Alessio Brugnoli's Blog, page 11
January 7, 2022
Il Tramonto di Giorgione ?
 
Oggi parliamo di un quadro meno noto della Tempesta, ma altrettanto discusso, tanto che diversi critici, ne negano, anche giustamente, l’autenticità, il cosiddetto Tramonto della National Gallery. un olio su tela di dimensioni pari a 73,3×91,5 cm. Il quadro, infatti, non è citato da fonti antiche: saltà fuori infatti 1933 dalla Villa Garzoni di Pontecasale, un villaggio di campagna a metà strada tra Padova e Rovigo, che era stata progettata dal Sansovino e che è citata anche dal solito Vasari
E fece Jacopo Tatti il palazzo di messere Luigi de’ Garzoni più largo per ogni verso che non è il Fondico dei Tedeschi tredici passa, con tante comodità. che l’acqua corre per tutto il palazzo, il quale palazzo è a Pontecasale in contado
All’epoca della scoperta, che si deve all’allora direttore del Museo Correr di Venezia, Giulio Lorenzetti, la villa era di proprietà della famiglia Donà dalle Rose, ma anticamente apparteneva ai Michiel. Quest’ultima era la famiglia dalla quale proveniva Marcantonio Michiel, il collezionista e letterato che, con i suoi taccuini e le sue descrizioni di opere da lui possedute oppure viste in collezioni private veneziane, ha aiutato gli storici dell’arte moderni a ricostruire alcune tappe della vicenda biografica e artistica di Giorgione.
Ora, noi abbiamo l’inventario della collezione di Michiel, fatto dai suoi eredi: sappiamo che aveva dei quadri di Giorgione, ma nessuno è riconducibile al Tramonto. Dato che per la stima che il patrizio veneto aveva per il pittore, è strano che non sia stato citato, anche perchè la definzione che si trova nella versione dell’inventario compilata tra il 1552 e il 1560, si cita un’opera del pittore descritta come
Un quadro in un paese con doi figurini cornisado d’oro schietto
che è spesso associata al Tramonto, ma che è talmente vaga, che può indicare tutt’altro Per cui, o non siamo davanti a un’opera che all’epoca era considerata di Giorgione, oppure è entrato nella collezione Michiel in un tempo successivo al 1560.
Il quadro fu attribuito al pittore veneto nel 1934 da Roberto Longhi, lo stesso che ne suggerì il titolo. Giulio Lorenzetti, non è che fosse poi così d’accordo, con questa attribuzione, dato che lo stato di conservazione della tela, tra buchi e rattoppi era miserrimo, tanto che Gino Fogolari, Ettore Modigliani e Carlo Gamba diede il via libera all’esportazione. Gamba, che tra l’altro, partendo dal confronto con la Tempesta, ha sempre detto che il Tramonto
appariva opaco e senza prospettiva cromatica, quale opera d’imitazione o di copia
Nel frattempo, il quadro fu inviato a un restauratore di nome Augusto Vermehren, che lavorava anche per gli Uffizi di Firenze, che si limitò a ripulire la tela e rimpiere con colori neutri le perdite di pittura, in modo che rimanessero riconoscibili. Longhi , non domo, si rivolse così a quel bizzarro personaggio che il russo Vitale Bloch: grande critico e conoscitore dell’arte barocca, i suoi saggi su De La Tour e su Vermeer, nonostante gli anni rimangono di una bellezza e di una profondità straordinarie e mercante d’arte, a volte troppo spregiudicato. Bloch compra il quadro, qualche malelingua dice in comproprietà con Longhi e qui avviene il fattaccio. I due di far sovrintendere il restauro a Mauro Pellicioli, che affida il compito materiale di eseguirlo Theodor Dumler, il quale, per essere buoni, si fece prendere la mano. Per coprire un paio di buchi particolarmente evidenti, il restauratore aggiunse frammenti presi da altre tele antiche, per poi renderli omogenei con il resto del quadro: le manipolazioni riguardano sia l’introduzione delle figure di San Giorgio e il Drago, al cui posto in origine poteva esserci un albero, e interpolò pesantemente la figura dell’eremita, che si intravede all’interno di un anfratto roccioso, all’estremità destra della tela, identificato in Sant’Antonio abate, di cui, della figura originale, sono rimaste solo la testa e le braccia. Per cui, nell’originale, c’era qualcosa in più dei “doi figurini”, citati nell’inventario, il che è un’argomento a favore di chi nega l’identificazione. Infine, al centro dello stagno, aggiunse, sempre per coprire un altro buco, aggiunse tre rocce.
Per cui le analisi critiche e le interpretazioni che si trovano sui siti internet, lasciano il tempo che trovano, essendo basati non sul quadro originale, ma sulla sua ricostruzione, arbitraria, del Novecento. Dopo questo ehm restauro, il dipinto fu trasferito nel caveau di una banca londinese e al contempo, cominciò più o meno in buonafede, la fase di promozione dell’opera, che oggi chiameremo di marketing. La prima fotografia del dipinto è stata pubblicata sempre da Longhi nel Viatico del 1946. Assieme ai Tre Filosofi di Vienna egli considerava Il Tramonto l’espressione «del classicismo cromatico che spiegherà poco dopo Tiziano». Sulla base della stessa immagine anche Berenson aveva dichiarato – in una lettera indirizzata nel 1953 a Cecil Gould della National Gallery di Londra – che il dipinto era «the most convincing of all attributions to Giorgione».
La prima apparizione pubblica del dipinto risale al 1955, quando è esposto alla mostra veneziana di Giorgione e i giorgioneschi. In quella sede i principali studiosi italiani di arte veneta si erano convinti dell’attribuzione al maestro di Castelfranco Veneto (Luigi Coletti, Vittorio Moschini, Antonio Morassi, Rodolfo Pallucchini, Lionello Venturi, Pietro Zampetti). A questo punto era iniziata una lunga trattativa con la National Gallery di Londra, che l’acquistò da Bloch nel 1961. Il restauratore del museo, Arthur Lucas, fece un ulteriore intervento ricostruttivo, anche questo alquanto arbitrario: rimosse le tre rocce al centro dello stagno, sostituendole con un mostro.
Che possiamo dire di questo quadro ? Il pittore, chiunque sia, conosceva bene le ricerche che Giorgione stava compiendo attorno al 1505, sul ruolo centrale del paesaggio, non sfondo, ma soggetto della narrazione, come nella Tempesta e nel Ritrovamento di Paride, era interessanto alla sperimentazione leonardesca e suggestionato da Bosch. Per cui, se non si tratta dell’artista di Castelfranco, era qualcuno che bazzicava il suo ambiente.
Il tema, ovviamente, non è probabilmente quello citato da Wikipedia, ossia un ex voto ringraziamento per la fine della peste del 1504 in Veneto; neppure l’interpretazione che sta andando ulteriormente per la maggiore, il mito di Filottete, l’eroe greco che, durante il viaggio verso Troia, si ferì a un piede nel corso di uno scalo e, diventato un peso per i suoi compagni, fu abbandonato sull’isola di Lemno, che deriva dal successo della tragedia di Sofocle stampata da Aldo Manuzio nel 1502 a Venezia, è tanto convincente, perchè non spiegherebbe la figura dell’eremita.
Se però consideriamo effettiva l’influenza di Bosch e della devotio moderna, beh, il quadro potrebbe essere una sorta di Tebaide, il luogo immaginario dove eremiti e santi, assieme ad animali e diavoli, danno vita a brevi storie disposte in piccole scene nel paesaggio, una metafora della via perfectionis che il cristiano dovrebbe seguire per avvicinarsi a Dio, basata sulla Carità, sulla Preghiera, sulla Meditazione e sulla rinuncia alle tante tentazioni della vita mondana…
January 6, 2022
Teofilo e il suo trattato
 
Teofilo è una sorta di pseudonimo con cui un monaco tedesco, vissuto probabilmente nel XII secolo nell’area renana, firma il trattato De diversis artibus o Diversarum artium Schedula, una delle tante enciclopedie artistiche medievali. Diversi studiosi lo hanno indentificato con Roger di Helmarshausen. un orafo e monaco cristiano tedesco, dell’ordine benedettino, famoso artista della lavorazione dei metalli. Roger dovrebbe essere nato intorno al 1070 nella regione della Mosa e morto il 15 febbraio di un anno dopo il 1125. La sua vita è stata ricostruita grazie all’analisi di necrologi e libri memoriali.
Roger si formò probabilmente nell’abbazia benedettina di Stavelot; intorno al 1100 fu attivo presso la chiesa di St. Pantaleon a Colonia. Nel 1107 ebbe luogo la traslazione delle reliquie di s. Modoaldo, vescovo di Treviri, dalla sua città a Helmarshausen: durante il viaggio la delegazione che accompagnava le reliquie fece sosta presso il cenobio di St. Pantaleon a Colonia e proprio in seguito a questa occasione Roger sembrerebbe essersi recato a Helmarshausen ed esservi rimasto fino alla morte.
Già Fuchs (1916) pubblicò un atto di donazione datato 1100 da parte del vescovo di Paderborn, Enrico II di Werl (1084-1127), in cui era scritto che il vescovo aveva commissionato a proprie spese uno scrinium che “Rogkerus satis expolito opere in honorem sancti Kyliani atque Liborii fabricaverat”. Sebbene la ricerca abbia stabilito che il documento è un falso del 1215, ciò nonostante la veridicità dell’indicazione testuale è stata accettata e lo scrinium è stato individuato in un pregevole altare portatile proveniente dal duomo di Paderborn (Erzbischöfliches Diözesanmus. und Domschatzkammer); l’altare presenta, incise sulla parte superiore, le immagini dei vescovi di Paderborn Meinwerk (1009-1036) ed Enrico II di Werl, mentre sulla parte anteriore, lavorata a sbalzo, compare Cristo con i ss. Chiliano e Liborio, patroni del duomo di Paderborn e sui lati lunghi sono incise figure di apostoli.Strettamente legato a questo manufatto è un secondo esemplare (Paderborn, Erzbischöfliches Diözesanmus. und Domschatzkammer) proveniente dall’abbazia benedettina di Abdinghof a Paderborn; esso mostra sui lati lunghi martirî di apostoli e santi con figure ritagliate molto affini allo stile ‘parcellizzato’ degli apostoli sull’altare dei ss. Chiliano e Liborio.
Un ulteriore manufatto con raffinate incisioni stilisticamente affini agli altari citati è il retro di una croce d’altare con l’immagine di S. Modoaldo al di sotto dell’Agnus Dei fiancheggiato dai simboli degli evangelisti (Colonia, Schnütgen-Mus.). Probabilmente la croce fu realizzata poco dopo il 1107 per l’abbazia di Helmarshausen, che da quel momento era entrata in possesso delle preziose reliquie di s. Modoaldo.Quarta opera caratterizzata dallo stile ‘parcellizzato’, che testimonia tra l’altro, tanto nella concezione quanto nella resa, un’importante personalità artistica, può essere considerata la coperta dell’evangeliario con i simboli degli evangelisti realizzati a sbalzo, conservata a Treviri (Domschatz, 139) e giuntavi con il decano del duomo di Paderborn, Christoph, conte di Kesselstatt (1757-1814). I simboli degli evangelisti sono in stretto rapporto con le prime opere della miniatura prodotta a Helmarshausen, come l’Evangeliario di Malibu (J. Paul Getty Mus., Ludwig II 3).Lo stile ‘parcellizzato’ legato alla personalità artistica di R. si ritrova infine in altri manufatti di oreficeria, come per es. la placchetta con Cristo che impugna il ventilabrum (Colonia, Schnütgen-Mus.), la croce processionale di Francoforte sul Meno (Mus. für Kunsthandwerk) e la croce di Enger (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Kunstgewerbemus.).
Proprio l’identità tra le tecniche utilizzate da Roger e quelle descritte da Teofilo e la scritta “Theophili qui et Rugerus” che si legge in appendice al titolo del prologo nel manoscritto della De diversis artibus conservato a Vienna (Öst. Nat. Bibl., 2527), ritenuta la copia personale dell’autore, è stata proposta l’identificazione di Roger con il Theophilus presbyter.
Rispetto ai trattati scritti in precedenza, il De diversis artibus ha un ruolo totalmente differente: questi erano prontuari per botteghe, per tramandare i segreti professionali e rispondere a specifiche esigenze della committenza. Invece, il trattato di Teofilo ha un valore “ideologico”. In quegli anni l’ordine benedettino è oggetto della polemica di Bernardo di Chiaravalle, che esalta la povertà e l’austerità, contestando il il lusso e lo sfarzo delle decorazioni artistica. Polemica che è molto sentita in Germania e che ha successo in ambito laico, che spesso a torto, associano meno lusso per le chiese con minore decime. Per cui Teofilo, per difendere la sua committenza e non rimanere disoccupato, scrive questa sorta di apologia dell’Arte e della sua abilità tecnica.
Per questo i libri del suo trattato sono preceduti da un prologo teologico, in cui l’autore esalta il lavoro manuale; le conoscenze tecniche derivano dall’intelligenza che Adamo ha ricevuto in dono da Dio, ed essendosi arricchite nel corso delle generazioni, esse costituiscono una preziosa eredità che bisogna incrementare. Per citare un brano
è giusto quindi che la sollecita devozione dei fedeli non lasci perire nell’oblio il tesoro trasmesso alla nostra epoca dalla sapiente previdenza dei nostri predecessori: è necessario che gli uomini accettino con tutto l’ardore del proprio cuore l’eredità che Dio gli ha trasmesso e si sforzino di appropriarsene. Colui che riesce a entrarne in possesso non se ne vanti, perché non è una conquista, ma un dono; se ne compiaccia, al contrario, umilmente con il Signore, da cui e attraverso cui discendono tutte le cose, senza cui non vi è niente; non circondi questo beneficio di un silenzio geloso, non lo nasconda nei recessi di un cuore avaro, ma evitando di cadere nella presunzione, lo condivida con coloro che ne vanno in cerca; ricordi con timore il giudizio pronunciato nel Vangelo contro quell’amministratore che, non avendo restituito con gli interessi la somma di denaro che gli era stata affidata, fu privato di ogni ricompensa e bollato dal suo stesso padrone con l’epiteto infamante di cattivo servitore
Secondo Teofilo, che non pseudonimo parlante, dato che significa amante di Dio e questo amore lo esprime tramite l’Arte, Dio si compiace degli uomini umili e tranquilli che lavorano in silenzio nel nome del Signore e rispettano il precetto di san Paolo: “lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità” (Efesini, 4, 28). Ogni aspetto delle arti che può essere oggetto di studio, comprensione o meditazione, richiede l’impiego dei sette doni dello Spirito Santo: saggezza, intelligenza, prudenza, forza, scienza, pietà e timor di Dio.
Johan van Engen ha notato in queste prefazioni l’influenza di Ruperto (fine XI sec.-1135/1136), monaco di Saint-Laurent di Liegi e poi abate di Deutz, presso Colonia. Ma questo punto di vista era già stato adottato da Odorannus di Sens (m. dopo il 1045), cronachista, canonista e teologo, che usava volentieri le mani per costruire un pozzo, o per fabbricare crocifissi e sedie, così come da Eilmer di Malmesbury. Altri autori propongono invece come fonte teologica n merito Wibaldo, abate di Stavelot (un monastero con forti legami con Helmarshausen) e già abate di Montecassino, oppure Reginhard, ovvero l’abate stesso di Helmarshausen.
Teofilo lavora su due piani: da una parte, è un colto compilatore di fonti anche antiche – alle quali gli autori medievali amavano appoggiarsi – tra cui Plinio il Vecchio (23-79), Eraclio – presunto autore del trattato altomedievale De coloribus et artibus Romanorum -, Isidoro di Siviglia (ca. 560-636) e Rabano Mauro (ca. 784-856; Dodwell, 1961). Dall’altra, spesso e volentieri cita la sua esperienza personale. A questa complessa stratificazione, si è aggiunta poi. come spesso accade nella tradizione dei testi medievali, ad aggiunte ed errori di trascrizione, spesso emendabili grazie alle edizioni più recenti. Cosa che ad esempio, ha portato all’introduzione di diverse divagazioni, come ad esempio la leggenda su come fare nascere un basilisco
In una cella sotterranea rivestita da pietre su ogni lato e con due piccolissime finestrelle per la luce, si pongono due galli adulti e si alimentano a sufficienza.Trascorso un po’ di tempo, a causa del caldo e della pinguedine, essi copulano deponendo uova. Tolti i galli, queste uova devono essere fatte covare da rospi nutriti a pane; quando le uova si schiudono nascono semplici pulcini, ai quali però spuntano dopo sette giorni code di serpente: a questo punto essi entrerebbero immediatamente nella terra, ma la pavimentazione lo impedisce. Questi pulcini-rettili devono essere quindi messi in vasi di bronzo dall’imboccatura stretta, forati da piccoli buchi chiusi da tappi di rame. I vasi vanno sepolti così che i pulcini si nutrano della sola terra per sei mesi. A questo punto si disseppelliscono i vasi e si mettono sul fuoco finché i basilischi non sono completamente bruciati: con la polvere macinata dei basilischi, unita a un terzo di sangue essiccato e macinato di uomo dai capelli rossi, e temprata con aceto molto forte in un recipiente pulito si può trasformare il rame in oro.
Il trattato fu poco conosciuto dopo il Rinascimento; solo dopo il 1774, con la prima edizione a stampa da parte del Lessing, si riaccese l’interesse per il trattato da lui composto: il liber de diversis artibus (“libro sulle varie arti”). Successive ristampe, culminate nell’edizione critica dell’Ilg (1874), mantennero costante l’interesse su questa raccolta, fondamentale per la storia delle tecniche artistiche del Medioevo. Nonostante l’apparizione, già dal 1781, delle prime traduzioni in lingue moderne, tale opera è stata tradotta e pubblicata integralmente in italiano solo nel 2000 da Adriano Caffaro, anche perchè messo in ombra dal testo di Cennino Cennini
L’opera, come accennavo prima, è suddivisa in tre libri: nel libro I, che tratta della pittura su tavola, libraria e murale, Teofilo parla innanzitutto della resa coloristica. Come altri trattatisti, egli registra per prima cosa ciò che più gli sta a cuore, le notizie più attuali o degne di nota: inizia così descrivendo il modo di stendere il colore nei volti, nelle parti nude e nelle vesti. Data la sua esperienza dice di preparare il colore della carne e darlo sul dipinto nelle parti nude; aggiunto a quel colore un colore verde-nero e un po’ di rosso si segneranno occhi, bocca, narici, rughe e barba. Per le zone scure dei volti
… mescolerai al rosa il cinabro e ne stenderai nel mezzo della bocca in modo tale che il colore precedente appaia ancora al sopra e al di sotto. Stendine tratti sottili sul rosa del volto, sul collo e sulla fronte e ne segnerai le articolazioni delle palme e le giunture di tutte le membra, e le unghie. Se il viso è ancora scuro e non è bastata la prima “luce”, aggiungi più di bianco a quel colore e sopra la prima stesura dappertutto stendine a sottili tratti
Per gli abiti si procede in maniera simile: prima la coloritura dell’abito intero, poi i tratti scuri, poi si definiscono le luci. Teofilo passa poi alla composizione dei colori composti, utili anche a fini stilistici (I,1,13), tralasciando invece la composizione dei pigmenti (dei trentotto capitoli del libro I, solo gli ultimi sei sono dedicati alla confezione dei pigmenti): solo verso la fine del libro I (36-37) e nel III (40, 91, 95) raccoglie alcune ricette sulla preparazione di colori come il cinabro o di materiali come il cristallo, facendo riferimento proprio ai trattati longobardi di cui ho parlato la scorsa settimana. Tra l’altro, in questo libro, Teofilo è uno dei primi a citare la pittura ad olio, che definicea
“[…]diuturnum et taediosum […]”
In più, dato che probabilmente all’epoca i metodi di preparazione di questo tipo di legante non erano molto evoluti, Teofilo ne esclude esplicitamente l’impiego per la pittura su tavola e consiglia di limitarne l’uso alla decorazione di oggetti quotidiani o comunque all’esecuzione di lavori secondari. Un piccolo capolavoro è il libro II, dedicato a vetrate, vetri e mosaici: le notizie tratte dalle fonti sono assimilate e fuse con osservazioni originali, come quella sulla perizia dei francesi nell’uso dei vetri blu:
“colligunt Franci, in hoc opere peritissimi, et saphireum quidem fundunt in furnis suis […] et faciunt inde tabulas saphiri pretiosas ac satis utiles in fenestris” (II, 12)
La scorrevolezza della trattazione può dipendere anche dal mancato inserimento di quattro capitoli sulla fabbricazione dei vetri colorati che Teofilo aveva progettato di ricopiare da Eraclio, come si evince dall’indice. Ritorna anche qui la tripartizione coloristica, di radice linearistica, ma mirante alla resa della terza dimensione: l’autore consiglia di graduare la grisaille (il colore di materiale vetrificabile con cui si dipingevano le vetrate) in tre diverse sfumature, dalla più scura alla più luminosa. Per movimentare la superficie dipinta, sempre ai fini della volumetria, egli consiglia quindi anche la stesura di una quarta sfumatura, appena meno luminosa della più chiara, da lavorare poi con subtiles tractus fatti con il manico del pennello, e altre sottili, tenui decorazioni di colore grigio chiaro, al fine di filtrare la quantità di luce che passa attraverso i vetri (II, 20-21).
Procedimenti che tra l’altro, a riprova dell’identificazione, sono presenti anche nell’opera di Roger di Helmarshausen (Davis-Weyer, 1994).I colori in pittura sono essenzialmente ocre e terre; nella vetrata, da vetri colorati in pasta a base di rame e di manganese si ottengono innanzitutto gialli chiari e aranciati (croceum levem, croceum rubicundum), color carne chiaro e purpureo (purpurea rusa et perfecta), rosso scuro, verde, blu e bianco. È la tavolozza piuttosto calda, ereditata dai secoli precedenti, ma ancora tipica dell’età romanica, salvo che in Francia, dove, Teofilo nota acutamente l’uso caratteristico del blu.Ancora più dettagliato e maturo nell’esposizione è il libro III, sulle metallotecniche, con capitoli di assoluta precisione descrittiva, come quelli dedicati alla produzione di opere talvolta anche complesse, come per es. calici grandi e piccoli, patene, coperte di evangeliario, reliquiari (Bänsch, Linscheid-Burdich, 1985; Davis Weyer, 1994), e alla loro decorazione – si vedano le belle pagine dedicate agli smalti e ai procedimenti del cloisonné… E ricordiamolo, questo era il pane quotidiano di Roger…
January 5, 2022
Torre Maura
 
Può sembrare strano, per chi passa le giornate a cercare parcheggio per le strade di Torre Maura, ma quei luoghi sono stati lo sfondo di tanti episodi importanti della Roma Arcaica. Il suo territorio era anticamente posto al quinto miglio della via Labicana e compreso in quell’area del cosiddetto Lazio Antico, diviso fra le prime tribu’ dell’età Regia fra cui era la Pupinia.
Secondo lo storico Tito Livio, al tempo della fondazione di Roma sarebbe avvenuta la federazione di un gruppo di clan preesistenti sotto l’azione unificatrice di Romolo, a cui si aggiunsero (per le vicende conseguenti al ratto delle sabine) molte famiglie venute al seguito di Tito Tazio, realizzando la fusione del popolo romano con quello dei Sabini. Secondo Tito Livio le gentes originarie sarebbero state un centinaio, distribuite nelle tre antiche tribù dei Ramnes, dei Tities e dei Luceres.
Romolo per primo avrebbe riunito in assemblea i capi (o “patres”, da cui il termine “patrizio”) di queste cento famiglie originarie, dando origine al Senato, in origine organo consultivo del re. Non disponiamo di un elenco completo delle cento gentes originarie; tuttavia è possibile individuare alcuni tra i più antichi gruppi familiari insediatisi nella zona della Roma arcaica in base alle testimonianze storiche, ai ritrovamenti archeologici, alle fonti epigrafiche. Alcune tra quelle che riportiamo sono famiglie romane molto famose, altre sono meno note, specialmente quelle che si estinsero presto lasciando limitate tracce dei loro discendenti nelle magistrature dell’età repubblicana.
Nell’ambito delle cento gentes originarie Theodor Mommsen aveva distinto un gruppo di gentes particolarmente antiche, dalle quali derivano i nomi delle antiche Tribù territoriali di Roma, nel cui territorio avevano i propri “Pagi”, cioè i loro possedimenti coltivati. I capi delle gentes erano grandi proprietari terrieri che potevano contare sull’aiuto dei loro clienti che si mettevano alle loro dipendenze ricevendo in cambio aiuto economico e protezione.
La gens Pupinia era una di questi clan originari: poiché in epoca storica si trovano esponenti della Gens Pupinia soltanto di ceto plebeo, il Mommsen ritiene che la famiglia patrizia originaria si fosse estinta precocemente, lasciando tuttavia il nome nel 495 a.C. a una delle prime tribù rustiche, l’organizzazione territoriale dei pagi, i villaggi nei pressi della città. Le notizie storiche relative alla Tribù Pupinia sono piuttosto scarse: sappiamo che con la progressiva espansione di Roma a questa tribù vennero ascritti vari territori italici e provinciali oggetto di conquista, tra i quali le città di Trebula nel Sannio e Sassina in Umbria, Forobrentani in Etruria, Laus Pompeia, la nostra Lodi Vecchia, in Lombardia.
Secondo quanto racconta Tito Livio, durante l’incursione di Annibale verso Roma, il condottiero cartaginese da Gabii si sarebbe accampato proprio sui terreni della nostra Torre Maura, in cui tra l’altro, avveniva uno dei più arcaici riti della religione romana, l’Amburbium, di cui tra l’altro abbiamo, per limitate descrizione dell’epoca, un’idea assai vaga. La sua funzione era analoga a quella dell’Ambarvalia, ossia serviva a purificare il territorio circostante alla città: questa duplicazione era connessa alla bizzarra questione del doppio ciclo temporale del primo calendario romano.
La cerimonia consisteva nel percorrere il circuito delle mura in processione portando con sé le vittime da sacrificare una volta terminato il percorso: sacrificio che si compiva in aperta campagna, fuori dallo spazio sacro della città. Venne celebrato per l’ultima volta nel 394, quando l’usurpatore Flavio Eugenio attendeva l’attacco dell’esercito di Teodosio I, per volere di Virio Nicomaco Flaviano, responsabile della politica di restaurazione pagana dell’usurpatore: era dall’epoca di Aureliano che la cerimonia non era più effettuata.
Secondo Joseph Scaliger amburbium e ambarvalia erano due nomi indicanti la stessa cerimonia, ma la loro distinzione è deducibile da un passo di Flavio Vopisco nella Vita di Aureliano, dove si dice che amburbium celebratum, ambarvalia promissa, cioè “è celebrato l’amburbium e promesso l’ambarvalia”. Dallo stesso passo si deduce che in quell’occasione l’amburbium fu celebrato il terzo giorno precedente le idi di gennaio (cioè l’11 gennaio).
Nell’età imperiale, la zona, percorsa dalle strade consolari come la Labicana, la Collarina e la Prenestina, era ricca di mausolei, di cui però rimane ben poco: la prima testimonianza è il cosiddetto muraccio di Santa Maura, una bella tomba laterizia di epoca Antonina (II sec. d.c.) provvista di una cella funeraria inferiore attualmente interrata, i cui resti, risparmiati dall’urbanizzazione, sono ancora oggi visibili per un’altezza di 3 m ca. Il monumento, di età romana, poggia direttamente su di un banco di tufo (visibile) e presenta una pianta quadrata e un rivestimento in opera laterizia di buona fattura. L’ingresso antico si trova presso il lato S, quello E è caratterizzato da tre finestre a bocca di lupo, mentre sul lato N ne rimane solo una. Dalla strada il lato O non è visibile a causa della recinzione. Il sepolcro può essere datato al II sec. d.C. e doveva sorgere lungo l’antico tracciato della via Labicana, della quale oggi non resta alcuna traccia.
La seconda testimonianza è il sepolcro circolare nell’ex via dell’Aquila Reale, che dovrebbe avere cambiato nome, ma di cui ho idee parecchio confuse sulla nuova toponomastica.Si tratta di un mausoleo, di età repubblicana, che si trova al di sotto del piano stradale, all’altezza dei garage del condominio (situato ad una quota inferiore di circa 8\9 metri rispetto a quella del piano stradale di via dell’Aquila Reale) ed è utilizzato come aiuola, al centro della quale crescono alcuni alberi di modeste dimensioni.
Il sepolcro, a pianta circolare, con un diametro di 8,8 metro, conserva due file di blocchi parallelepipedi in travertino, coronate da una cornice modanata, sormontata a sua volta dai resti di un’altra fila di blocchi del tamburo, per un’altezza di 2.30 m ca. Il sepolcro è in buono stato di conservazione. Sul fronte O (ovvero quello rivolto verso l’entrata del condominio) si notano tre blocchi di opera quadrata, modanati, appartenenti certamente alla cornice del sepolcro, ma non in situ, probabilmente spostati durante qualche lavoro eseguito nell’area che si trova a N dell’antico tracciato della via Collatina. Il sepolcro è stato scoperto nel 1970, in occasione di sbancamenti effettuati per la costruzione delle fondazioni del condominio. Quilici ricorda che tra il terreno mosso durante gli sbancamenti, sono stati rinvenuti basoli di selce, una lesena ed una cornicetta angolare di marmo bianco, un lato di sarcofago con resto del rilievo raffigurante un grifone
January 4, 2022
I Neanderthal romani
 
Quando noi pensiamo agli uomini di Neanderthal, sicuramente per il nome, tendiamo per istinto ad associarli al Nord Europa; in realtà le ultime dimore dei nostri cugini, è abbastanza appurato, furono in Spagna, tanto che in Catalogna, nella grotta di Calafell, comune spagnolo della Catalogna, è stato ritrovato uno dei suoi ultimi prodotti artigianali, un artiglio di aquila intagliato (o meglio, una falange) risalente a 39mila anni fa, che probabilmente costituiva il pendente di una collana.
Ancora più strano, soprattutto per noi romani, è pensarli come nostri concittadini: nella zona dell’Urbe e del Lazio vi sono infatti alcuni dei principali siti preistorici in cui questi sono vissuti. Il ritrovamento più antico avvenne nel 1929 dal duca Mario Grazioli, proprietario della cava di ghiaia di Sacco Pastore, oggi pieno Monte Sacro, località della campagna romana sulla riva sinistra del fiume Aniene, a circa 6 metri di profondità.
Nella stessa località, nel 1935, i paleoantropologi Alberto Carlo Blanc e Henri Breuil rinvennero un altro cranio alla profondità di soli 3 metri. Nel giacimento vennero rinvenute anche ossa di Palaeoloxodon antiquus (elefante dalle zanne dritte), Hippopotamus maior e Rhinoceros merkii, assieme a strumenti litici di fattura musteriana che testimoniavano l’antichità del reperto.
Il primo cranio, detto Saccopastore I, appartiene ad una giovane donna è mancante della parte inferiore della faccia. Il secondo cranio, detto Saccopastore II, è attribuibile ad un uomo adulto e ne resta solo la base del cranio e parte della faccia. Entrambi i crani presentano le caratteristiche dell’Uomo di Neandertal, quali le forti arcate sopracciliari, ma se ne discostano per la presenza della fossa canina nei mascellari, sebbene alquanto attenuata. L’uomo di Saccopastore appare quindi con caratteri più primitivi rispetto all’uomo di Neandertal, ma per alcuni caratteri quali la fossa canina sembra più prossimo all’uomo attuale. La presenza di un largo foro nel cranio di Saccopastore I, che appare praticato intenzionalmente ed adeguato a rimuovere il suo contenuto, ha fatto pensare a pratiche cannibaliche seguite da questi uomini primitivi, anche se, una recente scoperta, di cui parleremo a fine post, sta facendo riconsiderare la questione.
Una cinquantina d’anno dopo, Nel 1981, a seguito di lavori effettuati per l’urbanizzazione del quartiere di Casal de’ Pazzi, non lontano da Ponte Mammolo, fu identificato un importante deposito di origine fluviale riferibile al Pleistocene medio. Il deposito si estendeva su una superficie di circa 1200 m² ed era costituito da sabbie e ghiaie, in massima parte di origine vulcanica, che colmavano un tratto dell’alveo di un antico fiume. Questo aveva inciso, con lo scorrere delle sue acque, il banco tufaceo prodotto dall’attività del vicino Vulcano Laziale, allora attivo, e datato a circa 366.000 anni fa.
Nel deposito furono scoperti oltre 2000 reperti faunistici caratteristici di condizioni climatiche tendenzialmente temperate ed umide. Sono state rinvenute numerose ossa di vertebrati, attribuibili per lo più a mammiferi ed uccelli. L’insieme faunistico nel suo complesso è costituito in parte da animali oggi estinti e da specie che non possono essere più individuate nel territorio laziale o più in generale in quello italiano, a causa delle diverse condizioni climatiche e ambientali attuali. Gli animali che ricorrono con maggiore frequenza sono l’elefante antico (Elephas antiquus) di cui sono state rinvenute una trentina di zanne, la più grande delle quali raggiunge i 3,50 m di lunghezza; il rinoceronte (Dicerorhinus sp.), l’ippopotamo (Hippopotamus amphibius), l’uro (Bos primigenius), il cervo elafo (Cervus elaphus), la iena (Crocuta crocuta), il lupo (Canis lupus) e il cavallo (Equus sp.). Completano l’insieme quattro specie di uccelli acquatici, l’oca lombardella (Anser albifrons), il fischione (Anas penelope), il canapiglia (Anas strepera) e l’alzavola (Anas crecca).
Nel giacimento sono state rinvenute foglie fossili di Zelkova crenata. Si tratta di una grande pianta che può raggiungere anche i 30 metri di altezza; ha un tronco liscio e breve e numerosi rami eretti che partono da un punto di origine comune. Le foglie sono ovoidali e grossolanamente dentate ai margini. Oggi diffusa nei territori intorno al Mar Nero ed al Mar Caspio, durante il Pleistocene medio era abbondantemente presente anche nella penisola italiana
L’industria litica, che rappresenta l’insieme di oggetti e manufatti prodotti ed usati dall’uomo al fine di rispondere a necessità di differente natura (es. procacciamento, preparazione del cibo, lavorazione delle pelli animali, operazioni di taglio e foratura, ecc.), è costituita da più di 1.500 oggetti. La presenza di tali resti nel deposito non è direttamente riconducibile a delle azioni umane determinabili, bensì è il risultato del trasporto di questi da parte della corrente. Nel complesso l’industria su pietra del sito di Casal de’ Pazzi è attribuibile al Paleolitico medio e presenta caratteristiche affini all’industria Musteriana, che caratterizzò successivamente la produzione dell’uomo di Neanderthal nel Paleolitico medio della Pianura Pontina. Altissima è la frequenza di raschiatoi, denticolati ed intaccature mentre grattatoi, punte, punteruoli sono molto meno abbondanti. Cosa significa ? Che un altro pregiudizio che ci viene istintivo, quello di associare gli uomini di Neanderthal al freddo e al gelo, almeno per la zona di Roma era infondato, dato che il clima anche se non tropicale, ci avvicinava assai.
Nel giacimento è stato rinvenuto un frammento di parietale destro attribuibile al genere Homo. Il frammento venne scoperto nel 1983, sotto uno dei blocchi di tufo del deposito fluviale. Pur non permettendo quest’unico resto umano un’attribuzione tassonimica precisa, il confronto con altri resti craniali, come quelli di Saccopastore (Roma) ci fa pensare che appartengano più o meno alla stessa variante genetica di Neanderthal, quindi più o meno contemporanei. Sì, ma a quando ?
All’epoca del ritrovamento, le datazioni effettuate secondo la tecnlogia dell’epoca ipotizzarono una datazione attorno ai 125.000 anni fa. Oggi però, con nuove tecniche geologiche, è stato possibile riesaminare il sito di Saccopastore giungendo alla clamorosa conclusione che questi resti sono più antichi di quello che si pensava, datandoli a 240.000 anni fa, il doppio di quanto prima ritenuto, rappresentando una delle più antiche testimonianze dirette della presenza di questa specie in Europa. I ricercatori dell’Instituto di Geofisica e Vulcanologia da un paio di da due decenni si dedicano allo studio delle variazioni del livello del mare e la loro relazione con i cambiamenti climatici globali. Questo tipo di ricerche ha condotto i ricercatori INGV ad analizzare i grandi depositi di ghiaie, come quello di Saccopastore poiché rappresentano la testimonianza geologica di antiche glaciazioni. Infatti il trasporto della ghiaia ad opera del Tevere e dei suoi affluenti richiede condizioni idrologiche eccezionali, che si verificano solo alla fine delle glaciazioni, quando si verifica l’improvviso scioglimento dei ghiacciai. Questo fa aumentare enormemente la portata dei fiumi provocando alluvioni impetuose, trasportando fino alla costa grandi quantità di ciottoli derivanti dall’erosione delle montagne.
Questi studi hanno anche accertato che l’area laziale si è progressivamente sollevata di oltre 50 metri negli ultimi 250.000 anni. Questo spiega la quota attuale dei depositi di ghiaie che non coincide con quella che ci aspetteremmo considerando l’attuale corso del fiume, ma neanche con quella a cui si dovrebbero trovare le ghiaie di un fiume di 125.000 anni fa. Tenendo a mente che il momento della loro deposizione deve corrispondere alla fine di una grande glaciazione del passato, è stato quindi possibile risalire alla loro età. La revisione del contesto geologico indica che le ghiaie di Saccopastore sono state deposte dall’Aniene durante due fasi successive alla fine della terzultima glaciazione, tra 240.000 e 220.000 anni fa.
Inoltre il rinvenimento, all’interno del deposito ghiaioso di Saccopastore, di un dente della sottospecie del daino moderno “Dama dama tiberina“, vissuta in Italia solo nell’intervallo tra 290.000 e 200.000 anni fa, ha ulteriormente confermato l’età antica dei due crani, escludendo l’età di 125.000 anni originariamente ipotizzata. Da un lato questa nuova data dimostra che la comparsa dell’Uomo di Neanderthal è stata contemporanea in tutto il continente europeo, dall’altro mette in crisi le ipotesi formulate sui flussi migratori grazie ai quali questa specie si sarebbe diffusa, basate essenzialmente sulla differenziazione dalla specie precedente, Homo hedeilbergensis, che sarebbe avvenuta nei territori del nord Europa.
Un altro dato interessante su come reinterpretare i crani di Saccopastore, salta fuori da un altro sito preistorico importantissimo del Lazio, la grotta Guattari al Circeo. La sua scoperta avvenne per caso il 24 febbraio 1939 quando alcuni lavoratori furono incaricati di estrarre alcune pietre da Guattari, un proprietario terriero della zona; un’antica frana aveva infatti bloccato l’ingresso della grotta.
In fondo alla grotta, in un antro terminale poi denominato “Antro dell’Uomo”, assieme a quello che fu interpretato come un approssimativo cerchio di pietre, il proprietario scoprì un cranio evolutivamente attribuibile a Homo neanderthalensis, ben conservato, mentre in superficie furono ritrovate due mandibole, conosciute come Guattari 2 e 3. Il cranio si presentava quasi completo tranne la perdita di porzioni ossee pertinenti l’area orbitale destra e parte del margine del forame occipitale, il punto in cui il cranio si articola con la colonna vertebrale. Vennero immediatamente condotti degli scavi dal prof. Alberto Carlo Blanc, lo stesso di Saccopastore, e L. Cardini.
Gli studi sulla grotta sono stati ripresi dopo decenni, nell’ottobre del 2019, portando alla scoperta reperti fossili attribuibili a 9 individui di uomo di Neanderthal: 8 databili tra i 50mila e i 68mila anni fa e uno, il più antico, databile tra i 100mila e i 90mila anni fa. Questi, insieme agli altri due trovati in passato nel sito, portano a 11 il numero complessivo di individui presenti nella Grotta Guattari che si conferma così uno dei luoghi più significativi al Mondo per la storia dell’uomo di Neanderthal. I recenti scavi hanno restituito migliaia di reperti ossei animali che arricchiscono la ricostruzione del quadro faunistico, ambientale e climatico. Sono stati determinati oltre ad abbondanti resti di iena, diversi gruppi di mammiferi di grande taglia tra cui: l’uro, il grande bovino estinto, che risulta una delle specie prevalenti insieme al cervo nobile; ma anche i resti di rinoceronte, di elefante del cervo gigante (Megaloceros), dell’orso delle caverne, e cavalli selvatici.
I primi studi sul cranio vennero effettuati Blanc, il quale, esaminando attentamente le ferite che il cranio riportava, in particolar modo il forame occipitale allargato, giunse alla conclusione che erano stati altri uomini di Neanderthal, come a Saccopastore, ad effettuare quest’operazione di allargamento per poter estrarre il cervello e mangiarlo, a scopo rituale: il fatto di averlo trovato al centro di una corona di pietre sembrava confermare la sua ipotesi.
L’interpretazione di Blanc venne però smentita nel 1989, esattamente cinquant’anni dopo il ritrovamento, quando si riunirono al Circeo, in un convegno, studiosi provenienti da ogni parte del mondo. Questi ultimi sottolinearono che sul cranio non erano stati trovati segni di utensili con i quali si sarebbe potuto compiere, da parte di altri uomini, l’allargamento del forame del cranio stesso: gli unici segni trovati erano quelli di denti di iena. Tutti furono così concordi su questa nuova tesi: la grotta “Guattari” fu, intorno a circa 50.000 anni fa, la tana di una iena, e lo dimostrano le numerose ossa fossili ritrovate al suo interno, resti dei suoi pasti. L’animale ha trasportato nella sua tana il cadavere dell’uomo, o forse solo la testa, e ha allargato il foro occipitale per estrarne il cervello. Prova di ciò sono anche studi compiuti in Africa sul comportamento delle iene le quali, quando si imbattono in animali morti, portano via ossa e crani per spolparseli nelle loro tane e si limitano solamente a mordere la carne che vi è attaccata, senza spezzarne le ossa. Cosa che invece gli uomini avrebbero sicuramente fatto, se avessero voluto mangiare il contenuto del cranio. Per cui, fu abbandonata l’ipotesi del cannibalismo rituale: data la similitudini, è probabile che lo stesso sia avvenuto anche per il cranio di Saccopastore.
January 3, 2022
I primi passi di Dioniso I
 
Tornando alle vicende di Dionisio di Siracusa, la sua situazione dopo la sconfitta da Imilcone era alquanto precaria: da una parte, aveva giustificato il suo colpo di stato spacciandosi come il migliore generale possibile per sconfiggere i Cartaginesi. Dall’altra, beh, Imilcone gli aveva concesso poco più di un tregua, dovuto allo scoppio di un’epidemia. Nonostante il trattato umiliante per la polis siciliana, non era da escludere che nel Senato Cartaginese passasse invece la linea dura, la conquista della città, per risolvere alla radice i problemi causati dalle colonie greche.
Tutto questo rendeva la base del suo potere, come testimoniato dall’ammutinamento e dalla rivolta della sua cavalleria, assai precaria. Per evitare il disastro, Dionisio non stette con le mani in mano; per evitare che qualcuno, imitandolo, gli facesse le scarpe, decise di fortificare l’isola di Ortigia, fornendola di una forte guarnigione, in modo che potesse fungere da ultima difesa sia in caso di rivolte, sia in caso di colpo di mano punici. Sempre a Ortigia, dato che si era reso conto, che senza il controllo del mare, la guerra contro Cartagine diventata una sorta di tela di Penelope, costruì un arsenale, capace di realizzare e custodire una flotta di sessanta triremi. Infine, per puntellare il suo potere e rafforzare la sua popolarità, al grido di terra i contadini distribuì le proprietà dei cavalieri ribelli in parte ai suoi sostenitori più fedeli, in parte ai cittadini più poveri, compresi quelli che Diodoro Siculo chiama nepoliti, nuovi cittadini. Dionisio, forse per ispirazione dei suoi mercenari osci e sanniti per compensare le perdite subite nella recente guerra persa, compie un gesto che è tipico della tradizione italica, ma che è totalmente di rottura in quella greca. Libera schiavi meritevoli, fedeli alla sua causa, trasformandoli nell’equivalente romano dei liberti.
Poi si pose la questione della città sicula di Erbesso, che nella recente guerra, si era alleata con i Cartaginesi, scomparsa in tempi antichi, che storici e archeologi identificano con Pantalica o più probabilmente con il sito di Montagna di Marzo a Piazza Armerina, in cui recentemente sono stati ritrovati i resti di un importante teatro romano: perchè Dionisio si interesso a questa polis, che come affermava Diodoro Siculo, non era certo tra le più ricche della Sicilia, tanto che i cittadini di una sua colonia, Alesa Arconidea, oggi Santa Maria delle Palate, nel territorio del comune di Tusa, si vergognavano di tale origine ?
Il motivo era prettamente militare: l’acquedotto che riforniva Siracusa, fatto costruire da Gelone, era alimentato da delle sorgenti che si trovavano nel territorio di Erbesso. Se i Cartaginesi le avessero controllate, la resistenza in caso di assedio sarebbe durata ben poco. Per cui spedito un contingente di soldati guidati da Dorico, che però, sin dall’inizio ebbe una serie di problemi: gli opliti, per una questione di ritardo nel pagamento della diaria, si ammutinarono. Dorico, temendo di trovarsi dinanzi a una replica della rivolta dei cavalieri, represse con mano pesante la protesta. Cosa che però, si trasformò in un boomerang nei confronti di Dionisio.
I mercenari del suo esercito interpretarono il tutto come un segno della volontà da parte dei Tiranno di non pagare quanto concordato: una parte entrò in sciopero, una parte si schierò con gli opliti ribelli. Risultato, il programmato assedio di Erbesso rischiò di trasformarsi un una disfatta, con i siculi che dalle loro mura osservavano i Siracusani scannarsi tra loro. Per non fare la fine del topo, Dionisio prese armi e bagagli e scappò a Siracusa, per rifuggiarsi ad Ortigia.
Gli opliti ribelli non persero tempo per organizzare un contro colpo di stato, nominando come leader il corinzio Nicotele, che prometteva il ripristino della democrazia: chiesero poi rinforzi a Messene, la nostra Messina e a Rhegion, Reggio Calabria. Le due polis, che, a ragione, temevano come Dionisio avevesse più intenzione di sottomettere le altre colonie greche che di lottare contro i Cartaginesi, misero da parte la loro tradizionale rivalità e spedirono, a supporto dell’insurrezione, 80 triremi.
Vista la mala parata, Dionisio pensò seriamente a dare retta al suocero Polisseno, che consigliava di scappare in esilio in Grecia: fu solo l’appoggio di Filisto, il futuro storico, ma che all’epoca era il comandante militare della guarnigione di Ortigia, a convincerlo a resistere a oltranza, anche il ritanno, rispetto ai nemici aveva un vantaggio non da poco, il controllo delle casse siracusane. La disponibilità di denaro sonante gli permise di arruolare nuovo mercenari, 1200 cavalieri osci e 300 opliti spartani. Cosa che non avvenne nel campo avverso: molto dei mercenari, visto che i ribelli fossero altrettanto poco propensi a pagarli di Dionisio, abbandonarono la lotta. Molti degli opliti, visto che si stava avvicinando la stagione del raccolto, tornarono nei loro. Così Dioniso, approfittando della recuperata superiorità numerica, ordinò una sortita, che sconfisse i ribelli nei pressi della Neapolis.
Per una volta, il tiranno si mostrò morigerato nella gestione della vittoria, anche perchè temeva la prossima offensiva cartaginese: buttare benzina sul fuoco non avrebbe fatto nulla più che aiutare i nemici. Per cui, accettò di concedere l’amnistia ai ribelli: però, per evitare che in futuro prendessero di nuovo strane iniziative, da una parte, mise in piedi una sorta di polizia segreta, l’equivalente della Crypteia spartana, per controllare capillarmente con lo spionaggio e la delazione, dall’altra, confiscò gli scudi e le armi dei suoi concittadini, per evitare qualsiasi insurrezione.
Il fatto che avesse così consolidato il potere, gli permise di consolidare i contatti diplomatici con Sparta, che cercava in qualche modo di recuperare l’alleanza e l’appoggio siracusano, che era saltato a seguito della recente guerra con Cartagine, la quale, pur non essendo filo ateniese, aveva con la città dell’Attica spesso e volentieri una convergenza di interessi. Così l’ammiraglio spartano Lisandro, che sotto certi aspetti aveva molto in comune con Dionisio, entrambi erano militari di grande competenza, ambiziosi, austero, onesti ed integerrimi, crudeli, maestri nell’arte dell’intrigo e della dissimulazione, gli mandò una sorta di ambasciatore, per coordinare le politiche comuni, chiamato Areta.
A riprova dell’atteggiamento machiavellico di Dionisio, vi è una battuta che gli attribuisce Plutarco
si dovrebbero ingannare i bambini con i dadi e gli adulti con i giuramenti
Forte dell’appoggio politico ed economico di Sparta, che ricordiamola, era finanziata dalla ricchissima Persia, Dionisio, dopo avere consolidato il suo potere, nel 403 a.C. si dedicò quindi al successivo obiettivo: coagulare attorno a Siracusa, con le buone o con le cattive, tutte le forze che in Sicilia si opponevano al predominio cartaginese.
Con le cattive, risolse la questione Katane e Naxos. Ricordiamo come Catania, che si era schierata al fianco di Atene, Sottoposta per questo a un’offensiva di Siracusa, dopo la sconfitta degli Ateniesi fu salvata dall’invasione cartaginese della Sicilia del 409 a.C. Dionisio riprese l’offensiva riuscì a conquistarla, la rase al suolo, ne donò parte del territorio ai suoi alleati siculi. e ne vendette in parte come schiavi gli abitanti. I superstiti si rifugiarono in un primo tempo a Milazzo, ma da qui poi furono espulsi, e si dispersero in varie località della Sicilia. Dionigi ripopolò la città con i suoi mercenari campani
Un destino simile Naxos, conquistata a segutio del tradimento di un suo concittadini Polieno, forse lo stesso che conia le monete del tardo V secolo a.C. La polis fu completamente rasa al suolo e gli abitanti venduti come schiavi. I pochi abitanti che riuscirono a sottrarsi dalla vendita come schiavi tornarono tuttavia sul posto, ricostruirono gli edifici e iniziarono a battere moneta con il nome di Neapolis.
Con le buone, Leontini ed Erbesso. Leontini era nelle mani dei profughi di Akragas, il cui tasso di irritazione nei confronti di Dionisio aveva raggiunto livelli epici: per cui, per evitare qualche imbarrazzante sconfitta, il tiranno di Siracusa trovò un compromesso, ribadendo per l’ennesima volta il suo impegno per farli tornare a casa. Con Erbesso, visti i procedenti, fu trovato un accordo, autorizzando poi i suoi abitanti a fondare la suddetta Alesa Arconidea, nei pressi della nostra Tusa, dove era già sorto un insediamento di mercenari campani stabilito qui dai Cartaginesi dopo la pace con Siracusa nel 405 a.C.: il nuovo insediamento greco-siculo ha anche il compito di fronteggiare un’eventuale espansione cartaginese nella zona. Le monete coniate ad Alasa hanno come emblema della città una colonna sormontata da un cane, simboleggiando la sua funzione di controllo del territorio.
January 2, 2022
La Tomba di Terone
 
Poco fuori dalla Porta Aurea e a poca distanza dalle antiche mura di Akragas, si innalza un singolare edificio eretto a scopo di cripta sepolcrale e da sempre noto sotto il nome di Tomba di Terone, tiranno di Agrigento, il quale morì nel 472 a. C. ma fu assai temuto anche dopo la morte. Racconta infatti Polibio che il comandante cartaginese Amilcare, dopo essere sfuggito ad un attentato, durante l’assedio di Akragas, ordinò per rappresaglia di demolire tutti i sepolcri agrigentini che si trovavano fuori le mura per adoperarne i materiali nella costruzione di fortificazioni alte almeno quanto le mura agrigentine.
Ma mentre i soldati cartaginesi stavano iniziando la distruzione della tomba di Terone, il sepolcro fu colpito da un fulmine e ombre di morti uscirono vagando per tutta la notte per il campo cartaginese. Tutti ne rimasero atterriti e il comandante cartaginese annullò l’ordine, risparmiando la tomba che oggi denominiamo di Terone. Questo accadeva nel 406 a. C. Nulla però attesta che ci troviamo di fronte al sepolcro del tiranno agrigentino e neppure una iscrizione è rimasta che ci permetta di poter dare con sicurezza un nome a questo edificio e l’attribuzione è frutto della fantasia dei viaggiatori del Grand Tour.
Sono del tutto fantasiose anche quelle interpretazioni secondo cui il monumento sia stato innalzato da un potente signore di Agrigento in onore di un suo cavallo che si era particolarmente distinto in importanti competizioni ippiche. Questa ipotesi deriverebbe piuttosto dal fatto che gli Agrigentini solevano innalzare monumenti e sepolcri oltre che a cavalli, anche ad altri animali che reputavano eccellenti. Scrisse infatti Plinio: “Agrigentini complurium aequorum tumuli habent” (Gli Agrigentini hanno tombe per molti cavalli Plinio, St. nat. lib.8,c.45; ma anche Diodoro lib. I, c.13). Anche Virgilio fece esclamare ad Enea veleggiante nei paraggi di Agrigento: “Ardua inde Acragas ostentat maxime longa / Moenia magnanimum quondam generator aequorum” (Di poi l’alto Acragante ci mostra da lontano le mura grandiose della città, un tempo madre di generosi cavalli Eneide, lib.III, 704). Inoltre Pindaro e Strabone attestano che una razza di cavalli bellissimi veniva allevata in territorio agrigentino e quando in Cappadocia vennero a mancare dei buoni cavalli, un oracolo ordinò di acquistare gli ottimi stalloni agrigentini. Cadde in errore anche lo Schubring che indicò la tomba di Terone quale cenotafio innalzato per Timoleonte, che gli Agrigentini hanno considerato quale secondo fondatore della loro città.
Dal secolo scorso in particolare, dopo gli studi innanzitutto dello Holm, si cominciò ad affermare l’ipotesi secondo la quale si tratta di un sepolcro realizzato in epoca romana da qualche aristocratica famiglia, vissuta probabilmente durante il primo impero. Altri recenti studi lo fanno ritenere monumento innalzato da un generale romano per dare onorevole sepoltura ai 30.000 soldati romani caduti durante l’assedio del 262 a.C. alla città di Akragas. Che si tratta comunque di un monumento d’epoca romana è stato avvalorato nel nostro secolo dagli studi degli eminenti archeologi Marconi e Pace che lo hanno messo in relazione con gli heroa africani del III secolo d.C e che quindi doveva essere connesso alla necropoli Giamboni, scavata da Salinas nel 1901, che ritrovand delle lucerne con la croce e i simboli del pesce e del leone, dimostrò come potesse essere frequentata dai cristiani. Necropoli che venne abbandonata intorno al IV secolo d.C.
Il monumento è costituito da un podio cubico con base e cornici modanate sovrastato da una architettura a tempietto sulle cui pareti piene, inquadrate da colonne di tipo ionico-attico, si aprono finte porte doriche riquadrate. È probabile che il monumento in origine
presentasse al disopra della trabeazione dorica, quale elemento di completamento, un’alta cuspide. Su ogni lato delle pareti erette tra le colonne si vede una finestra ed una specie di porta finta col suo stipite, che è più larga nella parte inferiore che nella superiore. La tomba posava su una gradinata.
Come in molti sepolcri della necropoli Giamboni, i particolari decorativi del monumento erano sottolineati e accentuati dallo stucco: per cui, alcuni studiosi hanno cominciato a ipotizzare una sua natura cristiana: ricordiamo un attimo la questione della basilica di san Biagio. La presenza di due tombe inglobate all’interno della navata ha fatto ipotizzare che la basilichetta (nel sito già occupato da una necropoli di II-III secolo) fosse sorta con funzione di Martyrium e, pertanto, fosse stata eretta nel luogo del martirio dei santi agrigentini Libertino e Pellegrino.
Però, il monumento al martirio potrebbe invece essere proprio la nostra tomba di Terone
Nella prima metà del V secolo San Biagio subì una violenta distruzione, forse in conseguenza delle incursioni vandaliche, e fu ricostruita, con lievi modifiche, tra la fine del V e gli inizi del VI secolo mantenendo probabilmente inalterata la funzione di basilica cimiteriale
December 31, 2021
La Tempesta di Giorgione
 
Per finire l’anno in bellezza, parlo di uno dei più discussi quadri non solo del catalogo di Giorgione, ma dell’intera Arte Occidentale, ossia la Tempesta, che può sembrare strano, per la sua incomprensibilità, sta anche sulle scatole a diversi storici e critici: cito ad esempio il buon Augusto Gentile, di solito pacato e misurato e non è facile ironia.
La Tempesta non è il capolavoro di Giorgione né il caposaldo della pittura veneziana del Cinquecento: un capolavoro definisce con chiarezza il suo soggetto e lo serve funzionalmente con proprietà e coerenza d’iconografia e di linguaggio, senza costringere lo spettatore a giochi d’indovinelli; un caposaldo genera una rete di relazioni e sviluppi, di esperimenti e superamenti, e non due o tre semianonime imitazioni. È particolarmente difficile anche la datazione, perché la discontinuità esecutiva fa saltare i parametri del giudizio “stilistico” (che dunque si rivelano approssimativi, congetturali, illusori). Non c’è narrazione o informazione, non ci sono indicazioni gestuali o suggerimenti espressivi, e nemmeno elementi simbolici repertorialmente riconoscibili: la Tempesta è il più reticente fra tutti i reticenti quadri di Giorgione.
Questo può significare che il soggetto è ancora più esclusivo del solito e che ancora ci manca la chiave, il codice, il contesto, la cultura; oppure che nell’originario processo da invenzione a esecuzione del dipinto, e magari nella sua storia materiale successiva, c’è qualcosa che non va; oppure che, dopo cent’anni e più d’indagini e proposte, gli elementi della ricostruzione possibile si sono irrimediabilmente mescolati e confusi; o forse un po’ di tutte queste cose
Premesso che non ne condivido il giudizio estetico, sulla questione dell’interpretazione, non posso che dargli ragione. La Tempesta, per chi non l’avesse presente è un dipinto a tempera a uovo e olio di noce (83×73 cm) di Giorgione, databile intorno al 1505, conservato nelle Gallerie dell’Accademia a Venezia.
L’opera è citata nel 1530 da Marcantonio Michiel, che parlò di un “paesetto in tela con la tempesta con la cingana e il soldato, fu de man de Zorzi de Castelfranco” nell’abitazione di Gabriele Vendramin, che probabilmente ne era stato il committente. Chi diavolo sono questi due ? Marcantonio, di cui ho parlato altre volte, che era un patrizio veneziano, oltre a essere un grande collezionista, possedeva quadri di Giorgione, a Jacopo de’ Barbari e Giovanni Bellini per la pittura e sculture del Riccio, il Bellano e Severo da Ravenna, si dedicò a un’attività per l’epoca innovativa: catalogò le opere presenti nelle collezioni d’arte più rilevanti di Padova, Milano, Pavia, Bergamo, Crema e Venezia. I suoi appunti, che probabilmente avrebbe voluto sviluppare in una storia dell’arte analoga a quella di Vasari, che tra l’altro ignorò la Tempesta, considerando Giorgione non un pittore di paesaggi, ma sommo ritrattista, scrivendo
Lavorò in Venezia nel suo principio molti quadri di Nostre Donne et altri ritratti di naturale, che sono e vivissimi e belli
furono raccolti ne Notizia d’opere di disegno, il cui manoscritto fu però ignorato per secoli, per essere pubblicati 1800. Gabriele Vendramin era esponente di una casata “nuova” che dové la propria fortuna ad Andrea Vendramin, vissuto nella seconda metà del XIV secolo. Di origine friulana, fece fortuna grazie al commercio di derrate alimentari e, entrato nel ceto cittadinesco, fu nominato guardian grande della Scuola Grande di San Giovanni Evangelista; in questa veste, fu protagonista del miracolo della Croce, caduta nel canale di San Lorenzo durante una processione nel 1370 e che si lasciò recuperare solo dal Vendramin (l’episodio fu immortalato in un celebre dipinto di Gentile Bellini per la stessa Scuola Grande).Il 4 settembre 1381, grazie al finanziamento di uomini e galee da impegnare nella guerra di Chioggia, il Vendramin e la sua famiglia entrarono nella nobiltà veneziana, assieme ad altre ventinove casate di estrazione popolare
Ora Gabriele ebbe una vita molto più normale del suo antenato: ricco sfondato, frequentò il circolo intellettuale di Caterina Corner, si interessò con Bembo alla “questione della lingua” e al neoplatonismo ed ebbe come hobby l’alchimia, l’astrologia e la filosofia naturale. Sappiamo poi come fosse particolarmente legato alla sua collezione di quadri, tanto che nel suo testamento citò esplicitamente “molte picture a ogio et a guazo in tavole et tele, tute de man de excelentissimi homeni, da pretio et da farne gran conto”. Si raccomandò quindi agli eredi di non alienare né smembrare per alcuna ragione la raccolta. Ricordiamo come tra il Settecento e l’Ottocento La tempesta ebbe un altro titolo, alquanto bizzarro, di la Famiglia di Giorgione, citato tra l’altro anche da Byron… Come possa venire in mente una cosa del genere, nel vederlo, è una cosa che non sono mai riuscito a spiegarmi. A titolo di pettegolezzo, all’epoca si pensava che Paris Bordon, il pittore di Treviso, nato nel 1500, fosse supposto figlio naturale del Giorgione, sulla scorta di un’interpretazione assai forzata di un passo di Vasari della sia vita di Tiziano
Ma quegli che più di tutti ha imitato Tiziano è stato Paris Bondone, il quale nato in Trevisi di padre trivisano e madre viniziana, fu condotto d’otto anni a Vinezia in casa alcuni suoi parenti. Dove, imparato che ebbe gramatica e fattosi eccellentissimo musico, andò a stare con Tiziano, ma non vi consumò molti anni, perciò che vedendo quell’uomo non essere molto vago d’insegnare a’ suoi giovani, anco pregato da loro sommamente et invitato con la pacienza a portarsi bene, si risolvé a partirsi, dolendosi infinitamente che di quei giorni fusse morto Giorgione, la cui maniera gli piaceva sommamente, ma molto più l’aver fama di bene e volentieri insegnare con amore quello che sapeva. Ma poi che altro fare non si poteva, si mise Paris in animo di volere per ogni modo seguitare la maniera di Giorgione. E così, datosi a lavorare et a contrafare dell’opere di colui, si fece tale, che venne in bonissimo credito, onde nella sua età di diciotto anni gli fu allogata una tavola da farsi per la chiesa di San Niccolò de’ frati minori; il che avendo inteso Tiziano, fece tanto con mezzi e con favori, che gliele tolse di mano, o per impedirgli che non potesse così tosto mostrare la sua virtù, o pure tirato dal disiderio di guadagnare
Dopo vari passaggi di proprietà, nel 1932 il Comune di Venezia lo acquisì dal principe Giovannelli. A partire dal XIX secolo l’opera è divenuta oggetto di innumerevoli tentativi di interpretazione, dispute tra gli studiosi e saggi critici. Ora il quadro è il primo olio su tela dedicato alla rappresentazione di un paesaggio: in precedenza il tema era stato affrontato in disegni, come quelli di Leonardo, o negli acquarelli di Durer. Non è nemmeno detto che il paesaggio sia realmente il soggetto del dipinto, poiché vi compaiono tre figure in primo piano, che probabilmente alludono ad un significato allegorico o filosofico che è il reale soggetto della tela e che non è ancora stato convincentemente spiegato dagli studiosi. Che cosa rappresentano queste figura ? In primo piano, sulla destra, una donna seminuda che allatta un bambino (la “cingana” o “zigagna” cioè la gitana o zingara), mentre a sinistra un uomo in piedi li guarda, appoggiato a un’asta (il “soldato”); tra le due figure sono rappresentate alcune rovine. I personaggi sono assorti, non c’è dialogo fra loro, sono divisi da un ruscelletto. Tra l’altro, la donna seminuda è la stessa modella che poserà per il successivo quadro di Giorgione intitolato Laura.
Sullo sfondo, invece, si nota un fiume che costeggia una città, recentemente identificata con Padova, passando sotto un ponte, che sta per essere investito da un temporale: un fulmine, infatti, balena da una delle dense nubi che occupano il cielo. Da un punto di vista stilistico, in quest’opera Giorgione rinunciò alla minuzia descrittiva dei primi dipinti (come la Prova di Mosè e il Giudizio di Salomone agli Uffizi), per arrivare a un impasto cromatico più ricco e sfumato, memore della prospettiva aerea leonardiana (verosimilmente mutuata dalle opere dei leonardeschi a Venezia), ma anche delle suggestioni nordiche, della scuola danubiana. La straordinaria tessitura luminosa è leggibile, ad esempio, nella paziente tessitura del fogliame degli alberi e del loro contrasto con lo sfondo scuro delle nubi
Il significato di questo quadro ? Come dicevo, si stanno scannando da un paio di secoli critici e storici dell’arte. L’interpretazione più antica, campata in aria, perchè legata al titolo immaginario di Famiglia di Giorgione, come se a Vendramin avesse avuto interesse per un quadro del genere, è quello di una metafora della Paternità, il soldato, e di come la nascita di un figlio cambia la vita dell’uomo, con la tempesta che rappresenta il tumulto di passioni, angosce speranze e illusione che travolgono, davanti a tale evento l’animo umano. Il primo a contestare tale interpretazione fu D’Annunzio, che, tra le tante cose fu anche un sensibile e colto amante dell’arte. Il Vate evidenziò come la totale mancanza di interazione ed empatia tra la figura dell’Uomo e la Donna con il Bambino, che non si scambiano neppure uno sguardo. L’Uomo, infatti è concentrato su se stesso e sui suoi pensieri, cosa che ha portato D’Annunzio, idea che è tornata più volte nella critica, che la figura della donna e del bambino non siano reali, ma una sorta di sogno e visione.
Nel 1895 Franz Wickhoff, storico dell’arte austriaco, fu il primo a cercare di dare un’interpretazione mitologica ed erudita del quadro, collegandola a un episodio della Tebaide di Stazio: l’uomo sarebbe Adrasto, re di Argo, alla guida di un esercito in marcia contro Tebe, mentre la donna sarebbe con Hypsipyle, figlia in esilio del re di Lemno, e sta allattando Ofelte, figlio del re di Nemea di cui ora schiava. Adrasto alla ricerca di acqua per i soldati assettati e trova nel bosco Hypsipyle, che lo conduce sino al fiume Langia. Hypsipyle, però, perde di vista il bambino, che muore morso da un serpente. I problemi di tale interpretazione sono molteplici: non c’entra nulla con la scena rappresentata, non abbiamo prove di un particolare interesse di Vendramin per il poema di Stazio e sembrerebbe strano il fatto che i protagonisti non siano rappresentati all’Antica.
Tra l’altro l’uomo sembrerebbe indossare gli abiti tipici dei membri della Compagnia della Calza, delle compagnie di giovani nobili veneziani che organizzarono la vita di spettacolo veneziana tra il XV e il XVI secolo. Come dice un memorialista nate:
«per rendere più pompose le feste, gli spettacoli o altre giullerie e divertimenti, a’quali la Città fu sempre inclinata»
Ogni anno, all’inizio di carnevale, ogni Compagnia organizzava una serie di spettacoli riservati alla nobiltà veneziana nei quali venivano impiegati (a spese della compagnia) celebri buffoni del tempo, ma anche dei veri e propri spettacoli teatrali con la presenza anche di famosi autori come il Ruzante e Pietro Aretino.
Fra gli spettacoli precipui di Venezia promosse dalle compagnie della calza vi erano le Momarie, sorta di processioni mascherate fatte lungo i canali dove venivano rappresentate le battaglie fra Vizi e Virtù, il trasporto di teatri galleggianti apparati lungo i principali canali, cene preparate sui ponti per gli ambasciatori e i sovrani in visita a Venezia.
Durante la festa della Sensa veniva poi allestita in piazza San Marco la Caza al toro (la caccia al toro), una specie di corrida con la partecipazione di buffoni e autori-attori della commedia alla villanesca, di cui erano autori fra gli altri Ruzante, Menato e Cherea. Secondo le fonti coeve Ruzante lavorò per la compagnie degli Immortali e gli Ortolani anche se spesso le sue commedie furono censurate a causa delle sconcezze contenute nei suoi testi
Ora i membri della Compagna della Calza appaiono in uno sproposito di quadri veneziani di fine Quattrocento: li ritrae Carpaccio, nel miracolo della Croce, che ricordiamolo, coinvolgeva il capostipite della famiglia Vendramin e lo stesso Giorgione in un suo affresco perduto del Fondaco dei Tedeschi. Dato che Gabriele la frequentava, non è da escludere che la figura dell’Uomo sia un suo ritratto idealizzato o quello di un suo conoscente. Tra l’altro uno storico anglosassone, Thomas Keydoor, ha ipotizzato come il dipinto sia una sorta di rappresentazione di una Momaria, con la Donna e con il Bambino che rappresentano la Carità e l’Uomo l’egoismo, ma difficilmente Vendramin avrebbe fatto dare un significato negativo al sodalizio di cui faceva parte.
Sempre in quest’ottica di morality play, per dirla all’inglese, Edgard Wind sostenne che la Tempesta sia un grande collage dove la figura maschile rappresenterebbe un soldato, simbolo di forza, mentre la figura femminile andrebbe letta come la Carità, dato che, nella tradizione romana, la carità era rappresentata da una donna che allatta. Forza e carità dovrebbero quindi convivere con i rovesci della natura (il fulmine). Il problema, come ha sottolineato più volte Gentili, che la figura dell’Uomo, tutto sembra rappresentare, tranne che un guerriero.
Altra opera classica a cui la Tempesta è associata sono le Metamorfosi di Ovidio: secondo Schrey, il tema del quadro sarebbe ispirato all’episodio di Deucalione e Pirra, i progenitori dell’umanità, scampati, secondo il mito greco, al Diluvio Universale. La scena raffigurerebbe il momento in cui le acque del diluvio si stanno ritirando. Battisti, invece, ritiene che rappresenti uno dei tanti amori di Giove, il Fulmine, con una Ninfa, con Mercurio, l’Uomo, costretto a tenere bordone. Problemi di questa interpretazione sono gli stessi della Tebaide.
Sempre nell’ottica dell’intepretazione letteraria, nel 1941, Luigi Stefanini collega la Tempesta al bestsellers dell’epoca, Hypnerotomachia Poliphili, di cui sappiamo il nome dell’autore, Francesco Colonna, su cui però ci stiamo scannando sull’effettiva identità: libro, ricordiamolo, stampato a Venezia da Aldo Manuzio il Vecchio nel dicembre 1499, che ispirato alle Metamorfosi di Apuleio, descrive un viaggio iniziatico che ha per tema centrale la ricerca della donna amata, metafora di una trasformazione interiore alla ricerca dell’amore platonico. Cinque i collegamenti principali messi in evidenza dallo Stefanini: il contrasto tra le rovine e la vita; le colonne spezzate che richiamano il cognome dell’autore del romanzo; il tempio di Venere, individuato nell’ edificio con cupola; l’Orto del destino del romanzo rappresentato nel dipinto dalla città e dal fiume; la Venere Genitrice del romanzo rappresentata dalla giovane che allatta. Il problema è che il romanzo è accompagnato da 169 illustrazioni xilografiche, che come stile e contenuti, fanno a botte con il dipinto di Giorgione.
Un’altra ipotesi “mitologica” ricollega la Tempesta al Ritrovamento di Paride: sappiamo da Michiel che Giorgione dipinse un quadro per i Contarini di questo soggetto e magari Vendramin, invidioso, abbia voluto avere una sua versione. Il problema è che questo quadro è andato perduto: abbiamo solo due riproduzioni, entrambe bruttarelle: l’incisione di Van Kassel per il Theatrum Pictorium di David Teniers e una copia parziale a Budapest. Cosa unirebbe i due quadri ? Il fatto che siano due paesaggi, con figure: in quelle che comparirebbero nel Ritrovamento di Paride, a sinistra vi sarebbe una figura simile all’Uomo della Tempesta, mentre a destra una figura femminile, pur non allattando, ricorda nella posizione quella dell’altro. Il problema è che mancando l’originale e ulteriori copie, non sappiamo quanto Teniers si sia attenuto all’originale o quanto abbia interpolato, facendo un mix tra il Ritrovamento e la Tempesta. Oppure, visto che Contarini apparteneva anche lui alla Compagnia della Calza, Giorgione si sia limitato a citare questa peculiarità per fare contento il committente.
Altro filone di interpretazione è quello religioso, ispirata dal fatto che Vendramin, per tradizione della sua famiglia, avesse una particolare venerazione per la Croce e un legame legame molto stretto con la chiesa di Santa Maria dei Servi a Cannaregio (luogo dove fu sepolto) e con l’omonimo ordine che l’officiava. La studiosa De Grummond il quadro rappresenterebbe uno degli episodi della vita leggendaria di San Teodoro, che ricordiamolo è il primo protettore di Venezia.
Secondo il racconto popolare, in cui si mescolano sacro e profano, in una grotta sotto Acerenthia (individuata in una delle grotte carsiche di cui la zona è ricca), viveva un drago con sette teste, che ogni anno pretendeva dalla città il sacrificio di sette fanciulle illibate. Quando arrivò il turno della figlia del principe, che doveva essere sacrificata al mostruoso tiranno insieme ad altre sei ragazze, si trovò a passare da Acerenthia Teodoro (secondo l’etimologia: dono di Dio), valoroso soldato della legione dei Mirmidoni di Amasea nel Ponto. Egli uccise il drago, tagliandogli le sette teste una ad una (che il suo cane prontamente portava fuori dalla grotta affinché il mostro non se le riattaccasse), liberando così la città da questa orribile tirannide. Per questo fu portato in trionfo dagli antichi abitatori di Acerenthia, che lo elessero patrono e protettore della città. In essa il culto durò per oltre un millennio, per poi trasferirsi nell’attuale Cerenzia. Insomma la versione cristiana della lotta di Ercole contro l’Idra di Lerna… Ora, premesso che l’Uomo tutto sembra tranne che un guerriero, ma nel quadro dove starebbe il drago ?
Analogo discorso si potrebbe fare per la prima interpretazione di Calvesi, Mosè salvato dalle acque del Nilo dalla figlia del faraone alle acque del Nilo e restituito alla nutrizione della madre ebrea, in cui manca la maggior parte dei protagonisti del dramma sacro e quella di Settis, trovando invece un precedente in un rilievo dell’Amadeo sulla facciata della Cappella Colleoni (Condanna divina e destino dei progenitori dopo il Peccato originale) ritenne che le figure si potessero interpretare come Adamo, con una vanga, ed Eva che sta allattando Caino, dopo la cacciata dal Paradiso; il fulmine equivarrebbe alla spada fiammeggiante dell’angelo e il bagliore che questo produce alla presenza inequivocabile dell’Eterno che, adirato, allontana i peccatori; suggestiva è poi l’interpretazione data delle colonne spezzate e delle rovine antiche, che indicherebbero la caducità dei beni terreni e la mortalità dell’uomo. La tempesta diverrebbe così una metafora della condizione umana dopo il peccato, alla luce della dottrina cristiana. Tesi ripresa recentemente da Sergio Alcamo nella tela un inedito quarto protagonista, un minuscolo angelo stante sul ponte in legno e mimetizzato tra la vegetazione retrostante, a ricordare la cacciata dall’Eden. Il problema è che immaginare Adamo vestito alla moda della Venezia dell’epoca, piuttosto che nudo è una bella forzatura…
Altro filone è quello mistico filosofico: Arnaldo Ferraguto, il primo a individuare nel paesaggio sullo sfondo una rappresentazione della città di Padova, il quadro rappresenterebbe una sintesi degli studi filosofici neoaristotelici che andavano per la maggiore nella sua università in quegli anni. Il problema è che il committente era molto più vicino alla filosofia neoplatonica. Hartlaub nel 1925 vide nel dipinto l’allegoria di un’iniziazione alchemica forse destinata ad una setta segreta veneziana. Su questo solco si è mosso anche Maurizio Calvesi che vi ha letto l’allegoria dell’unione di cielo e terra, ispirata al filososfo neoplatonico Leone Ebreo. Anche se suggestiva, lo dico da appassionato di alchimia, mancano però molti degli elementi simbolici che spingerebbero a tale interpretazione.
Infine, partendo dalla rappresentazione di Padova sullo sfondo, c’è anche un filone storico: per alcuni studiosi, rappresenterebbe la fondazione di Padova da parte di Antenore, mentre Ugo Soragni, direttore regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, vede nel quadro un’allegoria della conquista di Padova da parte della Serenissima, avvenuta all’inizio del 1400. Enrico Guidoni e Antonio Boscardin, nel paesaggio si riconoscono elementi dell’architettura padovana dell’epoca, in particolare “uno spaccato di Padova preso da una posizione a nord dell’antica porta Codalunga” oppure “il fianco occidentale delle antiche mura carraresi, dove scorre il Meoacus, tra il castello di Ezzelino all’estrema destra del quadro e la zona esterna a Ponte Molino sullo sfondo” (Boscardin). Le prove a sostegno di questa tesi sarebbero la presenza dello stemma dei Carraresi, signori di Padova (il Carro con quattro ruote rosse inframmezzate da una stanga) sul muro della prima porta a destra; l’identificazione del ponte con il ponte di San Tomaso; la raffigurazione della Chiesa dei Carmini; la torre isolata che potrebbe essere la torre di Ezzelino. Per quanto riguarda le figure umane, la donna simboleggerebbe la città di Padova spogliata di tutto e costretta ad allattare (a mantenere) la Serenissima (Padova raffigurata “adulta” perché fondata nel 1200 a.C., Venezia infante perché di origine molto più recente); mentre il soldato sarebbe uno Stradioto, soldato di ventura di origine albanese, utilizzato come mercenario dalla Repubblica di Venezia
Sinceramente, io non mi azzardo a formulare ipotesi di nessuna sorta: però una riflessione, da ignorante, permettemela. Dalle radiografie, sappiamo che questo benedetto quadro ha avuto una genesi straordinariamente complicato, segno del fatto che sia Giorgione, sia Vendramin abbia cambiato più volte idea, sul tema e sull’aspetto del quadro.
La Tempesta è stata sottoposta a numerose radiografie sin dal 1939: da questa emerge il fatto che Giorgione abbia realizzato almeno tre versioni di questo quadro. La prima prevedeva, al posto dell’Uomo, una donna nuda seduta sulla riva del fiume, le gambe immerse nell’acqua fino al ginocchio. Nella seconda versione, questa fu sostituita dall’Uomo e Giorgione introdusse una serie di varianti minime rispetto alla nostra, la definitiva: al di sopra delle due colonne spezzate, era dipinta una grande torre con accanto un albero non finito, a parte superiore del seno della donna era ricoperta da una camicia, nell’edificio a destra il ballatoio proseguiva lungo un lato, i calzoni dell’uomo si allungavano sino al ginocchio e sullo sfondo, vi era un uomo con una lunga veste he cammina a sul ponte, con nella mano sinistra bastone, mentre sulla spalla destra era poggiata una pertica con un carico, in una sorta di citazione dei quadri di Bosch.
Il fatto che queste figure siano state cambiate senza troppi problemi, fa sospettare come, nell’economia simbolica e formale del quadro, avessero in fondo un ruolo secondario, cosa che sembrerebbe evidenziato anche nella descrizione di Michiel, che da maggiore importanza al paesaggio e alla tempesta che hai personaggi…
Per cui, la Tempesta doveva essere legata a un’esperienza, probabilmente drammatica, vissuta da Vendramin a Padova… Quale sia stata, non abbiamo però elementi per ipotizzarlo…
December 30, 2021
I Manuali artistici longobardi
 
Le competenze tecniche delle botteghe pittoriche tardo antiche, di cui abbiamo testimonianza nei manuali come quelli contenuti nel Papiro di Leida e in quello di Stoccolma, non andarono perdute, come afferma una certa retorica, di origine ottocentesca, sulle invasioni barbariche, ma si adattarono a un diverso contesto, figlio di nuovi contenuti e di nuove specifiche esigenze della committenza.
A riprova di questa continuità, vi sono tre manoscritti, risalenti a un periodo e a un’area geografica, che a torto viene considerata come l’epitome della barbarie: l’Italia longobarda. Pregiudizio che è durato per decenni, a causa degli studiosi tedeschi e francesi, che per nazionalismo, consideravano la rinascita carolingia caduta dal cielo, senza padre né madre, come Melchidesec, capace di saltare fuori all’improvviso come uan cesura che reimposta il dialogo con l’Antichità, gettando le basi per l’intensa stagione ottoniano-salica e per la fioritura romanica. In realtà, la politica artistica e culturale di Carlo Magno è diretta conseguenza ed evoluzione delle corti della Langobardia Maior e Minor, quest’ultima composta dai ducati di Spoleto e Benevento, che ebbero un ruolo chiave nella trasmissione della cultura della tarda Antichità all’Occidente medievale.
Ruolo che non fu quello di una meccanica imitazione, ma di una rielaborazione creativa, frutto del dialogo serrato tra l’esperienza dell’arte germanica e delle steppe, il polo di neoclassicismo cristiano che era Bisanzio e quel complesso laboratorio di sperimentazione che era la Roma altomedievale un microcosmo in grado di mediare i processi politici della Penisola e perciò incidere sulle strategie di rappresentazione del potere, anche grazie ad un serbatoio inesauribile di modelli.
Ad esempio, l’idea di allestire sontuosi palazzi con spazi di rappresentanza e cappelle a due livelli, come ad Aquisgrana, è frutto della conoscenza che Carlo Magno aveva sia di Ravenna, sia di Pavia, il cuo palazzo reale longobardo, distrutto nel 1024, stiamo riuscendo a ricostruire a spizzichi e bocconi grazie all’archeologia. A testimonianza della capacità di creazione e di rielaborazione del linguaggio artistico tardo antico da parte dei Longobardi, abbiamo uno sproposito di edifici, alcuni notissimi, San Salvatore a Brescia, il Tempietto di Cividale, il monastero di Torba, Santa Maria foris portas a Castelseprio, San Vincenzo al Volturno (anche se sulla questione sarebbe cosa giusta che qualcuno, invece di sparare giudizi a destra e manca sui gruppi FB dell’Esquilino, spesso su temi di cui non sa nulla, si impegnasse di più a risolvere il casini che ha provocato nella gestione del parco archeologico…), Tempietto del Clitunno e Santa Sofia a Benevento, altri come le tante chiese dell’Irpinia, assai meno conosciuti e studiati.
Tornando ai nostri manoscritti, la cui esistenza implica ovviamente quella di potenziali utilizzatori, il più antico consiste nella prima e seconda sezione dell’Eraclio, scritte in versi, esametri latini nel VIII secolo, il cui titolo originale era De coloribus et artibus romanorum. Già il titolo fa riferimento alle tecniche dei Rhomanoi, non quelli dell’antichità, ma i contemporanei dell’Impero di Bisanzio. L’autore infatti, deve averle apprese, se non a Costantinopoli, almeno a Roma o nei possessi bizantini della Campania; tra l’altro, nell’introduzione, consiglia al lettore di non diffonderle, non per motivi mistici od esoterici, ma semplicemente per garantire la superiorità della sua bottegra rispetto alla concorrenza, il che implicherebbe, come dire, un mercato artistico alquanto turbolento e conflittuale.
Dato che nel testo non ci sono particolari riferimenti religiosi, è probabile che l’autore non fosse un chierico, ma un laico, pittore e miniatore, che lavorava sia per le corti ducali longobarde, sia per i ricchi monasteri e scriptoria vescovili: il fatto che fosse scritto in versi, oltre a dimostrare la profonda cultura dell’autore, scrivere in esametri virgiliani non era da tutti, ci da due interessanti indicazioni sia sulla zona di stesura, sia sul suo utilizzo. Abbiamo infatti un termine di paragone, il Carmen medicinalis, un poemetto didascalico di epoca alto medievale sulla farmacologia scritto da Benedetto Crispo, un chierico milanese vissuto agli inizi dell’VIII secolo, che frequentava la corte di Pavia, in esametri latini. Nel proemio del Carme l’autore si rivolge al discepolo Mauro, incitandolo all’amore per lo studio e spingendolo a fare la riprova dei precetti riportati prima di proseguire negli studi. Contiene 26 ricette in 214 versi ed è caratterizzato da un elevato livello linguistico, senza barbarismi, con cura formale nella metrica e nella prosodia. Vi si cita Plinio il Vecchio.
Le somiglianze formali con il Carmen e il fatto che l’autore dell’Eraclio citi anche lui Plinio il Vecchio in due aneddoti ( il primo racconta come, dove e quando fu scoperto il vetro in Medio Oriente; il secondo racconta di uno sfortunato inventore del vetro infrangibile, che venne fatto decapitare da Tiberio perché non divulgasse il suo segreto che averebbe fatto crollare il prezzo di oro e argento per la scoperta di una nuova materia ben più utile e preziosa) ci da un’idea precisa del suo ambiente culturale: le scholae e le botteghe presenti nella capitale longobarda. In più è probabile che l’Eraclio sia stato scritto allo stesso scopo: facilitare la formazione degli apprendisti, dato che la ritmica semplificava l’apprendimento e la memorizzazione delle ricette tecniche. A questo punto, possiamo ipotizzare come le botteghe artistiche longobarde fossero articolate su due livelli: l’artifex, il capo bottega e i suoi stretti collaboratori, colti, che sapevano leggere e scrivere e conoscevano i classici e una bassa manovalanza artigianale, che era in possesso di specifiche competenze tecniche.
A riprova di questo, nel si notano alcuni termini medievali che non appartengono al latino classico. Tra questi c’è husa (I 8,3) usato per indicare una specie di storione: si tratta di un germanismo e il fatto che sia chiarito tramite una parafrasi (piscem qui dicitur husa) lascia intendere che il destinatario dell’opera poteva anche non essere di origine longobarda. Per cui, gli artifex potevano anche provenire da Roma o dai territori bizantini bilingue del Sud Italia, Gaeta, Napoli, Amalfi, più che Rhegion o la Sicilia, a maggioranza grecofoni. Cosa che ci da un’interessante indicazione sulla circolazione di artisti e idee in quel periodo.
Parlando dei contenuti, i colori descritti per la produzione di miniature (rosso dall’edera, verde artificiale e vegetale, giallo orpimento e scrittura d’oro) sono quelli tipici dell’VIII secolo in Italia. Queste ricette tecniche sono molto preziose per capire come gli antichi artefici arrivassero alle opere d’arte, come creassero e applicassero i colori e come ottenessero particolari effetti. Tra l’altro, l’Eraclio, a causa del suo successo, ebbe una vita editoriale alquanto travagliata: nel XII secolo, un copista, in Francia o in Inghilterra, tolse letteralmente l’epilogo in versi e lo sostituì con un trattato in prosa, relativa alla lavorazione dell’avorio, che all’epoca, grazie alle zanne di tricheco provenienti dalla Groenlandia, stava avendo un grosso boom… Purtroppo, quella che ci giunta solo questa revisione.
Lievemente differenti solo il Manoscritto di Lucca e il Mappae clavicula, entrambi scritti nell’VIII secolo, una ventina d’anno dopo l’Eraclio, nella città toscana, che ricordiamolo, era la capitale del Ducato longobardo di Tuscia, sede di una zecca e di almeno due scuole artistiche di architettura e di scultura.
Il Codex Lucensis 490 è in realtà una sorta di antologia di testi tra loro differenti, in cui è presente la raccolta Compositiones ad tingenda musiva, pelles et alia, ad deaurandum ferrum, ad mineralia, ad chrysographiam, ad glutina quaedam conficienda, aliaque artium documenta, ante annos nongentos scripta, titolo inventato dal buon Muratori, che come suo solito, ci ha infilato di tutto e di più. Le Compositiones, diciamola tutta, non era un testo di studio, ma un prontuario, del tipo che fare se, probabilmente conservato, come il papiro di Leida, in una qualche biblioteca.
È scritto in latino barbarico ricco di grecismi (chiara traccia del collegamento con gli analoghi ricettari di epoca ellenistica). Nel ricettario sopra indicato si trovano procedimenti per la preparazione di pigmenti, di inchiostri dorati e d’argento, per colorare pietre artificiali e vetri da mosaico, per tingere pelli e tessuti, per fare dorature e per la lavorazione di metalli e leghe.
Molto più empirico, era il Mappae clavicula, una sorta di brogliaccio di bottega, che conteneva tutte le informazioni che l’artifex riteneva utili per la realizzazione di un quadro: già, il nome che sembra cosi tanto esoterico, in realtà è alquanto terra terra. Indicava infatti la il baule, chiuso a chiave, perchè i concorrenti sono sempre pronti a rubarsi i segreti professionali, in cui si custodivano le mappae, le strisce di garza sottile che i pittori usavano per conservare i colori, che veniva usato ammorbidendolo con pennelli bagnati, le antenate dei nostri tubetti, per capirci e gli appunti che servivano a spiegare come utilizzarli al meglio e riprodurli, nel caso fossero terminati.
Nel ricettario sono comprese circa 300 ricette, senza un preciso ordine logico, con talvolta contraddizioni e ripetizioni, dato che per le esigenze pratiche, serviva più la quantità di informazioni, della serie può fare sempre comodo, non si sa mai, che l’effettiva precisione. Vi si trovano varie operazioni chimiche e talvolta con suggestioni più alchemiche, che riguardano la preparazione di coloranti, inchiostri per la miniatura, lacche e pigmenti vari, oltre al nucleo consistente sulla lavorazione dei metalli e altri scopi vari, come l’avvelenamento delle frecce. Il che non per nulla strano, tenete conto che Lucca era anche una delle manifatture longobarde d’armi e le botteghe d’arte, si dedicavano probabilmente anche a questa attività.
Tipicamente medievale è l’abitudine di arricchire di dettagli superflui un processo semplice, nella convinzione che la maggiore complessità corrispondesse un risultato migliore. Così si trovano ingredienti come l’urina (una delle rare fonti di ammoniaca) che talvolta dev’essere maschile altre femminile, altre prelevata da soggetti con i capelli rossi e così via; analogamente alcuni ingredienti devono essere recuperati durante la canicola, altri da animali sottoposti a un’alimentazione purificativa.
Probabilmente, questo buttarla in caciara era legato anche al tentativo di confondere le idee ai concorrenti che in qualche modo, si fossero impadroniti dei segreti della bottega: per evitare questo, nel testo erano presenti anche una serie di trucchetti crittografici, con la sostituzione di alcune parole con i relativi termini tecnici arabi, lingua che non era certo diffusa nella Lucca dell’epoca, oppure in alcune ricette i termini erano addirittura traslitterati secondo il Cifrario di Cesare.
December 29, 2021
I resti della Cappella di Santa Maura
 
Pochi lo sanno, ma per le strane vicende della topografia romana, Torre Maura prende il nome da l’ononima cappella, che sembra strano, è visibile da via di Torre Spaccata, mentre la parte interna, che ricade in un giardino privato, può essere osservata da un piccolo slargo sito in corrispondenza del civico 242.
Paradossalmente, questa chiesa ha poco a che vedere con le vicende, assai leggendarie relative alla santa della presunta dedica: le info che abbiamo su Maura e la sua compagna Fosca, infatti risalgono al tardo Medioevo e sono descritte in maniera assai differenti, a seconda dei codici che la trascrivono. Tra le varie versioni si segnala per ampiezza quella contenuta nel Codex Carthusiae Coloniensis.
Secondo la tradizione, Fosca e la sua nutrice Maura sarebbero vissute a Sabrata, una città della Libia, nel III secolo. Fosca, figlia di genitori pagani, sentì parlare della religione cristiana all’età di quindici anni. Rivelò il desiderio di conoscere meglio i misteri di tale religione dapprima alla nutrice e poi alla madre. Senza dire nulla al padre, le tre donne si recarono in segreto da un sacerdote cristiano, Ermolao, che istruì e battezzò le due giovinette. Venuto a conoscenza del battesimo, il padre Siroo, decise di punire la figlia: la rinchiuse in una stanza per tre giorni senza darle cibo. Tentò più volte di convincerla ad abiurare il Cristianesimo, ma Fosca rimase ferma nella sua decisione.
Giunto in città il nuovo proconsole Quinziano, il padre gli consegnò Fosca e Maura. I soldati inviati a trarle in arresto le trovarono in casa in compagnia di un angelo, cosicché non osarono condurle con sé. In seguito le due donne si consegnarono spontaneamente alle autorità. Poiché entrambe si rifiutavano di abiurare il Cristianesimo, furono prima torturate ed infine uccise con un colpo di spada nel fianco, un 13 febbraio. Quando la Libia fu conquistata dai musulmani, le loro spoglie furono portate a Torcello, un’isola della laguna veneta, da un marinaio di nome Vitale. Le spoglie di Santa Maura sono attualmente raccolte nel transetto di destra della chiesa di Santa Maria di Lourdes in Milano.
Dato che le vicende, dalla datazione che che riportano alcuni codici, coincidono con il periodo di validità dell’editto di tolleranza di Gallieno, in cui l’impero aveva tutt’altri problemi che rompere l’anima alle minoranze religiose, possiamo dire che si tratta di bieca propaganda. Secondo un calendario liturgico veneziano del secolo XI (Kalendarium venetum), il 3 novembre viene ricordato il miracoloso ritrovamento delle reliquie di santa Fosca da parte del marinaio Vitale, che poi le avrebbe portate a Torcello.
Sulla base delle cronache storiche possiamo affermare che il suo culto si diffuse a partire dal XII secolo. In quell’epoca la Repubblica di Venezia si stava affermando nello scenario mediterraneo. La sua politica di potenza passava anche per l’acquisizione di prestigio religioso. Quest’ultimo veniva conseguito anche mediante l’acquisizione delle reliquie del maggior numero possibile di martiri. Di certo, comunque, il più antico libro degli anniversari della basilica di Aquileia, codice scritto a partire dalla fine del XIII secolo, riporta, sotto la data del 13 febbraio e con la mano del primo copista (che termina le sue registrazioni nel 1308), la seguente frase: Fusce virg. et mart. passio.
In questo clima di “corsa alle reliquie” si colloca anche l’arrivo in Laguna dei corpi delle sante Fosca e Maura. Vitale in qualche modo rimediò delle ossa proveniente da qualche antica basilica cristiana e per guadagnare di prestigio alla cattedrale di Santa Maria Assunta, che stava perdendo all’epoca di importanza, per la decadenza dell’isola, costruirono a tavolino la storia delle presunte martiri. Siccome queste provenivano dal Nord Africa è abbastanza evidente perché le due donne fossero state chiamate Fosca (cioè “scura”) e Maura (cioè “originaria della Mauritania”), per sottolinearne il luogo d’origine.
Ora, la chiesa di Roma è del periodo paleocristiano, per cui molto precedente alla costruzione di questa tradizione: la chiesa si trova in quello che nel IV secolo d.C. era il grande latifondo imperiale labicano anche detto Subaugusta, che si estendeva dalla chiesa di S. Croce in Gerusalemme (Sessorianum), fino a Centocelle, che divenne di proprietà del Capitolo Lateranense. Nel catalogo dei beni del patrimonio di San Pietro, risalente all’XI secolo, nel dettagliare quella tenuta, chiamato Massa Varvariana, si cita il Fundus Mauricius, il fondo di Maurizio, dal nome dell’amministratore, più che del proprietario.
Per cui, a un certo punto, la cappella fu chiamata ecclesia mauritii, chiesa del fondo di Maurizio, che divenne con il tempo ecclesia Maurii ossia chiesa di Mauro; intorno al 1400, l’area fu affittata come investimento da mercanti di Torcello, che equivocando sul nome, fu reso femminile. Ora l’archeologia sembra indicare, per la tipologia di laterizi e la loro disposizione, come data di costruzione il IV o V secolo d.C. Sappiamo dall’Armellini, nel suo libro sulle chiese di Roma che papa Gelasio I, come si legge nella sua biografia nel Libro pontificale, nel luogo detto Villa Pertusa, che coincide con l’area del Fundus Mauricius dedicò una chiesa ai santi Nicandro ed Eleuterio, che sappiamo da un’altra fonte dell’epoca essere connessa a una piccola catacomba.
Per cui, probabilmente la nostra San Maura era in origine la chiesa dei santi Nicandro ed Eleuterio; attribuzione confermata dal fatto che, a inizio anno Ottanta, vi fu una grossa polemica relativa a una piccola area catacombale distrutta dalla speculazione edilizia, che si trovava nella nostra via di Torre Spaccata.
Dei resti, che consistono in un’abside orientata a sud-est compresa tra due brevi tratti di muri con tracce di intonaco, si è potuta ricostruire la pianta, di tipo basilicale a tre navate, larga 17,6 metri e lunga 14,8 metri circa, divise da archi impostati su pilastri. Nella copertura della volta sono inserite alcune anfore che, secondo l’uso già notato in altri monumenti, avevano lo scopo di alleggerire la massa del conglomerato cementizio.
December 28, 2021
Jebel al-Mutawwaq
 
Ci troviamo lungo lo Zarqa, il biblico Iabbok, scenario della lotta di Giacobbe con l’angelo del Signore, che lo azzoppò in un furioso combattimento mentre attraversava questo fiume. Qui, al confine fra la regione di Zarqa e quella di Jerash, dove il paesaggio fonde i dolci pendii ricoperti di ulivi con le aride distese orientali del deserto, fra il 3500 e il 3300 a.C. alcune comunità si stabilirono sulla cime di un monte, che gli arabi chiamano Jebel al-Mutawwaq, ‘la montagna circondata’ o ‘la montagna circolare’.
In effetti, guardando l’alto colle su cui si estendono le ampie rovine di pietra di questo insediamento della prima età del Bronzo, si notano subito la sua forma circolare e, insieme, i corsi d’acqua e le sorgenti che lo circondano. La possibilità di approvvigionamento idrico e il contatto fra due ecozone caratterizzate dal passaggio stagionale delle greggi favorì, nella seconda metà del IV millennio a.C., la nascita di un insediamento lungo il limite meridionale della montagna, esteso per oltre diciotto ettari e dove per due secoli si calcola che abbiano vissuto circa milleduecento abitanti.
E’ l’incipit di un articolo di Archeologia Viva, che racconta gli scavi dell’Università di Perugia a Jebel al-Mutawwaq, in Giordania, nome che difficilmente dirà qualcosa a qualcuno, ma che ci sta dando delle informazioni importantissime sull’evoluzione, nell’età del Bronzo, tra il modello abitativo cantonale, basato su villaggi distribuiti, spesso a frequentazione stagionale e siti di aggregazione periodica, dedicati alle cerimonie religiose e ai commerci, e quello urbano, incentrato sull’occupazione stabile delle città e la costruzione delle relative infrastrutture.
Questo sito archeologico, che tra l’altro è poco tutelato dal governo locale, sotto la continua minaccia della distruzione provocata dall’agricoltura e dalle cave di pietra, insomma, nulla di nuovo sotto il sole, è stato esaminato per la prima volta in modo completo per primo da Airling Robin Hanbury-Tenison nel 1987, nome che a noi italiani dice pochissimo, ma che è uno dei più famosi esploratori e ambientalisti della Gran Bretagna, autore di uno sproposito di libri. Nella sua vita ha viaggiato in ogni angolo del mondo, ha attraversato foreste pluviali e deserti, la sua passione. Ha vissuto tra le tribù indigene per le quali ha fondato in loro difesa la Survival International, un movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni.
Capitato per caso in Giordania, scoprì sia villaggio di 13 ettari delimitato da una rudimentale cinta muraria, sia il complesso monumentale costituito da un migliaio di dolmen. Hanbury-Tenison esegui alcuni sondaggi, definendo una cronologia di massima del sito: il periodo di massima espansione del viaggio coincide con la prima età del bronzo I (ca. 3500-2900 a.C.), mentre la sua vita è continuata nelle età del bronzo medio e tardo, nell’età del ferro e nell’epoca islamica. Il luogo cadde provvisoriamente nel dimenticatoio, finchè un articolo di Hanbury-Tenison cadde sotto gli occhi del grande archeologo spagnolo Juan Antonio Fernández-Tresguerres Velasco, morto il 30 maggio 2011, a poche settimane dalla pensione, pensate che iella, il quale, incuriosito, convinse l’università di Oviedo, dove insegnava archeologia preostorica, a finanziare una campagna di scavi, che si concentrarono sul villaggio e che dimostrarono la coesistenza nella fase EBI con la necropoli megalitica. Tuttavia è evidente dalla grande estensione della necropoli megalitica che i dolmen dovettero essere utilizzare da una popolazione ben più estesa di quella degli abitanti di Jebel al-Mutawwaq, svolgendo quindi il ruolo di polo sacro e funerario per l’intero comprensorio. Che sia stato questo il motore dello sviluppo del villaggio o viceversa, è ancora oggetto di discussione da parte degli studiosi.
Alla morte di Juan Antonio Fernández-Tresguerres Velasco, gli scavi sono ripresi grazie a una missione congiunta italo-spagnola, sotto la direzione del Prof. Andrea Polcaro del Dipartimento di Lettere dell’Università degli Studi di Perugia e del Dott. Juan Muniz della Facultad San Esteban di Salamanca.
Il villaggio della prima età del bronzo comprendeva circa 300 case, la maggior parte a pianta rettangolare, con una sorta di abside nei lati brevi, di dimensioni medie pari a 14 metri per 4. Una minoranza delle case, circa un 15%, avevano invece una pianta circolare, con un raggio medio di 4 metri. Entrambe le tipologie erano costituite da muri a secco, con i blocchi di pietra che diminuivano di dimensioni in funzione dell’altezza, erano dotate di focolare e suddivise in due stanze da un muro interno. In un rari casi, meno del 10% , le case erano dotate di due focolari e di un vano esterno collegato o un recinto aperto che fungeva da magazzino o da pollaio. Alcune delle case non erano state completamente svuotate al termine del loro utilizzo, come se gli abitanti del villaggio, nella fase finale della sua vita, fossero dovuti scappare in fretta e furia, per cause finora sconosciute.
I materiali ritrovati all’interno delle case sono per lo più raschietti e lame di selce utilizzate per la lavorazione delle pelli degli animali, ma anche strumenti come falcetti di pietra, pestelli di basalto e macine, che suggeriscono un’economia mista agricolo-pastorale. La ceramica recuperata, in particolare dal settore centrale del villagio, è uniforme: fatta a mano, a bassa cottura, di pasta rosa o arancio, con ingobbiatura rossa o bianca della superficie, e per lo più databile alla prima parte dell’EB I .
L’angolo sud-est del muro dell’insediamento è stato scavato nella campagna del 2013 (Area A). Il muro è stato realizzato livellando dapprima il pendio naturale del substrato roccioso con strati di sassolini e ciottoli. Sono state quindi posate grosse pietre piatte senza alcuna struttura in mattoni di fango sovrapposta. L’altezza delle mura non raggiungeva più di 1,50 metri, senza tracce di torri o manufatti difensivi. La cinta muraria in questa zona non aveva probabilmente una funzione difensiva, ma un significato ideologico, dividendo lo spazio dei vivi da quello dei morti; a questo poteva anche associarsi la funzione di tenere all’interno del villaggio le pecore e gli armenti
La topografia del sito suggerisce che le case fossero disposte in diversi quartieri, lasciando spazio in alcune aree a strutture complesse più grandi, corrispondenti ai tre principali promontori visibili lungo la rupe meridionale della montagna che domina la valle del Wadi az-Zarqa. Negli anni ’90 gli scavi hanno portato alla luce una grande casa sul promontorio principale nel Settore Centrale del paese, poi identificata come il santuario principale di un complesso sacro, il cosiddetto Tempio dei Serpenti, per la presenza di grandi giare con una decorazione a serpenti sul corpo e sul collo. Questo santuario era costituito da costituito da un recinto in pietra, un edificio principale allungato a pianta rettangolare, e altri quattro piccoli ambienti ad esso collegati, forse utilizzati anche per attività produttive e deposito. Al suo interno, oltre alle giare, con destinazione cultuale, sono stati ritrovati strumenti litici molto elaborati, probabilmente usati per sacrifici
Nel 2014 gli scavi hanno indagato una grande struttura circolare visibile sulla superficie del promontorio del Settore Orientale del paese, denominata “Circolo Grande” (Area C Est). Si tratta di una sorta di piazza ampia 1500 mq, circondato da un enorme muro, largo due metri, All’interno del Circolo Grande sono state individuate due piccole strutture circolari La ceramica di questa struttura risale all’EB I, contemporanea all’insediamento, anche se un singolo frammento potrebbe suggerire un ulteriore utilizzo della struttura fino all’inizio dell’EB II (prima metà del III millennio aC). Il grande complesso sembra essere legato ad attività economiche che interessano l’intero borgo, forse legate alla zootecnia o alla lavorazione degli alimenti.
La necropoli megalitica di Jebel al-Mutawwaq, costituita da dolmen, che erroneamente tendiamo ad associare solo al nord Europa, è tra le più estese della Giordania: ricordiamo come non si tratti di un unicum, dato che necropoli simili sono presenti in altri siti come Damiye, al-Murayghat, Tell el-Umeyri o a Wadi Jedideh, tutti databili all prima età del bronzo
Le tipologie di dolmen di Jebel al-Mutawwaq sono per lo più i tipi semplici A e B (nella classificazione Kafafi-Schelthema 2005), con due o quattro lastre di calcare laterali, una lastra del pavimento, una lastra posteriore e una grande pietra di copertura che copre tutta la camera sepolcrale , e alcuni dolmen di tipo D con due camere sepolcrali megalitiche. Tutti i dolmen sono circondati da una piattaforma in pietra, che dalle ultime campagne di scavo della missione italo-spagnola, poteva essere chiaramente interpretata come un muro di contenimento di un tumulo di sassi e ciottoli che originariamente ricopriva tutto il dolmen fino alla cuspide superiore. Una caratteristica scoperta dagli ultimi scavi tipica di alcuni dolmen è la presenza di un corridoio in pietra a gradoni che conduce alla camera sepolcrale megalitica,.
L’uso dei dolmen di Jebel al Mutawwaq come tombe è stato dimostrato dalle numerose ossa frammentarie scoperte insieme a frammenti di EBI in molti dolmen del sito, per lo più svuotati e sigillati con diversi strati di pietre al termine del loro utilizzo.Nel 2012-2013 sono stati indagati sei dolmen nell’area sud-orientale della necropoli megalitica (Area B), collegata con il settore orientale dell’insediamento da una strada. L’architettura delle tombe in quest’area è omogenea: un’unica camera sepolcrale costruita direttamente sopra il substrato roccioso con due grandi lastre di pietra verticali, una pesante pietra di copertura utilizzata come copertura, una lastra verticale posteriore e una lastra di pietra del pavimento. Un muro in pietra circolare o absidato, costruito con pietre, circonda l’intera struttura. Lo spazio tra il muro e le lastre laterali e posteriori è stato riempito con strati di terra e piccole pietre. Questi strati compongono un tumulo che originariamente ricopriva l’intera camera sepolcrale.
I dolmen avevano un ingresso simile a un sentiero orientato verso nord, con uno stretto corridoio a gradini con tre gradini di pietre piatte che seguivano il pendio del substrato roccioso. Nei dolmen scavati le camere funerarie sono state completamente svuotate e sigillate con strati di piccole pietre e terra. I frammenti ceramici rinvenuti negli strati esterni dei tumuli e all’interno degli strati di sigillatura sono datati alla prima parte dell’EB I. Come per i cocci delle abitazioni, la maggior parte sono frammenti di giare e ciotole.
Nel Dolmen 317, scavato nel 2013, è stata scoperta un’intera sepoltura (B. 25) intatta sopra la soletta del pavimento, nascosta dietro una grossa pietra piatta. Gli unici doni funerari recuperati sono stati due raschietti a ventaglio in selce. La posizione delle ossa indica che erano state spostate nel dolmen; le ossa lunghe furono messe in pila davanti all’ingresso con il teschio appena dietro. Il sesso non è facilmente determinabile, ma l’analisi rivela una dieta equilibrata, nessuna malattia e un foro triangolare nella parte posteriore della testa. Un solo colpo potrebbe essere stato la causa della morte. Ulteriori analisi sono necessarie per comprendere meglio le cause della morte, che possono indicare un’uccisione rituale o uno scenario di crisi.
Nel 2014 uno dei pochi dolmen situati all’interno del paese (n. 534), lungo il confine della rupe meridionale nel Settore Orientale, è stato scavato a circa 10 metri ad ovest del Circolo Grande. Il dolmen aveva un’architettura nettamente diversa dalle altre scavate fuori dal paese. La camera sepolcrale è grande quasi il doppio dei dolmen EB I, la parete circolare e il tumulo sono di grandi blocchi di calcare, e l’ingresso è angolare e non in asse con l’ingresso. Alcune delle pietre dei dolmen potrebbero essere state prese dai vicini edifici EB I. All’interno della camera sepolcrale, parzialmente svaligiata in epoca moderna, sono stati rinvenuti numerosi oggetti in bronzo, oltre a due brocche complete sul solaio. Le brocche in ceramica brunita rossa risalgono all’EB II, suggerendo la prima costruzione del dolmen in questo periodo. Di conseguenza, il sito deve essere stato riutilizzato, sempre per scopi funerari, anche un un periodo successivo
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