Alessio Brugnoli's Blog, page 12

December 27, 2021

La vendetta di Siracusa

Non si evidenzia molto nei libri di storia, ma la spedizione ateniese in Sicilia ebbe anche un ehm seguito: Siracusa e le sue polis alleate decisero di restituire pan per focaccia agli aggressori. Da una parte, le città della Lega di Delo erano prossime alla ribellione, dall’altra Sparta, era pronta a sfruttare al meglio la finestra di opportunità, con la flotta nemica distrutta e parte delle sue truppe prigioniere nelle latomie, per chiudere a suo vantaggio la guerra.

Per di più, Ermocrate, che si era preso, alquanto immeritatamente, il merito della vittoria, buttava benzina sul fuoco: qualsiasi successo nell’Egeo gli avrebbe costruito ponti d’oro per la conquista del potere. Così, dalla Sicilia furono inviate nel mare Egeo 35 navi così suddivise: 20 siracusane; 2 selinuntine; 3 tarantine e 10 di Thurion. A capo di questa flotta, facendo letteralmente carte false per ottenere il ruolo di stratega, vi era proprio il nostro potenziale dittatore.

Quanti uomini erano coinvolti nella spedizione ? Molto meno di quelli di Atene in Sicilia: teniamo conto che la capienza media di una trireme dell’epoca era di circa 200 uomni suddivisi tra rematori, marinai e opliti. In particolare, di opliti ve ne erano, più o meno 40 per nave. Per cui, basandosi su questi numeri, il totale del corpo di spedizione era di circa 7.000 uomini, di cui 1.400 opliti per le battaglie terrestri.

Organizzata la flotta, sorse un problema alquanto banale, ma che nessuno si era posto: che facciamo ? dove andiamo ? Come tradizione, le polis siciliane e della Magna Grecia cominciarono a litigare tra loro sulla strategia e tattica. A togliere loro le castagne dal fuoco fu un nuovo attore nel gran teatro della guerra, l’Impero Persiano, sempre per colpa delle bizzarre iniziative ateniesi, che avevano impedito a Tissaferne, satrapo di Lidia e Caria, di raccogliere le tasse nei suoi domini. Il satrapo se l’era legata al dito, anche perchè a Persepoli, tutto potevi fare, tranne che non spedire tributi, cosa che riduceva notevolmente la propria aspettativa di vita: così, per salvare la pellaccia, inviò due messaggeri a Sparta promettendo danaro e supporti in cambio del diritto di occupare le ricche città greche della Ionia, tradizionalmente legate ad Atene. Così scrive Tucidide:

Tissaferne era venuto a caldeggiare l’intervento dei Peloponnesiaci, cui prometteva i mezzi di sussistenza. Gli era capitata addosso da poco la richiesta regia dei tributi prescritti al suo governatorato: ma, impedito dagli Ateniesi, non aveva riscosso nulla dalle città greche, ed era perciò in debito. Tormentando Atene, sperava di percepire i propri tributi con maggior comodo e regolarità. In aggiunta avrebbe procurato al suo sovrano l’alleanza di Sparta oltre a potergli assicurare, in obbedienza a un comando personalmente impartito dal re, Amorge figlio illegittimo di Pissutne, che in Caria fomentava la rivolta: vivo o morto.

A Sparta, che era in perenne carenza di denaro, esultarono, anche perchè Tissaferne aveva prese contatti anche con i cittadini di Chio i quali, consci della debolezza di Atene, intendevano ribellarsi e schierarsi con la Lega Peloponnesiaca. Tuttavia, avvenne il classico problema del troppa grazia Sant’Antonio: anche Farnabazo II, satrapo della Frigia ellespontica, che per colpa degli ateniesi aveva gli stessi problemi del collega, si era rivolto ai Lacedemoni. Gli spartani si divisero tra i coloro i quali intendevano privilegiare l’alleanza con Farnabazo e quindi il fronte dell’Ellesponto e quelli che favorivano Tissaferne ovvero l’annichilimento dei domini ateniesi nel basso Egeo. Alla fine gli spartani, su impulso di Alcibiade, che aveva stretto amicizia con l’eforo Endio, optarono per Tissaferne e decisero di inviare, dopo un’accurata verifica, navi e appoggio militare agli abitaniti di Chio.

Pertanto, agli inizi dell’anno seguente, il 412 a.C., gli spartani inviarono una flotta a Chio che, tuttavia, fu intercettata da una squadra ateniese e sconfitta; nonostante ciò Alcibiade indusse ancora una volta i peloponnesiaci a perseverare e ad inviare lui stesso con cinque navi e l’ufficiale Calcideo. Quasi senza colpo ferire, Alcibiade conquistò Chio e Clazomene preoccupando non poco Atene. Poi, mentre Ateniesi e Spartani si affrontavano nei pressi di Teo, Tissaferne, oltre ad inviare in aiuto a Sparta l’ufficiale Stage, ne approfittò della rivolta anti-ateniese di Mileto, per stipulare con Calcideo il seguente trattato, citato da Tucidide

Spartani e alleati hanno concluso con il re e Tissaferne un trattato d’alleanza articolato su questi punti. Tutte le regioni e le città possedute dal re per successione ereditaria, restino possesso del re. Quanto ai tributi in denari o in diversa natura che gli Ateniesi esigevano dalle suddette città, il re e Sparta con i suoi alleati, di comune accordo stroncheranno questo afflusso di tributi finanziari o d’altra specie. Il re e Sparta con i suoi alleati creeranno una coalizione offensiva contro Atene. Non sarà ammesso lo scioglimento separato del conflitto, privo di una ratifica bilaterale da parte del re e di Sparta con i suoi alleati. Quanti si staccheranno dal re si esporranno alla reazione armata di Sparta e dei suoi alleati. Analogamente, chi tenterà la defezione da Sparta e dai suoi alleati, si esporrà alla reazione armata del re

Stipulato il patto, Tissaferne intervenne personalmente nell’assedio di Teo abbattendone le mura ancora in piedi per poi ritirarsi. In estate, quando gli ateniesi inviarono un esercito, rafforzato da mercenari argivi, per occupare Mileto, il satrapo guidò mille cavalieri in aiuto di Sparta e dei Milesi; la battaglia fu, comunque, incerta poiché gli ateniesi batterono i Peloponnesiaci mentre i milesi costrinsero gli argivi a ripiegare. Dinanzi a queste notizie, Ermocrate convinse i suoi litigiosi alleati a navigare verso Mileto, per dare manforte a questa incerto battaglia.

Così Ermocrate, con la mediazione di Alcibiade incontrò Tissaferne, il quale era ai ferri corti con gli spartiani per la questione Amorge, figlio illegittimo di Pissutne, a sua volta satrapo, ribellatosi al Gran Re Dario II, che i greci avevano messo in secondo piano. Il siracusano, desideroso di mettersi in mostra con una vittoria, decise di guidare la flotta alla conquista di di Iasos, opulenta città filo-attica, governata da Amorge, che finalmente fu catturato.

Nonostante il successo, spartani e persiani cominciarono a litigare per questioni di vile denaro. Tissaferne, su mandato del Gran Re, aveva la gestione della cassa e quindi delle paghe dei marinai spartani: diede agli uomini il pagamento di un mese, che consisteva in una dracma attica al giorno per ciascuno di essi. Però, sorse anche il problema imprevisto, di come pagare i siciliani: il satrapo, in attesa di nuove disposizione e soprattutto denaro da Persepoli, per salvare capra e cavoli, applicò il principio

Pagare meno, per pagare tutti

riducendo il salario a tre oboli al giorno. Il che era in linea con quanto preso normalmente dai marinai dell’epoca: il problema è che gli ufficiali alleati dovettero smettere di fare la cresta sulle paghe. Ermocrate, visto il malcontento generale, andò a discutere della questione con uno degli spartani a capo dell’alleanza marittima, Teramene, che però, applico il principio del

Io so’ meticcio e di questi affari non me impiccio

In pratica rispose ad Ermocrate che lui non aveva nessuna delega per trattare con Tissaferne, dato che non era un navarco, ossia un ammiraglio, ma aveva solamente il compito di condurre la flotta da Astioco, che aveva il comando effettivo. Distinzione molto capziosa, ma Ermocrate dovette fare buon viso a cattivo gioco, per cui il discorso paghe fu momentaneamente chiuso. Anche Astioco, che aveva problemi più urgenti, la flotta spartana stava collezionando figure da cioccolatai a Kios e se non avesse preso la città, il navarca avrebbe rischiato la testa, fece orecchie da mercante.

A peggiorare la situazione fu il solito Alcibiade, i cui rapporti con gli spartani erano peggiorati e per non finire cibo per i pesci, era scappato proprio presso Tissaferne. Alcibiade, sia perchè i fondi da parte di Persepoli tardavano ad arrivare e il satrapo non era molto entusiasta di pagare i marinai alleati di tasca propria, sia perché si era reso conto delle ruberie spartane, lo convinse facilmente a mantenere il tetto salariale. In più, l’ateniese fu incaricato di convincere greci e i siciliani ad accettare come perenne il taglio degli stipendi.

Gli spartani, dinanzi al piuttosto che niente, meglio piuttosto, accettarono: i siciliani, invece che speravano nell’aumento e consideravano come provvisoria la riduzione, protestarono, ma non se li filò nessuno. D’altra parte, Tissaferne, era seguace del dividit et impera: a lui interessava che la guerra durasse a oltranza, logorando entrambe le parti, perchè, in fondo, non era interesse di Persepoli che Sparta abbattesse totalmente Atene, divenendo così padrona dell’intero Ellade. Per cui, per evitare conflitti “sindacali”, corruppe con parte del denaro destinato allo stipendio dei marinai, su suggerimento di Alcibiade e di Astioco, i capitani della flotta spartana.

Così racconta la vicenda Tucidide

Astioco, i suoi undici consiglieri, i trierarchi ed i capitani, tutti erano corrotti, tranne i Siracusani, dall’oro di Tissaferne

Ora i capitani siracusani, che scemi non erano, si accorsero di questo giro di denaro e cominciarono a protestare al grido del

Perchè a loro sì e a noi no ?

Scontrandosi con un muro di gomma. Per cui, per ottenere la loro quota della tangente, istigarono allo sciopero i loro marinai, allo scopo ufficiale di ottenere l’adeguamento salariale a una dracma. I sindacalisti più arrabbiati erano i turii, ex alleati italici di Atene, tanto che Astioco, esasperato, decise di prendere a bastonate Dioreo, un nobile di Thurion, per fare tacere le sue proteste: non l’avesse mai fatto! Gli scioperanti si ribellarono e tentarono di linciare l’ammiraglio spartano, che per salvare la pelle, si nascose dietro a un altare di un tempio a Mileto, con Ermocrate che da una parte cercava di calmare i suoi marinai inferociti, dall’altra chiedeva le sue dimissioni. Dinanzi a questo manicomio, i milesi ne ebbero abbastanza: si ribellarono alle truppe spartane e persiane, cacciandole a pedate, con il tacito appoggio dei siracusani, che ormai poco sopportavano entrambi i presunti alleati… Ovviamente, dinanzi a tale spettacolo, ad Atene si stava sbellicando dalle risate. Sia per non perdere troppo la faccia, sia per cercare di mettere ordine in questo colossale casino, Ermocrate fu convocato a Sparta, per dare spiegazioni sulla vicenda.

Ermocrate, per evitare di essere linciato a Sparta portò con sé un gruppo di milesi pronti a testimoniare contro Tissaferne. Nel contempo Mindaro prese il posto di Astioco come navarca, mandato anch’egli a Sparta, con un ambasciatore bilingue della Caria, Gautine, che aveva il compito di difendere l’operato di Tissaferne contro le accuse dei milesi e di Ermocrate

Da questo momento non è ben chiaro quel che successe. Tucidide descrivendo quel che avvenne durante la permanenza a Sparta, menziona solamente in nota l’esilio di Ermocrate decretato da Siracusa, dicendo che il persiano si sentiva adesso ancor più libero di accusare l’ammiraglio aretuseo dato che questi era divenuto esulo, non più protetto dal nome della polis occidentale. Tuttavia, a sentire Senofonte, l’esilio di Ermocrate avvenne dopo e non fu legato né allo sciopero dei suoi marinai, né alla rivolta di Mileto, cose di cui a Siracusa, diciamola tutta, interessava ben poco.

Il nuovo ammiraglio spartano, Mindaro, nella speranza di logorare Atene, aveva imposto una guerra di corsa ai danni dei convogli che dal Mar nero rifornivano di grano l’Attica: per fare questo, aveva abbandonato l’alleanza con Tissaferne, per schierarsi con l’altro satrapo persiano, Farnabazo, che tra l’altro, garantiva il salario della dracma giornaliera ai marinai. Per evitare la resa per fame, Trasibulo, l’ammiraglio ateniese tentò un audace raid nei Dardanelli

La flotta ateniese, ora composta da 76 triremi, navigò in colonna verso l’Ellesponto, seguendo la costa settentrionale, mentre gli Spartani uscirono da Abido sulla costa meridionale. Quando la sinistra ateniese ebbe doppiato la punta di Cinossema, gli Spartani attaccarono, pianificando di aggirare l’ala destra ateniese e di intrappolare la flotta nell’Ellesponto, cercando di spingere il centro verso terra di fronte a tale promontorio Il centro ateniese fu spinto velocemente verso terra e la sinistra, comandata da Trasillo, circondata dalle navi siracusane divenne incapace di vedere le posizioni del resto della flotta. Trasibulo sulla destra, frattanto, riuscì ad evitare l’accerchiamento estendendo la sua linea ad est, ma facendo ciò perse contatto col centro. Cogli Ateniesi divisi e gran parte della loro flotta fuori combattimento, la vittoria degli Spartani sembrava certa.

A questo punto, però la linea peloponnesiaca cominciò a disunirsi, le navi ruppero lo schieramento per inseguire individualmente i vascelli ateniesi. Vedendo ciò, Trasibulo fece voltare improvvisamente le sue navi e attaccò la sinistra spartana. Dopo aver sbaragliato queste, andò contro il centro, il quale una volta disorganizzato fu messo velocemente in fuga. I Siracusani, che erano sulla destra ed erano quelli che non si erano disorganizzati vedendo il resto della loro flotta in ritirata, cessarono il loro attacco alla sinistra ateniese abbandonando la battaglia, per evitae di essere circondati. L’angustia degli stretti, che faceva sì che i Peloponnesiaci dovessero percorrere solo poca strada per raggiungere la salvezza, limitò il danno che gli Ateniesi avrebbero potuto infligger loro, ma alla fine della giornata essi avevano già catturato 21 navi spartane, contro le 15 che gli Spartani avevano preso all’inizio del combattimento. Se gli impatti tattici della vittoria furono limitati, notevoli furono quelli strategici: gli ateniesi non solo si salvarono dalla fame, ma costretti a combattere a condizioni scelte dai loro nemici, in un’epoca in cui la città non aveva le risorse per costruire un’altra flotta, vincendo, poterono continuare la lotta ad oltranza. Se avessero perso, sarebbero stati costretti a breve alla resa.

Per di più, con questa vittoria rafforzarono la loro presa su Sesto, saccheggiando i domini di Farnabazo, che ovviamente si lamentò con gli spartani, minacciando di ridurre gli stipendi, se non avessero preso provvedimenti. Per cui, brontolando, Mindaro ed Ermocrate, decisero di attaccare la base ateniese, con una manovra a tenaglia: le flotte spartane e siracusane avrebbero imposto il blocco navale, mentre le truppe persiane avrebbero attaccato da terra. A complicare la vita a tutti furono però i siracusani, guidati secondo Diodoro Siculo dallo stesso Ermocrate, secondo Senofonte da Dorieo, il capo della protesta sindacale a Mileto.

In ogni modo, la flotta siracusana salpò da Rodi diretto a nord, dirigendosi verso l’Ellesponto. Prima di raggiungere Abido, comunque, fu notata dalle vedette ateniesi e spinta verso la costa. Senofonte riporta che fu intrappolata a Rhoiteion, mentre Diodoro Siculo accredita la località di Dardano.Venendo a conoscenza della situazione critica dei siracusani, Mindaro organizzò la spedizione di soccorso. Il problema è che Mindaro, molto meno corrotto di Astiaco, però anche assai meno capace. Così lo spartano lasciò Troia, dove aveva fatto dei sacrifici ad Atena, si diresse verso Abido, mentre Farnabazo mise in movimento il suo esercito per aiutare i siracusani da terra. Però una volta uscito con le navi da Abido, gli Ateniesi uscirono da Sesto per contrastarlo.

Mindaro, dopo essersi svincolato dagli avversari e unito alle forze siracusane, aveva a disposizione una forza di ben 97 triremi: la flotta ateniese ne contava 74. Gli Spartani si schierarono per la battaglia colla costa asiatica dell’Ellesponto alle loro spalle, con Mindaro che comandava il lato destro e i Siracusani quello sinistro; gli Ateniesi si schierarono di fronte a loro, con Trasibulo che comandava il lato destro e Trasillo quello sinistro. La battaglia iniziò col segnale dei comandanti, che fu trasmesso alle flotte dai trombettieri. Seguì una battaglia equilibrata, coi piloti che tentavano di speronare e mettere fuori combattimento le triremi nemiche, mentre i marinai combattevano sui ponti contro i loro nemici ogni qualvolta venivano a contatto.

Con il passare delle ore, nessuna delle due parti era fu capace di prevalere, fino a quando Alcibiade apparve con 18 triremi provenienti da Samo: inizialmente, entrambe le flotte credettero che i rinforzi fossero i loro, ma Alcibiade espose una bandiera rossa, il segno prestabilito che informava gli Ateniesi: questo perchè Tissaferne preferiva danneggiarre Farnabazo, con cui era in lite da tempo immemorabile, rispetto agli ateniesi

Capendolo, la flotta spartana fuggì ad Abido, ma ebbe gravi perdite durante il viaggio, visto che gli Ateniesi attaccarono le navi esterne. Alla fine, nel tentativo di limitare i danni, Mindaro decise di tirare in secca le navi, protetto dalle truppe del satrapo Farnabazo, che si spinse addirittura in acqua col cavallo per dare l’esempio alla sua fanteria e alla sua cavalleria; ciononostante, gli Ateniesi catturarono 30 navi recuperando anche le 15 loro, sottratte dagli Spartani nella battaglia di Cinossema.

Dopo questa disastrosa sconfitta, Mindaro riportò la flotta spartana ad Abido per ripararla e ricostruirla; chiese a Sparta dei rinforzi e studiò con Farnabazo future campagne. Gli Ateniesi, frattanto, non riuscirono a sfruttare il vantaggio guadagnato, perchè sempre per uno dei loro ennesimi casini, riuscirono a scatenare una rivolta contro di loro in Eubea. Nel frattempo, Farnabazo si lamentò con Persepoli del doppio gioco di Tissaferne, che per salvare la testa, usò Alcibiade come capro espiatorio; l’ateniese fu arrestato e imprigionato a Sardi, da cui scappò dopo meno di un mese.

Nel frattempo, Mindaro costruita una flotta di ottanta navi e, col supporto delle truppe di Farnabazo, assediò Cizico e la prese d’assalto, sempre per recuperare il possesso dell’Ellesponto. La flotta ateniese dell’Ellesponto si ritirò dalla propria base di Sesto approdando a Cardia evitando così lo scontro con gli spartani. Le navi di Alcibiade, Trasibulo e Teramene, che erano state mandate a raccogliere denaro presso gli alleati, si riunirono a questa flotta, che venne a contare 86 unità.Una volta organizzato il contingente di fanteria comandato da Cherea, l’esercito coadiuvato dalle forze marine si diresse verso l’Ellesponto per scontrarsi con Mindaro.

La flotta ateniese entrò nell’Ellesponto, oltrepassando di notte la postazione di Abido, presa dagli Spartani, in modo da nascondere al nemico le proprie forze, e stabilì una base sull’isola di Proconneso (oggi Marmara), a nordest di Cizico. Sbarcate le truppe terrestri di Cherea vicino a Cizico (Cherea è nominato solo da Diodoro Siculo, mai da Senofonte), la flotta ateniese si divise: 20 navi, comandante da Alcibiade, avanzarono verso Cizico, mentre due altre divisioni, comandate da Trasibulo e Teramene, stettero in agguato più indietro. Mindaro, vedendo la possibilità di attaccare una forza nettamente inferiore, schierò contro gli Ateniesi tutta la sua flotta; la forza di Alcibiade fuggì e le navi di Mindaro le dettero la caccia.Quando entrambe le flotte furono ben fuori dal porto, però, Alcibiade si girò verso Mindaro, mentre Trasibulo e Teramene chiusero l’accerchiamento.Mindaro, vedutosi in trappola, fuggì nell’unica direzione libera, verso la spiaggia a sud della città, dove Farnabazo si era appostato con le sue truppe; la flotta spartana ebbe varie perdite durante la fuga e raggiunse la costa con gli Ateniesi alle calcagna.Il resoconto qui di seguito è quello di Diodoro Siculo; mentre Senofonte non riporta alcuno scontro a terra tra Ateniesi e Persiani,, Diodoro racconta dettagliatamente come le truppe di Farnabazo abbiano tentato di aiutare Mindaro, senza però molto successo.

Le truppe di Alcibiade guidarono l’inseguimento, tentando poi di trascinare nuovamente in mare le navi spartane con dei rampini, mentre le truppe persiane di Farnabazo cercavano di impedire loro di sottrarre le navi spiaggiate. Vedendo ciò, Trasibulò sbarcò il suo contingente come diversivo e ordinò a Teramene di combinare le sue truppe con quelle di Cherea e di unirsi alla battaglia.In un primo momento Trasibulo e Alcibiade furono respinti, ma l’arrivo di Teramene e Cherea cambiò le sorti dello scontro: gli Spartani e i Persiani furono sconfitti e Mindaro stesso fu ucciso nel combattimento. Atene poté così impadronirsi di tutte le navi della flotta pelopennesiaca, tutte eccetto quelle dei siracusani; poiché essi preferirono bruciarle piuttosto che consegnarle agli ateniesi; e tale ordine di ardere le navi venne dato da Ermocrate

Fu questa secondo Senofonte, la causa scatenante che spinse il governo di Siracusa a decretare l’esilio di tutti i suoi strateghi, colpevoli di aver distrutto la flotta della polis. Arrivò la notizia dell’esilio, votato dal popolo, mentre la flotta si trovava a Mileto. Qui i capitani siracusani, ormai licenziati, appresero quanto accaduto direttamente da Ermocrate. Riflettevano tra loro non riuscendo a giustificare un atteggiamento così severo, definendo persino «illegale» il modo in cui la loro patria aveva così deciso di esiliarli tutti insieme. Vi fu un sentito commiato ad essi dedicato per volere del resto della flotta, poiché giudicavano il loro operato privo di pecche, almeno a sentire il racconto di Senofonte.

I soldati – e specialmente i trierarchi, i fanti di marina e i nocchieri – gridando chiedevano che a comandare fossero ancora loro. Essi risposero che non bisognava ribellarsi alla propria città

Infine gli strateghi si rivolsero ai loro uomini, che lì sarebbero rimasti in attesa di nuovo comando:

Quante le battaglie navali che voi stessi avete vinto da soli, e quante le navi che avete catturato, e quante le occasioni da cui siete usciti senza sconfitta al fianco degli alleati, sempre sotto il nostro comando, osservando la miglior disposizione tattica, grazie tanto alla nostra abilità quanto del resto al vostro zelo, mai venuto meno né su terra né su mare!

Il perchè di questo esilio è presto detto: la fazione popolare di Siracusa, guidata da Diocle, si era resa conto che la spedizione nell’Egeo, in cui la sua flotta non stata facendo una bella figura, non serviva agli interessi della polis, ma solo alle ambizioni personali di Ermocrate. Per cui, visto il disastro di Cizico, che privava Siracusa di risorse importanti per contrastare una politica cartaginese sempre più aggressiva, era visto come una sorta di tradimento nei confronti della Patria.

Ermocrate, vista la malaparata e il fatto che Tissaferne, per i fatti di Mileto, lo voleva destinare a una fine lenta e dolorosa, scappo da Farnabazo, il quale, vista anche la conquista ateniese di Calcedonia, era disposto a sedersi al tavolo delle trattative con la polis. Così fu firmato un trattato nel quale veniva sancito che il satrapo si impegnava a pagare un tributo ad Atene per nome dei calcedoni, e inoltre si impegnava a condurre ambasciatori attici presso il Gran Re, affinché la Persia accettasse, in cambio di opportune concessione, di mantenersi neutrali nel conflitto tra greci, non finanziando Sparta.

Tra i negoziatori, ci fu anche Ermocrate, che in cambio della pace, promise di intervenire a favore dei prigionieri ateniesi in Sicilia: tutto sembrava essersi risolto per il meglio per Atene, quando giunse Ciro il Giovane, sì, proprio che diede il via agli eventi che portarono all’Anabasi, che arrestò gli ambasciatori ateniesi, mandando a ramengo le trattative e fece tornare in Sicilia, pieno d’oro, allo scopo di realizzare il suo tanto agognato colpo di stato a Siracusa e fare ritornare in campo al fianco di Sparta la polis. Piano che per le vicende della guerra di Selinunte e per il fallito colpo di stato di Ermocrate, andò però a ramengo, come raccontato in altri post.

Ricordiamoci come Ermocrate sia, come personaggio letterario, uno dei protagonisti dei dialoghi di Platone: è infatti uno dei quattro interlocutori nel racconto del Timeo e del Crizia, dove il filosofo ateniese parla per la prima volta di Atlantide – isola leggendaria – e pone Ermocrate al fianco di Socrate, maestro di Platone; Timeo di Locri, filosofo proveniente dalla Magna Grecia; e Crizia, zio dell’autore ateniese e leader dei Trenta Tiranni. Sappiamo inoltre come Ermocrate dovesse essere il titolo del terzo e mai scritto dialogo della triologia costituita proprio dal Timeo e dal Crizia.

Dal momento che Platone non aveva completato il Crizia per motivi sconosciuti, si ritiene generalmente che non abbia mai iniziato a scrivere l’Ermocrate. In ogni caso, le persone che vi sarebbero apparse dovrebbero essere state le stesse dei dialoghi precedenti – Timeo, Crizia, Ermocrate e Socrate – e il quarto compagno non menzionato accennato all’inizio del Timeo avrebbe svelato la sua identità.

Ermocrate aveva avuto solo una piccola parte nella conversazione nei dialoghi precedenti. Dal momento che il Crizia raccontava la storia dello stato ideale nell’antica Atene di novemila anni addietro – e del perché era stata in grado di respingere l’invasione da parte del potere navale imperialista di Atlantide – facendo riferimento alle fonti preistoriche da Solone agli Egizi.

Nel Crizia si accenna poi al ruolo che avrebbe avuto in seguito Ermocrate:

«SOCRATE: Perché, o Crizia, indugiare a concedertelo? Anzi, questo stesso dono sia da parte nostra concesso anche al terzo, a Ermocrate. È chiaro infatti che tra poco, quando dovrà a sua volta parlare, ne farà richiesta, come voi […]

ERMOCRATE: Ebbene, o Socrate, tu mi dai lo stesso avvertimento che dai a costui. Ed effettivamente uomini privi di coraggio non innalzarono mai un trofeo, o Crizia: bisogna dunque andare avanti coraggiosamente nel discorso, e, rivolta l’invocazione a Peone e alle Muse, proclamare e celebrare le virtù degli antichi [vostri] cittadini.

CRIZIA: Amico Ermocrate, tu vieni dopo e ce n’è un altro prima, ecco perché tu sei ancora pieno di coraggio. Ad ogni modo quanto sia difficile il tuo compito, esso stesso fra non molto te lo dimostrerà […]»

Si è ipotizzato che il compito di Ermocrate avrebbe potuto consistere nel raccontare perché la potenza navale imperialista dell’Atene dei tempi di Platone aveva subito un’amara sconfitta nella spedizione siciliana contro Siracusa e, infine, nella guerra del Peloponneso, contro Sparta – visto che era uno stratega siracusano all’epoca della spedizione ateniese in Sicilia.

Alcuni studiosi, come Ronald H. Fritze, hanno ipotizzato invece che a Ermocrate sarebbe stato affidato il compito di finire la descrizione di Atlantide; la catastrofe che la fece inabissare e il ricominciare della civilizzazione umana; altri come Diskin Clay, sostengono che Platone si sarebbe basato sui discorsi ermocratei presenti in Tucidide per completare il terzo dialogo. Altri come Brisson e Findlay sostengono che il dialogo ermocrateo sarebbe stato una rivisitazione sociale del terzo libro delle Leggi platoniche

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Published on December 27, 2021 07:26

December 26, 2021

Il tempio di Asclepio di Akragas

Il cosiddetto tempio di Esculapio è posto al centro della piana di San Gregorio, in corrispondenza di quella che in antico era la strada per Eraclea : è associato a questa divinità sia per la testimonianza di Polibio, che racconta che i consoli romani M. Valerio e Q. Ottacilio, nell’assedio di Akragas (263 a.C.), avevano diviso l’esercito romano in due parti, una delle quali era posta presso il tempio di Esculapio e così furono piantati gli alloggiamenti e tutto l’apparato bellico, specificando la distanza dalla città otto stadi e mezzo, ossia 1480 metri, verso mezzogiorno. Inoltre, come ulteriore prova dell’identificazione, sono citati i risultati degli scavi di metà anni Ottanta, in cui si è evidenziato come il tempio fosse parte di un più ampio santuario.

Tuttavia, le perplessità rimangono: la distanza non corrisponde bene all’indicazione polibiana (che potrebbe avere carattere generico) e l’isolamento, la relativa modestia ed antichità (per il culto d’Asclepio) dell’edificio lasciano perplessi sull’identificazione. Non solo da Polibio era conosciuto ed apprezzato il tempio di Esculapio, ma anche da Cicerone che nelle sue Verrine descrive con ammirazione una statua di Apollo (il padre del dio Esculapio), capolavoro del celebre scultore Mirone. Cartaginesi e Romani cercarono di sottrarla agli Agrigentini. Si narra infatti che i punici l’avevano portata a Cartagine come bottino di guerra e che venne riportata ad Agrigento da Scipione dopo la vittoria romana su Cartagine. Ma anche il pretore Verre tentò di rubare la statua – come ricorda Cicerone – e solo con molta fortuna gli Agrigentini riuscirono a scoprire il tentativo e da allora fecero guardare a vista, notte e giorno, i templi della città da attenti sorveglianti.

Ancora Cicerone ci dice che il tempio di Esculapio era un “famosissimum fanum”, cioè un famoso santuario. Esso infatti aveva la duplice funzione di ospedaletto e di santuario. Esculapio era il dio della medicina e i suoi santuari erano meta di incessante pellegrinaggio di molti ammalati che cercavano nuove cure e di pellegrini che invocavano l’intervento divino o ringraziavano il dio per la guarigione ottenuta, lasciando poi nel santuario un ex-voto a testimonianza della grazia ottenuta. Si alternavano quindi giorno e notte devoti che compivano rituali abluzioni, sacrifici e recitavano preghiere prima di ascoltare le indicazioni dei medici per ottenere o conservare la salute. Certamente qui si praticava anche la medicina empirica di cui l’agrigentino Acrone fu uno dei maggiori esponenti.

Acrone era tra l’altro figlio del grande filosofo Zenone di Elea, quello dei paradossi che negava il movimento e il divenire, e amico intimo di Empedocle: cominciò la sua carriera come retore, ma data la politica agrigentina dell’epoca, in cui era facile lasciarci le penne, si orientò verso una più tranquilla medicina. Durante il suo apprendistato, compì molti viaggi in Egitto e in Asia, con lo scopo di raccogliere il maggior numero di informazioni dalle esperienze dei sacerdoti e dei medici in cui si imbatteva.

Si dice che Acrone abbia applicato una soluzione taumaturgica appresa in Egitto in occasione della peste del 430 a.C. ad Atene, e che, dietro suo consiglio, furono accesi dei fuochi di grandi dimensioni per le strade allo scopo di purificare l’aria.La soluzione si rivelò efficace e salutare per molti malati.Va tuttavia tenuto presente che non si fa menzione di questo fatto in Tucidide, e inoltre, anche se fosse vero che Empedocle o Simonide (morto nel 467 a.C.) scrissero l’epitaffio in onore di Acrone, ciò non implica necessariamente che quest’ultimo si trovasse ad Atene durante la peste.

Il suo talento come medico e il suo nuovo approccio alla medicina gli procurarono ammirazione e stima tali che gli fecero meritare l’epiteto di sommo o supremo tra i medici (lo stesso nome, Acrone, significa sommo). Tuttavia allo stesso modo, la fama gli procurò non pochi nemici, tra i quali spicca Empedocle, suo concittadino ed amico d’infanzia, il quale provava invidia del successo di Acrone. Diogene Laerzio ci racconta che avendo domandato Acrone agli Agrigentini, come premio dei suoi meriti, un luogo in città dove poter fabbricare una tomba destinata alla sua famiglia, Empedocle adoperò tutta la sua eloquenza affinché tale privilegio non gli venisse accordato. Nonostante queste opposizioni, i cittadini acconsentirono facilmente a queste richieste e sulla lapide fu inciso un ironico epitaffio attribuito ad Empedocle o a Simonide. di cui ho accennato prima, che in latino fa così

Acronem summum Medicum summo patre natum, in summa tumulus summus habet patria.

Insomma, una sorta di scioglilingua.L’innovazione che Acrone introdusse nella medicina del tempo fu la maggiore attenzione riservata ai fatti. Egli sosteneva che la medicina dovesse dipendere unicamente dalla pura esperienza, dall’esatta osservazione dei fatti e che tutte le astratte speculazioni non erano solo superflue, ma anche dannose; insomma, aveva introdotto una sorta di versione ellenica del rasoio di Ockam

Tornando al nostro tempio, eretto nel IV secolo a.C, è di ordine dorico con pronao in antis; sorge su una piattaforma e presenta una suddivisione in pronao, cella e pseudo opistodomo (quest’ultimo, infatti, appena accennato, presenta due mezze colonne sporgenti all’esterno appoggiate sul muro pieno di fondo della cella). Particolarità insolita dell’edificio è il falso opistodomo rappresentato da due semicolonne fra ante nella parte esterna del fondo della cella, che vuole così imitare una struttura amfiprostila. Sono note anche parti della trabeazione, con gronde a testa leonina, fregio e geison frontonale. Il Tempio di Asclepio era, in se stesso, un edificio molto modesto: lungo m.22,144 e largo 11,118, occupa una superficie di mq.246,196, e la sua decorazione era di gran lunga inferiore ai templi dorici classici. Lo spessore delle mura è di m.0,55; il diametro delle colonne è di m.1,10.

Dell’area monumentale parte un ampio peribolo lungo il quale si aprono numerosi ambienti destinati ai pellegrini e, comunque, connessi con gli scopi terapeutici del santuario; una grande cisterna, un portico colonnato e un naiskos.

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Published on December 26, 2021 02:47

December 24, 2021

Giovanni Bogherini con il Maestro

Oggi, vigilia di Natale, in attesa di farci gli auguri, parliamo di un ritratto che impropriamente, per la presenza di una sfera armillare, è intitolato Giovanni Borgherini col maestro-astrologo, un olio su tela di dimensioni 47×60,7 cm. Un’opera probabilmente citata da Vasari nella sua biografia di Giorgione, che ebbe l’occasione di vederla in casa di Giovanni Borgherini a Firenze.

Si legge infatti nell’edizione delle Vite del 1568:

In Fiorenza è di man sua [di Giorgione] in casa de’ figliuoli di Giovan Borgherini il ritratto d’esso Giovanni, guando era giovane in Venezia, e nel medesimo quadro il maestro che le guidava; che non si può veder in due teste né più bella tinta di ombre”.

L’opera restò poi forse agli eredi, finché il cavalier Pier-Francesco Borgherini non la portò a Milano, nelle sue collezioni. Nel 1923 venne venduta a Sir Herbert Frederick Cook che la portò in Inghilterra, alla Doughty House, presso Richmond, nel Surrey. Fu di nuovo venduta nel 1932 e nel 1960, quando l’acquistò Michael Straight, cittadino americano, che la fece portare nella sua residenza di Alexandria, in Virginia. Nel 1974 venne infine donata al museo statunitense.

Il quadro è un invito all’impegno e allo studio: l’adolescente ben vestito, dallo sguardo intelligente ma distratto, stringe nella mano chiusa gli strumenti della pittura e della scrittura, della musica e della geometria. L’uomo che l’accompagna non è solo il suo maestro ma un astrologo dall’espressione grave, che gli ostenta la sfera armillare indicandogli platealmente il cartiglio ammonitore: “non vale l’ingegno se non varranno i fatti”. Che le promesse diventino realtà dipenderà evidentemente dalle disposizioni celesti e dall’impegno del giovane ad affrontarle con la ragione, a integrare le arti e le scienze, segnalate dagli strumenti in suo possesso con lo strumento che qualifica l’astrologia, arte e scienza della previsione.

L’atmosfera soffusa, i campi di colori smorzati senza confini netti sono tipici dello stile dell’autore, mentre è più rara la brillantezza cromatica delle vesti e degli incarnati rispetto allo sfondo scuro. Qualche perplessità, che genera l’incertezza attributiva, è legata alla qualità dell’opera, non eccelsa, forse per via di restauri inappropriati.

Perchè dicevo che il titolo è una forzatura ? Perchè, grazie ai documenti d’archivio, possiamo ipotizzare il committente del quadro, Sante Borgherini, padre di Giovanni, che sappiamo essere a Venezia con il figlio nel 1504, il che ci da anche un termine cronologico per la sua esecuzione. Ora, Sante frequentava sia la corte di Caterina Corner, sia il circolo di Bembo, ossia gli stessi circoli intellettuali bazzicati dal Giorgione

E in quel periodo sappiamo che Giovanni Borgherini fosse allievo di Trifone Gabriel, uno dei più peculiari umanisti veneti dell’epoca, detto il « Socrate di Venezia » perché, come Socrate, non lasciò alcun testo scritto, preferendo impartire lezioni verbali agli allievi. Con le sue lezioni, supplì alla chiusura dell’Università di Padova al tempo della Lega di Cambrai. Uomo modesto, non volle pubblicare alcunché a suo nome, e rifiutò ogni titolo se non quello di Messere. Ebbe in dispregio ricchezze ed onori, e si conservò sempre semplice nei modi e nell’abbigliamento.

Trifone era un intellettuale dagli interessi molteplici che variava dalla letteratura e filologia, all’astronomia, tanto che scrisse un trattato sul tema, a cui fa riferimento la sfera armillare, immagine dell’armonia tra Macrocosmo e Microcosmo, alla politica. In questo campo, il suo pensiero è esposto nell’opera Della repubblica de’ Viniziani di Donato Giannotti (1540), immaginata come un dialogo avvenuto a Padova, in casa di Pietro Bembo, tra Trifone Gabrielli e il suo allievo prediletto, proprio il nostro Giovanni Borgherini

Trattato che comincia proprio così

Era in quelli giorni M. Trifone Gabriello in una sua villa, nella quale assai tempo egli è usato dimorare, lontano da ogni ambitione, libero dall’amministrazione della Repubblica, discosto da molte incommodità, che seco porta la vita civile. Gode egli nella sua villa questa nostra vita felicemente – con tanta tranquillità d’animo, di quanta humanamente può essere capace. Ne mai è che egli non sia in compagnia d’alcuno di quegli antichi et nobili spiriti, così Toscani, come Latini, si com’è Cicerone, Virgilio, Horatio, Dante, il Petrarcha, il Boccaccio, co quali egli continovamente i loro volumi leggendo ragiona. Et perché la villa, nella quale egli dimora, non molto dalla Città lontana, con gran sua commodità viene spesse volte in Padova a fare parte a molti suoi amici della sua dolce conversatione: la quale da ciascuno, che di lui ha cognitione, è grandemente desiderata. Perciò che oltre alla gravità de costumi, egli è ripieno d’humanità et cortesia, le quali cose producono negli animi di ciascuno grandissimo desiderio di lui

Per cui, il ritratto non è che una rappresentazione di quelle conversazioni dotte, a cui Giorgione, dalla curiosità intellettuale insaziabile, dovette partecipare più volte..

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Published on December 24, 2021 05:12

December 23, 2021

L’origine del Fondo Oro

Può sembrare strano, ma ben prima di Cennino Cennini, nelle botteghe artistiche della Tarda Antichità e del Medioevo abbondavano i prontuari tecnici e manuali relativi alla produzione e alla stesura dei colori. Il più antico, tra quelli che attualmente abbiamo ritrovato, è il cosiddetto Papiro X di Leida, conservato nel Museo Archeologico di quella città, un codice scritto su papiro in lingua greca alla fine del III secolo a.C, rinvenuto in Egitto a Tebe, assieme a un altro testo di contenuto analogo, il papiro di Stoccolma.

E’ probabile che entrambi siano frutto del lavoro di un medesimo scriptorium, che aveva forse sede ad Alessandria, che era specializzato in manuali tecnici, in trattati di medicina e di quella che impropriamente è definita alchimia, ma che in realtà definibile come chimica empirica, e cosa assai strana, rituali magici di ogni tipo, dalle fatture d’amore alle maledizioni ai danni dei nemici. Ora, non è che ci fosse chissà quale retropensiero, nel mischiare tra loro cose così differenti: probabilmente gli scribi avevano puntato soltanto a soddisfare, per puro e semplice guadagno, le richieste, assai variegate, del mercato dell’epoca.

Come dicevo, il prontuario era un prontuario tecnico, una silloge proveniente da trattati più antichi: allo stato attuale, sono state individuate almeno tre fonti, un saggio di Bolo di Mendes, studioso di chimica dell’età ellenistica, di Teofrasto, l’allievo di Aristotele, e il Physica et mystica, attribuibile allo Pseudo-Democrito, ma probabilmente l’autore consultò anche altri testi. Il papiro contiene dieci fogli. Ogni foglio misura circa 30 cm x 34 cm. I fogli sono rilegati sul lato lungo, e ogni foglio ha due pagine. Sedici pagine sono scritte, e quattro pagine sono vuote. Le pagine scritte contengono ciascuna circa dalle 28 alle 47 righe, in scrittura onciale, regolare (cioè senza corsivo). on sono presenti legature.

Tutte queste caratteristiche hanno portato gli studiosi a pensare che il papiro provenisse da una biblioteca, e non da un laboratorio, ossia che facesse parte della dotazione di una scuola professionale. L’opera contiene circa 100 ricette tecniche antiche, e dieci passi estratti dal De materia medica, un trattato sulle erbe medicinali scritto da Dioscoride Pedanio, un botanico e medico greco antico vissuto nella Roma imperiale sotto Nerone.

Tra l’altro, Dioscoride descrive anche un macchinario rudimentale per la distillazione, dotato di un serbatoio con una sorta di testa superiore, da cui i vapori entrano in una struttura dove vengono raffreddatie poi subiscono condensazione. Questi elementi solitamente mancheranno negli apparati di distillazione medievali.

Tornando al Papiro di Leida, le sue ricette tecniche non hanno un ordine preciso: trattano la lavorazione dei metalli e delle leghe, dell’oro e dell’argento, degli inchiostri metallici (le ricette dalla 1 alla 88), e dei coloranti per stoffe (ricette dalla 89 alla 99). Le ricette non sono dettagliate: probabilmente servivano solo da promemoria. La presentazione è prettamente pratica. Contiene alcuni passi simbolici ed esoterici, talvolta collegabili alle dottrine alchemiche. Contienne anche alcuni procedimenti per creare leghe metalliche che somigliano all’oro e all’argento.

Analogo contenuto è quello del suo compagno, il Papiro di Stoccolma, anche questo una silloge di trattati precedenti e dato che non presenta significative tracce di usura ed è scritto in onciale greca, regolare, senza tracce di corsiva né di legature, per cui si tratta probabilmente di un testo destinato a una biblioteca.Vi sono indicate 159 ricette o procedimenti chimici piuttosto alla rinfusa (nella pratica sono 155 perché 4 sono ripetuti) e gli argomenti trattati sono la lavorazione dell’argento (ricette 1-9), l’uso e la lavorazione delle pietre preziose (10-88), e delle stoffe (89-159). Non mancano passi simbolici ed esoterici, talvolta collegabili alle contemporanee prime dottrine alchemiche, come alcuni procedimenti per la creazione o l’imitazione dell’oro e dell’argento (sebbene i modelli di Ermete Trismegisto non vengano mai citati, restando quindi a livello di suggestione culturale).

In passato, la notevole enfasi sui procedimenti per creare imitazioni di materiali preziosi ha fatto pensare che i due papiri facessero parte di una sorta di manuale per falsari. Tuttavia, dato che tutte le ricette le ritroveremo, con poche variazione, nei manuali di tecniche artistiche medievali, è probabile che avessero invece uno scopo analogo.

L’enfasi sull’oro, tra l’altro è un indizio, assieme alle miniature rimaste, a supporto di un’idea, che in forme differenti, sta diffondendosi sempre più tra gli studiosi: che il fondo oro non sia un’invenzione specifica dell’arte bizantina, ma un’evoluzione e un adattamento di una convenzione artistica già presente nella media e tarda Antichità. La base di tutto è Plotino, il maestro dell’estetica della luce.

L’uno di Plotino è per lui la luce superessenziale, che si irradia, a guisa di luce effettiva, sugli esseri materiali. In virtù della partecipazione del materiale all’immateriale attraverso tale corrente di flusso luminoso il percorso lungo la scala dell’essere può invertirsi di segno. Le cose visibili sono “luci materiali” che rispecchiano quelle intelligibili. La mente non può però intraprendere questo viaggio da sola, con la sua pura facoltà di pensiero: occorre un innesco materiale, un elemento intermedio tra l’immanenza e la trascendenza. Per cui, l’arte può permettere la comprensione della verità se non si limita a imitare il reale ma supera il sensibile e diventa collegamento con il mondo superiore e divino. All’estetica della quantità, del kanon del mondo classico, basata sul rapporto geometrico e numerico delle parti, si sostituisce quindi un’estetica della qualità, che esalta la virtù della luce e del colore come bellezza semplice, di natura indivisa.

Tenendo conto che quasi totalità della pittura su tavola dell’epoca è andata perduta, non è da escludere che il fondo oro, inizialmente, secondo l’ottica plotiniana, sia stato utilizzato per celebrare la maestà del potere imperiale e per imitazione dei tanti potenti locali e a seguito di un processo di traslazione simbolica e culturale, ad esempio testimoniato dallo Pseudo Dionigi Aeropagita, sia poi passato alla sfera religiosa.

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Published on December 23, 2021 05:35

December 22, 2021

Le catacombe ebraiche di via Labicana

Nell’anno 1882 ebbi avviso dal Signor Avv. Francesco Apolloni che essendosi riaperta una cava antica di pozzolana nella sua vigna posta fuori la Porta Maggiore al secondo chilometro ed a sinistra dell’antica via labicana, si era veduta dai lavoranti un’ apertura la quale conduceva ad un’ambulacro cimiteriale.Recatomi sul posto, fu cosa assai ardua il ritrovare la comunicazione col cimitero per l’immensa vastità dell’arenaria che forma un labirinto inestricabile di vie. A ciò si aggiunga lo stato rovinoso del sotterraneo che minacciava da un momento all’altro di crollare e si comprenderà quanto fosse difficile e penosa quella ricerca. Vi riuscii finalmente con l’abile scorta del proprietario che mi fu cortese d’ogni assistenza e con la guida esperta del cavatore Luigi Caponi il quale da molto tempo mi accompagna nelle mie esplorazioni cimiteriale

Penetrato nell’ipogeo dall’apertura A (vedi la tavola) mi trovai in un cimitero che a primo aspetto mi sembrò cristiano essendo nella forma generale assai somigliante agli altri già noti. Però essendo tornato una seconda volta sul posto, frugando fra le terre nell’ambulacro I L e precisamente nel punto segnato S, scoprii sulla calce presso di un loculo un’antico graffito rappresentante il candelabro a sette braccia simbolo solenne e notissimo del culto giudaico. Allora mi avvidi di aver scoperto un cimitero degli antichi ebrei e ne detti subito avviso al proprietario. Vi condussi anche il mio maestro Comm. G. B. de Rossi il quale riconobbe l’importanza della scoperta e mi consigliò a pubblicarne una relazione.
Anzi il medesimo pose a mia disposizione nel Gennaio 1884 il sunnominato cavatore Luigi Caponi con altri due lavoranti della Commissione di sacra archeologia, ma per tre giorni soltanto non potendoli più a lungo distogliere dai consueti lavori delle catacombe romane. Per quanto breve fosse il tempo concessomi, pure potei riuscire a trovare fra le terre alcuni frammenti di terra cotta con iscrizioni e simboli giudaici ed a sgombrare dalle macerie una tomba arcuata con lettere ebraiche dipinte.

La cosiddetta catacomba ebraica fu identificata nel corso dello scavo per l’estrazione della pozzolana nel 1882 e si estende su un ampio settore su entrambi i lati dell’attuale via Casilina.

Così Orazio Marucchi, il grande allievo di Giovanni Battista De Rossi, il padre dell’archeologia cristiana descriveva la scoperta di una delle catacombe ebraiche meno note di Roma, quelle della nostra Casilina. Orazio, tra l’altro, oltre ad essere l’autore di importanti scoperte (ad esempio basilica di S. Agapito a Palestrina, cripta di Marcellino e Pietro sulla via Labicana, memoria di Marco e Marcelliano nel cimitero di Domitilla, cripta di Felice e Adaucto nel cimitero di Commodilla sull’Ostiense, nuove parti dei cimiteri di S. Agnese e di Priscilla), fu anche un grandissimo divulgatore, sia perchè i suoi libri, assieme a quelli del suo amico Armellini furono una sorta di bestsellers dell’epoca, sia perchè insegnò in parecchie scuole cattoliche di Roma, come il De Merode a Piazza di Spagna: sua peculiarità, è stata di coniugare l’aspetto teorico della docenza con quello pratico. I suoi studenti furono utilizzati come assistenti negli scavi, sia lo accompagnarono spesso e volentieri nelle avventurose esplorazione dei sotterranei dell’Urbe.

Nominato direttore del Museo Egizio Vaticano e di quello Lateranense, proseguì l’opera di divulgazione scientifica, Nel 1890 fu eletto con la minoranza cattolica nel Consiglio comunale di Roma, dove si adoperò per la tutela del patrimonio monumentale, battendosi per la salvaguardia del cimitero di Ciriaca al Verano e per l’introduzione del catechismo cattolico nelle scuole della capitale.

Orazio, per essere eletto, sfruttò a suo vantaggio le ambiguità del non expedit di Pio IX, la disposizione della Santa Sede con la quale si dichiarò inaccettabile che i cattolici italiani partecipassero alle elezioni politiche del Regno d’Italia, con l’alquanto capziosa argomentazione che le elezioni amministrative non erano state citate esplicitamente nel divieto: la questione fu sollevata per screditarlo da parte di alcuni accademici rivali, che si rivolsero a Leone XIII, il quale confermò l’interpretazione di Orazio.

Ora il nostro eroe, descrive la scoperta di questa catacomba ebraica in un opuscolo, è lungo quaranta pagine, intolato Il nuovo cimitero giudaico scoperto sulla via Labicana: catacomba situata nella vigna Apollonj (già Aldobrandini), una proprietà che all’epoca veniva definitiva anche di “Monte d’Oro delli Hebrei”a testimonianza del fatto che nel tempo si fosse mantenuta memoria della sito cimiteriale. L’area, posta a nord dell’attuale via Casilina, si estendeva sui due lati dell’antica via Labicana, attualmente corrispondente a nord con i civici nn. 351-373 e a sud con il civico n.224 di via Casilina. L’estensione del complesso arrivava fino alla zona della vigna Mareita o Marolda o Marolla-Pitilli o Petilli (corrispondente ad un settore della antica vigna della Certosa). In via approssimativa si può quindi supporre che il reticolo catacombale si estende in una zona delimitata da via Filarete, via Alessi, via Anassimandro, via Dulceri e via Bufalini.

La planimetria del cimitero – che Marucchi esplorò in parte – era caratterizzata da una galleria principale (orientata est-ovest) che a ovest si intersecava con un altra galleria collegata a diversi cunicoli. I cunicoli avevano la caratteristica di essere ad arco a tutto sesto e per avere le pareti organizzate su tre livelli di loculi, i quali erano poi chiusi con lastre di terracotta e ricoperte da intonaco. Presso altri cubicoli, invece, erano ricavati sepolcri in muratura.

In un brano, infatti Orazio ci tiene ad evidenziare

La pianta generale del cimitero è somigliante a quella delle catacombe cristiane, con ambulacri che si tagliano in direzioni diverse e cubiculi o cappelle aperte lateralmente ai corridoj. La forma pure dei sepolcri è pressoché la medesima dei loculi, come può vedersi dalla sezione trasversale posta sotto la pianta. La qual cosa era già nota per la scoperta delle catacombe ebraiche della via portuense fatta dal Bosio, e per l’altra più recente della vigna Randanini sulla via Appia. Vi sono poi anche nel nostro alcune particolarità tutte proprie dei cimiteri giudaici delle quali in seguito tratteremo.

Particolarità così evidenziate

Ho detto che i cimiteri giudaici sono somiglianti ai cristiani : ma somiglianzà non è identità. Ed infatti erano già note alcune specialità di forme che gli uni dagli altri distinguono. In generale le gallerie dei cimiteri giudaici sono più larghe delle cristiane, e di forma alquanto arcuata come si vede nella sezione trasversale della nostra tavola, I sepolcri sono generalmente a foggia di loculi come nei cimiteri cristiani, ma a differenza di questi sono chiusi quasi escluvamente da lastre laterizie e spesso ricoperti intieramente da intonaco. Alcune tombe di forma speciale che si riscontrano talvolta nei cimiteri giudaici, son quelle fosse aperte orizzontalmente nel suolo delle gallerie che diconsi cocim cioè fosse e che sono ricordate dalla Miscnà. Ma di questi cocim che si veggono frequentemente adoperati nel cimitero di vigna Randanini, e che secondo il Bosio esistevano pure in quello della via portuense non abbiamo finora trovato traccia nel nostro cimitero di via labicana. In esso però vi riscontriamo un’ altra caratteristica tutta propria dei cimiteri giudaici, cioè quei corti ambulacri aperti lateralmente agli ambulacri maggiori e che nella pianta sono contraddistinti dalla lettera D.

La presenza di raffigurazioni graffite o dipinte di candelabri a sette bracci, ha fatto attribuire la natura ebraica del cimitero… Ma doveva vivevano questi ebrei, che utilizzarono il cimitero in un periodo non precedente al III sec. d.C. ? Di seguito il ragionamento di Orzio

Passiamo ora a vedere se il cimitero giudaico da me scoperto sulla via Labicana avesse relazione con qualche centro della comunità israelitica, nell’interno dell’antica Roma. Che gli ebrei vivessero separati dal resto della popolazione lo afferma Tacito: e che abitassero in gran numero nel Transtevere lo ricaviamo da Stazio e da Marziale. Nel Transtevere esisteva il loro principale quartiere, il ghetto dei tempi romani, di cui però non si conosce ancora il posto preciso. Il Bosio fu di parere che le abitazioni giudaiche transtiberine fossero aggruppate nei dintorni della odierna chiesa di s. Salvatore della Corte: ed anzi propose la congettura che tal nome derivasse a curtìs Iudaeis ; ma oggi sembra più verosimile che il titolo di quella chiesa derivi piuttosto dalla prossima stazione della coorte settima dei vigili. Dalla scoperta di un’antica iscrizione sembra potersi dedurre che gli ebrei dimorassero non lungi dalla così detta porta Settimiana

Questi ebrei del transtevere aveano il loro proprio cimitero non lungi di lì sulla via Portuense, cimitero che fu scoperto dal Bosio nel 1602, e poi divenne inaccessibile per qualche franamento di terra.

Un altro quartiere israelitico, forse di origine posteriore al transtiberino, si estendeva dall’antico emporio ai dintorni del circo massimo e giungeva fino al bosco di Egeria adiacente alla porta Capena di Servio Tullio . E gli abitanti di questo nuovo centro aveano pure i loro sepolcri fuori della porta più prossima, cioè sulla via Appia. E su questa via abbiam trovato fino ad ora tre gruppi diversi di tombe giudaiche, cioè il grande cimitero di vigna Randanini più volte ricordato, quello minore di vigna Cimarra dietro la chiesa di s. Sebastiano e l’altro ancor più piccolo recentemente scoperto dal ch.dottore Nicola Mùller sulla via Appia Pignatelli

Insomma gli antichi ebrei seppellivano i loro morti lungo le vie più prossime ai loro centri di abitazione, come sappiamo che facevano i cristiani deponendo i cadaveri dei fedeli dimoranti nei vari titoli o parrocchie nei cimiteri più vicini ai titoli medesimi e che da questi dipendevano. Da siffatti confronti può dedursi per analogia che anche il nostro cimitero della via Labicana abbia servito ad un quartiere giudaico posto non lungi dalla porta Esquilina., da cui prendeva le mosse quella strada. La porta Esquilina stava all’estremità meridionale dell’aggere di Servio e vien collocata dai topografi precisamente in quel punto ove poi fu eretto l’arco onorano dell’imperatore Gallieno detto modernamente, dal nome della prossima chiesa, l’arco di s. Vito. Tutti sanno che l’aggere di Servio, come il restante delle sue mura, fu nei tempi imperiali intieramente coperto da edifizi pubblici e privati e fra questi vi furono anche delle taberne o botteghe. Da un’antica iscrizione sepolcrale impariamo così per
caso che fra le taberne situate presso l’aggere di Servio vi era quella di un tal Publio Oorfidio Signino venditore di frutta (pomarius) la cui botteguccia era distinta dalla indicazione topografica « de aggere a proseucha »

Ora è notissimo che Prosèucha dicevasi dagli ebrei ellenizzanti il luogo delle loro comuni adunanze, e che perciò era la stessa cosa della Sinagoga. Dunque presso l’aggere di Servio esisteva una Sinagoga giudaica a tutti notissima, se potè servire di indicazione per la taberna di Corfidio Signino. E perciò è ragionevole il supporre che intorno a quell’edilìzio esistessero pure abitazioni giudaiche. Io credo che tale proseuca si trovasse poco lungi dalla porta suddetta e dove avea principio la regione della Suburra, la quale poi si estendeva nella gola compresa fra l’ esquilino oppio e il viminale ; e son di parere che questa fosse precisamente la sinagoga dei giudei chiamati siburensi.

Per cui, per sintetizzare, il tutto, la catacomba era l’ultima dimora dell’antichissima comunità ebraica dell’Esquilino, che come oggi si dedicavano al commercio e le cui botteghe erano presenti nel Forum Esquilinum, il più antico e il più importante spazio commerciale dell’Esquilino nell’antichità, ma di questa vasta piazza con funzioni di mercato non è giunta fino a noi alcuna traccia. Le notizie più precise ci giungono dallo storico Appiano (bell. civ. 1.58), in un passo in cui si descrive l’attacco di Silla alla città di Roma nell’88 a.C.: quando già gli assedianti avevano occupato le mura e la Porta Esquilina, racconta lo storico, i partigiani del generale Mario, asserragliati all’interno della città, resistettero a lungo trovando rifugio proprio nel Forum. Gli studiosi ipotizzano che la vasta piazza fosse collocata nella zona immediatamente all’interno della Porta Esquilina, dove sono state trovate a fine Ottocento alcune iscrizioni che sembrano confermare questo racconto, e ci informano sul sistema di gestione di questo importante spazio pubblico, grazie ad alcune epigrafi che citano il magister vici, un magistrato incaricato della gestione di aree pubbliche. Ancora grazie a una epigrafe che cita due argentarii a foro Esquilino, artigiani orafi, conosciamo una delle botteghe che trovavano spazio all’interno di quest’area commerciale. Il Forum Esquilinum rimase in uso per lunghissimo tempo, come dimostra una iscrizione che ricorda un restauro fatto a metà del V secolo d.C. da parte del praefectus urbi, il prefetto urbano che ricopriva varie cariche legate alla tutela dell’ordine pubblico all’interno della città. Ebrei la cui sinagoga doveva trovarsi nella zona compresa tra San Vito, Sant’Eusebio e San Giuliano…

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Published on December 22, 2021 05:31

December 21, 2021

Scavi italiani a Cipro

Da qualche anno, l’Università di Catania, grazie a un accordo tra Italia e Repubblica di Cipro, sta compiendo una serie di interessantissimi scavi a Nea Paphos, una delle più grandi città dell’Oriente ellenistico-romano, che per lungo tempo fu anche capitale dell’isola. Nel luglio 1988 la missione condotta da chi scrive e composta da elementi provenienti dall’Università di Catania, e nei primi anni anche dalla Scuola Archeologica Italiana di Atene, ha iniziato uno scavo nell’area del cosiddetto “Garrison’s Camp”, nella parte Nord-occidentale della città. Essa era già stata parzialmente esplorata nei decenni passati, rivelando un notevole complesso di camere sotterranee scavate nella roccia riferite al culto di Apollo sulla base della rassomiglianza di due di esse con quelle del santuario di Apollo Hylates, scoperto nella parte Sud-orientale del villaggio di Kato Paphos. In realtà fino a quel momento non esisteva alcuna evidence per riferire il monumento ad una particolare divinità piuttosto che ad un’altra, anche se appariva evidente il carattere misterico.

Il complesso, al momento dello scavo, presentava ad Est un lungo corridoio di accesso di cui erano visibili alcuni blocchi emergenti sul piano di campagna, una scala di accesso semicoperta dalla terra, quello che allora appariva una sorta di vestibolo, e, verso Sud, una prima camera circolare, un lungo corridoio (“A”) ed altri tre ambienti aperti nella parte meridionale dello stesso: uno semicircolare, un secondo circolare, un terzo quadrangolare. Ad esso era possibile accedere anche da un secondo ingresso opposto al primo, sulla cui parete settentrionale si apre un’esedra e a cui segue, più ad Est, l’accesso ad un secondo complesso costituito da un secondo corridoio (“B”) e da altre tre camere oggi parzialmente interrate. Resti, infine, di un edificio absidato erano visibili ad Occidente dell’area presa in esame. Lo svuotamento delle camere operato intorno agli anni cinquanta, e di cui purtroppo non esiste alcuna documentazione scritta, ha consigliato di iniziare i nuovi scavi nella larga spianata ad Est delle camere ipogeiche, e, successivamente, ad Ovest delle stesse, anche se purtroppo la stratigrafia appariva vistosamente sconvolta da buche qui in quell’epoca scavate.

Pnto di partenza delle indagini degli archeologi italiani è stato il saggio di Kiriakos Nikolaou, The topography of Nea Paphos. Lo studioso, a proposito degli ambienti ipogeici, così si esprimeva:

Le camere così sistemate possono identificarsi con un quartiere di soldati. Il fatto che il sito sia vicino alla porta Nord delle mura urbiche può suggerire che questo complesso sia un campo militare dove la guarnigione della città o parte di essa era alloggiata”.

E per dare peso alla sua ipotesi fa riferimento ad una generale discussione sui caserme in epoca ellenistica in cui cita anche un’iscrizione frammentaria di petizione indirizzata a Tolomeo VI od VIII da talune truppe stanziate a Nea Paphos. Ricordiamo infatti come Cipro, a seguito delle guerre civili dovute alla morte di Alessandro Magno, divenne parte dell’Egitto Tolemaico, ottenendo poi l’indipendenza snel 106 a.C., quando Tolomeo IX Sotere Latiro scappò dall’Egitto e si proclamò re dell’isola. Quando poi Tolomeo IX tornò ad essere faraone nell’88 a.C., il regno ridiventò parte del regno tolemaico d’Egitto. Nell’80 a.C. il regno riacquisì indipendenza quando il nuovo faraone Tolomeo XII Aulete nominò il fratello minore, Tolomeo di Cipro, re dell’isola. Il dominio tolemaico finì nel 58 a.C., quando la repubblica romana decise di annettere l’isola per una legge del tribuno della plebe Publio Clodio Pulcro (la Lex Clodia de Rege Ptolemaeo et de exsulibus Byzantinis), che inviò Marco Porcio Catone a conquistarla.

Tornando all’ipotesi che il complesso fosse parte di una caserma ellenistica, K. Nicolau aggiunge:

“È molto probabile che le camere sotterranee rimasero in uso come un santuario attaccato al campo, ed è possibile che durante il periodo ellenistico qualche dio egizio, come Isis o Serapis fu introdotto; o, durante il periodo romano, una divinità quale Mitra”.

Egli quindi conclude:

Ulteriori indagini del sito potranno chiarirlo, ma sui dati presenti è possibile ipotizzare che esso fu un campo militare dove truppe della guarnigione della città erano allocate”.

Jolanta Mlinarczik, nel volume Nea Paphos III, pubblicato poco prima degli scavi italiani, già avanzava dubbi sull’ipotesi di Nicolaou:

“Ma persino non badando al discutibile punto della localizzazione, l’intero complesso di Toumballos è troppo esteso e ben progettato per essere stato il santuario di una guarnigione militare”.

E conclude la studiosa:

“che il santuario di Toumballos si trovi al margine della città, lontano dai quartieri più attivi, non dovrebbe essere considerata prova dei suoi supposti legami con caserme militari, come ipotizzato da Nikolaou, ma piuttosto ancora più una testimonianza della natura ctonia del culto accompagnata da misteri”.

Culti misterici che risalgono probabilmente, come in Grecia, all’età del Bronzo, quando Cipro era uno dei principali hub del commercio dei metalli. Tra il 1300 e il 1200 a.C. ci fu un periodo di prosperità cipriota. Città come Enkomi furono ricostruite a griglia rettangolare e furono costruiti numerosi e grandiosi edifici. In alcuni di questi edifici sono stati ritrovati impianti per la lavorazione e conservazione dell’olio d’oliva. Santuari con altari sono stati trovati a Myrtou-Pigadhes, presso Enkomi, a Kition e a Kouklia. Sia la disposizione regolare della città sia le tecniche murarie trovano parallelismi con alcuni ritrovamenti archeologi in Siria, soprattutto ad Ugarit.

Ritrovamenti di relitti il cui carico era formato da lingotti di rame, davanti alle coste cipriote, testimoniano che Cipro era un’importante base per il commercio di questo metallo.

Verso la fine dell’età del Bronzo, Cipro faceva parte dell’impero ittita, ma era uno Stato cliente e come tale non era stato invaso dal regno anatolico, ma piuttosto era governata dal re di Ugarit. Durante il regno di Tudhaliya I/II, l’isola fu occupata per poco tempo dagli Ittiti per proteggere il rame e contrastare la pirateria e tenere a bada i tentativi micenei di conquista.

Lo scavo della missione italiana, a partire dal 1988, ha rinunciato ad esprimere opinioni premature sulla natura del complesso di camere ormai svuotate del loro contenuto ed ha preferito piuttosto indagare sulle emergenze visibili intorno al santuario, per ricavare da queste quegli elementi che potessero servire, in un secondo momento, ad una valutazione dell’intero complesso.A questa logica ha ubbidito, da una parte, lo scavo nell’area ad Est della scala di accesso al santuario ipogeico, e dall’altra, ad Ovest, delle camere ormai a vista.

In particolare, ad Est, in direzione della scala che portava alle camere ipogeiche, emergevano alcuni blocchi squadrati di calcare. Le indagini condotte in quest’area, hanno messo in luce un lunghissimo dromos di accesso al santuario, che ha superato i 72 metri di lunghezza fino raggiungere un costone roccioso dentro il quale sprofonda in camere che la nostra missione ha per la prima volta messi in luce (da esse sta venendo fuori una notevole quantità di materiale del periodo della fondazione), per uscirne in direzione Nord-Sud. Di esso, appare conservato in tutta la sua lunghezza il muro settentrionale, il quale in alcuni punti mostra un bel poligonale, ed, in altri, dei rifacimenti successivi in cui appaiono riutilizzati grossi blocchi quadrangolari. Del muro meridionale del dromos sono superstiti soltanto due blocchi subito ad Est del primo gradino della scala di accesso al santuario, mentre la rimanente parte è stata completamente smontata e riutilizzata per la costruzione di un popoloso quartiere che si è appoggiato al muro settentrionale del dromos, a partire dalla fine del IV sec. d.C., quando, chiusi i culti pagani, l’area fu risistemata a quartiere urbano in vicinanza, come vedremo, di una basilica che s’impiantò fondendosi con esso riutilizzando le strutture dell’edificio pagano.

Il santuario a chi oggi visita lo scavo, rivela un notevole complesso di camere sotterranee scavate nella roccia e, ad Est, un lungo dromos di accesso ed una scala che conduce agli ambienti e ai corridoi sotterranei.Non lontano dalla scala di accesso al santuario sono venuti alla luce i resti di una copiosa stipe votiva, che ha restituito materiale databile tra il III ed il II secolo a.C.; significativamente, molti dei pezzi sono stati rinvenuti sul piano di calpestio dello stesso dromos, buttati lì probabilmente nel momento della rimozione del muro meridionale e della realizzazione del nuovo quartiere urbano, allorquando chiusi i culti pagani, si edificò una basilica paleocristiana sulle strutture del santuario subito ad Ovest delle camere ipogeiche, e comunque al di qua del peribolo che racchiudeva le strutture santuariali.Il nuovo edificio di culto, oggetto di accurate indagini, sta acquistando man mano la fisionomia di un martyrium paleocristiano.Indagini condotte sotto le fondazioni del muro settentrionale della navata centrale hanno, innanzitutto, consentito di datare l’edificio, nella sua prima fase, alla fine del IV secolo d.C.

Esso presenta un’iconografia inconsueta e piuttosto rara: al doppio nartece ed alla navata centrale seguono, in pendant, due absidi (una interna ed una esterna) entrambe innestate sui muri della navata. L’ampio spazio, delimitato da esse, dà accesso ad una cripta formata, nelle pareti orientale ed occidentale, dai due bracci rocciosi di uno dei corridoi del santuario pagano e, nella parete di fondo, da un muro appositamente innalzato realizzandosi in questo modo una simbiosi perfetta tra il santuario pagano e la piccola basilica paleocristiana.A Sud dell’esonartece corre un piccolo corridoio, chiuso ad Ovest che dal peribolo del santuario pagano realizzato nella roccia, ha impedito all’edificio cristiano di espandersi in questa direzione.

In realtà, la sovrapposizione dell’edificio di culto cristiano sul santuario pagano ha determinato delle singolarità nella pianta, che è possibile attribuire alla volontà di riutilizzare, per quello che era possibile, le antiche strutture, sia a scopo simbolico, sottolineare il trionfo della nuova religione sull’antica, sia per risparmiare tempo e denaro. A parte il fatto che la presenza del peribolo in roccia ad Ovest ha consentito soltanto uno sviluppo orizzontale Nord-Sud, il semicerchio settentrionale dell’abside interna, i cui blocchi sono stati asportati in antico, ma di cui rimangono tracce “sagomate” di malta, fu poggiato sulla superficie superiore di due grandi vasche rettangolari, che dovevano essere adibite a vasche per le esigenze idriche del santuario. La presenza delle vasche ha determinato uno sviluppo singolare dell’ala settentrionale dell’edificio cristiano: a Nord della navata centrale sono stati isolati, infatti, due piccoli ambienti; il primo ad Est, è adagiato al livello dello spianamento roccioso; tutt’attorno, precedenti interventi nell’area, intorno agli anni 50’/60’, hanno purtroppo distrutto le connessioni con la stessa navata centrale e con le grandi vasche del santuario pagano; il secondo, ad Ovest, sostiene una piccola scala, i cui gradini parzialmente conservati portano ad un altro grande ambiente rettangolare sistemato ad un livello superiore rispetto alla navata centrale. Di questo, finora solo parzialmente scavato, si è conservato il letto pavimentale; esso trova la conclusione ad Est, in una piccola abside scavata nella roccia, che presenta uno scasso centrale ad U, e che appare in asse -fatto molto significativo- con una tomba anch’essa scavata nello stesso costone roccioso, raggiungibile tuttavia dall’esterno, dalla scala di accesso al santuario pagano.

Inesplorata resta ancora la chiusura del lato settentrionale dell’edificio cristiano e, finora ignoto il rapporto del piano dell’ambiente absidato con un’esedra del santuario pagano, realizzata al livello del piano roccioso, e con altre camere dello stesso che si aprono subito ad Ovest dell’esedra. Decisivo per la ricostruzione del culto cristiano nel IV-V sec. d.C. è stato lo scavo della cripta, dove, attorno ad una piccola struttura quadrangolare piena di terra bruciata, una serie di vasi sembrano comporre un “servizio”: sono stati raccolti una lucerna, una ciotola, un boccale, un’anfora, purtroppo frammentaria, che conserva il collo a cui è attaccata una sola delle due anse: all’interno di questo, in mezzo alla terra, è venuto fuori un pezzo di stoffa molto rozza ed un piccolo frammento osseo di spina di pesce.

L’eccezionale scoperta ha messo in moto una serie di suggestive ipotesi collegate al momento della cristianizzazione di Cipro ed in particolare al momento in cui doveva essere vivo, a Paphos, il ricordo di Ilarione, il santo che lì predicò e morì sullo scorcio del IV secolo d.C.

Secondo l’agiografia, compì gli studi ad Alessandria, dove si convertì al cristianesimo e fu battezzato. Desideroso di dedicarsi alla vita ascetica, incontrò Sant’Antonio l’anacoreta e quindi tornò in Palestina dove, dopo aver scoperto della morte dei propri genitori, donò tutti i suoi averi ai poveri. Dopo aver introdotto l’ascetismo nel territorio circostante Gaza, si dedicò alla vita monastica viaggiando per tutto l’Impero Romano. Nel 330 si imbarcò per la Sicilia, dove visse come eremita in una grotta a Cava Ispica.Verso la fine della sua vita, sempre secondo le stesse fonti, i suoi miracoli gli diedero fama di guaritore e viaggiò, dal 365, ininterrottamente per l’Italia, la Croazia e Cipro, inseguito da folle di ammalati.

Manca finora un’evidenza epigrafica completa (si è trovata finora un’epigrafe in marmo in cui si legge ΙΩΝ, se non forse PIΩN, che consenta di identificare il tempio di Apollo a Toumballos con quello dove predicava il santo monaco. Certo è che il primo impianto della piccola basilica, costruita con e sui muri dell’edificio pagano, si può datare negli anni immediatamente successivi alla morte dell’anacoreta, il quale prima fu seppellito e, successivamente, riesumato dai discepoli e traslato a Gaza. La piccola basilica rappresenta con ogni probabilità, la “Memoria” legata alla vita ed ai miracoli del santo, ed il servizio da mensa, collocato nella cripta nel VI secolo d.C., lo sarebbe stato a ricordo dello stesso.

Indagini topografiche, fondate sulla testimonianza di San Girolamo, che pone in secondo ab urbe miliario la prima residenza di Ilarione, il quale predicava “vicino alle rovine di un tempio antichissimo”, e collocava a dodici miglia dal mare la seconda residenza, hanno consentito di avanzare l’ipotesi che proprio il santuario ipogeico di “Garrison’s Camp” doveva essere quello della “evangelizzazione”; e che la grotta di Episcopi, sulle colline di Paphos, indicata dalla tradizione locale come quella di S. Ilarione, sia il luogo dove il santo, a causa dell’affollamento dei pellegrini, e per consiglio del fedele Esichio, si spostò.

In realtà viene lentamente maturando la convinzione che il sito di Garrisson’s Camp, lungi dall’essere un quartiere periferico della città di Paphos, fosse quello dei grandi santuari ipogeici pagani (un altro santuario ipogeico si intravede più ad Ovest del nostro, segnalato da grossi verdi cespugli di macchia mediterranea che spiccano nel brullo dell’area circostante): e proprio in quel luogo forte dovette essere la lotta tra i pagani e la nuova religione nascente. Non senza emozione, difatti, nella campagna del 1999 è venuta alla luce un’epigrafe marmorea in due righe in cui è possibile leggere “lou osto”: se l’integrazione in [PAY]LOY [AP]OSTO[LOY] è corretta avremmo la prima testimonianza archeologica della presenza dell’apostolo a Cipro, finora attestata solo dagli Atti degli Apostoli, i quali ricordano che il santo, arrivato sull’isola, convertì il proconsole romano Sergio Paolo, e che in suo onore cambiò il nome da Saulo in Paulo. In collegamento con la piccola basilica è possibile documentare una risistemazione di tutta l’area del santuario dalla fine IV/inizi del V sec. d.C fino al momento dei raid arabi della metà del VII sec. d.C.: sulla faccia interna del muro settentrionale del dromos di accesso allo stesso viene addossata, infatti, una serie di ambienti, alcuni dei quali decorati a mosaico.

La futura indagine chiarirà se qui non si addensi da questo momento in poi, il quartiere “cristiano”, in contrapposizione a quello “pagano”, dell’area sud-occidentale della città, in cui si ammirano le coeve, grandi dimore patrizie con le suggestive immagini di Aion, di Teseo che uccide il Minotauro, di Orfeo, della nascita di Achille e del trionfo di Dioniso. L’esplorazione, ancora, dell’area a Nord del santuario ipogeico comincia a dare risultati abbastanza promettenti. Alcuni saggi ai bordi di un’ampia depressione a forma grosso modo ovoidale, a Nord del dromos di accesso alle camere ipogeiche, ha permesso di mettere parzialmente in luce una sorta di xystos, un piccolo stadio per allenamento.Esso era probabilmente preceduto, a Nord, nell’area a ridosso delle mura urbiche che chiudono da questa parte la città, da stoai, come farebbero pensare alcuni blocchi allineati in senso Est-Ovest e Nord-Sud.Se le esplorazioni delle prossime campagne dovessero confermare tale supposizione, Garrison’s Camp, ritenuto finora area destinata ad accogliere guarnigioni militari, potrebbe assumere ben altra dimensione, per la presenza di grandi santuari e di attrezzature sportive ad essi collegate.

Sfugge purtroppo, finora, il culto praticato a Toumballos; esso è stato riferito ad Apollo sulla base della rassomiglianza delle camere ipogeiche con quelle del santuario di Apollo Hylates, scoperto nella parte orientale di Kato Paphos. Non sembra tuttavia senza significato il rinvenimento di un piccolo frammento a vernice nera in cui è possibile leggere ολλ o il rinvenimento, ancora più significativo, di un frammento di vaso attico a figure rosse in cui è chiaramente discernibile Artemide con la faretra dietro le spalle ed un kanoun in mano. Non sfugge in ogni caso il carattere misterico del culto. Le buie camere sotterranee rischiarate soltanto da stretti lucernai praticati al centro del soffitto, dovevano essere illuminate dalle torce degli iniziati che nei corridoi ipogeici concludevano la lunga processione iniziata all’ingresso del lunghissimo dromos di accesso. A partire dalla fine del XII e degli inizi del XIII secolo d.C. l’area attorno al santuario ed alla piccola basilica, certamente abbandonata e resa deserta dalle incursioni arabe del VII sec. d.C., registra tracce di vita, come confermerebbero alcuni ambienti che si addossano da una parte e dall’altra al muro settentrionale del dromos. Esplorazioni, d’altra parte, sulla collina soprastante il santuario hanno messo in luce i resti di ambienti di epoca medievale (torretta di avvistamento?).

Particolarmente proficuo si è rilevato lo scavo di uno di questi, al centro del quale è stato rinvenuto un pilastro in blocchi chiaramente precipitato in seguito ad un evento traumatico, molto probabilmente sismico, che ha “sigillato” una grande massa di ceramica medievale e tardo medievale: il rinvenimento di monete veneziane del doge Gerolamo Priuli (1559-1567) ha consentito di datare tale evento nel XVI secolo d.C. Gli scavi della missione italiana a Paphos, quindi, stanno gettando luce sulla vita e sugli esiti del santuario pagano per ben circa un millennio, dalla seconda metà del IV secolo a.C. fino al momento dei raids arabi. Se la lettura di San Girolamo coglie nel vero, l’area del cosiddetto “Garrison’s Camp” riceve nuova luce, nella misura in cui essa si rivela come il punto dove i cristiani predicavano e propagandavano la nuova fede: un luogo quindi dove fortemente era radicata la fede pagana, e da dove doveva propagarsi, se voleva aver successo, la fede cristiana. Era certamente quello il luogo dei grandi santuari dove la folla si riuniva per celebrare gli antichi riti pagani e dove i Santi, a partire da San Paolo, predicavano il nuovo verbo divino e scacciavano i demoni.

Ancora la Vita Ilarionis di San Girolamo ci aiuta a focalizzare questo momento cruciale del passaggio dall’antica alla nuova religione. Un suggestivo parallelo possiamo trovarlo nell’arrivo di San Ilarione ad Elusa sulla via per il deserto di Gades (Vita 16,1), proprio nel giorno in cui le celebrazioni annuali avevano raccolto nel tempio di Venere tutta la popolazione della città. Ebbene gli abitanti di Elusa, colpiti dalla fama della sua santità “non lo lasciarono partire prima che tracciasse il contorno della chiesa che sarebbe dovuta sorgere (“non prius abire passi sunt quam futurae ecclesiae limitem mitteret”). Ad Elusa (nella vicina Siria), come a Paphos, il nuovo edificio sarebbe sorto per “ricordare” il passaggio ed i miracoli del santo. Da questo momento in poi, credo, se abbiamo colto nel vero, dovremo chiamare la località da noi indagata non più come “Garrison’s Camp”, ma “l’area dei grandi Santuari”.

Questo è soltanto uno dei cantieri archeologici attivi a Cipro. Un altro sito molto interessante di epoca romana è quello della località Piadhia, nel villaggio di Akaki, distretto di Lefkosia (Nicosia), avviato nel 2013 e ancora in corso: i resti architettonici riportati alla luce appartengono a un edificio sviluppato intorno a un grande bacino – circondato in parte da portici – che sembra aver giocato un ruolo significativo nell’uso del sito. I portici circondavano il bacino a est e a sud, mentre lungo il lato settentrionale del bacino diversi canali sotterranei e di superficie erano utilizzati per la circolazione dell’acqua. La parte ovest è attualmente oggetto di scavi.

Tra le aree più interessanti figura il portico meridionale che si è conservato quasi interamente e che è adornato da straordinari mosaici. Costituito da un lungo corridoio di 26 x 4 metri, è interamente coperto da mosaici. I pannelli che lo compongono sono ben sette, di diverse dimensioni, circondati e divisi uno dall’altro da una serie di cornici. Il pannello centrale raffigura la scena di un carro in un ippodromo (scena del circo). La scena del circo mostra più quadrighe e ogni quadriga è guidata da un auriga in piedi ed è accompagnata da due iscrizioni scritte in greco che indicano il nome dell’auriga e il nome di uno dei cavalli. Il pannello centrale è, inoltre, incorniciato da pannelli più piccoli con una ricca decorazione geometrica, mentre le estremità ovest ed est del corridoio presentano un pannello decorato con un motivo a ghirlanda in un cerchio formato da 8 cerchi intrecciati che includono medaglioni raffiguranti busti di figure femminili identificate come le nove Muse.

Il mosaico può essere fatto risalire al 4 ° secolo d. C. e presenta un impressionante stato di conservazione, nonché una sofisticata manifattura. Sebbene non sia stato ancora stabilito se l’edificio sia una villa privata o luogo pubblico, la presenza di questo mosaico in un’area remota dell’entroterra offre importanti nuove informazioni per la vita a Cipro nel periodo a cui risale.

Vale la pena, inoltre, sottolineare la rarità del tema di una corsa equestre all’interno di un ippodromo, raffigurato in un pavimento a mosaico, tema predominante delle zone occidentali dell’Impero romano. Sebbene attività circensi avessero luogo in molte parti delle province romane dell’Est, in questa parte dell’Impero non era ancora stato ritrovato alcun riferimento iconografico inerente alle corse con i carri. Il mosaico di Akaki è, quindi, per ora, il mosaico di epoca romana con questo tema posizionato più a est e fornisce importanti ulteriori informazioni sull’uso dei pavimenti a mosaico a Cipro.

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Published on December 21, 2021 00:48

December 20, 2021

Atene contro Siracusa Parte XLI

Nonostante la migliore organizzazione da parte di Nicia e il fatto che i suoi soldati si fossero liberati dai bagagli inutili, il grosso problema è che gli Ateniesi procedevano a piedi, mentre i Siracusani potevano sfruttare al meglio la loro cavalleria: Gilippo, nel tentativo di evitare di combattere, fece sapere a Nicia della resa del collega, chiedendo lo stesso comportamento. L’ateniese cercò di trattare: in cambio della possibilità di ritirarsi in santa pace, Atene avrebbe ripagato Siracusa delle spese e dei danni di guerra. A garanzia dell’avvenuto pagamento, sarebbero stati offerti degli ostaggi. Ma sospettosi del fatto che gli Ateniesi ne approfittassero per riprendere le armi, rifiutarono l’accordo.

Ma i Siracusani il mattino seguente lo agguantarono. Fecero subito sapere allo stratego che Demostene con le sue divisioni aveva ceduto le armi con l’invito di imitare anch’egli il collega in quella decisione. Nicia, incredulo, pattuisce l’invio di un proprio uomo a cavallo per sincerarsi. Appena il cavaliere fu di ritorno con l’annuncio che effettivamente Demostene s’era arreso, Nicia per voce di un araldo avvisò Gilippo e i Siracusani d’esser disposto, in nome del popolo ateniese, a stipulare un accordo circa il risarcimento di tutte le spese sostenute da Siracusa per la guerra. Poneva la condizione di lasciar via libera alla propria armata. Finché il denaro del rimborso fosse completamente versato, avrebbe offerto cittadini ateniesi in ostaggio, uno per ogni talento. Ma i Siracusani e Gilippo respinsero la proposta.

Per cui, i Siracusani, contando anche sul fatto che gli Ateniesi, fossero allo stremo per la mancanza di cibo e di acqua, cominciarono ad attaccare i nemici con la solita strategia del mordi e fuggi, con cariche di cavalleria e continui attacchi da lontano da parte dei lanciatori di giavellotti e degli arcieri. Per uscire da questa pessima situazione, gli Ateniesi tentarono una fuga notturna, ma i Siracusani, quando si accorsero delle loro intenzioni, intonarono il canto di guerra, a indicare il prossimo attacco. Questo impaurì gli Ateniesi, che rinunciarono, tranne un contingente di 300 soldati, che sfondarono le linee nemiche, rinunciarono a combattere

Piombando sugli Ateniesi e accerchiandoli, li tempestarono di proiettili da ogni lato, come avevano fatto con gli altri, fino al tramonto. Anche questi reparti erano mal ridotti per la scarsezza di cibo e di ogni altro genere occorrente. Tuttavia, attesa la pausa notturna, si accingevano a rimettersi in marcia. Cinsero le armi, ma i Siracusani compresero l’intenzione e intonarono il peana. Visto che il tentativo di andarsene inosservati era fallito, gli Ateniesi gettarono di nuovo le armi a terra, tranne un gruppo di circa trecento uomini. Costoro, sfondando il cerchio dei presidi scomparvero nella notte gettandosi per la prima via che poterono.

All’alba Nicia tentò di convincere le sue truppe ad avanzare, ma appena si misero in marcia, continuarono a essere infastidite dai Siracusani, con la solita tattica mordi e fuggi. Per cui, decisero di tentare il tutto per tutto, cercando di guadare il fiume Asinaro, nella speranza che la cavalleria nemica non potesse inseguirli e per tentare di sfuggire al caldo e alla sete.

Il fiume Asinaro o Assinaro nasce alle pendici del Monte Mezzo Gregorio (655 m s.l.m.), vicino all’attuale Testa dell’Acqua (tra Palazzolo Acreide e Noto), dove sorge un centro di avvistamento radar congiunto della NATO. Sfocia nel Mar Jonio nella zona di Calabernardo dopo 22 km, e dopo vari ingrottamenti (come del resto l’Anapo ed il Tellaro) in mezzo a splendide zone di macchia mediterranea.

Tuttavia, come suo solito, Nicia perse la testa e si scatenò il caos, anche perchè, un contingente costituito dagli alleati della Lega del Peloponneso e di Akrai aveva occupato l’alta riva del fiume, impedendo il passaggio. Akrai fu la prima colonia di Siracusa, fondata da Corinzi giunti nei territori siciliani;dopo Akrai, sita nei pressi di Pantalica, ci furono Casmene (avamposto militare sul monte Lauro), fondata nel 643 a.C., Akrillai (sulla strada per Gela) e Kamarina, la più lontana delle colonie, fondata nel 598 a.C. Costruita in cima ad un colle, Akrai era difficilmente attaccabile e al tempo stesso costituiva un punto ideale per vigilare sui territori circostanti. Grazie all’importanza della sua posizione strategica, la città si sviluppò fino a raggiungere il massimo splendore sotto il regno di Gerone II

Nel 211 a.C., dopo la caduta di Siracusa, passò a far parte della provincia romana, assumendo il nome latino Acrae; in seguito passò sotto il dominio bizantino fino all’invasione araba. La cittadina fu completamente distrutta dagli Arabi nell’827 e il sito, rimasto abbandonato, pian piano venne ricoperto da terriccio e vegetazione spontanea scomparendo alla vista e venendo dimenticato per quasi otto secoli.

Il primo studioso a individuare il sito della città scomparsa fu nel XVI secolo lo storico siciliano Tommaso Fazello;ma fu il barone Gabriele Iudica,che all’inizio del XIX secolo intraprese i primi scavi archeologici nel sito di Akraie descrisse le sue ricerche nel libro Le antichità di Acre, pubblicato con la data del 1819. Gli scavi successivi della città arcaica hanno riportato alla luce il Teatro, di piccole dimensioni, ma in ottimo stato di conservazione; la scoperta fu annunciata da Gabriele Iudica nel 1824. Sulla parte posteriore sorgono due latomie, cave di pietra, denominate Intagliata e Intagliatella, della metà del IV secolo a.C.. Sul pianoro sopra la latomia dell′Intagliata si trovano i blocchi di base dell′Aphrodision, il Tempio di Afrodite, eretto nel VI secolo a.C.Sul lato occidentale sorge il Bouleuterion, dove il consiglio cittadino si riuniva, scoperto sempre da Iudica nel 1820.Ad est del colle sorgono i Templi Ferali dedicati al culto dei morti.

Appena fu l’alba, Nicia scosse l’esercito: ma i Siracusani furono pronti a soffocarli con la medesima tattica, coprendoli di frecce e giavellotti, con tiro incrociato. Gli Ateniesi accelerarono la corsa verso il fiume Assinaro: da una parte, perché ritenevano che, inchiodati in un cerchio dalle folate aggressive di numerosa cavalleria, e da una folla di altri combattenti, avrebbero forse trovato un po’ di tregua riuscendo a passare il fiume; d’altro canto le sofferenze e il bisogno di lenire la sete s’erano acuiti atrocemente. Appena arrivarono all’acqua vi si gettarono rompendo ormai ogni schieramento: ma l’impazienza, diffusa in tutti, di passar primi e la pressione nemica alle spalle inasprirono di attimo in attimo la fatica del guado. Costretti a penetrare alla rinfusa nella corrente si intralciavano a vicenda perfino calpestandosi: ci fu chi s’abbatté di schianto sul proprio giavellotto, o sulla lama delle altre armi, restando ucciso sul colpo; molti altri, imbrogliati dall’armatura scomparvero nei gorghi.

Sull’opposta riva del fiume (scoscesa a picco) i Siracusani appostati in alto bersagliavano gli Ateniesi, intenti i più a bere avidamente e incapaci di districarsi l’uno dall’altro nel letto incassato dell’Assinaro. Poi i Peloponnesi, calati dall’argine si diedero a sgozzare tutti quelli che si agitavano nel fiume. In breve l’acqua s’intorbidò e si corruppe, ma non venne meno la frenesia di berne, e più d’uno impugnò le armi contro un compagno, per raggiungere un sorso di quell’acqua dal sapore di fango, ed insieme di sangue Infine crebbero nel fiume i cadaveri ammucchiati l’uno sull’altro.

Gli ateniesi, di molto superiori in numero, furono imbottigliati sulle sponde del fiume e, circondati, furono massacrati. Per evitare la disfatta totale, Nicia si arrese a Gilippo, visto che non si fidava dei Siracusani: per cui, lo spartano ordinò di catturare i nemici. Il problema è che le truppe non obbedirono: o continuarono a massacrare gli Ateniesi, oppure, presero come schiavi personali, invece che come prigionieri di guerra gli opliti avversari. Ovviamente, in questo manicomio, parte degli ateniesi riuscirono a darsi alla fuga e rifuggiarsi a Catania

L’annientamento dell’armata proseguiva, ora lungo il fiume, ora per le cariche di cavalleria, pronte a stroncare ogni tentativo di fuga. Finché Nicia si arrese a Gilippo, confidando più in lui che nei Siracusani: lo stratego si consegnava a discrezione a Gilippo e agli Spartani a patto che si interrompesse l’eccidio degli altri suoi uomini. In seguito alla resa, Gilippo comandò di procedere alla cattura dei nemici vivi: tutti quelli rimasti sul posto e che non erano stati nascosti dai Siracusani (furono frequenti i casi simili) vennero raggruppati e condotti in città. Contro i trecento che nel cuore della notte avevano forzato il blocco delle guarnigioni furono lanciati degli inseguitori che li catturarono. Il numero di uomini presi come prigionieri di stato non risultò eccessivo: elevato invece quello dei militari fatti sparire abusivamente, ad opera di privati. La Sicilia ne fu piena, poiché la loro cattura non era avvenuta, come per quelli di Demostene, sotto la garanzia di un accordo. Non poche furono le vittime: poiché questo fu un massacro sanguinoso, più feroce di qualunque altro accaduto in tutto l’arco del conflitto siciliano. Molti erano caduti anche durante le continue incursioni che senza tregua avevano flagellato le colonne in marcia. Ma non fu piccolo anche il numero degli scampati fuggitivi: chi durante la fase stessa della cattura, chi liberandosi dopo un periodo di schiavitù. Punto di raccolta per questi fuggiaschi era Catania

Il problema è che diavolo fare di Demostene e di Nicia: Gilippo che, ricordiamolo, per le vicende paterne era una sorta di paria a Sparta, per riacquisire in minimo di status, voleva portare i due come prigionieri in patria, sia perchè Demostene era il nemico pubblico numero 1 dei Lacedemoni, sia perchè Nicia invece, era visto come un possibile interlocutore per trattare la pace. Il problema è che entrambi avevano avuto contatti sottobanco con Ermocrate, che voleva sfruttare la situazione per prendere il potere nella polis siciliana. Per cui, per farli tacere, furono condannati a morte.

Serrati i ranghi i Siracusani e gli alleati, dopo aver riunito il maggior numero possibile di prigionieri e la più alta quantità di bottino, si ritirarono in città. Tutti gli Ateniesi e gli alleati presi prigionieri finirono sul fondo delle latomie ritenute il carcere più sicuro. Nicia e Demostene, contro il parere di Gilippo, furono suppliziati. Poiché Gilippo contava di suggellare splendidamente la sua vittoria trascinando a Sparta, con le altre spoglie, anche i membri dell’alto comando nemico. La sorte aveva per di più deciso che l’uno – Demostenefigurasse come il più accanito nemico di Sparta, essendo l’autore del disastro di Pilo, e che l’altro, per un motivo che si ricollegava a quell’evento, vi riscuotesse il più acceso favore. Poi ché Nicia si era prodigato a fondo, inducendo gli Ateniesi a trattare la pace, per ottenere la liberazione di quei detenuti spartani. In compenso a Sparta la sua figura era circondata di calda simpatia: e lo stesso Nicia, fidando in questo rapporto di stima, aveva ceduto le armi a Gilippo. Ma, stando almeno alle voci allora in circolazione, un gruppo di Siracusani, preoccupati per essersi compromessi in intese segrete con lui, temevano che sottoposto alla tortura parlasse rovinando loro, con la sua denuncia, il momento più lieto della vittoria; altri, e più insistentemente i Corinzi, nella paura che, ricco com’era, corrompesse con l’oro qualche autorità e fuggendo potesse meditare contro di loro qualche nuovo intralcio, si ostinarono e, indotti gli alleati siracusani, lo fecero condannare a morte. Nicia dunque cadde sotto accuse di questa forza, o molto simili: il più incolpevole tra tutti i Greci, almeno tra quelli del mio tempo, e il meno degno di una così cupa fine, per l’impegno inflessibile riposto nella pratica della virtù, nell’esemplare rispetto della legge

I 7 000 superstiti ateniesi divennero tutti prigionieri nelle latomie, il cui nome deriva dal latino lātomĭae che a sua volta deriva dal greco latomíai composto da lâs, pietra, e tomíai da témnein, tagliare. Nell’antichità greco-romana erano cave di pietra o di marmo usate per incarcerare schiavi, prigionieri di guerra o delinquenti in genere.

Furono probabilmente scavate già dal V secolo a.C., anche se non si hanno informazioni certe, e utilizzate sino all’epoca romana. Sicuramente furono utilizzate per costruire il quartiere della Neapolis e successivamente le mura di fortificazione della città.

Cicerone nelle Verrine parla delle latomie:

Tutti voi avete sentito parlare, e la maggior parte conosce direttamente, le Latomie di Siracusa. Opera grandiosa, magnifica, dei re e dei tiranni, scavata interamente nella roccia ad opera di molti operai, fino a una straordinaria profondità. Non esiste né si può immaginare nulla di così chiuso da ogni parte e sicuro contro ogni tentativo di evasione: se si richiede un luogo pubblico di carcerazione, si ordina di condurre i prigionieri in queste Latomie anche dalle altre città della Sicilia.

Le latomie di Siracusa sono distribuite all’interno del comprensorio aretuseo, poiché in epoca greca vi era l’esigenza di materia prima quale la roccia calcarea, che serviva per la costruzione di templi e monumenti nonché per erigere le mura che difendevano la città. Ippolito di Roma nella Refutatio contra omnes haereses scrive che, per Senofane, “…a Siracusa, nelle latomie, si sono trovate impronte di pesci e di foche”, suggerendo una prima osservazione scientifica sulle caratteristiche geologiche delle rocce calcaree della città.

Sono molte: alcune all’interno del parco della Neapolis, come quelle del “Paradiso”, “Santa Venera” e “Intagliatella”; nei pressi della basilica di San Giovanni Battista quelle “Navantieri”, “Broggi” e del “Casale”; infine, nei pressi del convento dei Cappuccini, l’omonima latomia. Se ne conosce un’altra, più piccola, nei pressi del castello Eurialo, chiamata “Bufalaro” (o “del Filosofo”). Inoltre esistono molte piccole latomie sparse ovunque in città, specie nei pressi delle mura dionigiane.

Nel 1625 Pietro Della Valle visita le latomie lasciandone una delle prime descrizioni del luogo:

«Il giorno andammo a vedere il convento de’ Cappuccini fuor della città, dentro agli orti dei quali si veggono dirupi e concavità profondissime, perché tutto quel terreno, ch’è di pietra, in tempi antichi è stato cavato per cavarne le pietre; e si scorge esservi state tagliate colonne bellissime tutte d’un pezzo, come potrebbono anche cavarsene delle altre; ed in quelle profonde oscure valli delle concavità vi sono nondimeno orti ed alberi piantati che fanno frutti bellissimi, il che mi fece maravigliare, perché alcuni ne vidi in luoghi dove non possono esser mai tocchi dal sole, tanto è profondo il terreno, e tanto strettamente serrato da alte rupi d’ogn’intorno. Queste sono le Lapicidine, dove furono messi prigioni gli Ateniesi che dopo aver perduto molte battaglie in terra ed in mare, si resero finalmente ai Siracusani, come narra Tucidide.»

Dalla seconda metà del Settecento sino alla fine dell’Ottocento Siracusa entrò nel circuito del Grand Tour. I molteplici viaggiatori che si susseguirono lasciavano resoconti estasiati in merito a questo luogo. Patrick Brydone nel XVIII secolo ne fa la seguente descrizione:

«Le latomie formano ora un elegante giardino sprofondato sotto la superficie del terreno e sono senza dubbio uno dei luoghi più belli e romantici che io abbia mai veduto. Si trovano per intero a circa cento piedi sottoterra, e sono incredibilmente vaste. Il giardino è tutto tagliato in una roccia dura come il marmo, composta di un conglomerato di conchiglie, ghiaia ed altro materiale marino. Il fondo dell’immensa cava, da cui fu probabilmente tratta la pietra per costruire quasi tutta Siracusa, è ora ricoperto da un terriccio fertilissimo, e siccome è un luogo assolutamente riparato dal vento, è pieno di ogni sorta di arboscelli e bellissimi alberi da frutto, rigogliosi e imponenti, mai intristiti dalla tempesta. Aranci, limoni, bergamotti, melograni, fichi, eccetera, sono tutti di notevoli dimensioni e di qualità sopraffina. Alcuni di questi alberi, in particolare gli olivi, sorgono dalla viva roccia, senza traccia di terra, ed offrono uno spettacolo insolito e assai gradito all’occhio.»

Tornando a Tucidide, ecco la descrizione che da Tucidide nella prigionia degli Ateniesi

Nelle cave di pietra il trattamento imposto nei primi tempi dai Siracusani fu durissimo: a cielo aperto, stipati in folla tra le pareti a picco di quella cava angusta, in principio i detenuti patirono la sferza del sole bruciante, e della vampa che affannava il respiro. Poi, al contrario, successero le notti autunnali, fredde, che col loro trapasso di clima causavano nuovo sfinimento e più gravi malanni. Per ristrettezza di spazio si vedevano obbligati a soddisfare i propri bisogni in quello stesso fondo di cava: e con i mucchi di cadaveri che crescevano lì presso, gettati alla rinfusa l’uno sull’altro, chi dissanguato dalle piaghe, chi stroncato dagli sbalzi di stagione, chi ucciso da altre simili cause, si diffondeva un puzzo intollerabile. E li affliggeva il tormento della fame e della sete (poiché nei primi otto mesi i Siracusani gettavano loro una cotila d’acqua e due di grano come razione giornaliera a testa). Per concludere, non fu loro concessa tregua da nessuna delle sofferenze cui va incontro gente sepolta in un simile baratro. Per circa settanta giorni penarono in quella calca spaventosa. Poi, escluse le truppe ateniesi, siceliote o italiote che avevano avuto responsabilità diretta nella spedizione, tutti gli altri finirono sul mercato degli schiavi. Il dato preciso sul numero effettivo dei prigionieri è difficile da stabilire con rigore: comunque non fu inferiore a settemila. Questo riuscì l’evento bellico più denso di conseguenze per i Greci, in tutto l’arco della guerra e, almeno secondo il mio giudizio, il più grandioso in assoluto tra i fatti della storia greca registrati dalla tradizione: quello che garantì il maggior trionfo alla potenza vincitrice e inflisse agli sconfitti la ferita più mortale. Disastrose disfatte, su tutti i fronti; tormenti di ogni sorte, acuiti allo spasimo. Fu insomma una distruzione radicale: è proprio questa la parola; e vi scomparve l’esercito, si dissolse la marina, e nulla si riuscì a salvare. E pochi della folla partita un giorno fecero ritorno a casa. Ecco, furono questi gli avvenimenti sul suolo della Sicilia.

Secondo Plutarco, gli Ateniesi inizialmente non credettero al racconto della sconfitta da parte di un forestiero che si pensava volesse mettere in subbuglio la città. Che il popolo ateniese fosse a conoscenza della messa in prigione dei sopravvissuti, ne sono una prova tre diversi e disgiunti frammenti di varie stele: uno ritrovato vicino al teatro di Dioniso, uno sull’Acropoli di Atene e uno a nord dell’agorà,dai quali è possibile ricostruire il testo di un decreto in onore di Epicerde di Cirene (un trierarco?)] datato 405/4 a.C. Oltre alla stele, in Demostene (Contro Leptine, 42) è presente la dedica che il popolo ateniese offrì a Epicerde, che pagò di tasca propria 100 mine per il riscatto di alcuni prigionieri. Sempre Plutarco, racconta un aneddoto secondo cui i prigionieri ateniesi in grado di recitare Euripide venissero rilasciati dai soldati siracusani, segno che il tragediografo greco era molto amato a Siracusa.

L’imponente vittoria fu poi ricordata dai Siracusani, che decretarono il giorno 26 del mese Carneo (gli inizi di settembre del nostro calendario) una celebrazione annua in onore della ricorrenza chiamata Asinaria, A questa festa, attuata dopo l’approvazione del decreto di un certo Euricle, capo dei democratici, seguì probabilmente la coniazione di monete riguardanti la vittoria, c denominata Pentêkontalitra, aratterizzata dalla presenta di Aretusa e di un carro con la testa di Nike in rilievo. Molte di queste, soprattutto quelle di Eveneto, presentano in esergo la scritta ΑΘΛΑ (termine per identificare l’armatura) che potrebbe essere anche un’allusione agli Ateniesi ai quali, secondo Plutarco, i Siracusani dopo la battaglia di Asinaro sottrassero le armature e le «appesero agli alberi più belli e più alti che crescevano lungo il fiume [Assinaro]».

Fu edificato, inoltre, un monumento nei pressi del fiume Asinaro, molto probabilmente da identificarsi con la cosiddetta Colonna Pizzuta, posta nei pressi dell’antica città di Eloro. Nei pressi del monumento, sulla sponda destra dell’Assinaro, sono presenti anche i resti di un secondo edificio di forma quadrata e coperto da una cupola. È possibile che la costruzione fosse una tomba, probabilmente contenente i corpi degli Ateniesi recuperati dopo la prima battaglia del Porto Grande.

La disfatta di Atene ebbe un’enorme eco in patria e in tutta la Grecia, più che nella stessa Sicilia.Atene perse completamente la flotta, la cavalleria fuggita a Catania, e quasi tutti i soldati; in totale circa 160 triremi e 10 000 uomini (fra un terzo e un quarto dei cittadini ateniesi). Le innumerevoli perdite non fecero che aumentare le critiche nei confronti della condotta dei generali, oltre che dei politici e persino degli indovini, responsabili di una sconfitta dalle proporzioni inaccettabili. La prestigiosa città attica aveva profuso un grande impegno nella ricerca della vittoria, dando fondo a molte delle sue risorse, sia in termini di armamento, sia di denaro; risultò quindi quasi necessario trovare dei colpevoli.

Enormi furono le conseguenze politiche di questa disfatta, tra cui la rinuncia di Atene a ulteriori mire espansionistiche nel Mediterraneo lasciando, ad esempio, lo spazio ai Cartaginesi per riprendere le loro conquiste in Sicilia. Anche Agrigento, che restò neutrale, ebbe una grande crescita economica e culturale dato che Siracusa, la maggior rivale, era impegnata nell’assedio.

Ad Atene venne a mancare, inoltre, la credibilità, nonché la sua fama di protettrice delle città della Ionia che Atene aveva affrancato al termine della seconda guerra persiana. Sfruttando il momento di debolezza, i re persiani ebbero l’occasione per riannettere le città finanziando, su proposta di Tissaferne, la rivale di Atene, Sparta. Le attese persiane non vennero deluse, infatti molte delle città ioniche optarono per un’alleanza con Sparta, considerando imminente la vittoria di quest’ultima su Atene. Ancora prima dell’annuncio del fallimento della spedizione ateniese, non mancarono casi di defezione dalla lega delio-attica, prima da parte dell’Eubea e poi da altre isole come quella di Lesbo.

La disfatta ateniese rappresentò una grande perdita per le casse della lega delio-attica, determinando tra i membri una catena di ribellioni. Si può certamente dire che la disfatta ateniese fu l’inizio di un processo che si concluderà nel 411 a.C., col colpo di Stato oligarchico, in seguito alla decisione dei democratici di utilizzare il tesoro di 1 000 talenti di Pericle per il riarmo.In Sicilia invece nel 412 a.C. salirà al potere Diocle che attuerà alcune riforme tese a eguagliare la costituzione di Siracusa a quella di Atene, approvando, per esempio, l’elezione a sorte dei magistrati. Nel 409 a.C. i Cartaginesi inizieranno nell’isola una nuova campagna, dopo più di 70 anni dall’ultima, che darà l’opportunità a Dionisio (406/5 a.C.) di emergere come tiranno a Siracusa

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Published on December 20, 2021 11:35

December 19, 2021

Le mura di Akragas

Ardus inde Acragas ostentat maxima longe. Moenia,magnanimum quondum generator equorum…

Così Virgilio ricorda l’impressione che avevano i viaggiatori delle mura di Akragas, che correva lungo il contorno roccioso dell’altopiano per un perimetro di circa 12 km, si impone per chiarezza di tracciato e per unità di concezione tecnica, risultando in parte tagliata nella roccia erta, in parte con strutture riportate. Salvo alcuni interventi di epoca più tarda, riconducibili probabilmente alla ricostruzione timoleontea del IV secolo a. C., la sua datazione si pone pressoché unitariamente nel corso del VI secolo, già forse sin dall’epoca della tirannide di Falaride.

In questo sistema difensivo di potenziamento di un assetto naturale le due colline della Rupe Atenea e di Girgenti costituiscono il caposaldo difensivo settentrionale a cui si appoggiano i lati orientali e occidentali di un quadrilatero (definiti rispettivamente dai valloni dei fiumi Akragas, oggi San Biagio, e Hypsas, oggi Drago), chiuso a sud dalla bassa Collina dei Templi che rappresentava il punto più debole e di più facile accesso

Nel muro si aprono varie porte (ne sono state riconosciute nove), sempre in corrispondenza di un valloncello o di una depressione naturale. Di particolare consistenza monumentale e di interesse strategico sono: le porte I e II, sul lato orientale, a sud della Rupe Atenea. Della Porta I ubicata in corrispondenza del vasto vallone che attraversa il costone di roccia per risalire in direzione della città, rimangono pochi avanzi; poco oltre si incontrano i resti del cosidddetto baluardo a tenaglia, importante opera eretta nel punto di massima debolezza dell’intero sistema difensivo.

L’opera è costituita da due settori di muro (dei quali uno conservato per una lunghezza di m 55) che incontrandosi ad angolo acuto formano una sorta di cuneo con spigolo rivolto verso la città e protetto all’esterno da un robusto torrione di dimensione 8,30X6,80 m, del quale restano alcuni filari.

La porta II, della di Gela, è situata in un taglio naturale del costone roccioso e sfrutta sapientemente una lunga infossatura nella roccia le cui pareti, tagliate a perpendicolo, furono adattate e completate con opere murarie; era attraversata da una strada (si conservano per un tratto le carreggiate parallele) che dal sottostante vallone penetrava in città per riconnettersi con l’importante arteria Est-Ovest (plateia) che attraversando
l’abitato giungeva alla Porta V e che forse si innestava sull’arteria di collegamento della città con Gela.

Lungo i margini delle pareti della trincea naturale furono eretti i muri di difesa, quello Sud con torrione. Sulle pareti rocciose che costeggiano la strada greca, sono ricavate numerose nicchiette (per l’inserimento di pinakes votivi) relative ad un santuario rupestre cui riportano anche numerose fossette sul banco di roccia sottostante e un piccolo recinto quadrangolare.

Adiacente a tale porta, vi era un quartiere di abitazioni del quale è stato scavato parte di un isolato disposto in senso Nord/Est-Sud/Ovest largo m 35 (non definito ancora allo stato delle ricerche nella sua lunghezza), delimitato a Nord-Est e a Sud-Ovest da due arterie del tracciato viario urbano (stenopoi); il quartiere risulta perfettamente inserito nella maglia urbanistica della città e presenta una connotazione di tipo artigianale, come dimostra il ritrovamento di quantità di oggetti fittili di fabbrica locale, di pani di argilla cruda, di scarti di fornaci, matrici, anfore e grandi contenitori, nonché la presenza di numerosi pozzi e cisterne in un’area limitata.

L’isolato, disposto su due terrazzi di quota differente, risulta diviso in senso longitudinale da un ambitus con funzioni, tra l’altro, di raccordo del dislivello tra i due terrazzi. La metà settentrionale dell’isolato è la meglio conservata: vi si riconoscono quattro nuclei di abitazioni e alcune aree libere di pertinenza delle case attigue. La ripartizione degli spazi è riconducibile a due serie di lotti identici alternati lungo l’asse longitudinale: tre rettangolari (m 9,50×17,50) e quattro a pianta quadrangolare, mentre un elemento comune nello schema planimetrico delle case esplorate è costituito dalla presenza di un cortile a L non in posizione centrale, bensì periferica lungo il lato meridionale.

Due le fasi riconosciute: una di V sec. a.C., relativa al primo impianto (muri tagliati nel banco di roccia sui quali si impostano le strutture della fase successiva), l’altra di IV secolo a.C., quando una profonda ristrutturazione interessò l’intero isolato pur nel rispetto del generale schema planimetrico. L’ultima fase di vita si colloca tra la fine del IV e i primi decenni del III secolo a.C. La tecnica costruttiva dei muri a “pseudo telaio”(così detta per l’inserimemento nei muri di grossi blocchi posti a coltello), distintiva dell’edilizia punica (essa è nota in Sicilia a Mozia, Lilibeo, Selinunte), ha indotto ad ipotizzare che questo settore dell’abitato, sorto sull’impianto classico distrutto nel 406 a.C., sia da ricollegare con l’occupazione punica della città.

La Porta IV (che oggi si chiama, per lunga tradizione risalente ai Bizantini, Porta Aurea), ora irriconoscibile nella configurazione monumentale, ma egualmente rilevabile nel profondo taglio artificiale, era forse la più importante e frequentata della città: attraverso di essa passava la via che collegava la città con l’emporio alla foce del fiume, così come oggi vi passa la strada che porta alla marina.

La Porta V costituisce il tratto monumentalmente meglio conservato del lato meridionale delle mura ed esalta il tipo dell’apprestamento difensivo, comune alle altre porte e che qui si pronunzia sulla destra, in un possente rientrante obliquo, esteso frontalmente per 25 m, lungo il quale corre la strada che penetra nel Santuario delle divinità ctonie e si collega alla grande arteria est- ovest che margina a nord il santuario medesimo e quello di Zeus.

La Porta VI, ad ovest del Tempio di Vulcano, da cui usciva la strada per Eraclea, sul corso del fiume Drago, sbarrava una valletta naturale con apprestamento difensivo non dissimile dalla Porta V; e la Porta VII, più a nord, rinforzata a valle, a circa 120 m, da un possente baluardo di dimensioni eccezionali ( 15,20 X 12,60 m) collegato al complesso fortificato, costituiva il primo sbarramento di una strada, che in questo punto saliva dal vallone e correva a mezza costa del pendio.

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Published on December 19, 2021 03:04

December 18, 2021

La Casa Professa (Parte II)

In un lampo al Principe apparí l’immagine di Mariannina con la testa affondata nel guanciale. Alzò seccamente la voce: “Domenico” disse a un servitore “vai a dire a don Antonio di attaccare i bai al coupé; scendo a Palermo subito dopo cena.” Guardando gli occhi della moglie che si erano fatti vitrei si pentí di quanto aveva ordinato, ma poiché era impensabile il ritiro di una disposizione già data, insistette, unendo anzi la beffa alla crudeltà: “Padre Pirrone, venga con me; saremo di ritorno alle undici; potrà passare due ore a Casa Professa con i suoi amici.”

Andare a Palermo la sera, ed in quei tempi di disordini, appariva manifestamente senza scopo, se si eccettuasse quello di una avventura galante di basso rango; il prendere poi come compagno l’ecclesiastico di casa era offensiva prepotenza. Almeno padre Pirrone lo sentí cosí, e se ne offese; ma naturalmente, cedette.

L’ultima nespola era stata appena ingoiata che già si sentiva il rotolare della vettura sotto l’androne; mentre in sala un cameriere porgeva la tuba a don Fabrizio e il tricorno al gesuita, la Principessa ormai con le lacrime agli occhi, fece un ultimo tentativo, quanto mai vano: “Ma, Fabrizio, di questi tempi… con le strade piene di soldati, piene di malandrini… può succedere un guaio.” Lui ridacchiò. “Sciocchezze, Stella, sciocchezze; cosa vuoi che succeda; mi conoscono tutti: uomini alti una canna ce ne sono pochi a Palermo. Addio.” E baciò frettolosamente la fronte ancor liscia della principessa che era al livello del suo mento. Però, sia che l’odore della pelle della Principessa avesse richiamato teneri ricordi, sia che dietro di lui il passo penitenziale di padre Pirrone avesse evocato ammonimenti pii, quando giunse dinanzi al coupé si trovò di nuovo sul punto di disdire la gita. In quel momento, mentre apriva la bocca per dire di rientrare in scuderia, un grido subitaneo: “Fabrizio, Fabrizio mio!” giunse dalla finestra di sopra, seguito da strida acutissime. La principessa aveva una delle sue crisi isteriche. “Avanti” disse al cocchiere, che se ne stava a cassetta con la frusta diagonale sul ventre. “Avanti, andiamo a Palermo a lasciare il Reverendo a Casa Professa.” E sbatté lo sportello prima che il cameriere potesse chiuderlo.

E’ un brano di quello splendido romanzo, ultimamente però sempre meno letto, che è il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, in cui si cita la Casa Professa, di cui ho raccontato la storia la scorsa settimana la storia. Oggi è il turno di una visita virtuale a questa meravigliosa chiesa. La facciata rivolta a nord nella parte centrale è caratterizzata da un doppio ordine di lesene binate sovrapposte di colore scuro che esaltano il senso di profondità creato dal rilievo prospettico. Semplici lesene delimitano nel primo ordine gli ingressi minori sormontati da nicchie. I due ordini sono raccordati da volute con riccioli verso il basso. Chiude il frontone costituito da timpano ad archi spezzati sovrapposti e fregio centrale con cristogramma retto da volute in rilievo.

Il portale principale è costituito da colonne con capitelli corinzi sormontati da timpano spezzato ad archi sovrapposti, nella nicchia intermedia è collocata l’espressiva Madonna della Grotta, sul cartiglio la dicitura “JESUS VOCATVM EST NOMEN EIUS”.

Il complesso prospettico è arricchito da statue raffiguranti santi della Compagnia di Gesù. Sul lato destro San Francesco Saverio collocato sul portale, San Francesco Regis, che convertì numerosi ugonotti in Francia, sul vertice, San Giacomo Kisai in secondo piano e San Giovanni Soan di Gotò sul cornicione laterale, entrambi martiri in Giappone, vittime delle persecuzioni anti cristiane dello shogun Tokugawa. Le statue delle nicchie sul lato sinistro raffigurano Sant’Ignazio di Loyola collocato sul portale, San Francesco Borgia sul vertice, San Paolo Miki, sempre martire giapponese, in secondo piano e San Francesco de Geronimo, l’apostolo dei bassi napoletani, sul cornicione laterale. Insomma, il tutto è diventato una sintetica celebrazione dei modelli di Santità dei Gesuiti.

Nella controfacciata fiancheggiano il portale due altorilievi o teatrini di Gioacchino Vitagliano, cognato di Giacomo Serpotta e scultore della fontana de Garraffo a Piazza Marina, coadiuvato dal discepolo Ignazio Marabitti, il principale scultore rococò sicliano, raffiguranti Gesù e la Samaritana e Gesù ridà la vista al cieco. Nel vestibolo sono collocate le statue di Giaele, Giuditta e Oloferne, Rebecca, Giacobbe e Esaù, Ruth.

L’inusuale timpano spezzato (sezione tronco sferica intersecata da archi ortogonali) del portale d’ingresso che immette alla navata principale è arricchito con pregevoli opere di Ignazio Marabitti: il Cristo fanciullo e Putti su nimbi posti sotto la piccola volta, le sime arricchite da angeli con ali spiegate, l’intero manufatto sormontato da monumentale cartiglio e stemma con cristogramma IHS, in alto la finestra con vetrata dedicata a Maria diametralmente opposta a quella di Gesù posta nell’abside.

L’addobbo interno – “le cui pareti sono coperte da marmi, da tarsie, da statue e da arabeschi senza fine, che debbono aver costata immensa copia di danaro agli ambiziosi Lojolei (da Ignazio di Lojola) i quali ogn’altro tempio vollero mai sempre offuscare nella città colle loro magnifiche chiese” (C. Castone, Viaggio della Sicilia, 1793) – costituisce un importante esempio di fusione tra architettura, pittura e decorazione plastica. Particolarmente vivace è la decorazione a mischio, cioè a tarsie marmoree pregiate, composte a motivi floreali o figurati. Nel romanzo Il Gattopardo viene ricordata una visita a Casa Professa di don Pirrone, il prete di casa Lampedusa, durante una passeggiata esempina in carrozza del Principe.

Riguardo alla decorazione a marmo mischio dell’abside di Casa Professa, “rappresenta indubbiamente l’apporto più significativo e originale della cultura artistica siciliana alla civiltà del barocco europeo; integrazione dinamica tra architettura, scultura e pittura, secondo la prassi e l’estetica secentesche, animazione ipertrofica di colori e immagini (“in guisa che senza pennello sembra opera di pennello” scrive il Mongitore). Addobbo teatrale articolato attraverso ricchi e complessi sistemi concettuali, la decorazione a mischio e a tramischio (con parti a rilievo) è anche il genere dove con maggiore chiarezza si coglie il carattere distintivo del barocco siciliano: una collaborazione tra architettie scultori, marmorari e pittori che spesso stabilisce confini assai labili tra le diverse categorie d’artigiani, e che anzi su questa ininterrotta continuità di mestieri fonda la dimensione trionfante del grande cantiere della Esempio barocca, dalla seconda metà del Seicento ai primi decenni del Settecento.

Un’attività così intensa e prolungata esigeva la specializzazione d’intere botteghe spesso a conduzione familiare, e un’organizzazione del lavoro dove il programma concettuale fosse affidato, con una distinzione menzionata nei documenti, a marmorari, a scultori e architetti. Ma aldilà dell’animazione brulicante e della ripetizione a moduli verticali derivata dalle grottesche rinascimentali e manieriste, la decorazione a mischio trovava, proprio nella composizione simbolica e dottrinale, la propria unità e il controllo di una vasta iconografia che recepiva ed elaborava un repertorio a cui l’ordine dei Gesuiti aveva dato, lungo tutto il Seicento, un contributo fondamentale recuperando il valore didascalico di molte figure ed episodi dell’arte medievale ed elaborando i modelli proposti da Ripa nella sua Iconologia. La chiesa dei Gesuiti di Casa Professa rappresenta in questo senso l’esempio più complesso e grandioso, il più unitario nella volontà di sottoporre l’intera decorazione a mischio, gli scultori e gli architetti che negli stessi anni prestavano la loro opera ad altre chiese e cappelle, sono chiamati ad approntare il ripetitivo ma variegato repertorio d’immagini ed ornamenti all’esaltazione dottrinale e a ribadire la potenza dell’ordine”.

Entrando subito a destra si trova la Cappella delle SS. Vergini, in essa troviamo affreschi attribuiti a Gaspare Bazano e il magnifico altare sulla quale troneggia la statua dell’angelo custode. La seconda, quella dei SS. Confessori (ora Madonna di Pompei), dove al centro si trova un’imponente pala d’altare che raffigura i tre Santi Martiri Giapponesi del 1629, conserva alle pareti laterali, due quadri del pittore monrealese Pietro Novelli: a sinistra S. Paolo Eremita (a sinistra del quadro l’autoritratto dell’autore) e a destra S. Filippo d’Agira nell’atto di guarire un ossesso. Seguono la cappella dedicata ai SS. Martiri con opere di Francesco Spatafora e affreschi di Antonino Grano.

Proseguendo sempre sul lato destro della chiesa si incontra la cappella della Madonna. Sullo sfondo, nell’altare, una statua gaginesca della Madonna di Trapani. Ai lati dell’altare possiamo ammirare dei marmi mischi a rilievo che raffigurano due serie di false prospettive di colonne tortili attribuite allo scultore toscano Camillo Camilliani.Arrivati al transetto sempre sulla destra troviamo la Cappella di S. Francesco Saverio dove al centro, nell’altare, si trova il quadro del Santo gesuita opera di Federico Spoltore che sostituisce l’originario distrutto dai bombardamenti del 1943, opera di Pietro d’Asaro detto il monocolo di Racalmuto.

L’ultima sulla destra è la cappella di S. Luigi Gonzaga con il suo magnifico altare dove fa bella mostra un bellissimo altorilievo del Santo in gloria, pregevole opera di Ignazio Marabitti. In questo altare sono presenti alcuni elementi marmorei dell’altare che custodiva il famoso quadro di Raffaello “lo Spasimo di Sicilia” opera di Antonello Gagini. L’absidiola di destra è la cappella della Sacra Famiglia, particolarmente bella con un bel dipinto di A.no Grano che raffigura la Sacra Famiglia al centro dell’altare circondato da stucchi di Procopio Serpotta. Di grande pregio artistico il paliotto ad intarsio marmoreo policromo di questo altare, raffinata opera di oreficeria marmorea realizzata da marmorari locali.

Il presbiterio è una spettacolare macchina teatrale barocca: uno stupendo scenario di allegorie volte a rappresentare, attraverso un complesso discorso teologico, la glorificazione del Nome di Gesù. Tutto il fondo dell’abside è consacrato all’incarnazione del Verbo del SS. Sacramento. Particolare menzione meritano i gruppi marmorei del nicchione centrale, quello di Abigal e David e quello di Achimelech e David realizzati da Gioacchino Vitagliano probabilmente su disegni di Giacomo Serpotta. Ai lati dell’altare maggiore sulle due cantorie è collocato un prezioso organo a canne, a trasmissione elettrica, costruito nel 1952 dalla ditta organaria di Crema Tamburini, considerato tra i più interessanti esistenti a Palermo.

Sul lato sinistro, a cominciare dall’ingresso, troviamo la Cappella di S. Rosalia, sull’altare un quadro raffigurante la Santa Patrona di Palermo ritratta come da tradizione con le vesti simili a quelle delle monache basiliane, riproduzione di un quadro portato in processione in occasione della peste del 1624 rifatto da Vito D’Anna nel 1745. I grandi affreschi delle pareti sono dello stesso D’Anna mentre quelli della volta sono di Antonino Grano. La seconda di sinistra è la Cappella dell’Immacolata e di S.Francesco Borgia: il quadro del Santo genuflesso davanti all’Immacolata è opera di Rosalia Novelli.

A seguire troviamo la Cappella dei SS.Martiri giapponesi (ora Sacro Cuore di Gesù), la più esuberante e ricca di decorazioni a pietre mischie. Il quadro del Sacro Cuore di Gesù posto al centro dell’altare è della pittrice palermitana Maria Salmeri Lojacono del 1965. La successiva, la Cappella del Crocifisso, custodisce un magnifico crocifisso ligneo su uno splendido reliquiario dorato. Alle pareti vi troviamo affreschi raffiguranti la Crocifissione, l’Invenzione della Croce, la Deposizione e l’Esaltazione della Croce mentre nel soffitto è raffigurato il trionfo della Croce, opere del gesuita Orazio Ferraro.

Nel transetto di sinistra la cappella dedicata a S. Ignazio di Loyola, dove al centro dell’altare possiamo ammirare l’imponente statua di S. Ignazio che trionfa sull’eresia di Giovanni Maria Benzoni (copia di quella esistente nella basilica di S. Pietro a Roma).
A sinistra del presbiterio la Cappella di S. Anna, dopo quella del presbiterio forse la più bella della chiesa. Nell’altare il dipinto della Santa genitrice della Madonna. Posti dentro le nicchie delle pareti si trovano dei gruppi scultorei che rappresentano a sinistra S. Gioacchino e S. Anna che ringraziano l’Eterno Padre per la fecondità concessa e a destra la Vergine bambina tra i genitori. Gli affreschi della cupola sono di Pietro Novelli.

Sul fianco a sinistra dell’abside è ubicato il chiostro quadrato lievemente sfalsato sull’asse N – S confinante con l’aggregato della chiesa di Sant’Orsola dei Negri e la chiesa dei Santi Quaranta Martiri Pisani al Casalotto. I porticati sono costituiti da 12 campate, il cortile è ripartito in 9 quadranti, mentre all’esterno sul fianco destro a ridosso del braccio del transetto è ubicato il chiostro quadrato. I porticati sono costituiti da 5 campate, il cortile presenta una pavimentazione con motivi geometrici.

La nostra visita continua nei locali adiacenti alla chiesa: concepita come una cappella, la sacrestia monumentale conserva al suo interno una pregevole armadiatura lignea finemente intagliata, realizzata tra il 1621 e 1634 ad opera del gesuita Giovanni Paolo Taurino. Nella parete di fondo, sopra l’altare si trova un monumentale reliquiario sul quale poggia l’imponente Crocifisso di chiara matrice seicentesca.

La magnificenza propria dell’Ordine è ravvisabile visitando il Museo che custodisce opere artistiche e manufatti artigianali di inestimabile valore. L’area d’esposizione, estesa su due livelli, si articola in alcune sale tematiche. La Sala I è la Sala dei Paliotti in cui si custodiscono alcuni originali paliotti di epoca barocca a tema figurato ed architettonico. Tra di essi emergono, per eleganza e raffinatezza esecutiva, quelli impreziositi da grani di corallo e fili d’oro e quello con l’imponente “Trionfo della Fede su un carro trainato dai quattro Evangelisti e dai Santi Ignazio e Francesco Xavier” della prima metà del XVII sec. Nella stessa sala si può ammirare lo splendido capezzale di S. Rosalia della prima metà del Seicento, realizzato in corallo, rame dorato e smalti ed l’ottocentesco Fercolo processionale con la statua di Sant’Ignazio da Loyola, del fondatore della Compagnia di Gesù. La Sala II è denominata Sala del Crocifisso presenta, entrando sulla destra, alcuni elementi architettonici di quella che era la chiesa medievale dei Santi Cosma e Damiano, demolita per la costruzione del Complesso gesuita. All’interno, la sala contiene varie opere della spiritualità gesuitica, busti-reliquiario ed altri manufatti di scuola trapanese ed uno splendido crocifisso ligneo. La Sala III detta “La Farina” espone una selezione di maioliche appartenenti alla donazione La Farina ed alcune opere pittoriche tra cui in paesaggio ottocentesco di Francesco Lojacono. Al primo piano si trova la Sala IV “La Nuza” ed ospita una raccolta di dipinti dalla fine del XV al XIX sec. ed il dipinto con il bozzetto dell’antico affresco della volta della Chiesa del Gesù “La Gloria di S.Ignazio da Loyla e della Compagnia del Gesù” del pittore Filippo Randazzo. All’interno delle teche sono esposti importanti suppellettili liturgiche del Seicento e del Settecento.

Dall’area museale al piano terra si accede, scendendo una breve rampa ad un antro sotterraneo che immette alla desueta area di sepoltura riservata ai padri gesuiti. Il luogo è identificato anche con il nome di Antro di S. Calogero in riferimento all’antica chiesa ipogea di “S. Calogero in Thermis” che secondo la tradizione , era dimora e luogo di preghiera del Beato Calogero vissuto a Palermo nel IV sec. d.C. La Cripta si articola in due vani irregolari a pianta quadrangolare scavati interamente nella roccia; il primo vano ospita due altari mentre il secondo vano, con copertura a volta, presenta sulle pareti alcune nicchie semicircolari e da tracce di pittura parietale affiora l’effige della Vergine con il Bambino. Addossati alle pareti si trovano i colatoi originariamente chiusi da lastre d’ardesia in cui andavano deposti i resti mortali dei confratelli, fintanto non avessero subito il lento processo di essiccamento.

La visita virtuale termina con l’ Oratorio del Sabato, che prende il nome dall’ultima congregazione a cui viene affidato, quella della Croce e Martorio di Cristo che in tale giorno settimanale si riuniva, ma la sua fondazione si deve alla congregazione degli Artisti sotto il titolo della Purificazione della Vergine che vi si trasferisce nel 1686. Nello stesso anno, la cappella però passa alla congregazione dei Gentiluomini o Corteggiani, fondata da padre Luigi La Nuza con il nome di Venerabile Congregazione di San Francesco Borgia sotto il titolo di Nostra Signora della Concezione. Nel 1693 i Gentiluomini commissionano al giovane Procopio Serpotta, figlio di Giacomo, la decorazione della cappella come riportato negli archivi dei Gesuiti. Dopo l’espulsione dei Gesuiti nel 1767 che porta all’espropriazione dei loro beni, l’Oratorio viene affidato al Senato palermitano , ma questi preferì restituirlo in cambio di altri due Oratori. Nei primi dell’Ottocento, ritornando i Gesuiti a Palermo, l’oratorio viene affidato ad un’ultima congregazione, quella della Croce e Martorio di Cristo o del Sabato. Nel corso del Novecento viene restituito ai Padri Gesuiti, affronta diversi restauri ed entra nel 2009 nel percorso museale del Complesso del Gesù di Casa Professa. L’Oratorio, ad aula unica e rettangolare, presenta le pareti ornate da Allegorie ovvero statue in stucco ispirate alle Virtù affiancate a cornici dove erano alloggiate le tele raffiguranti eroine bibliche, probabilmente trafugate dopo l’allontanamento del 1767 dei Gesuiti. Sul tetto e lungo le pareti un tripudio di putti ed angeli in stucco incorniciano gli affreschi e contornano i tondi. L’altare in marmo policromo custodisce il tabernacolo ed è sovrastato da un dossale in legno dorato, con anteposto un crocifisso ligneo dei primi del Seicento . Nel sottocoro una piccola tela con S. Anna e la Vergine del XVIII secolo. Sulla volta, lo splendido affresco dell’Incoronazione della Vergine, mirabile opera pittorica settecentesca attribuita al pittore siciliano Filippo Randazzo. Il pavimento in marmo del 1908 sostituisce uno precedente in maioliche a figure zoo-fitomorfe dei primi del settecento; rimosso e trafugato è stato successivamente recuperato ed oggi è esposto per parti e montato su pannelli a quadroni, nella sala antistante l’Oratorio.

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Published on December 18, 2021 04:53

December 17, 2021

L’ambiguità del significante

Le opere di Giorgione, dopo avere frequentato la corte di Caterina Corner, hanno una caratteristica ben specifica: sono rivolte a un pubblico ricco, ridotto e selezionato, che apprezza i giochi colti di citazioni e i rebus, nascondendo dietro a immagini semplici una pluralità di significati. Pubblico colto, che però scompare dopo i primi decenni del Cinquecento, anche perchè la sua religiosità, ai suoi tempi perfettamente accettabile, in seguito può essere interpretata anche come eterodossa: scomparendo questo, si perdono le relative chiavi interpretative, per cui, quadri che all’epoca i fruitori ritenevano perfettamente comprensibili, oggi ci sconcertano per l’ambiguità del loro significato.

Uno dei primi esempi di opera giorgionesca che fa impazzire gli storici dell’arte è conservata a Londra, alla National Gallery, un olio su tavola di dimensioni abbastanza contenute, 59,7×48,9 cm, che a seconda del titolo con cui viene tramandato dai cronisti del Seicento, può assumere due significati totalmente opposti.

Cosa rappresenta il quadro ? Con uno schema non molto dissimile dal Giudizio di Salomone degli Uffizi, si vede un personaggio su un trono con baldacchino all’estrema destra, al quale rendono omaggio un uomo inginocchiato e un paggetto, mentre un suonatore di liuto, espunto dagli angeli musicanti delle pale d’altare di Giovanni Bellini, sta seduto su un gradino e, guardando verso lo spettatore, allieta la scena con un po’ di musica. Sempre sui gradini, sono presenti, senza ordine apparente, alcuni libri.

La maggior parte del dipinto è comunque occupata da una vasto paesaggio con una rupe e delle boscaglie facenti da quinte, tra le quali si apre una veduta lontana di castelli, città arroccate e montagne che si perdono all’orizzonte. Ben in evidenza si trovano alcuni animali simbolici, il cui significato non è stato tuttavia ancora decifrato con certezza: un leopardo, un pavone, una famiglia di cervi e un uccellino. Questi animali, dalla pesante linea di contorno e dallo stile appiattito, di ascendenza arcaica, potrebbero essere stati aggiunti in una fase successiva, da un altro pittore, della cerchia del Carpaccio. Nella rupe si vede anche un eremita in una grotta, altro personaggio simbolico, che richiama invece le opere di Bosch, di cui, in qualche modo, Giorgione doveva avere conoscenza.

Quale è il significato ? Come dicevo, l’intepretazione è legata al titolo che preferiamo associargli. Se lo identifichiamo con il dipinto descritto nell’inventario del 1603 della collezione del cardinale Pietro Aldobrandini a Roma come

un quadro su tavola con un poeta coronato di alloro con altre tre figure, una tigre e un pavone, alto due mani e mezzo da la cerchia di Raffaello d’Urbino

allora è un esaltazione della Poesia e delle Arti Liberali e in qualche modo collegato con la figura di Pietro Bembo, che ricordiamolo, aveva ambientato il suo dialogo sull’Amore, gli Asolani, nella stessa corte frequentata da Giorgione. Bembo, penso lo sappiano tutti, è il tizio che di fatto ha imbalsamato la lingua italiana, congelandone la sua evoluzione sino al 1900. L’idea fondamentale di Bembo era che la lingua da proporre fosse una lingua destinata ai posteri, e quindi non doveva riflettere il parlato corrente, cioè la lingua viva di quel periodo, ma che dovesse essere atemporale, rispondendo a dei modelli astratti di perfezione, ossia Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa.

Bembo, in particolare, lavorò per circa un trentennio sull’opera e sulla lingua di Petrarca; i momenti principali di questo lavoro sono sintetizzabili in tre fasi. Dapprima studiò un autografo del Canzoniere, al fine di curarne la pubblicazione presso l’editore Aldo Manuzio. Si tratta di un’edizione pubblicata nel 1501, in un formato‘tascabile’ che permise la diffusione e la conoscenza dell’opera anche al di fuori delle istituzioni culturali tradizionali (accademie e corti) che erano i normali centri di raccolta dei libri, oggetti a quell’epoca assai preziosi.

Dopo un ventennio di circolazione e progressiva diffusione dell’opera, nel 1525 avvenne la pubblicazione delle Prose, contenenti le sue riflessioni sulla questione della Lingua. Le Prose rappresentarono, dunque, un terminus post quem: divenne impossibile, per chi volesse scrivere lirica d’amore in volgare italiano, sottrarsi al modello petrarchesco. Nel 1530, infine, Bembo pubblicò la sua raccolta di Rime, ben diversa come
impostazione dal Canzoniere, ma di fatto il primo vero esempio di petrarchismo ‘regolato’, per usare la definizione di Marco Santagata, una sorta di prontuario e di modello concreto per il poeta. Se la raccolta spazia come temi, argomenti e situazioni in ambiti diversi, senza mai raggiungere il livello di drammaticità toccato dall’anima dolente di Petrarca, dal punto di vista stilistico si tratta di un insieme molto compatto, in cui l’autore si cimenta in prima persona con le caratteristiche peculiari dello stile petrarchesco, da lui considerato come oggetto d’imitazione al pari di un classico.

Perchè questa fissazione da parte di Bembo ? Perchè è conseguenza del suo Platonismo: come la Realtà contingente, per il filosofo greco, era uno specchio distorto dell’ Iperuranio, il piano metafisico, aspaziale e atemporale, in cui esistono le Idee, i concetti astratti, cosi la Poesia doveva rispettare un modello ideale.

Modello ideale, fissato in Petrarca, accessibile solo tramite l’Amore che si risolve nel desiderio e nella contemplazione di una bellezza tutta ideale. Il vero amore deve tendere alla perfezione; in questo senso

bisogna evitare gli inutili amori mondani per cercare una felicità e una serenità immutabili, che soltanto l’amore più alto può dare, cioè quello divino

Così, il quadro è anche una rappresentazione, in nuce, di tali concetti: il poeta sul trono è l’idea stessa della Poesia, a cui possiamo avvicinarsi, con la pratica, il liutaio, con la conoscenza contenuta nei trattati, con l’esperienza concreta del Mondo, ma che non possiamo mai raggiungere, data la sua dimensione di ideale.

L’altro titolo, riportato da Michiel, Saturno in Esilio, richiama un universo spirituale totalmente differente, quello del mito classico. Crono, Saturno dei Greci era divenuto Sovrano del Cosmo e Signore del Tempo dopo essersi ribellato al padre Urano, il Cielo e avergli tagliato e gettato in mare i genitali. Fu per la profezia che prediceva che sarebbe stato a sua volta soppiantato da uno dei figli che Crono ne divenne il crudele divoratore.

Con Rea aveva avuto diversi figli tra cui Poseidone, Ade, Era, Demetra ed Estia e tutti li aveva ingoiati. Rea era però riuscita con l’inganno a salvare Zeus, l’ultimo nato. Questi, divenuto adulto, fece vomitare a Crono fratelli e sorelle che aveva divorato e dichiarò guerra al padre. Le leggende danno versioni diverse sulla sorte che Zeus fece fare al padre dopo averlo sconfitto. Alcune sostengono che gli fu concesso di regnare nelle isole dei Beati, ai confini del mondo, altre che fu imprigionato in un magico sonno, secondo altre fu incatenato nelle profondità del Tartaro, in attesa di liberarsi e compiere la sua vendetta. I Romani, però, raccontavano il mito in maniera differente: quando il dio fu spodestato dal figlio Giove, fu da questi esiliato in Italia dove fu accolto amichevolmente dal dio Giano. Ebbe una funzione civilizzatrice, infatti insegnò l’agricoltura alle popolazioni del luogo, dando origine all’Età dell’Oro.

Ricordiamo poi, come, secondo la concezione pitagorica, la Storia è ciclica e ciò che è stato sarà di nuovo: per cui il quadro non è solo una celebrazione delle Origini, in confronto al caos del Presente, di una Repubblica di Venezia in crisi politica, economica e sociale, ma anche un invito alla speranza. Giorgione offre una splendida rappresentazione dell’Esilio di Saturno. Privo di ogni oggetto regale, simbolo di status, di prestigio e di potere, Saturno si ritrova immerso nella natura, in mezzo agli animali esotici, metafora di un luogo cerebrale in cui si coltiva l’arte della memoria, della conoscenza dell’anima e delle sue radici istintuali.

Percorso di rinascita che non riguarda solo la Società, ma anche l’individuo: Saturno è anche il dio della Malinconia, a cui si può reagire con la Conoscenza, simboleggiata dai Libri, con l’Arte e con l’accettazione del Sè.

Dato che Saturno è anche associato alla cultura ebraica, che Giorgione aveva studiato a fondo, questo titolo ha portato anche a una chiave intepretativa alternativa: il quadro riguardare anche un argomento particolarmente rilevante nella Venezia dell’epoca ossia il grado di ammissione degli ebrei nella società veneziana. L’alto cappello ai piedi del trono di “Saturno” è tipicamente ebreo, e anche agli ebrei veniva fatto indossare il giallo, il colore di Saturno.

Queste sono solo le interpretazioni principali: ve ne sono decine d’altre, come l’antico filosofo greco Aristotele circondato da emblemi che illustrano i suoi pensieri filosofici; Giasone, l’antico eroe mitologico greco, con i figli Plutone e Filomelo; e l’incisore rinascimentale Girolamo Campagnola con il figlio liutista Giulio.

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Published on December 17, 2021 05:56

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Alessio Brugnoli
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