Atene contro Siracusa Parte XLI

Nonostante la migliore organizzazione da parte di Nicia e il fatto che i suoi soldati si fossero liberati dai bagagli inutili, il grosso problema è che gli Ateniesi procedevano a piedi, mentre i Siracusani potevano sfruttare al meglio la loro cavalleria: Gilippo, nel tentativo di evitare di combattere, fece sapere a Nicia della resa del collega, chiedendo lo stesso comportamento. L’ateniese cercò di trattare: in cambio della possibilità di ritirarsi in santa pace, Atene avrebbe ripagato Siracusa delle spese e dei danni di guerra. A garanzia dell’avvenuto pagamento, sarebbero stati offerti degli ostaggi. Ma sospettosi del fatto che gli Ateniesi ne approfittassero per riprendere le armi, rifiutarono l’accordo.

Ma i Siracusani il mattino seguente lo agguantarono. Fecero subito sapere allo stratego che Demostene con le sue divisioni aveva ceduto le armi con l’invito di imitare anch’egli il collega in quella decisione. Nicia, incredulo, pattuisce l’invio di un proprio uomo a cavallo per sincerarsi. Appena il cavaliere fu di ritorno con l’annuncio che effettivamente Demostene s’era arreso, Nicia per voce di un araldo avvisò Gilippo e i Siracusani d’esser disposto, in nome del popolo ateniese, a stipulare un accordo circa il risarcimento di tutte le spese sostenute da Siracusa per la guerra. Poneva la condizione di lasciar via libera alla propria armata. Finché il denaro del rimborso fosse completamente versato, avrebbe offerto cittadini ateniesi in ostaggio, uno per ogni talento. Ma i Siracusani e Gilippo respinsero la proposta.

Per cui, i Siracusani, contando anche sul fatto che gli Ateniesi, fossero allo stremo per la mancanza di cibo e di acqua, cominciarono ad attaccare i nemici con la solita strategia del mordi e fuggi, con cariche di cavalleria e continui attacchi da lontano da parte dei lanciatori di giavellotti e degli arcieri. Per uscire da questa pessima situazione, gli Ateniesi tentarono una fuga notturna, ma i Siracusani, quando si accorsero delle loro intenzioni, intonarono il canto di guerra, a indicare il prossimo attacco. Questo impaurì gli Ateniesi, che rinunciarono, tranne un contingente di 300 soldati, che sfondarono le linee nemiche, rinunciarono a combattere

Piombando sugli Ateniesi e accerchiandoli, li tempestarono di proiettili da ogni lato, come avevano fatto con gli altri, fino al tramonto. Anche questi reparti erano mal ridotti per la scarsezza di cibo e di ogni altro genere occorrente. Tuttavia, attesa la pausa notturna, si accingevano a rimettersi in marcia. Cinsero le armi, ma i Siracusani compresero l’intenzione e intonarono il peana. Visto che il tentativo di andarsene inosservati era fallito, gli Ateniesi gettarono di nuovo le armi a terra, tranne un gruppo di circa trecento uomini. Costoro, sfondando il cerchio dei presidi scomparvero nella notte gettandosi per la prima via che poterono.

All’alba Nicia tentò di convincere le sue truppe ad avanzare, ma appena si misero in marcia, continuarono a essere infastidite dai Siracusani, con la solita tattica mordi e fuggi. Per cui, decisero di tentare il tutto per tutto, cercando di guadare il fiume Asinaro, nella speranza che la cavalleria nemica non potesse inseguirli e per tentare di sfuggire al caldo e alla sete.

Il fiume Asinaro o Assinaro nasce alle pendici del Monte Mezzo Gregorio (655 m s.l.m.), vicino all’attuale Testa dell’Acqua (tra Palazzolo Acreide e Noto), dove sorge un centro di avvistamento radar congiunto della NATO. Sfocia nel Mar Jonio nella zona di Calabernardo dopo 22 km, e dopo vari ingrottamenti (come del resto l’Anapo ed il Tellaro) in mezzo a splendide zone di macchia mediterranea.

Tuttavia, come suo solito, Nicia perse la testa e si scatenò il caos, anche perchè, un contingente costituito dagli alleati della Lega del Peloponneso e di Akrai aveva occupato l’alta riva del fiume, impedendo il passaggio. Akrai fu la prima colonia di Siracusa, fondata da Corinzi giunti nei territori siciliani;dopo Akrai, sita nei pressi di Pantalica, ci furono Casmene (avamposto militare sul monte Lauro), fondata nel 643 a.C., Akrillai (sulla strada per Gela) e Kamarina, la più lontana delle colonie, fondata nel 598 a.C. Costruita in cima ad un colle, Akrai era difficilmente attaccabile e al tempo stesso costituiva un punto ideale per vigilare sui territori circostanti. Grazie all’importanza della sua posizione strategica, la città si sviluppò fino a raggiungere il massimo splendore sotto il regno di Gerone II

Nel 211 a.C., dopo la caduta di Siracusa, passò a far parte della provincia romana, assumendo il nome latino Acrae; in seguito passò sotto il dominio bizantino fino all’invasione araba. La cittadina fu completamente distrutta dagli Arabi nell’827 e il sito, rimasto abbandonato, pian piano venne ricoperto da terriccio e vegetazione spontanea scomparendo alla vista e venendo dimenticato per quasi otto secoli.

Il primo studioso a individuare il sito della città scomparsa fu nel XVI secolo lo storico siciliano Tommaso Fazello;ma fu il barone Gabriele Iudica,che all’inizio del XIX secolo intraprese i primi scavi archeologici nel sito di Akraie descrisse le sue ricerche nel libro Le antichità di Acre, pubblicato con la data del 1819. Gli scavi successivi della città arcaica hanno riportato alla luce il Teatro, di piccole dimensioni, ma in ottimo stato di conservazione; la scoperta fu annunciata da Gabriele Iudica nel 1824. Sulla parte posteriore sorgono due latomie, cave di pietra, denominate Intagliata e Intagliatella, della metà del IV secolo a.C.. Sul pianoro sopra la latomia dell′Intagliata si trovano i blocchi di base dell′Aphrodision, il Tempio di Afrodite, eretto nel VI secolo a.C.Sul lato occidentale sorge il Bouleuterion, dove il consiglio cittadino si riuniva, scoperto sempre da Iudica nel 1820.Ad est del colle sorgono i Templi Ferali dedicati al culto dei morti.

Appena fu l’alba, Nicia scosse l’esercito: ma i Siracusani furono pronti a soffocarli con la medesima tattica, coprendoli di frecce e giavellotti, con tiro incrociato. Gli Ateniesi accelerarono la corsa verso il fiume Assinaro: da una parte, perché ritenevano che, inchiodati in un cerchio dalle folate aggressive di numerosa cavalleria, e da una folla di altri combattenti, avrebbero forse trovato un po’ di tregua riuscendo a passare il fiume; d’altro canto le sofferenze e il bisogno di lenire la sete s’erano acuiti atrocemente. Appena arrivarono all’acqua vi si gettarono rompendo ormai ogni schieramento: ma l’impazienza, diffusa in tutti, di passar primi e la pressione nemica alle spalle inasprirono di attimo in attimo la fatica del guado. Costretti a penetrare alla rinfusa nella corrente si intralciavano a vicenda perfino calpestandosi: ci fu chi s’abbatté di schianto sul proprio giavellotto, o sulla lama delle altre armi, restando ucciso sul colpo; molti altri, imbrogliati dall’armatura scomparvero nei gorghi.

Sull’opposta riva del fiume (scoscesa a picco) i Siracusani appostati in alto bersagliavano gli Ateniesi, intenti i più a bere avidamente e incapaci di districarsi l’uno dall’altro nel letto incassato dell’Assinaro. Poi i Peloponnesi, calati dall’argine si diedero a sgozzare tutti quelli che si agitavano nel fiume. In breve l’acqua s’intorbidò e si corruppe, ma non venne meno la frenesia di berne, e più d’uno impugnò le armi contro un compagno, per raggiungere un sorso di quell’acqua dal sapore di fango, ed insieme di sangue Infine crebbero nel fiume i cadaveri ammucchiati l’uno sull’altro.

Gli ateniesi, di molto superiori in numero, furono imbottigliati sulle sponde del fiume e, circondati, furono massacrati. Per evitare la disfatta totale, Nicia si arrese a Gilippo, visto che non si fidava dei Siracusani: per cui, lo spartano ordinò di catturare i nemici. Il problema è che le truppe non obbedirono: o continuarono a massacrare gli Ateniesi, oppure, presero come schiavi personali, invece che come prigionieri di guerra gli opliti avversari. Ovviamente, in questo manicomio, parte degli ateniesi riuscirono a darsi alla fuga e rifuggiarsi a Catania

L’annientamento dell’armata proseguiva, ora lungo il fiume, ora per le cariche di cavalleria, pronte a stroncare ogni tentativo di fuga. Finché Nicia si arrese a Gilippo, confidando più in lui che nei Siracusani: lo stratego si consegnava a discrezione a Gilippo e agli Spartani a patto che si interrompesse l’eccidio degli altri suoi uomini. In seguito alla resa, Gilippo comandò di procedere alla cattura dei nemici vivi: tutti quelli rimasti sul posto e che non erano stati nascosti dai Siracusani (furono frequenti i casi simili) vennero raggruppati e condotti in città. Contro i trecento che nel cuore della notte avevano forzato il blocco delle guarnigioni furono lanciati degli inseguitori che li catturarono. Il numero di uomini presi come prigionieri di stato non risultò eccessivo: elevato invece quello dei militari fatti sparire abusivamente, ad opera di privati. La Sicilia ne fu piena, poiché la loro cattura non era avvenuta, come per quelli di Demostene, sotto la garanzia di un accordo. Non poche furono le vittime: poiché questo fu un massacro sanguinoso, più feroce di qualunque altro accaduto in tutto l’arco del conflitto siciliano. Molti erano caduti anche durante le continue incursioni che senza tregua avevano flagellato le colonne in marcia. Ma non fu piccolo anche il numero degli scampati fuggitivi: chi durante la fase stessa della cattura, chi liberandosi dopo un periodo di schiavitù. Punto di raccolta per questi fuggiaschi era Catania

Il problema è che diavolo fare di Demostene e di Nicia: Gilippo che, ricordiamolo, per le vicende paterne era una sorta di paria a Sparta, per riacquisire in minimo di status, voleva portare i due come prigionieri in patria, sia perchè Demostene era il nemico pubblico numero 1 dei Lacedemoni, sia perchè Nicia invece, era visto come un possibile interlocutore per trattare la pace. Il problema è che entrambi avevano avuto contatti sottobanco con Ermocrate, che voleva sfruttare la situazione per prendere il potere nella polis siciliana. Per cui, per farli tacere, furono condannati a morte.

Serrati i ranghi i Siracusani e gli alleati, dopo aver riunito il maggior numero possibile di prigionieri e la più alta quantità di bottino, si ritirarono in città. Tutti gli Ateniesi e gli alleati presi prigionieri finirono sul fondo delle latomie ritenute il carcere più sicuro. Nicia e Demostene, contro il parere di Gilippo, furono suppliziati. Poiché Gilippo contava di suggellare splendidamente la sua vittoria trascinando a Sparta, con le altre spoglie, anche i membri dell’alto comando nemico. La sorte aveva per di più deciso che l’uno – Demostenefigurasse come il più accanito nemico di Sparta, essendo l’autore del disastro di Pilo, e che l’altro, per un motivo che si ricollegava a quell’evento, vi riscuotesse il più acceso favore. Poi ché Nicia si era prodigato a fondo, inducendo gli Ateniesi a trattare la pace, per ottenere la liberazione di quei detenuti spartani. In compenso a Sparta la sua figura era circondata di calda simpatia: e lo stesso Nicia, fidando in questo rapporto di stima, aveva ceduto le armi a Gilippo. Ma, stando almeno alle voci allora in circolazione, un gruppo di Siracusani, preoccupati per essersi compromessi in intese segrete con lui, temevano che sottoposto alla tortura parlasse rovinando loro, con la sua denuncia, il momento più lieto della vittoria; altri, e più insistentemente i Corinzi, nella paura che, ricco com’era, corrompesse con l’oro qualche autorità e fuggendo potesse meditare contro di loro qualche nuovo intralcio, si ostinarono e, indotti gli alleati siracusani, lo fecero condannare a morte. Nicia dunque cadde sotto accuse di questa forza, o molto simili: il più incolpevole tra tutti i Greci, almeno tra quelli del mio tempo, e il meno degno di una così cupa fine, per l’impegno inflessibile riposto nella pratica della virtù, nell’esemplare rispetto della legge

I 7 000 superstiti ateniesi divennero tutti prigionieri nelle latomie, il cui nome deriva dal latino lātomĭae che a sua volta deriva dal greco latomíai composto da lâs, pietra, e tomíai da témnein, tagliare. Nell’antichità greco-romana erano cave di pietra o di marmo usate per incarcerare schiavi, prigionieri di guerra o delinquenti in genere.

Furono probabilmente scavate già dal V secolo a.C., anche se non si hanno informazioni certe, e utilizzate sino all’epoca romana. Sicuramente furono utilizzate per costruire il quartiere della Neapolis e successivamente le mura di fortificazione della città.

Cicerone nelle Verrine parla delle latomie:

Tutti voi avete sentito parlare, e la maggior parte conosce direttamente, le Latomie di Siracusa. Opera grandiosa, magnifica, dei re e dei tiranni, scavata interamente nella roccia ad opera di molti operai, fino a una straordinaria profondità. Non esiste né si può immaginare nulla di così chiuso da ogni parte e sicuro contro ogni tentativo di evasione: se si richiede un luogo pubblico di carcerazione, si ordina di condurre i prigionieri in queste Latomie anche dalle altre città della Sicilia.

Le latomie di Siracusa sono distribuite all’interno del comprensorio aretuseo, poiché in epoca greca vi era l’esigenza di materia prima quale la roccia calcarea, che serviva per la costruzione di templi e monumenti nonché per erigere le mura che difendevano la città. Ippolito di Roma nella Refutatio contra omnes haereses scrive che, per Senofane, “…a Siracusa, nelle latomie, si sono trovate impronte di pesci e di foche”, suggerendo una prima osservazione scientifica sulle caratteristiche geologiche delle rocce calcaree della città.

Sono molte: alcune all’interno del parco della Neapolis, come quelle del “Paradiso”, “Santa Venera” e “Intagliatella”; nei pressi della basilica di San Giovanni Battista quelle “Navantieri”, “Broggi” e del “Casale”; infine, nei pressi del convento dei Cappuccini, l’omonima latomia. Se ne conosce un’altra, più piccola, nei pressi del castello Eurialo, chiamata “Bufalaro” (o “del Filosofo”). Inoltre esistono molte piccole latomie sparse ovunque in città, specie nei pressi delle mura dionigiane.

Nel 1625 Pietro Della Valle visita le latomie lasciandone una delle prime descrizioni del luogo:

«Il giorno andammo a vedere il convento de’ Cappuccini fuor della città, dentro agli orti dei quali si veggono dirupi e concavità profondissime, perché tutto quel terreno, ch’è di pietra, in tempi antichi è stato cavato per cavarne le pietre; e si scorge esservi state tagliate colonne bellissime tutte d’un pezzo, come potrebbono anche cavarsene delle altre; ed in quelle profonde oscure valli delle concavità vi sono nondimeno orti ed alberi piantati che fanno frutti bellissimi, il che mi fece maravigliare, perché alcuni ne vidi in luoghi dove non possono esser mai tocchi dal sole, tanto è profondo il terreno, e tanto strettamente serrato da alte rupi d’ogn’intorno. Queste sono le Lapicidine, dove furono messi prigioni gli Ateniesi che dopo aver perduto molte battaglie in terra ed in mare, si resero finalmente ai Siracusani, come narra Tucidide.»

Dalla seconda metà del Settecento sino alla fine dell’Ottocento Siracusa entrò nel circuito del Grand Tour. I molteplici viaggiatori che si susseguirono lasciavano resoconti estasiati in merito a questo luogo. Patrick Brydone nel XVIII secolo ne fa la seguente descrizione:

«Le latomie formano ora un elegante giardino sprofondato sotto la superficie del terreno e sono senza dubbio uno dei luoghi più belli e romantici che io abbia mai veduto. Si trovano per intero a circa cento piedi sottoterra, e sono incredibilmente vaste. Il giardino è tutto tagliato in una roccia dura come il marmo, composta di un conglomerato di conchiglie, ghiaia ed altro materiale marino. Il fondo dell’immensa cava, da cui fu probabilmente tratta la pietra per costruire quasi tutta Siracusa, è ora ricoperto da un terriccio fertilissimo, e siccome è un luogo assolutamente riparato dal vento, è pieno di ogni sorta di arboscelli e bellissimi alberi da frutto, rigogliosi e imponenti, mai intristiti dalla tempesta. Aranci, limoni, bergamotti, melograni, fichi, eccetera, sono tutti di notevoli dimensioni e di qualità sopraffina. Alcuni di questi alberi, in particolare gli olivi, sorgono dalla viva roccia, senza traccia di terra, ed offrono uno spettacolo insolito e assai gradito all’occhio.»

Tornando a Tucidide, ecco la descrizione che da Tucidide nella prigionia degli Ateniesi

Nelle cave di pietra il trattamento imposto nei primi tempi dai Siracusani fu durissimo: a cielo aperto, stipati in folla tra le pareti a picco di quella cava angusta, in principio i detenuti patirono la sferza del sole bruciante, e della vampa che affannava il respiro. Poi, al contrario, successero le notti autunnali, fredde, che col loro trapasso di clima causavano nuovo sfinimento e più gravi malanni. Per ristrettezza di spazio si vedevano obbligati a soddisfare i propri bisogni in quello stesso fondo di cava: e con i mucchi di cadaveri che crescevano lì presso, gettati alla rinfusa l’uno sull’altro, chi dissanguato dalle piaghe, chi stroncato dagli sbalzi di stagione, chi ucciso da altre simili cause, si diffondeva un puzzo intollerabile. E li affliggeva il tormento della fame e della sete (poiché nei primi otto mesi i Siracusani gettavano loro una cotila d’acqua e due di grano come razione giornaliera a testa). Per concludere, non fu loro concessa tregua da nessuna delle sofferenze cui va incontro gente sepolta in un simile baratro. Per circa settanta giorni penarono in quella calca spaventosa. Poi, escluse le truppe ateniesi, siceliote o italiote che avevano avuto responsabilità diretta nella spedizione, tutti gli altri finirono sul mercato degli schiavi. Il dato preciso sul numero effettivo dei prigionieri è difficile da stabilire con rigore: comunque non fu inferiore a settemila. Questo riuscì l’evento bellico più denso di conseguenze per i Greci, in tutto l’arco della guerra e, almeno secondo il mio giudizio, il più grandioso in assoluto tra i fatti della storia greca registrati dalla tradizione: quello che garantì il maggior trionfo alla potenza vincitrice e inflisse agli sconfitti la ferita più mortale. Disastrose disfatte, su tutti i fronti; tormenti di ogni sorte, acuiti allo spasimo. Fu insomma una distruzione radicale: è proprio questa la parola; e vi scomparve l’esercito, si dissolse la marina, e nulla si riuscì a salvare. E pochi della folla partita un giorno fecero ritorno a casa. Ecco, furono questi gli avvenimenti sul suolo della Sicilia.

Secondo Plutarco, gli Ateniesi inizialmente non credettero al racconto della sconfitta da parte di un forestiero che si pensava volesse mettere in subbuglio la città. Che il popolo ateniese fosse a conoscenza della messa in prigione dei sopravvissuti, ne sono una prova tre diversi e disgiunti frammenti di varie stele: uno ritrovato vicino al teatro di Dioniso, uno sull’Acropoli di Atene e uno a nord dell’agorà,dai quali è possibile ricostruire il testo di un decreto in onore di Epicerde di Cirene (un trierarco?)] datato 405/4 a.C. Oltre alla stele, in Demostene (Contro Leptine, 42) è presente la dedica che il popolo ateniese offrì a Epicerde, che pagò di tasca propria 100 mine per il riscatto di alcuni prigionieri. Sempre Plutarco, racconta un aneddoto secondo cui i prigionieri ateniesi in grado di recitare Euripide venissero rilasciati dai soldati siracusani, segno che il tragediografo greco era molto amato a Siracusa.

L’imponente vittoria fu poi ricordata dai Siracusani, che decretarono il giorno 26 del mese Carneo (gli inizi di settembre del nostro calendario) una celebrazione annua in onore della ricorrenza chiamata Asinaria, A questa festa, attuata dopo l’approvazione del decreto di un certo Euricle, capo dei democratici, seguì probabilmente la coniazione di monete riguardanti la vittoria, c denominata Pentêkontalitra, aratterizzata dalla presenta di Aretusa e di un carro con la testa di Nike in rilievo. Molte di queste, soprattutto quelle di Eveneto, presentano in esergo la scritta ΑΘΛΑ (termine per identificare l’armatura) che potrebbe essere anche un’allusione agli Ateniesi ai quali, secondo Plutarco, i Siracusani dopo la battaglia di Asinaro sottrassero le armature e le «appesero agli alberi più belli e più alti che crescevano lungo il fiume [Assinaro]».

Fu edificato, inoltre, un monumento nei pressi del fiume Asinaro, molto probabilmente da identificarsi con la cosiddetta Colonna Pizzuta, posta nei pressi dell’antica città di Eloro. Nei pressi del monumento, sulla sponda destra dell’Assinaro, sono presenti anche i resti di un secondo edificio di forma quadrata e coperto da una cupola. È possibile che la costruzione fosse una tomba, probabilmente contenente i corpi degli Ateniesi recuperati dopo la prima battaglia del Porto Grande.

La disfatta di Atene ebbe un’enorme eco in patria e in tutta la Grecia, più che nella stessa Sicilia.Atene perse completamente la flotta, la cavalleria fuggita a Catania, e quasi tutti i soldati; in totale circa 160 triremi e 10 000 uomini (fra un terzo e un quarto dei cittadini ateniesi). Le innumerevoli perdite non fecero che aumentare le critiche nei confronti della condotta dei generali, oltre che dei politici e persino degli indovini, responsabili di una sconfitta dalle proporzioni inaccettabili. La prestigiosa città attica aveva profuso un grande impegno nella ricerca della vittoria, dando fondo a molte delle sue risorse, sia in termini di armamento, sia di denaro; risultò quindi quasi necessario trovare dei colpevoli.

Enormi furono le conseguenze politiche di questa disfatta, tra cui la rinuncia di Atene a ulteriori mire espansionistiche nel Mediterraneo lasciando, ad esempio, lo spazio ai Cartaginesi per riprendere le loro conquiste in Sicilia. Anche Agrigento, che restò neutrale, ebbe una grande crescita economica e culturale dato che Siracusa, la maggior rivale, era impegnata nell’assedio.

Ad Atene venne a mancare, inoltre, la credibilità, nonché la sua fama di protettrice delle città della Ionia che Atene aveva affrancato al termine della seconda guerra persiana. Sfruttando il momento di debolezza, i re persiani ebbero l’occasione per riannettere le città finanziando, su proposta di Tissaferne, la rivale di Atene, Sparta. Le attese persiane non vennero deluse, infatti molte delle città ioniche optarono per un’alleanza con Sparta, considerando imminente la vittoria di quest’ultima su Atene. Ancora prima dell’annuncio del fallimento della spedizione ateniese, non mancarono casi di defezione dalla lega delio-attica, prima da parte dell’Eubea e poi da altre isole come quella di Lesbo.

La disfatta ateniese rappresentò una grande perdita per le casse della lega delio-attica, determinando tra i membri una catena di ribellioni. Si può certamente dire che la disfatta ateniese fu l’inizio di un processo che si concluderà nel 411 a.C., col colpo di Stato oligarchico, in seguito alla decisione dei democratici di utilizzare il tesoro di 1 000 talenti di Pericle per il riarmo.In Sicilia invece nel 412 a.C. salirà al potere Diocle che attuerà alcune riforme tese a eguagliare la costituzione di Siracusa a quella di Atene, approvando, per esempio, l’elezione a sorte dei magistrati. Nel 409 a.C. i Cartaginesi inizieranno nell’isola una nuova campagna, dopo più di 70 anni dall’ultima, che darà l’opportunità a Dionisio (406/5 a.C.) di emergere come tiranno a Siracusa

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Published on December 20, 2021 11:35
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Alessio Brugnoli
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