Il sepolcro di Nofri Strozzi
Fra le questioni più dibattute nella letteratura sulla sagrestia di Santa Trinita figurano la concezione, l’esecuzione, la datazione e l’assetto originario del monumento funebre di Nofri Strozzi, formato dalla bara inserita nell’arcosolio a cavallo fra le due cappelle affiancate, che impatta anche sia sulla sua valutazione stilistica, sia sull’attribuzione.Si tratta di un sarcofago poggiante su quattro sfere, decorato da ambo i lati con due genietti in volo contrapposti che portano l’arma della famiglia del defunto. La cassa è inserita entro una lunetta decorata da putti con ghirlande, realizzati a bassorilievo.
Le più recenti ricerche d’archivio ci stanno aiutando a uscire da quello che sino a qualche anno fa, sembrava un vero e proprio ginepraio. Nell’atto di donazione del 1416 sepolture sono previste fin dall’inizio della storia non nella sagrestia ma circa, vicino, alla sagrestia, per cui, nella testa di Nofri Strozzi, vi era l’idea di considerare la cappella funebre come un edificio distinto, che avrebbe custodito la sua tomba.
È possibile che la decisione di adottare una soluzione monumentale per la sepoltura sia stata presa precocemente, che si sia pensato da subito alla collocazione della bara nell’arcosolio? Le differenze, rilevate a più riprese, fra la decorazione degli archivolti e quella del sarcofago sarebbero allora imputabili a uno scarto temporale di pochi anni, a mani differenti, e forse al contribuito di maestri diversi nell’ideazione. Tutto questo però implica che gli Strozzi fossero certi, quantomeno dal 1418 – l’anno di esecuzione del cassone – di disporre dello spazio laterale rispetto alla cappella dei Santi Niccolò e Onofrio, su cui si apre l’arcosolio. E questo, come accennato parlando dell’architettura della sacrestia, parrebbe appurata questa datazione.
Tale acquisto, voluto da Palla, avrebbe cambiato i piani originali del padre e sarebbero stati ulteriormente cambiati attorno al 1423, quando i lavori sono prossimi alla conclusione, quando si registrano spese consistenti sostenute dallo Strozzi, che riguardano la sistemazione del braccio destro del transetto. Contemporaneamente al montaggio del portale esterno della sagrestia vengono finanziati lavori alle cappelle più vicine, quella degli Ardinghelli, per la quale Palla paga il restauro, un nuovo reliquiario e una pala d’altare, e quella dei Petriboni, cui sono destinati i fondi sborsati per la donazione delle pareti.
Se si aggiunge la volontà di collocare il proprio stemma in quella parte della chiesa, è evidente come Palla sia interessato a conferire un assetto definitivo al transetto, risolvendo l’annoso problema dei ritardi nella realizzazione delle decorazioni delle cappelle, sotto l’egida degli Strozzi. Il che rende decisamente improbabile che allo stesso tempo – e nel momento in cui l’Adorazione dei Magidi Gentile da Fabriano viene collocata sull’altare della cappella – si lasci in sospeso l’esecuzione dell’opera principale all’interno del complesso, per cui l’intera operazione viene condotta.
Come dicevo, proprio in relazione alla datazione, gli storici dell’Arte si stanno scannando sulla paternità delle sculture del sepolcro, formulando le ipotesi più bizzarre. Prima di accennarle, si possono fare una serie di considerazioni sulla decorazione architettonica. I capitelli dell’arcosolio sono fra i primi del Quattrocento fiorentino a riprendere il tipo antico con volute a doppia S affrontate, un registro di acanto e palmette. Un tipo che conoscerà una grande diffusione nei decenni successivi. Il disegno di questi esemplari presenta un marcato procedimento di astrazione che li accomuna ai capitelli del portale della sagrestia. Anche la resa dell’acanto è decisamente simile, con lobi tondeggianti e apici che si flettono
in avanti, una soluzione ripresa dall’antico e piuttosto rara all’epoca. Lo stesso si può dire sull’esecuzione delle foglie delle mensole sotto l’arcosolio e di quelle della candelabra, se così la si può definire, negli sguanci del portale. La modanatura a dentelli – tipicamente ghibertiana – a sua volta richiama, in tono minore, quella delle finestre sulla facciata della sagrestia.
Non è improbabile che si tratti di soluzioni uscite dalla bottega di Ghiberti, il quale, in quegli anni verosimilmente collabora anche con Gentile da Fabriano al disegno della cornice della pala Strozzi: gli è stato attribuita di recente la paternità dei capitelli a foglie d’acqua sui montanti laterali e a fianco dei timpani mistilinei, che non a caso riprendono il tipo utilizzato per i peducci del complesso di sagrestie e cappelle degli Strozzi.
Ora, per decenni, gli storici dell’arte, per decenni hanno attribuito alla faccia dei documenti, il sepolcro o a Donatello, o a Michelozzo: ora se si vedono i lavori scolpiti dai Donatello in quegli anni, con il loro espressionismo e tensione realistica, ci troviamo in una dimensione artistica differente da quella erudita e antiquaria di Nofri Strozzi. Per Michelozzo, dato che era a bottega da Ghiberti in quegli anni, non è da escludere a priori un suo intervento nella realizzazione della decorazione architettonica.
Sempre i documenti d’archivio, ricevute di pagamento in pratica, hanno permesso di chiudere la questione: l’autore dei rilievi è Pietro Lamberti. Ma chi era costui, visto che, giustamente, non se ne parla nei manuali scolastici di Storia dell’Arte ? Pietro era scultore di famiglia: facevano lo stesso mestiere il padre Niccolò, il nonno paterno Pietro e il materno Guglielmo da Tolosa, padre della mamma Caterina. Pietro nacque con ogni probabilità a Firenze intorno al 1393. È documentato la prima volta nel 1410, impegnato con un Vittorio di Giovanni a “nettare” alcune parti, non identificate, di un tabernacolo di Orsanmichele, su incarico del padre allora capomastro del portale della facciata.
Il 2 maggio 1415 si immatricolò all’arte dei legnaioli e scalpellini, dicendosi residente nella parrocchia di S. Michele Visdomini, per poi trasferirsi a Venezia a seguito del padre, per poi tornare a Firenze. Tra l’altro, Nel 1423 Pietro firmò insieme con Giovanni di Martino da Fiesole il Monumento funebre del doge Tommaso Mocenigo, morto quell’anno, custodito nella chiesa veneziana dei Ss. Giovanni e Paolo.
La tomba è costituita da un sarcofago sospeso a parete su mensole e decorato da nicchie con le personificazioni delle Virtù, sul quale è adagiato il corpo del doge. Ai lati del defunto due angeli reggicortina sostengono un baldacchino, sul cui coronamento si erge la statua della Giustizia, l’arca è sormontata da un doppio ordine di nicchie che simula un altare. Il registro superiore ospita statue di santi e un’Annunciazione; alla base del sarcofago una lapide riporta un epitaffio e i nomi degli autori. Il sepolcro è ispirato nella struttura ad alcune tombe veneziane preesistenti, tra cui quelle dei dogi Marco Corner e Antonio Venier, entrambe in Ss. Giovanni e Paolo. Tra l’altro parrebbe che Donatello e Michelozzo, abbiano studiato questo sepolcro, per la tomba di Baldassarre Cossa, antipapa con il nome di Giovanni XXIII, nel Battistero di Firenze.
Pietro nello scolpire il sepolcro Nofri, diede del tema una chiara interpretazione all’antica, lo dimostrano ad evidenza i putti reggistemma, quelli allacciati alle ghirlande, e le protomi leonine scolpite sui fianchi, tutti motivi provenienti dalla scultura funeraria antica; la scelta dell’apparato decorativo architettonico; e la clamorosa ripresa del tipo dell’arcosolio. Un insieme di soluzioni che si affiancano, e dialogano, con le altre di cui si è detto. Grazie al lavoro di Pietro e di Ghiberti, Palla Strozzi riusci nell’impresa di costruire intorno all’edificio di carattere ancora gotico – le volte, le proporzioni – l’apparato all’antica quanto più aggiornato poteva fornirgli la cultura artistica del tempo.
Nel promuovere l’intervento, Palla sembra fare in modo che si istituisca un dialogo con le forme trecentesche, famigliari a Nofri: nella sagrestia e nella cappella minore troviamo archi e volte a tutto sesto. Si tratta di ambienti pensati come secondari, con un apparato decorativo ridotto – anche sotto l’arcosolio – che asseconda il principio del decorum, ma le volte assumono profili più consoni all’antico. A questo proposito ci si potrebbe chiedere se la comparsa in un documento contabile dell’espressione «le volte fatte a botta II recate in quadro braccia 54 5/6» – riferibile a una delle crociere della sagrestia minore – nel configurare una descrizione geometrica della volta come intersezione di due volte
a botte, non voglia alludere alla differenza, non solo formale ma concettuale, rispetto alle crociere a sezione ogivale dell’ambiente attiguo. In ogni caso pare questa la prima occorrenza nota della locuzione «volta a botte».
E forse anche la sequenza degli archi lignei della pala di Gentile – ancora Ghiberti? – sorretti al centro da peducci che riecheggiano quelli lapidei sulle pareti circostanti, costituiscono un intenzionale variazione sul tema dell’architettura della sagrestia. Peraltro quello che fatichiamo a considerare nel suo insieme un edificio all’antica trova un inaspettato riscontro nella formella di Salomone e la regina di Saba, eseguita da Ghiberti a distanza di un paio di decenni. Nel tempio, che si vuole all’antica, si alternano volte a crociera ogivale, archi a sesto acuto e volte a tutto sesto, mentre le bifore allungatissime dell’abside si confrontano con le finestre a tabernacolo della facciata.
Per non parlare dei capitelli pseudo-corinzi brunelleschiani a confronto con esemplari riminiscenti di forme provenienti dal secolo precedente. Certo il tempo è passato, le soluzioni non sono più le stesse, ma quello che più colpisce è questa idea di antico in cui ritroviamo ancora soluzioni goticheggianti. Ci si può domandare allora come apparisse la sagrestia di Santa Trinita appena costruita, con le sue forme antiche nuove di zecca: probabilmente come la prima architettura antichizzante della Firenze del tempo. Presto accantonata a favore degli exploits di Donatello e Filippo Brunelleschi, che si avvia a diventare, come scrive Giovanni Rucellai, il «risuscitatore delle muraglie antiche alla
romanescha»
Sul cantiere della sagrestia di Santa Trinita però si assiste a qualcosa di diverso e di più rispetto al cortocircuito fra un committente colto e umanista, che sa di greco e si intende di scultura, e un artista ben disposto verso l’antico. La realizzazione di quello che possiamo considerare il primo edificio all’antica della Firenze del Quattrocento si deve probabilmente a una volontà di autocelebrazione degli Strozzi in quanto membri del ceto dei cavalieri. A quanto pare, c’era il precedente – probabilmente ghibertiano – della tomba di Maso degli Albizzi in San Piero Maggiore, che dà inizio al revival del tipo ad arcosolio, una sorta di attributo funebre del cavaliere fiorentino, si è detto, cui gli Strozzi danno il loro determinante contributo.
Palla tuttavia va oltre nella volontà antiquaria e nell’attestazione di status, come risulta chiaramente dall’ostentazione di emblemi e attributi cavallereschi, anche nella pala di Gentile, ben visibili – in modo programmatico – sulla facciata della sagrestia: qui i cimieri sugli emblemi degli Strozzi dialogano con le finestre all’antica, di un antico fiorentino. Ed è molto probabile che questo abbia a che fare non solo con mentalità e gusto, ma con il nuovo ide ale della cavalleria che si diffonde a Firenze in quegli anni grazie all’opera di Leonardo Bruni. Palla conosce bene il De militia, che fa parte della sua biblioteca
La stesura risale all’incirca al 1421, ma possiamo ben pensare che le opinioni sull’argomento circolassero anche in precedenza, magari sollecitate proprio da Palla e da Rinaldo degli Albizzi, dedicatario del libro. Bruni fa risalire gli ordini della cavalleria ai tempi di Roma antica: un ritorno alle origini che coinvolge anche la storia di Firenze, e si rispecchia nel presente, prescrivendo ai moderni cavalieri il compito,
nuovo e antico insieme, di servire lo Stato. Non più i fasti borgognoni in voga fino a qualche anno prima, ma una rinnovata ideologia cavalleresca e civica, che affonda le sue radici nell’antichità
Alessio Brugnoli's Blog

