Paola Caridi's Blog, page 124
January 23, 2011
Un mini-stato. Perché no?
Il ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman ha fatto sapere oggi la sua ricetta per risolvere il conflitto insanabile tra israeliani e palestinesi. Uno stato palestinese con confini provvisori, su un territorio che comprende meno della metà della Cisgiordania, ma non Gaza e non Gerusalemme est. E' così che il discusso ministro degli esteri Avigdor Lieberman ha lanciato oggi la sua offensiva diplomatica, facendo filtrare la sua mappa dello stato di Palestina al quotidiano Haaretz.
Il mini-stato comprenderebbe il 42 per cento della Cisgiordania. Solo le cosiddette aree A e B, cioè le città palestinesi e la cintura dei villaggi, ma non – per esempio – la Valle del Giordano, che anche il premier Benjamin Netanyahu considera fondamentale per la sicurezza militare di Israele (lo ha ricordato a tutti noi giornalisti stranieri accreditati appena qualche giorno fa, quando il premierato ha tenuto la sua annuale conferenza stampa: niente precondizioni per tornare al tavolo del negoziato con i palestinesi, ha detto, ma la presenza militare israeliana nella Valle del Giordano non si tocca…).
Dunque nessuna concessione sul territorio da parte di Lieberman, che secondo Haaretz godrebbe dell'appoggio dei ministri che contano nel gabinetto, e nessuna concessione sulle colonie israeliane in Cisgiordania, che rimarrebbero così come sono, sotto il controllo di Tel Aviv. A guardar bene, il piano di Lieberman sembra piuttosto un tentativo di fermare l'offensiva diplomatica palestinese per il riconoscimento di uno Stato sui confini del 1967, che ha già guadagnato il sostegno di molti paesi latinoamericani e che pochissimi giorni fa ha ottenuto anche il sostanziale appoggio della Russia. A complicare la situazione per Israele è arrivata tre giorni fa la decisione dei paesi arabi di depositare all'Onu una risoluzione contro le colonie, su cui sembra esserci già l'appoggio di 100 paesi e sulla quale persino Gran Bretagna e Francia si sono detti possibilisti.
Intanto, una risposta indiretta ad Avigdor Lieberman viene dal premier del governo di Ramallah, Salam Fayyad. "Non ci sarà mai uno stato di Palestina che non sia formato da Gaza, Cisgiordania, e Gerusalemme est", Fayyad aveva detto due giorni fa in un'intervista al Los Angeles Times.
Can you have a state before reuniting?
That's a major problem. Unless we are able to reunite the country, we're not going to be able to have a state. The state we are looking for is a state based on the 1967 borders, including Gaza Strip.
Is it time to start thinking about two Palestinian states and give up on hopes of reuniting Fatah and Hamas?
I'm never going to give up on that. It will never be. I believe there will never be a state of Palestine unless it consists of both Gaza and the West Bank, including East Jerusalem. There will never be a Palestinian state without Gaza.
Del riconoscimento parlano anche Rob Malley e Hussein Agha sul New York Times Review of Boooks. E, come sempre, è un'analisi che vale la pena di leggere. Se ogni tanto l'amministrazione Obama sentisse la voce di chi la situazione sul terreno la conosce bene, forse tanti errori non sarebbero stati compiuti, anche negli ultimi mesi. E forse l'amministrazione Obama non ne compirebbe altri, per esempio nel vicino Libano.
Ecco qualche riga di Malley e Agha:
Palestinians have looked for other nonviolent options. It's a curious list: unilaterally declaring statehood, obtaining UN recognition, dissolving the PA, or walking away from the idea of negotiated partition altogether and calling for a single, binational state. Not one of these ideas has been well thought out, debated, or genuinely considered as a strategic choice, which, of course, is not their point. They are essentially attempts to show that Palestinians have alternatives to negotiation with Israel even as the proposals' lack of seriousness demonstrably establishes that they currently have none.
Of these suggestions, arguably the most promising is to seek international acceptance of a Palestinian state on the 1967 borders. In the past few months, several countries have recognized such a state and others may follow. The trend is causing Palestinians to rejoice and Israelis to protest, which only makes Palestinians rejoice all the more. Further recognition almost certainly, and understandably, would be seen as a significant achievement and boost Palestinian morale. Should European nations join the list, it could possibly provide the jolt that will force Israelis to reconsider their options.
January 21, 2011
Altre donne
Detto francamente, vorrei parlare delle donne italiane, oggi. Delle ragazze e giovani donne italiane che non vanno a letto o in discoteca o in festini di dubbissimo gusto con uomini sopra i 70 anni, che – alla loro età – dovrebbero semmai curare, se sapessero farlo, i propri nipotini. Vorrei parlare delle ragazze che fanno le volontarie, da anni, nei Territori Palestinesi; di quelle che, appena laureate, se ne sono andate nel Kivu, località non proprio amena del Congo-ex Zaire. Di quelle che da anni studiano, tra laurea, stage, dottorato, e che si sentono dire "Ma non parliamo del suo curriculum (più che qualificato). Mi dica invece se è flessibile". Di quelle che fanno le maestre a 80 km di distanza dalla casa e da due figli piccoli, senza lamentarsi. Di quelle che lavano le scale. Di quelle che lavano il culo dei nostri anziani, ultrasettantenni, e curano i nostri figli disabili.
Non posso parlare di loro, che avrebbero bisogno – come dice la mia giovane amica Luna – di non stare più in apnea e di imparare la lezione dei loro coetanei tunisini. E mi tocca parlare di altre donne, che in questi ultimi giorni hanno dimostrato che la diplomazia femminile usa gli stessi schemi della più antica diplomazia maschile. Non ne vorrei fare, intendiamoci, una questione di genere. E' che in questi giorni particolari (per l'Italia e non solo) mi sono saltati all'occhio due esempi che dicono molto su quello che non sappiamo cambiare di un certo qual cinismo della diplomazia – diciamo così – classica.
Primo esempio. Il segretario di stato americano Hillary Clinton è intervenuta nel dibattito – ancora abbastanza sotterraneo – sulla risoluzione contro le colonie che i paesi arabi hanno presentato all'Onu e che dovrebbe essere discussa dal consiglio di sicurezza. La Clinton, invece di essere impegnata a capire se l'amministrazione Obama ha ancora intenzione di porre il veto sulla risoluzione, anche dopo le pressioni interne per non farlo, lancia piuttosto un avvertimento ai palestinesi. Dice che la risoluzione non aiuta il processo di pace. Forse perché costringe gli USA a esprimere una parola (finalmente) chiara sulle colonie? O forse perché il fronte europeo si sta complicando, riguardo alla risoluzione, con Gran Bretagna e Francia che oggi si dicono forse possibilisti riguardo alla sua approvazione? Meglio far le cose dietro le quinte, negoziando, dice in sostanza Hillary Clinton, dimenticando che i negoziati sono – per ora – saltati, e che il piano Obama per il processo negoziale è morto prima ancora di essere cominciato.
C'è poi un altra donna a capo di un ministero degli esteri, ed è Michel Alliot Marie. Oggi è stata contestata (con lancio di scarpe) al suo ingresso subito dopo il valico di Erez, in procinto di visitare Gaza. Nota positiva: un ministro degli esteri di uno dei paesi euroei più importanti va a visitare Gaza, dove la Francia ha progetti importanti e soprattutto, a differenza di altri paesi europei, una presenza costante, mai interrotta, sempre curata. La manifestazione, che a dire il vero non sembra proprio essere spontanea, era contro le parole di Alliot Marie durante il suo incontro con i genitori del caporale Gilad Shalit, da anni sequestrato a Gaza. Forse i manifestanti (e Hamas) non hanno gradito l'intromissione francese in una mediazione facilitata dai tedeschi, in cui c'è in gioco la liberazione di Gilad Shalit, in cambio della liberazione di centinaia di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, una percentuale dei circa 10mila palestinesi che sono nelle carceri israeliane. Ma Alliot Marie, ne sono quasi certa, rischia di essere più famosa a Gaza per quello che l'internet arabo ha riportato delle sue dichiarazioni durante la rivoluzione tunisina, quando – esattamente a due giorni dal 14 gennaio e dalla fuga di Ben Ali – mise a disposizione l'expertise francese per aiutarlo a risolvere la questione della sicurezza.
Queste le sue parole, riportate dal sito di le Monde.
"On ne doit pas s'ériger en donneurs de leçons" face à une situation "complexe", a-t-elle expliqué. Tout en invitant les dirigeants à "mieux prendre en compte les attentes" des populations, elle a suggéré que "le savoir-faire, reconnu dans le monde entier, de nos forces de sécurité, permette de régler des situations sécuritaires de ce type". "C'est la raison pour laquelle nous proposons effectivement aux deux pays [l'Algérie et la Tunisie] de permettre dans le cadre de nos coopérations d'agir pour que le droit de manifester puisse se faire en même temps que l'assurance de la sécurité."
Parla la blogger, la donna, e non la giornalista, in questo caso. Ma è mai possibile che le donne non sappiano esprimere altro tipo di proposte diplomatiche, e che debbano riprodurre uno schema peraltro fallito tante di quelle volte dall'essere ormai non più proponibile? Possibile mai che lo schema della miope Realpolitik (non di quella lungimirante, voglio dire) debba ancora essere il pilastro di strategie di politica internazionale che non ce la fanno a superare lo scoglio non delle settimane, ma dei giorni? Non sappiamo proporre qualcosa che sappia durare di più, e magari risolvere qualche situazione difficile?
La bella foto è di Andrea Merli, all'interno del suo progetto InsideOut. Shada, giovane donna cieca di Betlemme, e il suo Muro.
January 19, 2011
In piazza, subito. Per le donne
Esattamente un anno e mezzo fa, quando la questione della condizione femminile italiana saltò simbolicamente in prima pagina con l'intervista a veronica Lario, scrissi una email alle mie amiche. Un indirizzario composito, suppergiù come composite sono le donne. Ero stufa di vedere donne sullo schermo televisivo che non corrispondevano alla realtà quotidiana, diffusa. Donne e ragazze trattate come fenomeni da baraccone, usate, abusate.
Un anno e mezzo è passato. E' nata Filomena, La Rete delle Donne, concentrata su un obiettivo difficile: la ricostruzione di una cultura femminile in Italia, a iniziare dal suo vocabolario. Sono nate, nello stesso tempo, moltissime realtà di associazioni di donne, con un obiettivo simile e soprattutto con la stessa urgenza. Di riguadagnare una dignità perduta: non solo per i comportamenti del premier, ma nel mondo del lavoro, nell'immaginario, nelle relazioni sociali e politiche.
Che sia ora di dire basta, è pleonastico, dopo l'ennesima riprova che in Italia nulla è cambiato. Anzi. Al contrario, sembra che il fondo di questo schifo non si riesca a raggiungere. Eppure, mi sembra che la reazione – vista da un'italiana all'estero quale io sono – sia terribilmente blanda, rispetto all'affronto che continua a essere fatto alle donne.
Questo schifo ci ha costretto nell'ombra, come se ci dovessimo vergonare.
Rispetto e dignità sembrano parole che si fa fatica a usare, nel vocabolario di questi giorni. Desueti? Non credo. Credo, invece, che sia ora di dire veramente basta a questo schifo. E che in piazza, questa volta, debbano andare le donne. Le più vituperate, dimenticate, offese dal presidente del consiglio dei ministri, dalle istituzioni, dal vocabolario corrente.
In piazza subito.
E se si fa, prendo l'aereo e torno
January 18, 2011
In viaggio con i Radiodervish
Non c'è che fare, direbbe una mia amica scrittrice di vaglia, avvocata, siciliana, londinese, gran donna. Non c'è che fare, lo confesso, i Radiodervish sono diventati la colonna sonora tutta personale di questa mia lungasosta mediorientale. E' successo per caso, perché Nabil Ben Salameh, alcuni anni fa, presentò il mio Arabi Invisibili alla Feltrinelli di Bari, con il suo ricchissimo vocabolario italiano e la sensibilità del suo linguaggio e dei suoi contenuto. Poi, da allora, il Medio Oriente, il Mediterraneo, le radici, e infine Gerusalemme ci hanno fatto incontrare più volte, con Nabil, e con Michele Lobaccaro, depositario di una singolare spiritualità laica che si esprime con delicatezza e con tenacia. Incontri fecondi ai quali, in famiglia, siamo molto legati.
Così, ogni volta che possiamo – in famiglia – mettiamo la nostra personale colonna sonora. E ogni volta che possiamo – in famiglia – ce ne andiamo ad ascoltare i loro concerti.
La lunga premessa è per dire che ieri ce ne siamo andati a Umm al Fahm per andarci a sentire un concerto dei Radiodervish, l'ultimo di un tour che li ha portati a Nazareth, e poi a Tel Aviv, a suonare e cantare con Noa. Un'ora e mezza di macchina su autostrade ben curate, fino a che non abbiamo svoltato verso il cosiddetto 'triangolo' che parte della destra israeliana darebbe con gioia all'ANP, in un ipotetico scambio di territori. In effetti, basta uscire dall'autostrada curata allo svincolo verso Tiberiade, e l'aria – anzi, l'asfalto – cambia subito. Si entra, come sempre repentinamente da queste parti, in un altro mondo. Un mondo terzo, in cui è concentrata una buona parte della popolazione palestinese di Israele, a ridosso della Linea Verde. A poca distanza da Jenin. Umm al Fahm fa parte di questa dimensione del terzo tipo. Anzi, ne è il simbolo. Negletto. Considerato semmai un problema, invece di essere considerata una realtà di 50mila abitanti, con una cintura che che fa raggiungere, al suo territorio, oltre i centomila abitanti. Eppure Umm al Fahm nasconde aspetti che in pochi si immaginerebbero. Una galleria d'arte, per esempio, che vorrebbe essere un museo dell'arte contemporanea palestinese, in programma per il 2015.
Progetto sgorgato da una certa qual dose di follia positiva, il museo di arte contemporanea è per ora un modellino nella galleria d'arte di Umm al Fahm mostrato con orgoglio da Said Abu Shakra, anima della Galleria. Il progetto è bello, con le pareti su cui le lettere arabe son incise come se fossero gli intarsi di una mashrabeya, la tipica finestra araba che fa filtrare la luce dall'esterno ma nasconde l'interno della casa a chi sta fuori.
Se il museo è per ora un sogno, la galleria d'arte no. Anzi. E' un contenitore in cui non si esprime solo la comunità degli artisti (israeliani e palestinesi d'Israele), ma anche chi artista non è. Riunito, per esempio, nei workshop per i bambini. Luogo fecondo per la società di Umm al Fahm, insomma.
Non è un caso, dunque, che il concerto intimo, quasi riservato, dei Radiodervish a Umm al Fahm si sia tenuto alla Galleria di Said Abu Shakra. Con un impianto fonico gestito come se si fosse a New York. Perfetto, a dir poco, in una sala che non era proprio fatta per un concerto. Eppure, il suono usciva pulito, avvolgente ma senza disturbare. Una bella serata, in cui – sorprendentemente – si è riunita la comunità dei professionisti (in gran parte medici) che in Italia aveva studiato, tra la fine degli Ottanta e gli anni Novanta, conservando per il Belpaese un amore inossidabile. A dimostrazione, per chi se lo fosse dimenticato in Italia, che c'è stato un tempo nel quale siamo stati un paese accogliente, caldo. Un paese al quale si è ancora, dopo tanti anni di lontananza, grati.
Il cocktail di lingue mediterranee dei Radiodervish, le loro citazioni colte, la poesia antica mescolata con la cultura tradizionale delle varie sponde del mare nostrum sono state ancora una volta colonna sonora di un mescolìo che noi idealisti della terra di mezzo vorremmo tanto ritornasse a essere cultura comune dei popoli del Mediterraneo. Non poteva essere altrimenti. Da qualche parte, magari nella Umm al Fahm negletta, si continua a sognare.
E un grazie, particolare, a Giovanni Pillonca, direttore dell'istituto di cultura italiano di Haifa, e a sua moglie Aurora, che hanno dato il loro sostegno fondamentale per il tour dei Radiodervish, che purtroppo non ha avuto – si dice per questioni tecniche – una tappa in Cisgiordania. Dalla fatica del fare quotidiano nascono ancora delle cose belle. E non è poco.
January 17, 2011
"Ma che ci sta succedendo?" Israele vista dagli israeliani
Nelle pieghe della cronaca della regione, tutta giustamente concentrata sulla sorprendente rivoluzione tunisina, sulla mia scrivania gerosolimitana impilo articoli, saggi, riflessioni, parole di intellettuali israeliani che per un attimo si sono fermati, si sono guardati attorno, e hanno scritto di Israele. E' come se vi fosse stata una chiamata alle armi dell'intelligenza, e in molti, nel giro di pochi giorni, poche settimane, hanno deciso che bisognava capire cosa sta succedendo, nel profondo, alla società israeliana. Soprattutto dopo la lettera dei rabbini che chiedevano di non affittare case ai non ebrei, e la decisione della Knesset di istituire una commissione parlamentare per indagare sulle ong israeliane che si occupano di diritti umani e civili.
Amon Dankner è un caso esemplare. Direttore di Maariv, quotidiano di larga diffusione in Israele, Dankner rappresenta il mainstream nazionale. Ebbene, le sue parole sono oggi pesanti come pietre: Dankner crede che, di questo passo, le persone moderate, di buon senso, democratiche non abiteranno più in Israele. Se ne andranno. E parla esplicitamente di un'autocensura che non c'è più, di razzismo imperante contro gli arabi, di doppio standard, di cose che nei giornali italiani hanno poco spazio. Una lettura – che consiglio caldamente – che spesso fa a botte con la descrizione che di Israele c'è in alcuni giornali italiani. Eppure anche questa è Israele, l'Israele reale descritta dagli israeliani in carne e ossa.
It seems that things that were repressed within the Israeli soul and well-hidden through shame are suddenly bursting forth with a sense of liberation, dancing obscenely in the public square. It's now acceptable to be overtly racist and to be proud of it. It's acceptable to disparage democracy and be proud of that. Acceptable to steal and rob and trample on rights when it concerns Arabs. And acceptable to be proud of this. There are Knesset members for whom this is one of their specialties and they do it with smiles they don't even bother to conceal. There are entire parties whose tenor and tone arouse feelings of horror and terrifying memories.
How is it possible for example that there are people who sat and calculated the needs for feeding children and removed these necessities from the list of products permitted to enter Gaza? They sat and counted sweets and halva and toys and who the hell knows what else and crossed them out with an "x" and explained to us that this was a critical part of toppling Hamas' rule. And we took these wicked fools seriously and put our faith in them. After what happened with the Marmara we lifted the sweets siege and even permitted the import of coriander into Gaza. No disaster happened besides that we remained in this great exposed space loitering in front of the gates of Gaza though our own naked, wicked stupidity.
Non so se Dankner ha letto la notizia di un opuscolo che chiede esplicitamente per i palestinesi i campi di concentramento. L'ho trovata sulla webzine israeliana più interessante di questi ultimi mesi, 972mag. Spero veramente che non sia vero, che nessuno legga queste pagine, che si siano sbagliati.
Aeyal Gross vede questa parte della storia dal suo punto di vista, di docente che insegna diritto internazionale e costituzionale all'università di Tel Aviv. Cosa è cambiato, si chiede. Perché qualcosa è cambiato, da prima.
What, then, has changed? I believe the most central change is that until recently one thought that it is at least possible to relatively freely report and protest injustices and human rights violations. Of course, even in this context freedom of speech was relative. Jews enjoyed more of it that Arabs, and any one researching Israeli constitutional law can see the different attitude taken by the Israeli Supreme Court to cases involving speech by Jews vs. speech by Arabs. In recent years we have seen more threats to the freedom of speech of Palestinians even within Israel.
But in spite of this discrimination, the possibility to report and protest what's going on existed on a relatively consistent level. The shift we are witnessing in the last few years is an attack on freedom of speech, in way that aims to allow the deepening of the violations of other human rights, and the worsening of the oppression inherent to the occupation, including the attacks on civilian population, and the dispossession and discrimination.
[...]
The attack on freedom of speech is not only in the form of the parliamentary investigation. It is joined by many other steps, some of which I have discussed in previous posts. Among them, the attacks on Israeli academia by groups who are supposedly examining whether university instruction is "patriotic" enough, and the fact that the Knesset education committee even bothered to conduct discussion of these "reports"; the harsh attack on human rights groups and on the New Israel Fund by a few groups who pretend to "monitor" human rights groups, but actually are engaged in attempts to de-legitimize them; the arrests of demonstrators in East Jerusalem, both those protesting the dispossession of Palestinians in Sheikh Jarrah and those protesting the discrimination of women in the Western Wall; the arrests of some of the leaders of the protests in Bil'in as well as the violence towards those demonstrators, ending more than once in death; and the recent sentencing of Israeli activist Jonathan Pollak to jail for a demonstration against the Gaza War.
Potrei continuare, citando articoli su articoli, commenti, opinioni. Zvi Barel, su Haaretz, sulla legalità israeliana che salta in Cisgiordania. Yair Lapid, su Ynet, su razzismo, sfera pubblica, sfera privata nel paese, dove l'autocensura è saltata. Sempre su Haaretz, Yossi Sarid, sul sogno di Lieberman che è però "l'incubo di Israele", di una Israele diversa, e la cronaca della manifestazione di sabato sera a Tel Aviv, la più numerosa degli ultimi anni, contro quello che la Knesset ha deciso sulle Ong, in cui viene citata anche una petizione a difesa delle associazioni per i diritti umani firmata da 60 giuristi tra i più importanti del paese, compresi i presidi delle più note facoltà di legge. E poi Max Blumenthal, sul suo blog, sottolinea il razzismo in aumento nelle scuole, segnalato da un gruppo di insegnanti al ministro dell'educazione.
Potrei continuare, ma mi sembra ci sia già parecchio da leggere. Poi, come ogni buon web-navigante, provate a seguire il filo. Troverete molto, nelle pieghe della Rete.
La foto della dimostrazione di Tel Aviv è di Yossi Gurvitz (Creative Commons).
January 16, 2011
Ah, già, la paura dell'islamismo…
E' durato solo qualche giorno il periodo di grazia. Per qualche giorno, almeno per qualche giorno, i grandi (e piccoli) soloni del conflitto di civiltà vero e presunto ci avevano graziato dal sollevare la questione dell'islamismo mentre i ragazzi tunisini erano in piazza e – in appena 12 ore – riuscivano a cacciare uno dei presidenti autoritari del Medio Oriente e Nord Africa. Storditi da quella massa di ragazzi, di giovani, da quella folla non violenta e disarmata che pone fine a uno dei regimi autoritari (e amici dell'Occidente), i soloni ci hanno messo qualche giorno a ricomporsi, e a ripensare ipotesi e strategie per reagire a un evento che non avevano messo in conto.
Ora, invece, son tornati all'attacco. "Non fidatevi della piazza araba", titola uno dei commenti sulla stampa italiana. Uno dei tanti, in cui si dice chiaro e tondo che, però, attenzione, sì, belli i ragazzi che sfidano il potere. Però ora rischiano di essere ostaggio dei barbuti, degli islamisti. E poi c'è la sicurezza del Medio Oriente (quale Medio Oriente?), la nostra sicurezza. Sicurezza, sicurezza. Paura. State attenti, ragazzi, potrebbero rubarvi la rivoluzione, come fecero i khomeinisti a Teheran nel 1979…
E' bello come la storia venga tirata, come una coperta striminzita, per coprire il fallimento di una teoria (lo scontro di civiltà) e di un assioma (la fine della Storia) che hanno impedito a molti analisti e storici di fare la cosa più semplice, datata, classica: guardare la realtà, farsi sommergere dalla realtà, ri-catalogarla, e interpretarla. Secondo questa tesi [sic] la rivoluzione iraniana sarebbe stata scippata dai khomeinisti per colpa di laici un po' naive. Una tesi [sic] che dimentica quello che successe prima del 1979, i decenni del regime di Reza Pahlavi, la presenza occidentale, la corruzione. Tutti elementi che hanno fecondato, e non poco, la rivoluzione del 1979. Ma già, Reza Pahlavi era il baluardo dell'Occidente e dei proventi petroliferi delle Sette Sorelle. Così come Zine al Abidine Ben Ali (ZABA, per i ragazzi di Tunisi, Bizerta, Sousse, Sidi Bouzid) era il baluardo dell'Occidente in Nord Africa, e l'albergo di centinaia di aziende medie e piccole che avevano delocalizzato per il basso costo del lavoro di un tunisino. Ben Ali era assieme a una piccola pattuglia di presidenti di lunga durata, rinnovati in elezioni plebiscitarie, in barba a quei parametri di democrazia occidentale che vorremmo esportare. Talvolta – come in Iraq – sui fusti dei cannoni. O magari in Iran, con qualche bombardamento aereo. Ora, quegli stessi presidenti sentono il fiato sul collo di un inverno che ricorda una Primavera lontana. Nessuno sa, nessuno potrà prevedere se la l'Inverno tunisino coinvolgerà gli altri regimi. In Libia si ha notizia di qualche timida manifestazione e di qualche scontro. In Algeria, nei giorni scorsi, si sono dati fuoco due giovani. In Giordania si manifesta contro i prezzi alti. In Egitto, per ora, si tace e si osserva, con apprensione. Il 2011, dice un mio amico inviato di guerra americano, uno dei più grandi conoscitori della regione, potrebbe avere il mondo arabo in prima pagina.
L'unica reazione – invece – che la strategia occidentale ha saputo mettere in campo in oltre trent'anni, nel mondo arabo, per contrastare l'avanzata dell'islam politico è stata solo questa. Sostenere regimi non democratici ma considerati laici. Una strategia miope e perdente, come ha dimostrato non solo la Tunisia, ma per esempio l'Algeria, per niente normalizzata. La spinta dell'islam politico risponde a precise necessità delle popolazioni arabe: non solo di tipo socioeconomico, come la risposta alla disoccupazione, alla crisi economica, alle imposizioni dell'IMF, ma di tipo culturale, come la necessità di riconquistare un'identità propria che – attraverso i codici e le tradizioni religiosi – diventa un pilastro, una colonna sulla quale poter poggiare la propria casa. Che questo ci piaccia o meno (a me, laica e di sinistra, può piacer poco), l'islam politico è riuscito a rispondere a queste necessità. Soprattutto quando, dall'altra parte, la risposta è stata autoritaria, verticistica, distaccata dalla realtà e dalla strada araba.
Vi era un modo, soprattutto a metà degli anni Zero, verso il 2005, per riuscire a venire a capo di una situazione difficile. Ed era coinvolgere l'islam politico (in primis i Fratelli Musulmani egiziani, ma non solo loro) in una cornice istituzionale ben precisa, che facesse emergere quelle ali pragmatiche dell'islamismo riformista (non salafita) che chiedevano di entrare nel gioco democratico. La reazione, da parte della strategia occidentale targata Bush, dei soloni di casa nostra, è stata quella della chiusura completa, dell'isolamento dell'islam politico, anche di quello pragmatico. In Tunisia, in Egitto, in Palestina. Con risultati pessimi, caotici, imprevedibili. I settori pragmatici sono stati isolati, all'interno dei movimenti dell'islam politico riformatore (i Fratelli Musulmani). E l'emarginazione ha fatto fiorire – all'ombra dei regimi laici che li hanno lasciati crescere in funzione anti-Fratellanza – movimenti sempre più diffusi di impronta salafita, radicale, e sempre più vicina al jihadismo. Ve ne sia reso merito, cari soloni, alla vostra strategia mediatica che ha messo insieme Fratelli Musulmani e jihadisti, FIS e qaedismo, democristiani con la mezzaluna e salafiti. Ma per favore, non date la colpa ai ragazzi di Tunisi. Loro cercheranno di fare del loro meglio, e soprattutto cercheranno di fare in modo che la loro rivoluzione giovane non sia sequestrata, ancora una volta, dai vecchi.
Quello che possiamo fare noi, occidentali, è ancora una volta interrogarci sui nostri errori da apprendisti stregoni che tentano di controllare e guidare la vita degli altri. Di milioni, decine di milioni, centinaia di milioni di persone. Tutte fuori dai nostri confini, al di là del Mediterraneo. Pedine da usare per le nostre delocalizzazioni economiche. Pedine che buttiamo a mare, però, quando provano a uscire dalla disperazione e arrivano sulle nostre coste, su mezzi di fortuna. I ragazzi di Tunisi, ricordatelo, sono quello che chiamiamo clandestini quando arrivano a Lampedusa. Li abbiamo resi disperati, invece di ascoltare quello che avevano da dire e che hanno messo, quando possibile, sul web. Loro sono lì da anni, a urlare. I soloni se ne sono accorti solo ora. E non sanno che fare.
Il logo, ovviamente, se lo sono inventato loro, i ragazzi tunisini. Gira su internet, e sui social network.
January 15, 2011
Da Jan Palach a Mohammed Bouazizi
Non pensavo di trovare conferma alla mia tesi che lega il dissenso eurorientale con quello arabo sul più importante portale tunisino dell'opposizione, nawaat.org, sino a ieri impossibile da vedere in Tunisia, per la censura che strangolava tutto il web nazionale. Astrubal, su nawaat.org, traccia addirittura una linea rossa che unisce un ragazzo di Praga, Jan Palach (che la mia generazione si ricorda ancora oggi come fosse successo appena ieri), con Mohammed Bouazizi, il ragazzo di Sidi Bouzid, un ambulante, che si è dato fuoco a dicembre. Dal suo sacrificio, come allora, è iniziata la web-rivoluzione tunisina. E continuo a chiamarla tale perché solo un mezzo potente come internet è stato non solo brodo di coltura, ma rete, collegamento, agorà per migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia di ragazzi. Se è vero che a Facebook, in un paese di oltre 10 milioni di abitanti, sono abbonati due milioni di tunisini, questa ipotesi a senso. Ha senso perché anche Mohammed Bouazizi, da Sidi Bouzid, era abbonato, e a Facebook – racconta Astrubal – aveva affidato qualche riga. I suoi ultimi pensieri.
Mohammed Bouazizi come Jan Palach. Il dissenso che si fa gesto disperato. Eppure, rimane dissenso e contagia chi era già stato esposto, per anni al virus. Per così tanti anni, da far ricordare all'autore dell'articolo su nawaat.org che il dissenso via web aveva già avuto altri morti e altri martiri. Il primo, il più importante, Zouhair Yahyaoui, il creatore di TuneZine, il primo web-magazine che fece provare a Yahyaoui prigione, tortura e morte. Da samizdat su macchina da scrivere e ciclostile, a e-samizdat affidati al vento di internet: la linea rossa continua, è quella di un dissenso che non si può reprimere più di tanto, perché la pentola – dice una mia amica che ha scelto di rimanere a Tunisi – poi alla fine scoppia.
Detto francamente, non mi aspettavo che un paragone del genere mi arrivasse direttamente sullo schermo dal web tunisino. Non mi aspettavo che la memoria di Jan Palach avesse traversato il Mediterraneo…
Solo nel mondo arabo, per spiegare ciò che succede, si citano poesie. E' nell'animo arabo, nella cultura popolare, nei sentimenti. Marwan Bishara, il più importante analista politico di Al Jazeera, cita il più grande poeta tunisino per spiegare come mai questa Web-Rivoluzione del Gelsomino sia stata così veloce e impossibile da fermare.
The simplest and perhaps the most accurate answer was "provided" almost a century ago by Tunisian poet Abu Al-Qasem Al-Shabi (Schebbi), in his Defenders of the Homeland which became the most popular verse in Arab poetry, and used in the Tunisian national anthem: "When people decide to live, destiny shall obey, and one day … the slavery chains must be broken."
Andrei più avanti di Bishara, e aggiungerei anche che nel mondo arabo non si può mai prevedere quando la pentola scoppierà, quando le catene si romperanno. Un giorno succede, con un ragazzo disperato che si dà fuoco. Che non fa il kamikaze, ma diventa l'esempio che non si deve avere più paura, perché non si ha nulla da perdere se non una vita disperata. Ma non si potrà mai prevedere quando. E se avrà successo. Mentre scrivo, i ragazzi dei paesi accanto, soprattutto dell'Algeria e dell'Egitto, scrivono virtualmente ai tunisini, onorano il loro coraggio, si chiedono perché mai loro – sinora – non lo abbiano avuto. Io non so se l'effetto domino andrà in scena ora, tra un anno, tra cinque. Se dovessi collegare la vecchia storia dell'Europa dell'est, il giovane Jan Palach al giovane Mohammed Bouazizi, direi che l'effetto domino sarà presto. Come effetto domino ci fu tra anni Cinquanta e Sessanta.
Credo, però, non sia importante mettersi con una palla di vetro e tentare di auscultare il futuro. Meglio leggere il recente passato e il presente. E da dieci anni quelle generazioni di Bouazizi dicono che non ce la fanno più, che sono rimaste inascoltate dai propri regimi autoritari così come da un Occidente sordo e vigliacco, che preferisce fare grandi accordi e delocalizzare piccole imprese. Senza pensare a chi, giovane, in quelle imprese, sarà impiegato per un tozzo di pane. I think tank delle aziende italiane o francesi che avevano investito in Tunisia avrebbero fatto bene a studiarsi non solo i numeri della società e dell'economia tunisine, ma anche il web che chiedeva libertà, prima di investire un euro nel modo in cui sono stati investiti. Per poi non lamentarsi se, sul web, persino ai turisti viene chiesto di non venire più. Perché la Tunisia, così come l'Egitto, non è un grande resort sul mare. E' molto altro, nascosto agli occhi indifferenti dei vacanzieri.
Succederà qualcosa – e presto – in Egitto, in Algeria, persino in Giordania dove ieri migliaia di persone sono scese per strada contro il carovita? Chissà, chissà… Non ho mai amato gli aruspici, soprattutto quelli che prevedono a tavolino. Dico solo che bisognerebbe studiare. E avere l'umiltà di ascoltare gli "invisibili", i miei invisibili, che da anni parlano, e chiedono rispetto.
Oggi festeggio la web-rivoluzione tunisina, con una gioia doppia. Ovviamente per i miei invisibili. Domani ci occuperemo, da analisti, del futuro incerto della Tunisia. Futuro incerto causato non dai ragazzi del web, ma da un regime autoritario, corrotto e sostenuto a spron battuto, sino all'ultimo, da tutto l'Occidente. Europa, Francia, Italia comprese. Il baluardo laico del Maghreb… Parleremo allora di una rivoluzione sostenuta da tutto lo spettro politico dell'opposizione, dai comunisti di Hamma Hammami ai Fratelli musulmani in esilio di Rachid al Ghannouchi (che ho ascoltato a una conferenza londinese sull'islam politico). Parleremo di futuro, di costituzione, di elezioni, di quadro politico, di esercito. Ma per ora, oggi, mi godo il sapore di una piccola rivoluzione inattesa, corale. E giovane.
January 14, 2011
Live, la web-rev
Justine.tv trasmette video sulla manifestazione di Tunisi davanti al ministero dell'interno, contro il presidente Ben Ali e contro la potente famiglia Trabelsi, quella della sua seconda moglie Leila. Twitter continua a dare in diretta le notizie sulle manifestazioni in tutta la Tunisia, basta scegliere alcune parole chiave, da #tunisie a #sidibouzid, #maniftunis,#manifrevolt. Tutto in diretta, tutto sul web, mentre la gente in piazza è reale. Il connubio, che sembrava impossibile a un occhio occidentale, è nel cuore dell'uso delle nuove tecnologie nel mondo arabo, dalla manifestazione assente e silenziosa del 6 aprile iniziata su Facebook, in Egitto, prima ancora di quella dei ragazzi iraniani. Uso sociale e politico del web, questa è la parola chiave per descrivere come i ragazzi arabi hanno usato internet. In Tunisia da quasi dieci anni. Nel resto del mondo arabo, con queste modalità, da almeno sei anni.
Sono loro, gli Arabi Invisibili.
Segnatevi il 14 /1
Come in un flipper globale, Twitter rilancia da un posto all'altro ciò che sta succedendo a Tunisi. Basta mettere le parole chiave: Tunisie, sidibouzid, jasminerevolt.E così si scopre che il 14 gennaio potrebbe essere il giorno clou della Rivoluzione del Gelsomino. Così, almeno, la considerano i ragazzi della Rete. "des 10aines de milliers sur l'avenue habib bourguiba.. les larmes aux yeux! #tunisie #manif tunis", rimbalza twitter. Decine di migliaia sull'Avenue Habib Bourguiba, il viale più importante di Tunisi, con le lacrime agli occhi. Nessuno lo avrei mai creduto, solamente alcune settimane fa, in un paese che, come spesso succede nei paesi arabi, specialmente in quelli nostri buoni alleati, non permetteva manifestazioni di protesta.
L'aria che emana dal web, dove YouTube, Facebook, Twitter danno il meglio di sé come rappresentazione dei social network, è quella della rivoluzione. Non c'è dubbio. L'aria di una diga che si è rotta. Simbolicamente impersonificata da quel soldato che si mette sull'attenti e saluta il passaggio di una persona uccisa nelle manifestazioni degli scorsi giorni, uccisa dalla polizia. La vittima si chiamava Iskandar, manifestava a Biserta, ed è stato ucciso dai cecchini della polizia. Il suo funerale è una dimostrazione di quello che sta succedendo: una folla di ragazzi, e anche di ragazze, per le strade.
Un soldato che saluta un manifestante ucciso significa che qualcosa si è rotto, nello splendido castello di carte che è stato costruito in Tunisia e mostrato a un'Europa ancora una volta miope e vigliacca.
Non è finita, certo. E per la Tunisia si prevedono giorni duri, e sanguinosi. La blogosfera tunisina ieri faceva anche il paragone con la caduta di Ceausescu, da cui – però – diceva lo stesso blogger, ci dividono venti anni. Venti anni di Storia, che non sono pochi. Ma l'impressione è quella che un giorno, non molto lontano, saremo costretti a interpretare e analizzare la Rivoluzione del Gelsomino come la prima rivolta/rivoluzione nata, cresciuta, annaffiata sul e con il web. All'ombra del web.
Il mondo è cambiato.
Nella foto, le prime immagini della manifestazione nel centro di Tunisi, nel cuore del potere di Ben Ali. ZABA, per i manifestanti che ne chiedono le dimissioni, nonostante il discorso pacificatore pronunciato ieri sera dal presidente tunisino alla tv. Le foto, ovviamente, sono sui social network. Su Twitter…
January 13, 2011
Tra cyberdissidenza ed e-samiszdat
I blogger arabi, com'erano tra 2005 e 2006. Facevano dissidenza, producevano cultura politica, grafica web e design. Ce ne accorgiamo ora con i blogger tunisini in galera, ancora una volta avanguardia come lo sono stati per tutti gli anni Zero del Duemila. Ma tra l'enorme massa di giovani arabi si sono prodotti e-samiszdat ovunque. Bastava aprire il computer, e fare un clic.
Sami Ben Gharbia, uno dei più 'vecchi' blogger tunisini, mi ha scritto poche ore fa che il numero dei blog attivi in Tunisia è 500. Su un totale di 2500. In un paese di 10 milioni di abitanti. Quasi un sesto della popolazione italiana. Sotto una censura informatica durissima. Pas mal.
Da Arabi Invisibili, edizioni Feltrinelli, 2007.
"Il cosiddetto "citizens' journalism" ha trovato nell'Egitto in fermento del 2005 un terreno per emergere e fare esperienza. Non solo. È stato proprio questo tipo di informazioni passato attraverso i blog egiziani a fare da collante tra i blogger, creando un legame necessario perché si cominciasse a costituire – tra loro – una cultura politica comune. Niente di compiuto dal punto di vista ideologico. Anzi, nessuna piattaforma è stata né lanciata né tantomeno elaborata dai ragazzi dei diari virtuali. Quello che li unisce è la richiesta non meglio definita di uno stato di diritto, di una cornice all'interno della quale far nascere una diversa comunità di cittadini in cerca di riforma politica.
È l'evoluzione di un dissenso, insomma, sempre meno solitario e individuale. La costruzione di una cultura politica comune che nei diversi contesti nazionali arabi sta dunque passando anche attraverso i blog, la via più semplice ed economicamente accessibile di collazionare pensieri e persone, e di aggirare per quanto possibile la censura delle autorità di governo. È la via contemporanea di unificare il dissenso attraverso la diffusione di e-samizdat, di samizdat virtuali, com'è successo – richiamando un paragone forse troppo imponente in questa fase, ma sicuramente paradigmatico – in quel periodo a cavallo tra gli anni settanta e ottanta nell'Europa orientale soggetta ai regimi filosovietici, sino alla caduta del Muro di Berlino nel 1989. Al posto di una macchina per scrivere o di una penna per copiare i samizdat proibiti, Internet si è rivelato uno strumento molto più pratico per riprodurre e disseminare copie di testi fuori dai canali culturali istituzionali. Non solo in arabo, ma anche nel vecchio linguaggio dei colonizzatori, in inglese o in francese.
Il paragone con il dissenso dell'Europa orientale risulta interessante per comprendere quello che, in gruppi ancora marginali ed elitari, sta succedendo in una società– come quella araba – che viene invece spesso ritenuta in Occidente totalmente stagnante e priva di spinte culturali endogene. In Polonia, in Cecoslovacchia, in Ungheria, gruppi molto ristretti di intellettuali hanno diffuso il dissenso attraverso strumenti di comunicazione antistituzionali, con una produzione letteraria e culturale di rilievo, passata attraverso il mondo dei samizdat. Opere culturali di vario tipo, che passavano di mano in mano tra i dissidenti e che venivano – seppure con estrema cautela – usati anche per coinvolgere altre persone dentro la dissidenza. Manoscritti, o più spesso dattiloscritti in casa, di notte, da ogni singolo lettore, che riproduceva per sé una copia del samizdat per poi passarlo al lettore seguente. Costituendo, in questo modo, una biblioteca personale, privata ed estremamente pericolosa per l'incolumità del proprietario. I samizdat non furono soltanto, con la loro diffusione, uno dei perni della dissidenza dell'Europa dell'Est. Furono anche il background teorico delle dirigenze che, soprattutto nel primo periodo dopo la caduta della Cortina di ferro, arrivarono al potere per sostituire i regimi comunisti. Non solo. Furono proprio i più importanti autori di samizdat ad andare al potere. Come dimostra il caso esemplare e indimenticato di Vaclav Havel, il cui Moc bezmocny´ch [Il potere dei senza-potere], samizdat del 1978, venne considerato, prima e dopo il 1989, uno dei manifesti dell'opposizione ai regimi filosovietici dell'Europa orientale.
Come per l'Europa dell'Est, anche nel caso del mondo arabo la dissidenza è estremamente elitaria. Nessuna saldatura, insomma, si è verificata tra le masse e l'intellighentsjia, sul tipo di quella costituita da un esempio solitario quanto fondamentale, vale a dire la Polonia di SolidarnoÊç. A differenza dell'Europa dell'Est, invece, la scrittura virtuale del dissenso arabo, sia essa di carattere artistico o politico, all'inizio è stata in genere anonima o sotto pseudonimo. I blogger, insomma, hanno spesso celato la propria identità dietro un nome fittizio, evocativo o meno, per sfuggire alla censura e alle maglie dei regimi nazionali, alcuni dei quali stanno dimostrando – anche in questi ultimi giorni – di non gradire la diffusione del fenomeno. È, comunque, proprio la saldatura tra blog e anonimato a essere considerata da alcuni dei protagonisti come l'elemento di "novità nella discussione pubblica tra individui su qualsiasi argomento". Una differenza fondamentale con i samizdat, che avevano sì circolazione clandestina ma, nello stesso tempo, avevano un autore che, con il suo nome e cognome reale, esprimeva la potenza della sua opposizione.
Eppure, per quanto anonimi, alcuni esponenti del dissenso arabo mantengono intatta la loro forza. È il caso dell'egiziana Baheyya, di baheyya.blogspot.com, una delle blogger più amate non solo entro i confini nazionali, ma anche dalla schiera dell'intellighentsjia araba non solo virtuale. Baheyya non è un'artista, ma i suoi brevi scritti sono considerati tra i più incisivi nell'analisi politologica della situazione egiziana. È per questo che Baheyya, che alcune fonti ritengono sia una ricercatrice universitaria, è diventata la musa ispiratrice dei blogger più giovani e con un bagaglio culturale non specifico. Quelli che, peraltro, si stanno spostando dalla e-dissidenza all'opposizione reale, in un passaggio inatteso e non condiviso da tutti gli internauti. Questo passaggio riguarda soprattutto alcuni dei blogger egiziani più in vista, come Alaa, uno dei due fondatori del principale aggregator, manalaa.net, arrestato nella primavera del 2006 per aver partecipato a una manifestazione di piazza a sostegno dei giudici contro il regime di Mubarak e rimasto in prigione nei pressi del Cairo per oltre un mese. Un'esperienza, questa, che ha inciso sulla stessa direzione in cui la e-dissidenza si sta muovendo in Egitto, soprattutto a seguito della presa di posizione pubblica del laicissimo Alaa, all'anagrafe Alaa Abd El Fattah, a favore dei Fratelli musulmani. Dopo aver conosciuto dietro le sbarre giovani militanti del più grande movimento islamista del mondo arabo, Alaa ha scritto per il loro sito, ikhwanweb.net, una lettera che era più di una professione di amicizia ed empatia, sembrava piuttosto la piattaforma per un'alleanza tra la sinistra post-marxista e gli islamisti, punto di partenza per una discussione virtuale sul futuro dell'opposizione in Egitto.
Il caso di Alaa è solo quello più eclatante, ed è esemplare per descrivere il passaggio dei blogger dal web alla piazza. Alcuni degli autori dei "diari virtuali" hanno infatti abbandonato la scrivania e hanno deciso di scendere, soprattutto durante la campagna elettorale che ha preceduto la riconferma a presidente di Hosni Mubarak, nelle strade del Cairo. In particolare nelle manifestazioni di Kifaya. Sono stati questi i luoghi in cui i blogger hanno calato la maschera della Rete e svelato la loro identità reale, dando inizio a una comunità non più solo virtuale, che però non dimentica Internet. Anzi. Continua a usare i blog sia per veicolare informazioni, sia per raccontare il passaggio alla realtà della loro comunicazione via web. La necessità di incontrarsi anche fuori dall'agorà online, così come le notizie diffuse in Rete, è indice di una blogosfera araba meno individualista di quella occidentale. Mostra una comunità di lettori e scrittori che interviene molto, inviando commenti, linkando e accogliendo con sollecitudine i nuovi blogger. Indica un bisogno di aggregazione e di crescita, evidente nell'Internet arabo, dettato spesso da una percezione diffusa di isolamento e di incomprensione da parte del mondo oltre i confini della regione."


