scuro e con un taglio molto visivo della figura. Il volto guarda intensamente lo spettatore ed è incorniciato da un caschetto di capelli crespi, neri e in parte grigi, resi in maniera magnifica da Giorgione…

L’Autoritratto come David, un olio su tavola (52 × 43 cm) è citata in un inventario di Casa Grimani del 1528 e qui lo vide sicuramente Vasari che vi si ispirò per trarne il ritratto dell’artista per le incisioni della seconda edizione delle Vite (1568), in cui viene descritto

“una fatta per David (e per quel che si dice è il suo autoritratto) con una zazzera, come si costumava in quei tempi, infino alle spalle, vivace e colorita che par di carne; ha un braccio e il petto armato col quale tiene la testa mozza di Golia”.

Nel momento in cui si predispose la tavola per le Vite vasariane, l’Autoritratto come David fu necessariamente privato dell’incongrua presenza del capo di Golia, ma non solo: si sostituirono le vesti militari (un corsaletto a proteggere il petto) con alcune di più consone a un pittore (una camiciola scollata e una giubba aperta). Così fu riabbigliato per il pubblico degli appassionati d’arte dai “sarti” Vasari e Coriolano. Da documentazioni certe si sa che l’opera, nel 1648, era ad Anversa ed apparteneva a Jacopo e Giovanni van Verle. Nel 1737 passò nella collezione del duca di Braunschweig, dove risulta catalogata – nel 1776 – come autoritratto di Raffaello Sanzio.

Tra l’altro, questo quadro ha avuto anche una vita alquanto complessa: un esame radiografico eseguito nella seconda metà del Novecento mise in evidenza, sotto l’attuale raffigurazione, chiare tracce di una Madonna col Bambino con caratteristiche prettamente giorgionesche. Probabilmente il committente mollò una fregatura al pittore, non pagandolo il dovuto e Giorgione decise di riciclare il supporto. In un periodo compreso tra il 1630, in cui è databile un’acquaforte che riproduce l’opera completa e il 1700, qualcuno mutilò l’opera, tagliando la testa mozza di Golia.

Il pittore affiora dall’oscurità col busto di profilo rivolto a destra e la testa girata verso lo spettatore, a cui rivolge uno sguardo diretto. I capelli sono scuri e lunghi, resi vaporosi dall’ondulatura, gli occhi grandi, il naso dritto, le labbra carnose, il mento appuntito, l’espressione leggermente corrucciata e imbronciata, adatta alla figura di David. Indossa un’armatura, che genera un bagliore riflesso sulla spalla, coerente con gli studi sul “lustro” fatti dell’artista. La scelta del pastore che divenne Re è proprio l’affermazione del suo orgoglio di uomo che si è fatto da sè, diventando uno dei protagonisti del Bel Mondo diVenezia.

Collegato a questo quadro, ovviamente, vi è l’olio su carta di Budapest, su cui si stanno scannando da decenni gli studiosi sul fatto che si tratti di uno studio prepararatorio, oppure di una copia fatta da un allievo, che normalizzò l’opera, dando a Giorgione i vestiti del ricco borghese che era diventato. Dato che sono in vena di pettegolezzi, termino citano l’Autoritratto Rezzonigo, che proprio autoritratto non è. Fu uno scherzo che fecero i due bontemponi il principe Abbondio Rezzonico, nipote di papa Clemente XII, e Canova….

Canova si fece fare da un artigiano romano una tavola e una cornice che imitava quelle veneziane del primo Cinquecento, dipinse in fretta e furia un quadro che a grandi linee ricordava quelli giorgioneschi e il principe tirò fuori il dipinto, lo presentò come un autoritratto del Giorgione fino ad allora inedito e lo sottopose agli astanti: il dipinto convinse tutti gli espertoni dell’epoca che lo trovarono sublime e autentico.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on March 25, 2022 07:50

March 24, 2022

L’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano

Lo stesso approccio che è nell’architettura e nella scultura presente nella Sacrestia di Santa Trinita si riflette anche nei capolavori pittorici che vi erano custoditi: il primo è l’Adorazioni dei Re Magi di Gentile da Fabriano. Il grande pittore gotico il 6 agosto 1420 è documentato a Firenze, dove si iscrisse all’Arte dei Medici e Speziali (21 novembre 1422) come

“Magister Gentilis Nicolai Joannis Massi de Fabriano pictor, habitator Florentiae in populo Sancte Trinitatis”

ospite, con i suoi collaboratori, Arcangelo di Cola da Camerino, Giovanni da Imola e Michele d’Ungheria, nella dimora di Palla Strozzi. Tra l’altro, ognuno di loro, in quel periodo, ottenne numerose e ben pagate commissione, a riprova, che nonostante i proclami dei libri di Storia dell’Arte, il gotico internazionale era ben gradito al fiorentino medio dell’epoca.

Ovviamente, Gentile e associati stavano lavorando all’Adorazione dei Re Magi, che, per le dimensioni monumentali, 300×282 cm, era una commissione senza dubbio impegnativa: i lavori infatti durarono tre anni e furono pagati ben 150 fiorini d’oro.Sull’altare della cappella, il dipinto rimase anche dopo il rifacimento dell’ambiente, trasformato in sagrestia della chiesa nel 1698. Nel 1806, in seguito alle soppressioni napoleoniche, la tavola fu rimossa dalla sua collocazione originaria e trasferita in un deposito, passando poi nel 1810 all’Accademia di Belle Arti.

Nel 1812, il polittico venne privato dallo scomparto destro della predella con la Presentazione di Gesù al Tempio, che fu trasferito a Parigi ed esposto al Museo del Louvre. Alla fine del XIX secolo ne venne realizzata una copia da Gaspare Diomede della Bruna (1839 – 1915), in sostituzione dell’originale. Infine, nel 1919, l’Adorazione dei Magi giunse alla Galleria degli Uffizi, dove è attualmente esposta.

Un’opera, quella di Gentile, che come tutto quanto nella Firenze dell’epoca, oltre a una lettura religiosa, anche una politica:a Firenze, già a partire dalla fine del Trecento, si celebrava, con cadenza all’incirca triennale, la festa dei Magi: il giorno dell’Epifania un festoso corteo correva per le vie cittadine, a memoria del viaggio compiuto dai tre re. Dal 1417 la celebrazione solenne venne posta sotto il controllo della Signoria, che decise di istituire a tale scopo la “Compagnia dei Magi”, detta anche “della Stella”. Ad essa, che aveva sede presso il Convento di San Marco, appartenevano personalità di spicco della vita cittadina, come Poliziano, Landino, Acciaiuoli e molti altri umanisti. Furono però Cosimo il Vecchio, Piero il Gottoso e Lorenzo il Magnifico a dare nuovo impulso alla cerimonia e a sfruttarla scenograficamente come occasione per sottolineare il potere politico ed economico della famiglia e le ambizioni principesche della dinastia medicea. Il celebrare, con un’opera così ricca, costosa e moderna, i re Magi era anche un contestare il ruolo che i Medici stavano acquisendo nella città.

Moderna, perchè la pittura di Gentile, anche se in maniera alternativa, era altrettanto di rottura rispetto alla tradizione locale di quella di Masaccio. Per prima cosa, pur richiamando la struttura del polittico, la superava poiché la scena principale occupa tutto il registro centrale, senza scomparti, come invece troviamo nella predella, creando uno spazio tanto unitario quanto immaginifico, dove l’unità non è basata sulla geometria, ma sull’analogia. Il corteo dei Magi si dispiega su tutta la parte centrale del dipinto, sfruttando la forma tripartita nella parte alta per dare origine a più nuclei d’azione, arricchiti da molti dettagli realistici e di costume, che creano un effetto vibrante dove l’occhio dello spettatore si sposta da un particolare all’altro.

L’Adorazione dei Magi è un’opera che puntava consapevolmente a stupire, affascinare e perfino lusingare la ricca borghesia fiorentina. Questo perchè è un’opera colta, persino erudita; Gentile dimostra di conoscere bene la storia evangelica, di conoscere gli usi, i costumi, le fisionomie dei popoli orientali, di conoscere, ancora, i cerimoniali di corte. In tal modo, egli intendeva dimostrare ai fiorentini che il Gotico internazionale non era soltanto una forma d’arte elegante e aristocratica ma, come ha scritto Giulio Carlo Argan, delineava «una poetica aperta, capace di spiegare nell’infinita varietà dei suoi aspetti lo spettacolo del mondo».

Facendo questo, Gentile, si ricollegava, paradossalmente ai circoli più colti dell’Umanesimo dell’epoca, che erano affascinati al modello letterario offerto dalle ekphrasis bizantine, le descrizioni/interpretazioni di opere d’arte circolanti a Firenze almeno dal 1415. Questo non era un guardare al Passato, al Medioevo, perchè i dotti bizantini, come Emanuele Crisalora, erano il tramite, insegnano il greco e portando con loro codici antichi, per la riscoperta dell’Antico.

Fascino che nasce anche dalla ricchezza:l ‘abbondanza degli ori e argenti è uno degli elementi che più colpisce nel polittico. I metalli erano applicati in foglie sottili nelle vesti e nei finimenti dei cavalli e in seguito incisi a mano libera o marcati con punzoni con vari motivi decorativi. Spesso, per rendere la materialità dei tessuti, l’artista incide l’argento e l’oro e poi applica velature di colore trasparenti. Inoltre, alcuni oggetti e particolari sono realizzati a rilievo, ossia in “pastiglia” (un impasto di gesso e colla steso con il pennello) o in cera dorata, come l’elsa della spada retta da un paggio o la corona di Gaspare, posata a terra. Oltre ad esaltare la ricchezza di Palla Strozzi è anche un richiamo all’ideologia cavalleresca che già si rifletteva nel sepolcro di Nofri, riecheggiando le parole del cancelliere della Repubblica fiorentina, Leonardo Bruni, che affermò:

Il possesso dei beni esteriori offre l’occasione per esercitare la virtù

La pala non rappresenta un’unica scena ma racconta tutto il cammino dei tre saggi orientali che seguirono la stella cometa per giungere al cospetto di Gesù bambino. La narrazione ha inizio nelle tre lunette, da sinistra, con i Tre Magi avvistano la stella cometa dall’alto del monte Vettore, raffigurato come una rupe a picco sul mare, dove si vedono un porto e alcune caravelle. Al centro, il corteo dei Magi si mette in viaggio per dirigersi verso Betlemme, che si scorge nella lunetta precedente, solo che è vista da un’altra prospettiva. La città è arroccata su un colle e circondata da una fertile campagna descritta in modo minuzioso: si notano terreni coltivati, boschi fioriti, una fattoria, le mucche accosciate, i ponticelli di fortuna, fatti con i tronchi, costruiti per agevolare al corteo l’attraversamento di una spaccatura del terreno. Si vedono, anche i leopardi dei nobili accoccolati sulla schiena dei cavalli e un’animale feroce che aggredisce un cervo. Al centro del corteo i tre Magi, ricoperti d’oro dalle varie sfumature, che assomigliano più ad eleganti aristocratici, che parlano tra loro, come ad una battuta di caccia o ad una processione religiosa. Infine, a destra, corteo dei Magi sta attraversando un ponte levatoio per entrare nella città di Betlemme, vista da un’ulteriore prospettiva.

Il corteo riappare quindi da destra ed occupa tutta la metà inferiore del dipinto. A sinistra si trova il punto di arrivo della grotta della Natività dove si è posata la cometa luminosa e dove si trovano il bue e l’asinello davanti alla mangiatoia. Davanti al riparo di una capanna diroccata si trovano san Giuseppe, la Madonna assisa col Bambino e due servitrici. Davanti al Bambino si stanno inginocchiando i tre Magi: il primo, quello anziano, ha già deposto la corona ai piedi della Sacra Famiglia ed è prostrato a ricevere la benedizione del Bambino; il suo dono è già tra le mani delle servitrici; il secondo, di età matura, si sta per accovacciare e con la mano destra sta sfilandosi la corona, mentre con la sinistra tiene il calice dorato del suo dono; il terzo è appena sceso da cavallo, un servitore gli sta infatti ancora smontando gli speroni, ma con lo sguardo guarda già il bambino e tiene in mano un’ampolla d’oro da donare. I tre Magi, sono rappresentati nelle tre età dell’uomo: giovinezza, maturità e vecchiaia. I loro vestiti sono di incredibile sfarzo, con broccati d’oro finemente arabescati, copricapi sfavillanti e cinture con borchie preziose, ottenute a rilievo tramite punzonature e applicazioni.

Dietro di loro, in posizione centrale, si trovano due personaggi due ritratti ben riconoscibili: l’uomo col falcone in mano, dal vestito più ricco dopo quello dei Magi (un damasco con disegni vegetali, ma privo di dorature) è il committente Palla Strozzi, mentre quello accanto a lui, che guarda verso lo spettatore, è probabilmente il suo figlio primogenito Lorenzo, anche se Giorgio Vasari indicava al suo posto un autoritratto di Gentile, improbabile in una posizione così preminente, inoltre l’indicazione agli artisti di evidenziare i propri ritratti dipingendosi con lo sguardo rivolto lo spettatore è leggermente più tarda, contenuta nelle opere di Leon Battista Alberti.

Numerosi sono gli animali che animano la scena, a partire dal gruppo di cavalli che, spaventati da un leopardo, creano un movimento di linee centrifughe. In basso si trova un levriero, ritratto con precisione naturalistica, che si stira tra le zampe di un cavallo, con un magnifico collare dorato ottenuto a rilievo. Più indietro si trovano un altro leopardo, un dromedario, due scimmiette, un falcone in volo e altri uccelli, che creano un vivace campionario esotico. Tra i personaggi del corteo spiccano numerosi servitori, tra i quali uno in primo piano che regge la spada di uno dei re ed ha una banda a tracolla che ricorda, in lettere dorate a rilievo, i caratteri cufici.

La predella è composta da tre scomparti rettangolari, che mostrano (da sinistra) la Natività, la Fuga in Egitto e la copia della Presentazione di Gesù al Tempio che fu dipinta da Gaspare Diomede della Bruna nel 1903

La Natività è ambientata di notte, nella stessa ambientazione della pala centrale: a sinistra si scorge infatti lo stesso edificio rosato, dove le due ancelle di Maria riposano sotto un arco: una dorme con la testa girata verso il fondo, l’altra è sveglia e sbircia la scena centrale, in cui il Bambino appena nato emette un bagliore di santità che rischiara tutto: Maria inginocchiata in adorazione, il bue e l’asinello a semicerchio e san Giuseppe che, come da schema tradizionale, è addormentato e un po’ in disparte, a sottolineare il suo ruolo di semplice protettore di Maria e Gesù, senza un ruolo attivo nella nascita. Di grande sensibilità luministica è l’illuminazione dal basso del tettuccio davanti alla porta dell’edificio e della caverna, o delle ombre che coprono solo metà del tetto sotto il quale le ancelle sono riparate. Un’analoga sensibilità rischiara solo alcuni dei rametti dell’alberello a cui è appoggiato Giuseppe. Sullo sfondo a destra un’altra apparizione luminosa, in questo caso angelica, domina l’episodio dell’annuncio ai pastori; il resto del brullo paesaggio montuoso è in ombra, sotto un cielo stellato che mostra una precoce sensibilità atmosferica, nel chiarore che inizia ad emergere vicino all’orizzonte. In alto a sinistra si scorge anche uno spicchio di luna.

La Fuga in Egitto è ambientata in un ricco paesaggio, con gli stessi protagonisti: Maria col Bambino, in sella a un asinello, Giuseppe che fa da guida e le due ancelle dietro. Se i personaggi centrali hanno come quinta una montagnola appositamente creata, ai lati il paesaggio si dilata a perdita d’occhio. Il cielo limpido sovrasta una giornata estiva, illuminando la frutta negli alberi, le cime montuose, i castelli e le città, tra cui quella fiabesca a destra, tutta composta da cupole, torri, campanili ed altri edifici dagli irreali colori pastello, che qualcuno ha definito “di marzapane”. La strada è ghiaiosa, con i ciottoli dipinti uno per uno e tutta la scena sembra risplendere in un pulviscolo dorato, che deriva dai raggi del disco solare, completamente d’oro, in alto a sinistra.

Lo scomparto con la Presentazione di Gesù al Tempio, attualmente conservato al Museo del Louvre a Parigi, presenta una scena che si può dividere in tre parti. Al centro si trova il tempio di Gerusalemme, raffigurato come un elaborato complesso a pianta centrale aperto sul davanti, tramite un loggiato a tre arcate, in modo da mostrare la scena che sta avvenendo all’interno, cioè la presentazione di Gesù alla presenza di Maria, Giuseppe, la Profetessa Anna, Simeone il Giusto e un astante vestito di rosso, forse il sommo sacerdote, oltre a una figura seminascosta dietro l’aureola della Vergine. Vivace è il Bambino, che sembra volersi divincolare dalla presa di Simeone, secondo uno studio dal vero che si riscontra anche in altre opere della maturità dell’artista.Molto articolata è la costruzione architettonica, con il disegno delle volte in prospettiva intuitiva che ricorda le profonde scene della pittura gotica della seconda metà del XIV secolo.

A destra e a sinistra si trova la rappresentazione di una città ideale, con palazzi, chiese e loggiati costruiti con attenzione minuziosa ai dettagli, come i balconcini, le scale, il ritmo delle volte, ecc. Si tratta di una pura quinta architettonica, sottodimensionata rispetto ai personaggi antistanti. A sinistra assistono alla scena nel tempio due nobildonne, una delle quali, quella sinistra, è abbigliata in maniera particolarmente sontuosa: essa indossa la giornea, tipico abito delle classi più agiate, e in testa porta la “ghirlanda”, un copricapo a forma di anello con fiori e rametti intrecciati a un prezioso panno dorato. Esse hanno una postura altera e composta, secondo la raffigurazione tipica della classe signorile.

A destra invece fanno da contraltare le figure di due mendicanti, abbigliati di miseri stracci e pateticamente curvi per la loro indigenza. L’accostamento tra figure grottesche e figure idealizzate è tipico dell’arte tardo gotica, con personaggi formalizzati, privi di connotazioni psicologiche specifiche. Questa antitesi può anche essere letta come una sorta di compiacimento aristocratico nel confronto tra il patinato mondo delle corti e il suo opposto umile e miserevole del popolino.

L’Adorazione è racchiusa entro una elaborata cornice in legno intarsiato e dorato, costituita da tre archi a tutto sesto sormontati da cuspidi e da due pilastrini ottagonali ai lati, la cui superficie è movimentata da inserti polilobati. All’interno di ogni cuspide è un tondo, sovrastato da un angelo e fiancheggiato dalle figure di due profeti. Al centro è raffigurato Gesù Cristo Redentore benedicente, con ai lati Mosè e Re Davide, mentre i due tondi laterali racchiudono i protagonisti dell’Annunciazione: a sinistra l’arcangelo Gabriele, con i profeti Ezechiele e Michea, e a destra la Vergine annunciata, ai cui piedi sono Baruc e Isaia.

Nei pilastri laterali, al posto dei tradizionali santi sovrammessi tra di loro, Gentile da Fabriano sceglie di rappresentare una incredibile varietà di fiori, che gli incavi scolpiti nel legno non riescono a contenere. Tra i bagliori dorati della cornice, contro uno sfondo verde scuro, si stagliano fiori profumati e umili varietà di campo, persino fiori di frutti e di legumi, descritti con incredibile attenzione e curiosità naturalistica, tanto da poter essere considerati come una delle prime interpretazioni di natura morta.

Al di sotto della scena principale, lungo la cornice, l’opera è firmata e datata: “OPUS GENTILIS DE FABRIANO M CCCC XXIII MENSIS MAIJ”.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on March 24, 2022 08:15

March 23, 2022

San Lorenzo fuori le Mura

Lorenzo di origine spagnola era diacono di Papa Sisto II sotto l’impero di Valeriano salito al trono nel 254. Con un editto del 257, Valeriano condannava all’esilio ed alla confisca di tutti i beni coloro che non avessero venerato le divinità romane. Nel 258 venne martirizzato Sisto II con quattro diaconi, ed il 10 agosto subì il martirio anche Lorenzo che fu disteso sopra una graticola di ferro e fatto bruciare. Egli, provvedeva con le casse della comunità cristiana al sostentamento dei poveri e delle vedove ed alla richiesta di consegnare tutto alle casse dell’erario imperiale e di sacrificare agli dei, si affrettò a distribuire tutti gli averi ai suoi assistiti riconfermando la sua fede il Cristo.

La matrona romana Ciriaca, poi fatta santa, prelevò il corpo di Lorenzo dal luogo del martirio e lo seppellì nel terreno di sua proprietà, che divenne una piccola catacomba nell’ager Veranus (forse dal nome del proprietario, l’imperatore Lucio Vero), che si estendeva lungo la via Tiburtina.

Nel 330, secondo il Liber Pontificalis, l’imperatore Costantino (274-337), condusse una serie di interventi sulla tomba del martire, isolandola dagli altri monumenti funerari e permettendone l’accesso ai fedeli attraverso un percorso continuo con scala d’ingresso e d’uscita (“gradus ascensionis et descensionis”). Contemporaneamente fece erigere in onore di san Lorenzo “supra arenario cryptae”, ossia ai piedi della collina del Verano, ma staccata dal sepolcro ipogeo, una grande basilica cimiteriale (detta Basilica maior) costruita interamente in laterizi, a tre navate divise da archi su pilastri, in analogia come altre basiliche cimiteriali dell’epoca come San Sebastiano sulla via Appia, Sant’Agnese fuori le mura, Santi Marcellino e Pietro, presso Torpignattara.

La maggior parte della pavimentazione era occupata da lapidi sepolcrali: i fedeli, infatti, fiduciosi nell’intercessione del santo, per ottenere la salvezza prediligevano l’inumazione vicino alle sue spoglie, tanto che ben presto anche le pareti furono utilizzate per tombe a nicchia. Sotto il papato di Sisto III (432-440) l’altare della chiesa venne arricchito da lastre di porfido e cancelli e lo stesso papa, come precedentemente Zosimo volle essere sepolto presso la tomba di Lorenzo. Anche Papa Ilario scelse quel luogo a sua sepoltura. Il complesso venne reso ancora più ricco ed importante dalla costruzione di un battistero ed alcuni oratori.

La chiesa costantiniana rimase certamente in piedi, sia pur rimaneggiata, sino al IX secolo, anche se già verso la fine del VI secolo una frana dell’adiacente collina e delle infiltrazioni d’acqua ne avevano gravemente compromesso la stabilità. Furono queste probabilmente le motivazioni che spinsero papa Pelagio II (579-590) a costruire nel 580 un nuovo edificio (detto Basilica minor), a tre navate, in grado di assolvere tutte le esigenze connesse all’enorme afflusso dei pellegrini: sbancato il pendio in cui era situato l’antico sepolcreto, a lato della prima fondazione, fu costruito un oratorio a pianta quadrata “ad corpus”, ovvero direttamente sulla tomba del martire, dotato di scale interne che permettessero di accedere direttamente alla sua sepoltura. Il nuovo edificio si presentava a tre navate, divise da due file di dodici colonne; la luce entrava solo dal cleristorio, Le navate e le galleria non avevano fonti di illuminazione; le gallerie risentivano già degli influssi dell’arte bizantina che da almeno mezzo secolo veniva usata nei monumenti di Roma. L’area catacombale si poteva vedere attraverso finestroni aperti nell’abside stessa, forse luogo di sepoltura anche di S. Abbondio e Ireneo. Pare che fu proprio Papa Pelagio a fare seppellire il quel luogo anche le spoglie di S. Stefano riportate a Roma da Bisanzio.

L’ ingresso della piccola basilica costantiniana, era dal lato opposto all’ attuale e corrispondeva precisamente al punto occupato oggi dal sepolcro di papa Pio IX, cosicchè il fondo della basilica era presso a poco sulla linea delle due scale attraverso le quali si scende nell’area costantiniana. Nel portico fuori della chiesa era conservata la pietra che fu legata al collo di S. Abbondio quando i carnefici lo gettarono in un pozzo o in una cloaca. Durante il periodo delle invasioni barbariche, per evitare che il santo luogo venisse profanato, attorno alla chiesa venne eratta una cinta fortificata che si presentava come una cittadella, la “Laurenziopoli” che comprendeva anche gli oratori di S. Agapito, quello dei Ss. Stefano e Cassiano, di Papa Leone e di San Gennaro, nominato da S. Gregorio Magno nei “Dialoghi”; presso questi oratori era stato creato un grande edificio per il ricovero dei poveri, come era d’uso fare presso tutte le grandi basiliche.

Nei secoli successivi la basilica subì alcuni restauri al tempo di Adriano I (772-795) e poi nel 1100, allorché in due distinte campagne decorative vennero eretti gli amboni ed il ciborio a gabbia, costruito, quest’ultimo, da quattro fusti in porfido che sorreggono un secondo ordine di colonnine trabeate. L’opera, che reca la data 1148, è firmata dai figli di Paolo Romano, quattro fratelli marmorari che operarono anche nelle basiliche di S.Croce in Gerusalemme e di S.Clemente: la sommità del tabernacolo si deve invece ad un restauro ottocentesco che sostituì una copertura a cupola risalente a sua volta al primo Cinquecento

Sia la basilica di Pelagio che quella costantiniana furono continuamente abbellite dai Pontefici, finchè dalla meta del IX secolo la “basilica maior” cadde in abbandono mentre si continuò ad avere cura dell’altra basilica. Nel XIII secolo Papa Onorio III (1216-1227) iniziò i lavori di ampliamento alla chiesa di Pelagio, (terminati sotto Innocenzo IV nel 1254), che la orientarono in senso opposto alla prima; la navata centrale era abbellita da 22 colonne, molto diverse tra loro, ( marmo cipollino, granito grigio, rosso, bianco e nero), poiché per questa funzione venne usato materiale di spoglio; la luce era assicurata da dodici finestre ma le navatelle rimanevano nell’ombra. I maestri cosmateschi furono incaricati di rifare il pavimento, mentre il soffitto venne coperto con capriate di legno.

Nella Basilica riedificata di Onorio III il Papa stesso nel 1217, consacrò imperatore di Costantinopoli Pietro di Courtenay conte d’Auxerre e sua moglie Iole, evento ricordato da un pregevole dipinto che lo raffigura benedicente la coppia imperiale. Dopo quei lavori la vecchia basilica, assolse la funzione di presbiterio; per cui, entrando oggi, si attraversa prima la parte medioevale per giungere poi a quella pelagiana e per vederne l’arco trionfale,ci si deve recare dal la parte dell’altare maggiore.

Dopo l’intervento onoriano che comprese, con tutta probabilità, anche il bel chiostro dagli originali due ordini loggiati sovrapposti, la basilica continuò ad essere oggetto di interventi decorativi, che proseguirono fino alla fine del Duecento: fra questi ricordiamo la tomba del cardinale Fieschi, morto nel 1256, costituita da un grande sarcofago romano del II secolo d.C. con scene nuziali inserito in un baldacchino cosmatesco ed il ciclo di affreschi del portico di mastro Paolo e Filippo, risalente all’ultimo quarto del XIII secolo, che narrano le “Storie di S.Lorenzo, di S.Stefano e dell’imperatore Enrico II”. La basilica di San Lorenzo fuori le Mura fu sede del patriarca latino di Gerusalemme dal 1374 al 1847, anno in cui Papa Pio IX ripristinò la sede a Gerusalemme.

Durante il XIV ed il XV secolo si registrarono soltanto lavori di restauro della Basilica, rivolti, in particolare, al campanile romanico: si dovette attendere il cardinale Oliviero Carafa (1492 – 1503) per un intervento decorativo su ampia scala, andato poi completamente perduto con il restauro ottocentesco. Nel 1511, la basilica venne affidata ai monaci benedettini che nel XVII secolo realizzarono un nuovo monastero, sulla destra di quello antico, con un portico d’ingresso.

Dopo che Leone X ordinò di rimuovere tutti i marmi, i capitelli e le colonne circostanti la basilica, episodio da porre in relazione con la costruzione di palazzo Farnese, la basilica non fu oggetto di attenzioni sino al secolo successivo, quando il crollo del soffitto orientale convinse il cardinale Francesco Boncompagni ad un restauro ed alla contemporanea decorazione della cripta, realizzati entrambi tra il 1624 ed il 1629. All’inizio del secolo successivo venne aperta una grande piazza, progettata da Alessandro Gaulli: l’incarico gli venne affidato nel 1704 dal cardinale Pietro Ottoboni e l’artista realizzò una vasta spianata semicircolare, il cui termine era segnato da basse colonne, una delle quali, la più alta, fu posta al centro, sormontata dallo stemma di papa Clemente XI Albani.

Dopo la costruzione del retrostante Cimitero del Verano, nella prima metà dell’800, papa Pio IX, molto legato alla chiesa, decise di promuovere un suo radicale ripristino: il pontefice, celebrato anche dalla nuova colonna commemorativa (nella foto sotto il titolo, la seconda per altezza, dopo la Colonna dell’Immacolata, grazie ai suoi 24 m) che reca in cima la statua bronzea del martire Lorenzo (opera di Stefano Galletti), incaricò di questi lavori Virginio Vespignani, uno dei più accaniti sostenitori del “restauro archeologico”. Questi, tra il 1857 ed il 1864, riportò la basilica all’assetto impostole da Onorio III all’inizio del Duecento: per tale motivo essa ci appare attualmente libera da sovrapposizioni barocche e rinascimentali, rappresentando, forse per la sua integra semplicità, la più affascinante delle basiliche romane: va ricordato che soltanto in occasione di questi lavori le spoglie di S.Lorenzo, insieme a quelle di S.Stefano e S.Giustino, furono sistemate nell’attuale cripta a “confessione” sotto il presbiterio.

Pio IX, inoltre, inoltre, incaricò il pittore Cesare Serafini Fracassini (1838 – 1868) della decorazione a fresco della chiesa, poi completata da Cesare Mariani, Francesco Grandi, Francesco Coghetti e Paolo Mei in seguito alla prematura morte dell’artista. Durante la Seconda Guerra mondiale, l’edificio fu gravemente colpito con il primo bombardamento alleato subito dalla città di Roma il 19 luglio 1943; l’obiettivo del raid aereo era un deposito ferroviario vicino, ma le bombe caddero sulla facciata e sulla parte centrale della navata, e sul quartiere densamente popolato causando oltre 3000 vittime. Dopo la distruzione bellica la basilica fu ricostruita con il materiale originale: i restauri, terminati nel 1948, permisero l’eliminazione di strutture aggiunte nel XIX secolo, tuttavia i dipinti murali che decoravano la parte superiore della facciata erano irrimediabilmente perduti. Tra il 1950 e il 1957 furono effettuati alcuni scavi archeologici in corrispondenza del muro del Cimitero del Verano: le indagini permisero di riconoscere i resti della basilica costantiniana: un grande edificio a circo, a tre navate separate da colonne.

La facciata è decorata da un portico ampio e luminoso, opera di Vassello, portatore della tradizione degli illustri marmorari romani dei Cosmati.E’ ornato da sei colonne adattate ed inserita tra due pilastri a sostenere una trabeazione che prima della distruzione provocata dalla guerra era ornata da fregi, motivi vegetali, figurine e piccole scene a mosaico; da quegli ingenti danni si è salvato un parte del dipinto raffigurante la presentazione di Pietro di Courtenay a San Lorenzo, di cui si è già parlato ed un agnello racchiuso in un clipeo che rappresenta l’offerta di Cristo come agnello sacrificale. Il portico è completata da una bellissima cornice di foglie fiori e frutta . La copertura è a travature lignee.

Sotto il portico, due leoni, uno dei quali stringe tra le zampe un bimbo e l’altro sta sbranando la preda, fanno da cornice alla porta del Vassalletto. Si possono vedere anche tre sarcofagi di cui uno veramente raro, del tipo “ a tetto”; si presenta come un tempietto, con gli spioventi appoggiati a colonnine. Gli affreschi che decorano le pareti del portico risalgono alla seconda metà del XIII secolo e sono opera di Paolo e Filippo Maestro; rappresentano in parallelo, le storie dei due martiri, a sinistra quella di Lorenzo e, a destra, quella di Stefano. Le parti iconografiche leggendarie si basano sul I dipinti sulla parete sinistra sono stati rimaneggiati più volte e l’interpretazione è assai difficile. Anche le raffigurazioni sulla parete destra risultano molto rovinate e narrano la leggenda di Enrico II nelle guerre contro gli slavi. I dipinti sulla parte frontale sono in migliori condizioni e rappresentano la storia di S. Stefano e S. Lorenzo.

Sotto il portico sulla parete centrale è stata murata una grande lapide a ricordo della visita di Pio XII il 19 luglio 1943, quando la chiesa e tutto il quartiere San Lorenzo fu devastato dal tristemente famoso bombardamento. La facciata che sovrasta il porticato è stata rifatta completamente dopo i bombardamenti in semplici mattoni; vi preesistevano affreschi di Silverio Capparoni che rappresentavano insigni personaggi legati alla Basilica. La tomba del grande statista Alcide De Gasperi, opera di Giacomo Manzù, è situata nel nartece a sinistra.

All’ingresso della navata centrale vi sono due semplici acquasantiere con lo stemma di Alessandro Farnese che partecipò sostanziosamente ai lavori di abbellimento della Confessione e della cappella di Santa Ciriaca Sulla porta d’ingresso, un affresco trasposto su tela del Fracassini, illustra l’ordinazione di S. Stefano a Diacono. A destra del portale si può ammirare la tomba di Guglielmo Fieschi, nipote di Innocenzo IV. Il sarcofago è del II secolo d.c. Sulla porta d’ingresso, un affresco trasposto su tela del Fracassini, illustra l’ordinazione di S. Stefano a Diacono. A destra del portale si può ammirare la tomba di Guglielmo Fieschi, nipote di Innocenzo IV. Il sarcofago è del II secolo d.c.

A sinistra della porta d’ingresso sta il Fonte Battesimale sormontato da una statuetta bronzea del Battista, risalente al tempo di Pio IX, molto restaurato. Nel lavoro di restauro dopo il bombardamento è stata ricomposta e murata la tomba di Giuseppe Rondinino, morto nel 1649 in battaglia contro i Turchi. Nella navata sinistra, e la tomba di Michele Bonelli (morto nel 1604), pronipote di papa Pio V. L’interno della Basilica è scandito dalle 22 colonne di spoglio sormontate da capitelli ionici attribuiti al Vassalletto e dividono in tre navate il volume della chiesa di Onorio III. Una curiosità: l’ottava colonna destra, reca scolpite sul capitello una rana e una lucertola alle quali si attribuisce la validità della firma degli autori spartani del capitello stesso: Batrakos (rana) e Sauros, che essendo schiavi non potevano firmare esplicitamente le loro opere.

Il pavimento bellissima opera dei Cosmati, a causa del bombardamento perse un rarissimo riquadro a figure che rappresentava due cavalieri in combattimento; Sono stati però ricostruiti i quattro riquadri che completavano l’opera e che raffigurano grifi e draghi. Due bellissimi amboni di fattura cosmatesca sono situati nella navata. L’ambone di sinistra riservato alla lettura di testi biblici è sopraelevato da una base di marmo di greco e di Carrara e da un lato è chiusa da una lastra di porfido. Di fronte, l’ambone per la lettura del Vangelo è ricco di ornati e coloratissimo; si eleva su di una base di marmo greco e granito nero e bianco. Il reggileggio è particolarissimo: sormonta una lastra verde e rappresenta un’aquila che ghermisce la preda. Accanto si trova il candelabro del cero pasquale ornato da mosaici policromi, la base e ornata da due leoni ruggenti ed e voeva dell’ambone, dtato intorno alla seconda metà del duecento. Il pavimento in questa parte ha lastre rettangolari anzicchè tonde, probabilmente questa sezione della chiesa era occupata dalla “schola cantorum”.

Attraverso due piccole rampe di scale, si accede al presbiterio, ovvero la parte basilicale di Pelagio II. La cripta sottostante del IV secolo (altare e criptadella confessione), racchiude i resti dei Santi Lorenzo, Stefano e Giustino che fu il primo a formulare una teologia della storia cristocentrica, martirizzato sotto Marco Aurelio, tra il 163 e il 167. Idealmente queste tombe rappresentano la congiunzione delle due chiese antiche.

Alle spalle dell’arco di divisione, nel presbiterio, si può osservare il “Mosaico dell’arco trionfale”, verso il VI secolo, voluto da papa Pelagio II. L’unica parte superstite dell’antica decorazione musiva raffigura il tema della Maiestas: Cristo in atteggiamento benedicente,al centro su di un globo azzurro; alla sua destra san Paolo che accenna Santo Stefano con il libro aperto, e sant’Ippolito, il quale ha tra le mani coperte la corona del martirio. Alla sinistra del Cristo è rappresentato san Pietro che introduce san Lorenzo con il vangelo aperto sulle parole Magnificat: “disperse i superbi, dette ai poveri” ed il pontefice Pelagio che offre la basilica. In basso, ai lati, Gerusalemme e Betlemme, dalle mura gemmate. Di fronte alla spiritualità del Cristo e dei Santi, papa Pelagio viene rappresentato con caratteri di maggiore evidenza naturalistica e più piccolo, perché più “moderno” rispetto ai santi raffigurati.La bordura dell’arco è ornata da motivi nastriformi coloratissimi in tutto simili a qualli del mausoleo a Ravenna di Galla Placidia. La zona del presbiterio è ancor più definita da banchi laterali duecenteschi chiusi alle estremità da due leoni attribuiti al Vassalletto.

In fondo alla navata destra si apre l’ottocentesca cappella di San Tarcisio, del Vespignani, che conserva una bella Decollazione del Battista del caravaggesco Giovanni Serodine (1619). Una cappella dedicata a Santa Ciriaca, di gusto barocco con monumenti funerari ideati da Pietro da Cortona, è accessibile dal fondo della navata sinistra. Per due scalette si sale al presbiterio, dove tra quattro colonne bianche e nere è collocata la confessione della tomba di S. Lorenzo. Dalle estremità delle navate laterali si può scendere alla cappella funeraria di Pio IX, eretta alla fine del XIX secolo riutilizzando il nartece della basilica pelagiana.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on March 23, 2022 02:08

March 22, 2022

Calisna Śepu

Negli ultimi anni è in corso una profonda revisione cronologica inerente la presenza etrusca nel territorio della Val d’Elsa , volta reinquadrare storicamente ogni ritrovamento fatto, dato che ii vecchi studi, come per il resto dell’Etruria, sono condizionati dalle “cacce al tesoro” delle necropoli, frutto sia dei tombaroli, sia degli archeologi dei secoli scorsi, che suddivisero, decontestalizzandoli e privandoli di di uno studio approfondito, i reperti tra numerose collezioni privare L’attuale inversione di tendenza nell’impostazione delle ricerche indirizzate a privilegiare finalmente sia i siti abitati che un miglior coordinamento fra le varie discipline archeologiche, sta portando i moderni specialisti a risultati sorprendenti ed inaspettati su tutta l’area. Uno di questi risultati è il chiaro delinearsi di un territorio “Casolano” ben definito ed organizzato.

La Val d’Elsa, come del resto tutta l’alta valle del fiume, ha solo occasionali testimonianze attinenti al Paleolitico, dovute più alla scarsità di sistematiche e mirate ricerche, che all’effettiva mancanza di questa facies culturale. Di diversa importanza sono i ritrovamenti protostorici, pur meno numerosi di quelli rinvenuti a Casole. Su tutti, le due tombe eneolitiche a grotticella in località Le Lellere, presso il capoluogo, ampiamente danneggiate da lavori stradali, ma con reperti sufficienti per lo studio e la datazione.

Mancano ufficialmente ritrovamenti della prima età del ferro ( il cosiddetto Villanoviano), essendo il ritrovamento di Nerbona riferibile alla metà/fine del VII sec. a. C. mentre, i recenti scavi hanno pemesso di individuare uno stanziamento di quel periodo, a Monteriggioni. È però con il periodo etrusco propriamente detto, dall’arcaismo a tutto l’ellenismo, che la Val D’Elsa diviene un importante crocevia da e per l’Etruria centro -settentrionale.

Una testimonianza di questo boom economico è la necropoli del Casone, i cui primi ritrovamenti risalgono al 1697; Umberto Benvoglienti segnalò il ritrovamento di una sepoltura oggi non più rintracciabile ma nota come “Tomba dell’Alfabeto di Colle”: mostrava dei segni alfabetici dipinti sulle pareti Altri ritrovamenti casuali, dei quali resta memoria, avvennero nella seconda metà dell’ ‘800 sinché nel 1892 impiantando un vigneto nei terrini di Terrosi, furono scoperte alcune tombe e un anno più tardi venne individuata la tomba n. 7, nota in letteratura come “Tomba dei Calisna Śepu”, un sepolcro inviolato che accoglieva un intero nucleo familiare aristocratico, il più consistente rinvenimento di questo periodo avvenuto in Etruria settentrionale (450 reperti).

Per rendere l’idea della sua ricchezza, ecco il rapporto pubblicato da L.A. Milani nel 1894 nelle Notizie degli Scavi:

In un altipiano detto Malacena facente parte della tenuta del Casone di proprietà del sig. Giulio Terrosi, non lungi dalla stazione ferroviaria della Castellina in Chianti, eseguendosi i soliti fossati per una piantagione di viti, si rinvenne casualmente una tomba famigliare a camera, scavata nel tufo, con un pilastro centrale e banchine in giro, dalla quale si estrasse una assai copiosa ed importante suppellettile riferibile al sec. IlI a. C. Vi sono :
Trentacinque urne cinerarie delle quali quattro di alabastro e le altre di travertino.

L’urna principale, alta col coperchio m. 1,07 e larga 0,84, è di alabastro lumeggiato in oro. È bisoma, cioè fatto per le ceneri di due coniugi. Essi sono aggruppati sul coperchio dell’urna come recumbenti nel proprio letto. Sono i capi famiglia della tomba; ed i loro nomi sono scritti in bei caratteri nel fronte dell’urna foggiata a letto funebre:
mi : capra : calis’nas’ : lardai
s’epus’ : ariiiìalisla : cursmalx

Quattordici specchi di bronzo figurati.
Trentaquattro pezzi di orificeria.
Trentasette monete, fra le quali due dupondi di Volterra.
Quattordici vasi di bronzo di varie forme.
Trenta e più vasi verniciati, detti etrusco-campani, costituenti di per sé una stupenda collezione, con pezzi unici.
Ventotto vasi dipinti della Campania, per lo più krateri a campan
a.
Vi sono inoltre vari candelabri, anni e molti altri oggetti in ferro ; molti vasi locali di terra gialla di varia forma ; stoviglie che io giudico, imitazioni etrusche del genere campano ecc.
La suppellettile raccolta è tale e cosiffatta da potersi costituire con essa un Museo particolare. Il sig. Terrosi la fece trasportare di questi di appunto in Firenze nella sua abitazione per costituirvi un Museo privato. Egli promise di dare al nostro Museo Etrusco
Centrale una rappresentanza di essa. Dal mio canto promisi di illustrare la importante scoperta con una memoria a parte. Frattanto si sta ripulendo e ristaurando gli oggetti principali per poterli studiare e descrivere esattamente.”

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on March 22, 2022 06:00

March 21, 2022

La Guerra di Corinto (Parte I)

Durante la guerra del Peloponneso, conclusa nel 404 a.C., Sparta aveva goduto del sostegno della maggior parte delle poleis greche e dell’Impero persiano, finito il conflitto un certo numero di isole del mar Egeo passarono sotto il suo controllo. Questa solida base di sostegno, tuttavia, si frammentò negli anni successivi. Infatti, nonostante la vittoria fosse stata ottenuta dalla Lega peloponnesiaca, solo Sparta ricevette il bottino conquistato agli sconfitti e i tributi dell’antico Impero ateniese.Tebe, alleata di Sparta durante la guerra, non venne premiata per il contributo dato alla causa spartana, così in risposta sospese gli aiuti conferiti fino ad allora, offrendo addirittura asilo ai democratici ateniesi in esilio, vittime delle persecuzioni perpetrate dai 30 tiranni.

Gli alleati furono ulteriormente delusi nel 402 a.C., anno in cui Elea, una città membro della Lega, che aveva fatto infuriare gli Spartani nel corso della guerra del Peloponneso, venne attaccata. Ora Elea di fatto la polis che organizzava le Olimpiadi, dato che gli arbitri dei giochi, gli Hellanodikai, erano suoi cittadini, così l’opinione pubblica greca di allora condannò l’azione; Corinto e Tebe ne approfittarono così per non inviare truppe in aiuto a Lacedemoni.

A complicare la situazione, vi era anche la questione dei rapporti tra Sparta e la Persia: i Lacedemoni aveva vinto il lungo duello con Atene, proprio grazie ai finanziamenti di quello che era considerato il nemico storico dei Greci. Oltre a danneggiare la loro immagine pubblica, portò a livello politico una serie di diatribe e controversie di difficile soluzione.

Nonostante i proclami, Sparta non poteva intervenire, a differenza di Atene a supporto delle città della Ionia, perchè erano sotto il controllo del suo principale alleato, Ciro il Giovane, sì, colui che con la sua ribellione darà il via alle vicende dell’Anabasi; però poteva intervenire nell’Ellesponto, che era sotto il controllo del satrapo Farnabazo, nemico di Ciro il Giovane. Così, Sparta, approfittando di queste divisioni tra i persiani, il controllo delle polis della regione con governi oligarchici istituiti da Lisandro, che però furono aboliti dai Lacedemoni, nel timore che il generale volesse utilizzarli come base per effettura una sorta di golpe.

A seguito della battaglia di Cunassa e della morte di Ciro il Giovane, a Sparta si sentirono liberati da tutti i patti: per cui, l’esercito lacedemone sbarcò in Asia già nel 400 a.C., unendo le proprie forze ai soldati rimasti dell’Anabasi. Tra il 400 ed il 397 le operazioni militari erano state condotte dai generali Tibrone e Dercilida, i quali avevano ottenuto scarsi risultati, per di più, cominciavano a scarseggiare i fondi, per cui Sparta chiese aiuto a Tebe, Corinto e Atene, che per i precedenti rancori, risposero picche. i Tebani osarono addirittura interrompere un sacrificio che il re di Sparta Agesilao aveva tentato di eseguire nel loro territorio prima della sua partenza.

Alla fine del 397 giunse a Sparta la notizia che in Fenicia i Persiani stavano preparando una potente flotta da guerra, la quale sarebbe stata verosimilmente utilizzata contro gli Spartani nel mare Egeo. Il suggerimento di Lisandro di inviare in Asia Minore un nuovo esercito al comando di Agesilao fu accolto e nella primavera del 396 il re salpò per l’Asia Minore

La spedizione fu presentata dagli Spartani come una guerra di liberazione dei Greci d’Asia dal giogo persiano, ma in realtà si trattava di un tentativo di rafforzare l’egemonia di Sparta sull’area del mare Egeo conquistandone la costa asiatica. Lisandro desiderava restaurare i regimi filospartani (decarchie) che egli stesso aveva creato in Asia Minore alla fine della guerra del Peloponneso e che erano stati aboliti da Sparta stessa per timore dell’eccessivo potere che Lisandro aveva ottenuto grazie ad essi.Quando Agesilao si rese conto dell’autorità di cui questi godeva in Asia Minore si rifiutò di restaurare le decarchie e ruppe l’amicizia con Lisandro. In Asia Agesilao strinse un’amicizia duratura con lo scrittore ateniese Senofonte, che allora militava nell’esercito spartano e che divenne un fedele estimatore del re.

Sotto la guida di Agesilao la guerra in Asia fu poco più fortunata rispetto agli anni precedenti, riuscendo comunque a limitare il potere nella regione dei due satrapi di Frigia e Caria. Farnabazo venne sconfitto a Dascylium, dove però il comandante spartano dovette desistere nel proseguire l’attacco definitivo, perché privo di cavalleria; mentre l’anno seguente, rafforzato il contingente a cavallo e attraverso uno stratagemma ingannò Tissaferne sconfiggendolo presso Sardi. L’esito della battaglia costò caro al satrapo di Caria, il quale poco dopo fu giustiziato per ordine del Gran Re.

Il suo sostituto, Titrauste, avviò negoziati con Agesilao sostenendo che, essendo morto Tissaferne, che si era guadagnato la fama immeritata di sostenitore principale della guerra, non c’era più alcuna ragione per giustificare la presenza di un esercito spartano in Asia, e proponendo la pace a condizione che i Greci asiatici fossero indipendenti,proponendo la pace a condizione che i Greci asiatici fossero indipendenti, pagando solo il loro antico tributo alla Persia. Agesilao, in assenza di istruzioni dalla patria, acconsentì, e Titrauste lo persuase a far cessare la guerra nella sua satrapia per riprenderla in quella di Farnabazo, e anche lui fornì i soldi per la spedizione. L’idea era di utilizzare i greci per eliminare un satrapo che da lungo era insofferente all’autorità centrale. Il problema è che i persiani fecero i conti senza l’oste: Agesilao non aveva nessuna voglia di tornarserne a casa ed era intenzionato a costruire un dominio coloniale per Sparta.

Così o Titrauste (secondo Senofonte) o lo stesso Artaserse (secondo Plutarco) spedirono un ambasciatore in Grecia, Timocrate di Rodi, con un tesoro di 50 talenti, da distribuire alle principali polis, per corromperle ed invitarle a dichiarere guerra a Sparta. Timocrate visitò Atene, Tebe, Corinto e Argo, riuscendo a persuadere consistenti fazioni in ciascuna di quelle città a perseguire una politica anti-spartana (Senofonte afferma che Atene non accettò questo denaro, ma lo storico neozelandese George Cawkwell, concordando colle Elleniche di Ossirinco, non è dello stesso avviso); le Elleniche, per chi non lo sapesse, sono una storia della Grecia antica, databile fra la fine del V e i primi del IV secolo a.C., di cui ignoriamo l’autore scoperta su frammenti di papiro rinvenuti a Ossirinco, in Egitto.

Timocrate riuscì nella sua missione Tebani, che già in precedenza avevano dimostrato la loro insofferenza verso Sparta, si impegnarono a intraprendere una guerra contro l’odiata nemica. Anche Corinto, dove Timolao tenne un discorso contro Sparta riportato da Senofonte, si unì alla lotta contro Sparta… Così cominciò la guerra di Corinto

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on March 21, 2022 08:49

March 20, 2022

L’area archeologica di Monte Saraceno

Ravanusa, posta su un lieve pendio e circondata da terre fertili, fu fondata con licentia populandi del 1616 da Giacomo Bonanno, duca di Montalbano. Eppure, la sua storia è molto più antica; appena a un Km Sud-Est si erge Monte Saraceno che sul lato occidentale della valle del fiume Salso, antico Himera, fondamentale via di percorrenza della costa meridionale della Sicilia verso l’entroterra. L’altura è costituita da due cime rocciose, l’una ad Ovest e l’altra ad Est divise tra loro da un’insellatura. A sud della cima occidentale si sviluppa un altipiano che dagli archeologi è stato denominato pianoro sommitaleo acropoli.

Le più antiche testimonianze di vita nel sito di Monte Saraceno risalgono alla preistoria: si tratta di tracce di frequentazione dell’Età del Rame (III millennio a.C.), del Bronzo Antico (inizio II millennio a.C.) e del Bronzo Medio (XIV-XIII secolo a.C.), documentate sul pianoro sommitale del monte.Tra l’VIII e il VII secolo a.C. il pianoro accoglie un villaggio, probabilmente di genti sicane, con capanne circolari. Tale insediamento, alla metà del VII secolo a.C., viene distrutto, ma rinasce subito dopo con case a pianta rettilinea che si estendono, oltre che sul pianoro sommitale, anche sul terrazzo superiore.La vita del villaggio indigeno si interrompe nel secondo venticinquennio del VI secolo a.C. (per un conflitto con i Greci?), ma il centro viene immediatamente ricostruito secondo criteri diversi, acquistando la fisionomia di una città. La sommità del monte sembra avere ora una destinazione prevalentemente religiosa e assume in una certa misura l’aspetto di “acropoli”; l’abitato, oltre che nel terrazzo superiore, si estende anche al terrazzo inferiore, secondo un impianto ortogonale.

Il centro si munisce di un sistema difensivo con mura di fortificazione in tecnica poligonale. Le necropoli occupano ampie aree della zona collinare che si estende ai piedi del monte e sono caratterizzate da tombe di tipologia greca, i cui corredi indicano un tenore di vita abbastanza agiato della popolazione. Questa fase dal secondo venticinquennio del VI al terzo venticinquennio del V secolo a.C. segna il momento di massima fioritura del centro.Il rinnovamento della città appena descritto non è stato interpretato in maniera univoca dagli studiosi. Una delle spiegazioni proposte vede nel fenomeno il segno dell’arrivo dei Greci nel sito, con il conseguente assoggettamento dell’elemento indigeno. Un’altra interpretazione, più recente, riferisce il cambiamento a quel processo di profonda “acculturazione” che nel VI secolo a.C. portò i centri indigeni dell’interno della Sicilia ad adottare modi di vivere “alla greca”, pur restando indipendenti politicamente dai Greci.Nel secondo venticinquennio del V secolo a.C. il quartiere del terrazzo inferiore viene abbandonato, ma la città continua a vivere restringendo i propri confini entro i limiti del terrazzo superiore.

Ciò potrebbe forse essere connesso con il periodo di disordini e conflitti che seguì alla caduta delle tirannidi a Gela e Agrigento.Successivamente, nel terzo venticinquennio del V secolo a.C., sul pianoro sommitale è documentato un evento traumatico che segna la vita del centro, pur non comportando una distruzione vera e propria dell’abitato del terrazzo superiore.Nell’ultimo venticinquennio del V secolo a.C. la città si risolleva, con una nuova fase edilizia sul pianoro sommitale ed il riutilizzo delle strutture precedenti nel terrazzo superiore. Si costruisce una nuova fortificazione in tecnica isodoma, con un doppio circuito murario, l’uno intorno al pianoro sommitale, l’altro poco più a valle del terrazzo superiore. La necropoli occupa un’area in pendio ad Ovest del monte. E’ presumibile che, alla fine del V e nella prima metà del IV secolo a.C., il centro, in quanto fortificato e strategicamente funzionale, abbia assunto un ruolo di carattere più militare nell’ambito della politica di Dionisio I di Siracusa.Intorno alla metà del IV secolo a.C. è documentata un’altra cesura traumatica: abbandonato l’abitato del terrazzo superiore, la città occupa ormai solo il pianoro sommitale, con costruzioni affrettate e modeste che sopravvivono fino ai primi decenni del III secolo a.C., forse svolgendo soltanto la funzione di postazione militare.Diverse sono state le proposte di identificazione del centro, fonti letterarie antiche identificano la città greca con “Kakyron”

I primi accenni all’importanza archeologica di Monte Saraceno si trovano in alcuni autori del settecento, che parlano di “grandi ruderi di una città distrutta” ben visibili all’epoca nel sito ed erroneamente attribuiti ai Saraceni, da cui derivò il toponimo. Molto tempo dopo, nel 1928, P. Marconi segnalò materiali preistorici sulla sommità del monte e resti di “una borgata sicula” nel periodo meridionale. Ma la prima indagine di scavo, benchè limitata, fu condotta nel 1935 da P. Mingazzini, presso il poggetto di Sud-Est, dove furono scoperti un saccello e un tratto di fortificazione, che lo studioso attribuì ad una città greca, forse Maktorion.Nel 1956 D. Adamesteanu, con un’esplorazione di superficie, riconobbe tre edifici sacri sul pianoro sommitale ed una stipe votiva al sacello già individuato dal Mingazzini, e propose l’identificazione del centro con la città di Kakiron.

Fu nel 1973 che prese finalmente avvio una ricerca sistematica ad ampio respiro nel sito, per iniziativa dei E. De Miro, Soprintendente ai Beni Culturali di Agrigento, con numerose campagne di scavo che si sono susseguite nell’area dell’antico insediamento. Nel 2007, infine, con un progetto finanziato dalla Comunità Europea (P.O.R. Sicilia 2000-2006), i resti antichi emersi nel corso degli scavi sono stati resi fruibili al pubblico.

I resti archelogici sono conservati nel locale museo “Salvatore Lauricella”. Nel museo cittadino si possono ammirare terrecotte policrome che ornavano i tetti degli edifici sacri, tra cui spicca il gorgoneion, le arule fittili a decorazione dipinta, vasellame da mensa, anfore, pesi da telaio, in particolare il singolarissimo otre fittile a forma di testuggine e il vaso plastico raffigurante un gruppo dionisiaco di satiro e asino. Il percorso di visita del Museo, articolato in due sale, si basa su criteri sia cronologici che topografici: vengono infatti presentate in successione le fasi di vita del centro, dalla preistoria fino al III sec. a.C., secondo un’articolazione che tiene conto, quanto più è possibile, delle diverse aree (luoghi di culto, quartieri abitativi, fortificazioni, necropoli.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on March 20, 2022 07:43

March 18, 2022

Il Cristo Portacroce

Il Cristo portacroce è un dipinto a olio su tela (71 × 91 cm) databile al 1508-1509 circa e conservato nella Scuola Grande di San Rocco a Venezia e benché non sia molto noti al pubblico, è una sorta di rebus per gli studiosi. Il dipinto fu trasferito nella Sala dell’Albergo della Scuola di San Rocco, dove si trova tutt’oggi, solo nel 1955. Ma quale la sua storia procedente ?

Purtroppo, mancando un documento che fornisca notizie precise, bisogna ricorrere a tutto quanto al dipinto fa riferimento, anche indirettamente. E la prima menzione si trova in una delibera della Scuola in data 22 luglio 1519, quindi in quell’anno la tela è sicuramente in possesso dell’istituzione caritativa veneziana. Dato che all’epoca aveva una fama di quadro miracoloso, ciò implica che fosse già da qualche tempo in possesso della Confraternita.

Pare infatti che all’inizio fosse usata come Confalon e stendardo della Scuola. A riprova di questo vi era una delibera che specificava “ … et quelo continuamente se porta fore da Caxa con poco rispeto …”, nel timore che soprattutto d’inverno, nel trasporto funebre di qualche confratello, cadendo il portatore l’immagine si dovesse “franzer e spezzar”, stabilivano che solo nelle principali solennità o in casi di eccezionale importanza si potesse togliere di chiesa l’immagine miracolosa, e, in suo luogo, si usasse uno dei Crocefissi che si trovavano in chiesa.

Un altro documento del 22 luglio 1519 prova che era posto come pala d’altare “al prinzipio d’altar”, sistemato in modo tale da poter essere sfilato agevolmente per essere portato in processione. Un’incisione del 1520, prova che era situata su di un tabernacolo in marmo sormontato da una lunetta con Padreterno benedicente e Spirito Santo, circondati da putti con in mano i simboli della Passione. Passò poi sull’altare della Cappella absidale sinistra della chiesa.

Ma accanto a questa, terminata nel 1508, sul lato delle absidi della basilica dei Frari, esisteva già una Scuola di San Rocco, ma era molto piccola, come ancor’oggi si può constatare. Sopra l’ingresso, compare il Santo protettore nell’atto di sollevare la veste per mostrare un bubbone sulla gamba sinistra, segno inequivocabile della peste che aveva contratto. Le condizioni economiche dell’Istituzione, in quegli anni, erano tutt’altro che floride, e non a caso, il Sanudo proprio nel 1509 nei suoi diari, annota che invece di pagare 200 ducati, tassa prevista per le Scuole grandi, ne pagava solo 100 “per essere povera” .

La situazione mutò radicalmente nel giro di pochi anni, perché fra il 1514 ed il 1517 i confratelli furono in grado di acquistare un’ampia area sull’altro lato del campo e, abbattuti gli edifici che vi sorgevano, gettarono le fondazioni per una nuova e molto più sontuosa fabbrica. Tra il 1516 ed il 1524 si attendeva all’erezione di un ricco altare marmoreo ed il numero dei soci era ormai arrivato a cinquecento. Questo perchè ci un meglio specificato miracolo connesso al quadro e cominciarono a fioccare le elemosine, cosa che è testimoniata anche da Vasari, che lo definisce

“la maggior divozione di Venezia, ed aveva raccolte di limosine più scudi… che in tutta la loro vita guadagnato non avessero Tiziano e Giorgione”

Perchè dicevo che la sua attribuzione è fonte di quantità industriale di polemiche ? La colpa è sempre del solito Vasari, che ne combina una delle sue. Nella prima delle Vite 1550 la descriveva come opera di Giorgione, ma nel 1568, nella seconda edizione, si correggeva attribuendola a Tiziano. Solo alla fine dell’Ottocento l’opera fu restituita a Giorgione, innescando il moderno dibattito attributivo, tuttora vivissimo.

Ora, però negli ultimi anni, la posizione pro Giorgione si sta rafforzando sempre più. Su uno sfondo scuro si stagliano a mezza figura Gesù con la croce sulla spalla e un carnefice che gli pone al collo un cappio di corda. Altre due figure secondarie si distinguono alle estremità. Gesù in particolare, con un’espressione dolce e malinconica, gira la testa verso lo spettatore, invitandolo quasi a partecipare alle sue sofferenze. Pare che il profilo arcigno dello sgherro e quelli dei personaggi laterali rimandino a disegni di Leonardo da Vinci, come la costruzione geometrica del quadro basata su un quadrato inscritto in cerchio.

E sappiamo come il pittore fiorentino fosse studiato a fondo da Giorgione: da notare, inoltre, come il modello del Cristo portacroce trovi le sue profonde radici nella tradizione veneta e veneziana in particolare, ma che questa opera particolare da quel modello si distacchi per inseguire suggestioni probabilmente germaniche ma sicuramente non italiche. Questo, sino a una decina d’anni fa, era considerato un argomento pro Tiziano: con la revisione del corpus giorgionesco e delle influenze ricevute sia da Durer, sia da Bosch… Tra l’altro gli sgherri, oltre alle caricature di Leonardo da Vinci ricorderebbero alcune delle figure che appaiono nell’opera di Bosch la Salita al Calvario di Gand.

Come in Giorgione Bosch, rappresenta la scena su un fondo scuro, per dare massima evidenza ai volti e a alle loro espressione: ma se l’italiano semplifica, riducendo il tutto all’essenziale, il fiammingo è vittima di una sorta di horror vacui. Più di diciotto volti, si accalcano attorno al Cristo che sta portando la croce, con uno sguardo di malinconica rassegnazione, dagli occhi chiusi e abbassati.

La Salita al Calvario di Gand mette in scena la bestialità e la ferocia della folla di fronte all’umanità di Gesù Cristo. La tavola, popolata da volti grotteschi, è costruita su due diagonali che, sviluppandosi lungo la croce e l’asse delle figure, si incontrano in quello rassegnato di Cristo, che contrasta fortemente con i lineamenti caricati degli sgherri circostanti.

Ai quattro angoli si trovano figure significative della via Crucis. In basso a destra si vede il cattivo ladrone, che ringhia agitato contro tre volti animaleschi che lo dileggiano. In quello in alto a destra si vede invece il buon ladrone, quasi un moribondo che viene confessato da un frate dal volto spaventoso. La presenza dei due ladroni, tipica anche di altre opere di Bosch, è da mettere in relazione con l’esempio offerto al fedele, di possibile redenzione o di adesione totale al male. Nell’angolo in basso a sinistra si vede la Veronica con la sindone, che volge la testa all’indietro e ha gli occhi socchiusi. In alto a sinistra si distingue infine Simone di Cirene, col volto quasi rovesciato verso l’alto, il cui gesto di tenere la croce pare più un ostacolo che un aiuto a Gesù. È curioso notare come i tre personaggi positivi – Gesù, la Veronica e Disma – abbiano tutti gli occhi chiusi o semichiusi, come per estraniarsi dalla scena.

In questa tavola, Bosch utilizza la grottesca e la deformazione e nessun altro simbolo per presentare la malvagità della scena. L’intera composizione è popolata da personaggi negativi, per lo più col volto scuro, come a simboleggiare i loro cattivi sentimenti, deformati da un’intera gamma di smorfie e distorsioni caricaturali che cercano di rappresentare tutte le malvagità e le bassezze dell’uomo.

Tornando al nostro Cristo Portacroce, l’ultimo argomento a favore di Giorgione ci viene dalla Scienza, in particolare dall’indagine radiografica in cui le opere di Tiziano presentano ricchezza d’impasti, scioltezza e vivacità di pennellate, con guizzi di luci, con ritorni, variazioni di tono, impiego di un bianco molto denso per l’incarnato (biacca, PbSO4, cosa che comporta una notevole riflessione, talché le radiografie appaiono come i negativi di una foto), il colore è applicato con variazioni di densità, con estrosità; il disegno è impetuoso con frequenza di piccoli e grandi pentimenti.

Ben diverso l’esito dell’indagine radiografica sulle opere di Giorgione: lo strato pittorico è molto esiguo e di densità molto bassa, inoltre è applicato senza impeto di pennellata, specie per la costruzione dei visi e delle parti nude, e soprattutto non presenta biacca per cui non si ha l’effetto “immagine al negativo” tipica dei dipinti di Tiziano. L’impasto è reso con piccole pennellate, a tocco, che non lasciano traccia.

Ebbene la radiografia del Cristo Portacroce risulta essere compatibile con lo stile giorgionesco..

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on March 18, 2022 07:43

March 17, 2022

Il sepolcro di Nofri Strozzi

Fra le questioni più dibattute nella letteratura sulla sagrestia di Santa Trinita figurano la concezione, l’esecuzione, la datazione e l’assetto originario del monumento funebre di Nofri Strozzi, formato dalla bara inserita nell’arcosolio a cavallo fra le due cappelle affiancate, che impatta anche sia sulla sua valutazione stilistica, sia sull’attribuzione.Si tratta di un sarcofago poggiante su quattro sfere, decorato da ambo i lati con due genietti in volo contrapposti che portano l’arma della famiglia del defunto. La cassa è inserita entro una lunetta decorata da putti con ghirlande, realizzati a bassorilievo.

Le più recenti ricerche d’archivio ci stanno aiutando a uscire da quello che sino a qualche anno fa, sembrava un vero e proprio ginepraio. Nell’atto di donazione del 1416 sepolture sono previste fin dall’inizio della storia non nella sagrestia ma circa, vicino, alla sagrestia, per cui, nella testa di Nofri Strozzi, vi era l’idea di considerare la cappella funebre come un edificio distinto, che avrebbe custodito la sua tomba.

È possibile che la decisione di adottare una soluzione monumentale per la sepoltura sia stata presa precocemente, che si sia pensato da subito alla collocazione della bara nell’arcosolio? Le differenze, rilevate a più riprese, fra la decorazione degli archivolti e quella del sarcofago sarebbero allora imputabili a uno scarto temporale di pochi anni, a mani differenti, e forse al contribuito di maestri diversi nell’ideazione. Tutto questo però implica che gli Strozzi fossero certi, quantomeno dal 1418 – l’anno di esecuzione del cassone – di disporre dello spazio laterale rispetto alla cappella dei Santi Niccolò e Onofrio, su cui si apre l’arcosolio. E questo, come accennato parlando dell’architettura della sacrestia, parrebbe appurata questa datazione.

Tale acquisto, voluto da Palla, avrebbe cambiato i piani originali del padre e sarebbero stati ulteriormente cambiati attorno al 1423, quando i lavori sono prossimi alla conclusione, quando si registrano spese consistenti sostenute dallo Strozzi, che riguardano la sistemazione del braccio destro del transetto. Contemporaneamente al montaggio del portale esterno della sagrestia vengono finanziati lavori alle cappelle più vicine, quella degli Ardinghelli, per la quale Palla paga il restauro, un nuovo reliquiario e una pala d’altare, e quella dei Petriboni, cui sono destinati i fondi sborsati per la donazione delle pareti.

Se si aggiunge la volontà di collocare il proprio stemma in quella parte della chiesa, è evidente come Palla sia interessato a conferire un assetto definitivo al transetto, risolvendo l’annoso problema dei ritardi nella realizzazione delle decorazioni delle cappelle, sotto l’egida degli Strozzi. Il che rende decisamente improbabile che allo stesso tempo – e nel momento in cui l’Adorazione dei Magidi Gentile da Fabriano viene collocata sull’altare della cappella – si lasci in sospeso l’esecuzione dell’opera principale all’interno del complesso, per cui l’intera operazione viene condotta.

Come dicevo, proprio in relazione alla datazione, gli storici dell’Arte si stanno scannando sulla paternità delle sculture del sepolcro, formulando le ipotesi più bizzarre. Prima di accennarle, si possono fare una serie di considerazioni sulla decorazione architettonica. I capitelli dell’arcosolio sono fra i primi del Quattrocento fiorentino a riprendere il tipo antico con volute a doppia S affrontate, un registro di acanto e palmette. Un tipo che conoscerà una grande diffusione nei decenni successivi. Il disegno di questi esemplari presenta un marcato procedimento di astrazione che li accomuna ai capitelli del portale della sagrestia. Anche la resa dell’acanto è decisamente simile, con lobi tondeggianti e apici che si flettono
in avanti, una soluzione ripresa dall’antico e piuttosto rara all’epoca. Lo stesso si può dire sull’esecuzione delle foglie delle mensole sotto l’arcosolio e di quelle della candelabra, se così la si può definire, negli sguanci del portale. La modanatura a dentelli – tipicamente ghibertiana – a sua volta richiama, in tono minore, quella delle finestre sulla facciata della sagrestia.

Non è improbabile che si tratti di soluzioni uscite dalla bottega di Ghiberti, il quale, in quegli anni verosimilmente collabora anche con Gentile da Fabriano al disegno della cornice della pala Strozzi: gli è stato attribuita di recente la paternità dei capitelli a foglie d’acqua sui montanti laterali e a fianco dei timpani mistilinei, che non a caso riprendono il tipo utilizzato per i peducci del complesso di sagrestie e cappelle degli Strozzi.

Ora, per decenni, gli storici dell’arte, per decenni hanno attribuito alla faccia dei documenti, il sepolcro o a Donatello, o a Michelozzo: ora se si vedono i lavori scolpiti dai Donatello in quegli anni, con il loro espressionismo e tensione realistica, ci troviamo in una dimensione artistica differente da quella erudita e antiquaria di Nofri Strozzi. Per Michelozzo, dato che era a bottega da Ghiberti in quegli anni, non è da escludere a priori un suo intervento nella realizzazione della decorazione architettonica.

Sempre i documenti d’archivio, ricevute di pagamento in pratica, hanno permesso di chiudere la questione: l’autore dei rilievi è Pietro Lamberti. Ma chi era costui, visto che, giustamente, non se ne parla nei manuali scolastici di Storia dell’Arte ? Pietro era scultore di famiglia: facevano lo stesso mestiere il padre Niccolò, il nonno paterno Pietro e il materno Guglielmo da Tolosa, padre della mamma Caterina. Pietro nacque con ogni probabilità a Firenze intorno al 1393. È documentato la prima volta nel 1410, impegnato con un Vittorio di Giovanni a “nettare” alcune parti, non identificate, di un tabernacolo di Orsanmichele, su incarico del padre allora capomastro del portale della facciata.

Il 2 maggio 1415 si immatricolò all’arte dei legnaioli e scalpellini, dicendosi residente nella parrocchia di S. Michele Visdomini, per poi trasferirsi a Venezia a seguito del padre, per poi tornare a Firenze. Tra l’altro, Nel 1423 Pietro firmò insieme con Giovanni di Martino da Fiesole il Monumento funebre del doge Tommaso Mocenigo, morto quell’anno, custodito nella chiesa veneziana dei Ss. Giovanni e Paolo.

La tomba è costituita da un sarcofago sospeso a parete su mensole e decorato da nicchie con le personificazioni delle Virtù, sul quale è adagiato il corpo del doge. Ai lati del defunto due angeli reggicortina sostengono un baldacchino, sul cui coronamento si erge la statua della Giustizia, l’arca è sormontata da un doppio ordine di nicchie che simula un altare. Il registro superiore ospita statue di santi e un’Annunciazione; alla base del sarcofago una lapide riporta un epitaffio e i nomi degli autori. Il sepolcro è ispirato nella struttura ad alcune tombe veneziane preesistenti, tra cui quelle dei dogi Marco Corner e Antonio Venier, entrambe in Ss. Giovanni e Paolo. Tra l’altro parrebbe che Donatello e Michelozzo, abbiano studiato questo sepolcro, per la tomba di Baldassarre Cossa, antipapa con il nome di Giovanni XXIII, nel Battistero di Firenze.

Pietro nello scolpire il sepolcro Nofri, diede del tema una chiara interpretazione all’antica, lo dimostrano ad evidenza i putti reggistemma, quelli allacciati alle ghirlande, e le protomi leonine scolpite sui fianchi, tutti motivi provenienti dalla scultura funeraria antica; la scelta dell’apparato decorativo architettonico; e la clamorosa ripresa del tipo dell’arcosolio. Un insieme di soluzioni che si affiancano, e dialogano, con le altre di cui si è detto. Grazie al lavoro di Pietro e di Ghiberti, Palla Strozzi riusci nell’impresa di costruire intorno all’edificio di carattere ancora gotico – le volte, le proporzioni – l’apparato all’antica quanto più aggiornato poteva fornirgli la cultura artistica del tempo.

Nel promuovere l’intervento, Palla sembra fare in modo che si istituisca un dialogo con le forme trecentesche, famigliari a Nofri: nella sagrestia e nella cappella minore troviamo archi e volte a tutto sesto. Si tratta di ambienti pensati come secondari, con un apparato decorativo ridotto – anche sotto l’arcosolio – che asseconda il principio del decorum, ma le volte assumono profili più consoni all’antico. A questo proposito ci si potrebbe chiedere se la comparsa in un documento contabile dell’espressione «le volte fatte a botta II recate in quadro braccia 54 5/6» – riferibile a una delle crociere della sagrestia minore – nel configurare una descrizione geometrica della volta come intersezione di due volte
a botte, non voglia alludere alla differenza, non solo formale ma concettuale, rispetto alle crociere a sezione ogivale dell’ambiente attiguo. In ogni caso pare questa la prima occorrenza nota della locuzione «volta a botte».

E forse anche la sequenza degli archi lignei della pala di Gentile – ancora Ghiberti? – sorretti al centro da peducci che riecheggiano quelli lapidei sulle pareti circostanti, costituiscono un intenzionale variazione sul tema dell’architettura della sagrestia. Peraltro quello che fatichiamo a considerare nel suo insieme un edificio all’antica trova un inaspettato riscontro nella formella di Salomone e la regina di Saba, eseguita da Ghiberti a distanza di un paio di decenni. Nel tempio, che si vuole all’antica, si alternano volte a crociera ogivale, archi a sesto acuto e volte a tutto sesto, mentre le bifore allungatissime dell’abside si confrontano con le finestre a tabernacolo della facciata.

Per non parlare dei capitelli pseudo-corinzi brunelleschiani a confronto con esemplari riminiscenti di forme provenienti dal secolo precedente. Certo il tempo è passato, le soluzioni non sono più le stesse, ma quello che più colpisce è questa idea di antico in cui ritroviamo ancora soluzioni goticheggianti. Ci si può domandare allora come apparisse la sagrestia di Santa Trinita appena costruita, con le sue forme antiche nuove di zecca: probabilmente come la prima architettura antichizzante della Firenze del tempo. Presto accantonata a favore degli exploits di Donatello e Filippo Brunelleschi, che si avvia a diventare, come scrive Giovanni Rucellai, il «risuscitatore delle muraglie antiche alla
romanescha»

Sul cantiere della sagrestia di Santa Trinita però si assiste a qualcosa di diverso e di più rispetto al cortocircuito fra un committente colto e umanista, che sa di greco e si intende di scultura, e un artista ben disposto verso l’antico. La realizzazione di quello che possiamo considerare il primo edificio all’antica della Firenze del Quattrocento si deve probabilmente a una volontà di autocelebrazione degli Strozzi in quanto membri del ceto dei cavalieri. A quanto pare, c’era il precedente – probabilmente ghibertiano – della tomba di Maso degli Albizzi in San Piero Maggiore, che dà inizio al revival del tipo ad arcosolio, una sorta di attributo funebre del cavaliere fiorentino, si è detto, cui gli Strozzi danno il loro determinante contributo.

Palla tuttavia va oltre nella volontà antiquaria e nell’attestazione di status, come risulta chiaramente dall’ostentazione di emblemi e attributi cavallereschi, anche nella pala di Gentile, ben visibili – in modo programmatico – sulla facciata della sagrestia: qui i cimieri sugli emblemi degli Strozzi dialogano con le finestre all’antica, di un antico fiorentino. Ed è molto probabile che questo abbia a che fare non solo con mentalità e gusto, ma con il nuovo ide ale della cavalleria che si diffonde a Firenze in quegli anni grazie all’opera di Leonardo Bruni. Palla conosce bene il De militia, che fa parte della sua biblioteca

La stesura risale all’incirca al 1421, ma possiamo ben pensare che le opinioni sull’argomento circolassero anche in precedenza, magari sollecitate proprio da Palla e da Rinaldo degli Albizzi, dedicatario del libro. Bruni fa risalire gli ordini della cavalleria ai tempi di Roma antica: un ritorno alle origini che coinvolge anche la storia di Firenze, e si rispecchia nel presente, prescrivendo ai moderni cavalieri il compito,
nuovo e antico insieme, di servire lo Stato. Non più i fasti borgognoni in voga fino a qualche anno prima, ma una rinnovata ideologia cavalleresca e civica, che affonda le sue radici nell’antichità

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on March 17, 2022 08:01

March 16, 2022

Le fabbriche di San Lorenzo

San Lorenzo vide la luce tra 1884 e 1888, a ridosso della proclamazione di Roma capitale avvenuta nel 1870 (ed ufficializzata nel 1871 con lo spostamento da Firenze). Una smania incontrollata di opera edilizia aveva portato alla costruzione disorganizzata di un enorme numero di edifici, più che altro nel tentativo di ottenere facilmente fondi dagli istituti di credito e senza alcuna attenzione alle più basilari norme igieniche e sociali, dato che mancavano spesso i servizi igienici, dato che i palazzinari dell’epoca a tutto pensavano, tranne che a realizzare le fogne

Le prime abitazioni furono costruite nei pressi della attuale Porta Tiburtina, una volta denominata Porta San Lorenzo, da cui il quartiere prende il nome. Tra 1888 e 1890 questa corsa incontrollata era sfociata in una prevedibile crisi, che tra l’altro porterà allo scandalo della Banca Romana, in seguito alla quale molto palazzi erano stati portati a termine in maniera approssimativa o, nei casi peggiori, lasciati inconclusi. Di conseguenza, le case resteranno a lungo disabitate fino a che la pressante richiesta nella nuova capitale porterà ad assegnarle agli immigrati provenienti dalle regioni circostanti come l’Abruzzo, la Campania e le Marche. Tra l’altro, a titolo di curiosità, se leggete i giornali dell’epoca, le stesse lamentele dei radical chic dell’Esquilino sugli stranieri, puzzano, sporcano, non rispettano le regole, sono delinquenti e perdittempo, erano dirette ai molisani e agli abruzzesi, spesso nonni degli attuali brontoloni.

Tornando a San Lorenzo, le cattive condizioni igieniche in cui versavano le case fu la causa di una epidemia di colera nel quartiere, a seguito della quale iniziarono, finalmente, le opere di risanamento.

I primi abitanti di San Lorenzo furono per la maggior parte gli operai edili, i serciaroli, e i netturbini, in sostanza i proletari che erano attirati nella grande città con la speranza di trovare un lavoro che nei sobborghi non riuscivano a trovare. Le vie del quartiere iniziarono quindi a popolarsi di botteghe artigiane, chioschi di fiori appena fuori dal Cimitero e moltissime osterie di cui San Lorenzo si arricchì particolarmente perché gli abitanti, a causa delle case malsane e buie, preferivano trascorrere più tempo possibile fuori casa. Si fa quindi strada un quartiere popolare in cui, senza volerlo, si raccolgono tutti i rivoluzionari dell’epoca e gli anarchici, che spesso lavoravano all’Esquilino, tanto da organizzare a via Lanza, la loro federazione, dedicata ai Martiri di Chicago.

Uno di questi anarchici era Pietro Acciarito, un fabbro che aveva la bottega nella nostra via Machiavelli. Il 20 aprile 1897 Pietro chiuse la propria officina di fabbro e si recò dal padre, salutandolo ed informandolo che sarebbe stata l’ultima volta che si sarebbero visti. Il padre Camillo gli chiese allora se stesse sul punto di emigrare o di suicidarsi. Il figlio rispose che lo avrebbe scoperto presto e che si sarebbe recato all’ippodromo.

Consapevole delle idee del figlio, e del fatto che il 22 aprile Umberto I avrebbe presenziato alle corse ippiche sull’Appia, organizzate in occasione del 29º anniversario del suo matrimonio con la regina Margherita, il padre si recò presso la Polizia e avvisò di stare pronti a fronteggiare un attentato al re in quella occasione. Anche perchè il padre di Pietro era monarchico convinto, lavorava come portiere in un condominio borghese a Piazza Vittorioe andava orgoglioso di condividere con Umberto I la data di nascita….

Nonostante l’avvertimento di Camillo, Pietro, mescolatosi il 22 tra la folla che salutava l’arrivo del sovrano presso l’ippodromo, riuscì ad avvicinarsi armato di coltello alla vettura reale. Re Umberto, notata tempestivamente l’arma impugnata, fu in grado di schivare con facilità il tentativo dell’anarchico di sferrargli un colpo e rimase illeso. Essendo appena riuscito a graffiare la carrozza che recava il sovrano, Acciarito si allontanò con calma e, nella confusione seguita al suo gesto, fu fermato solo dopo ch’ebbe percorso circa 50 metri. Il re, non volendo apparire scosso dall’evento, assistette alle corse come da programma.

Ovviamente, l’evento scatenò un’ondata di repressione ai danni di tutta la Sinistra Romana, concetto molto vago all’epoca, che comprendeva anche poveri Cristi che avevano chiesto un aumento di stipendio al proprio datore di lavoro e diede origine a una sorta di caso Pinelli dell’epoca. Fu arrestato un amico di Pietro, Romeo Frezzi, falegname, che aveva l’unico torto di apparire in una foto con l’attentatore e che non era neppure anarchico.

Immaginando chissà quale complotto, Romeo fu torturato morì al terzo giorno d’interrogatorio. La prima versione della sua morte volle che Frezzi si fosse suicidato battendo ripetutamente il capo contro il muro della propria cella. Tale versione fu tuttavia rapidamente sottoposta a verifica e risultò poco credibile. Venne pertanto condotta una nuova indagine, che si concluse individuando la causa della morte in un ictus. Anche questa versione dei fatti, però, fu oggetto di dispute e le autorità furono costrette ad intraprendere una terza indagine, la quale concluse che Frezzi si era suicidato lanciandosi da un’altezza di sei metri. Alla fine si scoprì che era stato suicidato, dato che, il rapporto dell’autopsia, che era stato fatto scomparire dai poliziotti, rivelò un inaudito pestaggio: si parla infatti di fratture al cranio, alla colonna vertebrale con distacco completo, alla spalla destra, alle costole e lesioni alla milza e al pericardio.

Nonostante le proteste popolari, 22 agosto, parte da Campo de’ Fiori una manifestazione di 15000 persone contro gli assassini “morali e materiali” del Frezzi, i poliziotti che interrogarono Romeo furono assolti “insufficienza di indizi” e il Primo Ministro Marchese di Rudinì, palermitano, si limiterà ad esonerarle dal servizio; i vertici della questura saranno invece assolti per “inesistenza di reato”. Tornando al nostro San Lorenzo, in parallelo a queste vicende, con il rinnovamento del quartiere, sotto Ernesto Nathan, nei primi del Novecento vi nascono le prime industrie: sono fabbriche di modeste dimensioni, in cui trovano lavoro un centinaio di operai.

La prima di queste è il Pastificio Cerere, La società viene fondata nel gennaio 1905 e l’anno dopo ci si rivolge all’ingegner Pietro Satti perché realizzi la sede.La fabbrica non sorge dal nulla, su un terreno libero, acquistato appositamente. In questo punto, infatti, esistono già due edifici, di cui uno è a destinazione residenziale, costruito nel 1898, l’altro industriale, a quattro piani, eretto nel 1893. Compito dell’ingegnere è riadattare quello che c’è alle esigenze della fabbrica. Muratura di mattone, colonne in ghisa, finestroni con archi ribassati, cornici: il pastificio Cerere si presenta con una sobria eleganza, caratterizzato da alcuni elementi che rimandano al liberty. Uno stile del tutto assente nelle costruzioni vicine.

La fabbrica fornì pasta e farina alla capitale fino al 1960, vi si servica e che circa un decennio dopo divenne luogo d’arte. La storia del Pastificio Cerere e della sua riconversione inizia quando l’imprenditrice Felicina Ceci, proprietaria dell’edificio insieme a sua sorella Adriana, accettò di affittarne i locali ad alcuni giovani artisti. Il primo a istallarvi lo studio fu Nunzio, che ricorda di essere arrivato nel 1973; in seguito vi si insediarono Bruno Ceccobelli, Gianni Dessì, Giuseppe Gallo, Pizzi Cannella e Marco Tirelli. L’edificio con i montacarichi, i grandi ambienti aperti e le ampie finestre, offrì agli artisti spazi ideali per i loro studi. Infatti, i nuovi inquilini ne ristrutturarono gradualmente gli interni, mentre le zone comuni non vennero modificate. Anche dopo il generale rinnovamento, la memoria dell’uso industriale del Pastificio non venne cancellata e al suo interno si conviveva, come a Roma si fa da secoli, con le tracce archeologiche derivanti dalla sua precedente funzione.

Nell’estate del 1984 il critico Achille Bonito Oliva rese celebre il Pastificio con la mostra “Ateliers”. Eccezionalmente per la prima volta si aprirono al pubblico gli spazi dove abitavano e lavoravano gli artisti che, non costituirono un gruppo omogeneo per poetica o linguaggio, ma appartenendo alla stessa generazione, istaurarono un contatto continuo e spesso profondi rapporti di amicizia facilitati dalla struttura del Pastificio con i suoi spazi contigui di lavoro e luoghi di incontro comuni.Oltre ai protagonisti che tradizionalmente vengono indicati come il Gruppo di San Lorenzo, nel corso degli anni l’edificio ha visto il susseguirsi di tanti e diversi artisti, poi anche critici, intellettuali ed esponenti dello spettacolo che hanno gravitato intorno a questa fucina divenuta un punto di riferimento per la cultura, Nel 2002 dalla mostra “Interno F.M.” nasce l’idea di dotare il Pastificio Cerere di uno spazio espositivo dedicato all’arte contemporanea e sempre aperto al pubblico.

La seconda fabbrica fu la birreria Roma, in via degli Apuli a Roma: era un isolato triangolare composto da vari edifici iniziato nel 1919 e finito nel 1924. Era nota soprattutto per i suoi cavalli di razza normanna, molto grandi, che trainavano i carri di birra. L’azienda romana fu assorbita nel 1920 dalla birreria Paszkowski. Questa birreria nasce a Firenze il 12 febbraio 1903 con la denominazione C.Paszkowski e C. che, con atto del 15 maggio 1905, cambia denominazione in S.A.Birra Toscana Paszkowski.

Il capitale iniziale era di 500.000lire che verrà portato nel 1920, a 5,9 milioni in concomitanza con l’assorbimento della Società Birra Roma. Paszkowski rimane a capo dell’azienda fino al 1933 quando subentra un Gruppo con a capo Alfonso Burgisser presidente della Banca Toscana. La nuova direzione, per far fronte ai debiti, è costretta nell’ottobre del 1934 a ridurre il capitale e ad emettere azioni privilegiate sottoscritte per intero dalle genovese Società Anonima Cervisia.L’opera di risanamento però non porta i frutti sperati nonostante si ricorra ad un prestito bancario. Nel 1935 è giocoforza cedere le fabbriche di Firenze e Roma alla Whurer.

La fabbrica di San Lorenzo produceva birra, orzo tallito, ghiaccio, gazzose, seltz e affini e dava lavoro 500 operai e 30 impiegati. Il 19 luglio 1943 era lunedì, il bombardamento alleato avvenne le 11 del mattino quando la struttura era piena di operai. Venne colpita da bombe al Fosforo, incendiarie. La fabbrica bruciò per diversi giorni, con tutti gli operai dentro, e su via dei Sardi molte testimonianze ricordano il carro della birra rovesciato con i cavalli morti con le gambe insù.

L’ultima fabbrica era l’ex Vetreria Sciarra, che si trova in Via dei Volsci all’angolo con Via dei Reti: l’origine dell’edificio risale al 1926, quando venne realizzata come stabilimento per l’azienda fondata dell’imprenditore Pietro Sciarra.L’edificio è in stile anni Venti, e presenta riferimenti architettonici al Rinascimento, come il portale bugnato, ed alla classicità. Un fastigio con uno scudo araldico, oggi perduto, sormontava la facciata, poi soprelevata. Fino agli anni Ottanta l’edificio ha funzionato come vetreria, per poi rimanere abbandonato con il trasferimento della produzione in Via Giovanni Marinelli, nel Quartiere Prenestino-Labicano. Rimasta per decenni in stato di degrado, nel 2004 venne individuata come sede di alcune aule dell’Università La Sapienza di Roma, nell’ambito della decentralizzazione dei servizi dell’ateneo

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on March 16, 2022 03:07

Alessio Brugnoli's Blog

Alessio Brugnoli
Alessio Brugnoli isn't a Goodreads Author (yet), but they do have a blog, so here are some recent posts imported from their feed.
Follow Alessio Brugnoli's blog with rss.