Paola Caridi's Blog, page 122
February 1, 2011
Ween el Malayeen? Al Cairo
"E come si fa a non cantare? Ogni mattina canto le canzoni di Marcel Kahlife, canto Julia Botros che forse oggi è più adatta…
ويـــن الملاييــــن؟ الشعب العربي ويـــــن ؟
Dove sono i milioni? dove sono i popoli arabi?
الغضب العربي ويــــن ؟ ا…لدم العربي ويـــن ؟
La rabbia araba dove è? Il sangue arabo dov'è?
الشرف العربي ويــــن ؟ ويـــــن الملاييــــن ؟
La dignità araba dove'è? dove sono i milioni?"
E' il messaggio che questa mattina mi ha inviato una mia amica, una ragazza araba che vive in Italia, delle 2G, delle seconde generazioni. Non è egiziana, ma gli arabi, oggi, ieri, in questa ultima settimana, si sentono ancora una volta egiziani. Lo racconto, per spiegare che quello che stanno provando molti arabi, oltre gli egiziani, è un sentimento di riscatto e di ritrovata dignità. Non è la prima volta, e i ricordi che vengono echeggiati, rimbalzati da più parti non sono solo quelli del 1989 europeo, le rivoluzioni che nascono, scoppiano, vincono senza prima avvertire le cancellerie e – se permettete – servizi segreti che almeno dovrebbe fare qualche riflessione critica sulla propria capacità di conoscere territori e popoli (loro compito precipuo). Il modello è la stagione panaraba, anni Cinquanta e Sessanta, nella quale, ancora una volta, l'Egitto fu capofila. Non è un caso che tra le tanti immagini arrivate da piazza Tahrir, ci fosse anche quella vecchia, grande foto di Gamal Abdel Nasser, presa verosimilmente dalla parete di casa. Dimentichi dei guai e dei guasti del nasserismo, gli egiziani (e gli arabi con loro) ricordano oggi il senso di riscatto, di ritrovata dignità, di coesione. Di forza, soprattutto. Forza contro un regime, forza anche contro il mondo che sembra (almeno in parte) non capire, contro le cancellerie che (in gran parte) stanno balbettando.
Julia Boutros, cinque anni fa, cantava – dopo la guerra dei 33 giorni tra Israele e Libano – Ween el Malayin, dove sono i milioni di arabi, riprendendo una vecchia canzone. E' la citazione romantica di oggi, che troverete facilmente su YouTube, citazione che fanno in molti tra gli arabi. L'altra citazione è shab, popolo, parola che risuona continuamente, costantemente in Piazza Tahrir, nei commenti, nelle interviste alla gente di tutte le estrazioni sociali che parlano e urlano che il popolo non lo vuole, Hosni Mubarak, e con lui l'intero regime, dal vicepresidente al governo rimpastato, alla tv di Stato, ai servizi di sicurezza… Il popolo, il popolo. Una parola per niente retorica o populista, in bocca a un povero del Cairo, che urla di voler uscire dalla prigione in cui si sente.
Se volete conoscere cosa sta succedendo ora, mentre è tutto bloccato, sms, telefonini, internet, mentre l'Egitto è stato blindato dal 'moderato' Hosni Mubarak perché non si veda il 'milione' per strada che vuole marciare sul blindatissimo palazzo presidenziale del Cairo, lungo i viali che portano all'aeroporto e sui quali si affiacciano alcuni dei luoghi più importanti delle forze armate egiziane, collegatevi a Twitter (non è difficile, giuro) e cercate bencnn. E' la firma con quale Ben Wedeman, della CNN, scrive i suoi sms. E' uno spaccato del minuto per minuto, scritto da un uomo e un reporter che non solo conosce da decenni l'Egitto, ma lo ama e lo intuisce nelle viscere. Se volete sapere che succede, sinché non interromperanno le comunicazioni, cercatelo e seguitelo. E' il migliore.
Un suo breve commento, utile ai miei amici diplomatici, quelli che fanno un lavoro spesso oscuro e dietro le quinte:
#Egypt changed beyond recognition #Jan25. It will not go back to what it was before. The sooner EVERYONE realises that, the better for all.
Questi sono gli animi e il retroterra. Ora un po' di notizie, pescate qua e là dai messaggi (quelli credibili) che arrivano dai blogger e da chi tweetta con cognizione di causa.
L'elemento più importante di questa mattina è il tentativo di minimizzare il numero dei manifestanti che stanno arrivando a piazza Tahrir. Si hanno notizie di provocatori che bloccano i pullman in arrivo da fuori Cairo, e dell'esercito che tenta di diminuire l'afflusso verso Tahrir. Si ha poi notizia, e questo è ancora più preoccupante, di manifestanti pro-Mubarak che arrivano a Tahrir assieme a quelli che vogliono le dimissioni di Mubarak: ci potrebbe essere violenza, insomma, in piazza, violenza provocata da quegli agenti in borghese che non portano più le spranghe di ferro, ma che provano a mescolarsi con la gente e – come si dice a Roma, con un frase poco aulica – 'far casino'. I testimoni che sono lì li hanno incontrati, li stanno vedendo in questo momento, ne conoscono le facce. E' un rischio alto, ma non sembra che i manifestanti si vogliano fermare di fronte a questo pericolo. Piazza Tahrir è stata presidiata per tutta la notte. Si tratta di vedere, ora, in questo momento, se gli organizzatori – i ragazzi del Movimento 6 aprile – riusciranno a portare in piazza il 'milione'. Se ci riusciranno, ci sono buone probabilità che la rivoluzione sia riuscita. Non per l'organizzazione dei Fratelli Musulmani, che sicuramente sono in piazza. Ma per i ragazzi del Cairo e di Alessandria. Ragazzi di tutti i tipi, islamisti compresi.
Una generazione chiede rispetto, democrazia e futuro. E' inutile, pericoloso e riduttivo descriverli come un incubo nei nostri sonni tranquilli. Mai in questo momento, la situazione è difficile, e il bagno di sangue potrebbe essere vicino. Ci sono tutti gli elementi, compreso il blocco dei feed, e cioè della possibilità per la tv di trasmettere via satellite i servizi dal Cairo e far vedere cosa sta succendo. Una procedura tipica per evitare che il mondo si indigni, se per caso si usa la violenza. Tutti questi elementi dicono che il regime sta reagendo, ma non attraverso il dialogo, che invece aveva annunciato ieri sera il generale Omar Suleiman, potente capo dei servizi segreti e organizzatore, nello scorso ventennio, del sistema di controllo capillare della società egiziana. C'è chi evoca, oggi, Tienanmen. Pregate per i ragazzi del Cairo.
I ragazzi, magari, non saranno tutti d'accordo. Non tutti amano la Stella d'Oriente, Umm Kulthoum. Ma anche lei fa parte del mito panarabo. E allora, su YouTube, cercate Al Atlal. Il testo, a un certo punto, chiede libertà, 7atini horriyeh. E' un altro brano della ideale colonna sonora di questa rivoluzione.
January 31, 2011
Un debito da pagare
Anzitutto, sono in debito di un grazie ai miei lettori. Grazie pieno e non retorico. In questi giorni, sono stata quasi sommersa da email, telefonate e commenti, di sostegno al lavoro che faccio col mio blog. Vi ringrazio tutti così, con queste righe, e vi prego di credere che non lo faccio con leggerezza. Mi avete veramente sostenuto, in un'impresa che è solo volontaristica e solo per amore di una lettura più complessa di quello che sta succendo in Egitto. Sono rimasta sorpresa da come quel J'accuse sia diventato virale su Facebook e sulla Rete. Oltre 700 condivisioni nel momento in cui scrivo, postate su Facebook. Centinaia e centinaia di contatti, in una normale domenica. Non me l'aspettavo, e questo mi fa riflettere, sulla distanza che pian piano si sta aprendo tra informazione classica e lettore di nuovo tipo. Una riflessione che – credo – coinvolga in primis i giornalisti, che debbono necessariamente chiedersi perché stiano (stiamo) diventando meno credibili. Dipende forse dalla qualità del prodotto? Dalla richiesta, di molti lettori, di sapere di più o meglio, di saltare a pie' pari i giudizi stereotipati e tornare al vecchio stile? Al racconto, alla descrizione della realtà? Ciò che può sembrare naive è invece un modo per uscire dalla crisi, non solo culturale, ma anche economica, in cui versano i giornali. E invece, di questo non si parla nella redazioni, preferendo continuare il tran tran, fatto talvolta (spesso?) anche di protagonismo, del saltare sul carro dell'ultima notizia da prima pagina, di vedere la propria firma.
Ma tant'è. Lettori, insomma, grazie.
E ora, qualche riga sul Cairo. E' una giornata strana, sembra. Dopo una settimana di proteste, serpeggia la paura della stanchezza. La gente fa scorte alimentari, i negozi sono vuoti o quasi, i treni non funzionano, la vita non scorre più come prima. Un paese col fiato sospeso, diviso tra la voglia e la necessità di saltare il fosso, e lo spaesamento che nasce da una rivolta. Reggeranno i dimostranti che ancora riempiono le strade delle città egiziane? Domani il Movimento 6 aprile ha chiesto la marcia del milione di persone. Una citazione e un segnale. La citazione è quella, romantica se si vuole, al Wen el Malayin, dove sono i milioni di arabi, dove sono i popoli arabi, canzone celeberrima, inno al panarabismo riproposto recentemente da Julia Boutros nel 2006, dopo la guerra dei 33 giorni tra Israele e Libano. Il segnale è da parte di uno dei movimenti dei giovani, veicolato in Rete, soprattutto su Facebook, autore di quello sciopero virtuale del 6 aprile del 2008 che rese evidente il rapporto tra Rete, giovani e strada. Il Movimento 6 Aprile vuole segnalare, io credo, che è per loro che c'è stata la rivoluzione, prima che venga sequestrata dalla politica classica.
Vedremo, insomma, domani. Così come domani, e nei prossimi giorni, si dovrà vedere come reagiranno le diverse anime palestinesi. A Gaza la situazione comincia a essere ancor più disperata, mentre Hamas rimane prudente. Scarsezza di carburante, che non passa più attraverso i tunnel, e la paura di una maggiore instabilità al confine. A Ramallah, invece, una manifestazione di soli 50 dimostranti di fronte all'ambasciata egiziana è stata ieri impedita dalle forze di sicurezza dell'ANP. Abu Mazen appoggia ufficialmente Mubarak, e tra i palestinesi si diffonde la paura che succeda come dopo il 1991, e l'appoggio di Arafat a Saddam Hussein. Nell'immaginario arabo, peraltro, nessuno ha dimenticato quella stretta di mano calorosa, di fronte alle telecamere, tra Hosni Mubarak e l'allora ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni. Era proprio alla vigilia dell'attacco israeliano su Gaza del 27 dicembre 2008, l'Operazione Piombo Fuso. Per Mubarak, quella stretta di mano, è stato un ennesimo colpo alla sua stabilità.
E da ultimo, siccome non ho voglia di impelagarmi in una dotta discussione sulla difesa a corrente alternata dei diritti umani e civili che ci contraddistingue, a noi italiani, europei e occidentali, quando si parla di Medio Oriente, faccio parlare i "sacri testi". Dal Rapporto 2010 di Amnesty International, capitolo sull'Egitto:
The government continued to use state of emergency powers to detain peaceful critics and opponents as well as people suspected of security offences or involvement in terrorism. Some were held under administrative detention orders; others were sentenced to prison terms after unfair trials before military courts. Torture and other ill-treatment remained widespread in police cells, security police detention centres and prisons, and in most cases were committed with impunity. The rights to freedom of expression, association and assembly were curtailed; journalists and bloggers were among those detained or prosecuted. Hundreds of families residing in Cairo's "unsafe areas" were forcibly evicted; some were left homeless, others were relocated but without security of tenure. Men perceived to be gay continued to be prosecuted under a "debauchery" law. At least 19 people seeking to cross into Israel were shot dead by border guards, apparently while posing no threat. At least 269 people were sentenced to death, and at least five were executed.
Ne potrei citare tanti di rapporti, da Human Rights Watch alle associazioni egiziane, che si battono ogni giorno con i loro avvocati per dare assistenza a ragazzi, blogger, giornalisti, oppositori, maltrattati etc. Ne cito solo uno, ad esempio, come risposta a chi dice che in Egitto va tutto bene, anche sulle prime pagine dei giornali importanti.
Passo e chiudo. Per ora. But…stay tuned.
Arabi (ora) visibili
Ieri un amico e collega mi ha detto, dal Cairo: "Hai visto? Ora i tuoi arabi invisibili sono più che visibili". E' vero. Hanno dovuto rompere la diga della paura e scendere in piazza, suscitando la sorpresa, quasi lo scandalo sulla riva occidentale del mare nostrum.
E allora mi sono andata a riprendere i miei Arabi Invisibili (Feltrinelli 2007), ed ecco qualche brano dell'introduzione, scritta nel 2006.
Di arabi invisibili, in una regione così complessa come quella che va dalle antenne di Al Jazeera a Doha sino alla terra ocra delle montagne del Grande Atlante, ce n'è una lunga teoria. Alcuni di loro attraversano il mare comune e arrivano da noi, sulla sponda nord del Mediterraneo, ma rimangono comunque invisibili, trasparenti, incogniti. Tutti gli altri, quelli che rimangono entro i loro confini, si sentono rinchiusi di questi tempi come in una gabbia, imprigionati a doppia mandata all'interno di un unico, grande stereotipo che non riesce più a cogliere tutto ciò che va oltre, e che risiede tra le pieghe della quotidianità araba: la ricchezza, la bellezza, la storia, la comunanza, il destino, il dolore, il futuro, la creatività.
È come se Edward Said non avesse mai scritto Orientalismo, il testo che fu – alla fine degli anni Settanta – il più importante atto d'accusa dell'orientalismo culturale e politico europeo, e il colpo di reni dato all'intellighentsjia araba di tutto il mondo, da quella residente tra Medio Oriente e Nord Africa a quella della diaspora. Dopo Orientalismo di Said tutto fu diverso, per l'èlite araba e anche per gli occidentali che cominciarono a riflettere sugli stereotipi che avevano costruito per interpretare chi sarebbe poi stato, da Napoleone in poi, sotto il tallone dei colonialismi contemporanei. A oltre un quarto di secolo di distanza da quel j'accuse, la storia sembra tornata indietro. Come se si dovesse ricominciare daccapo, senza che vi sia più – peraltro – la voce del più grande e seguito intellettuale arabo a fustigare costumi e interpretazioni. Poco prima di morire, un altro degli arabi che avevano deciso di vivere negli Stati Uniti, Mustapha Akkad, si era messo di buzzo buono per tentare di ricostruire il vero volto dell'islam arabo. Lui, regista siriano laico, autore dell'unico film censurato in Italia, Il leone del deserto, voleva girare una pellicola sul rinascimento arabo in Spagna. "C'è stato un tempo – aveva detto in una intervista nell'autunno del 2005 – in cui tutti i re d'Europa mandavano i propri figli a Cordova per studiare scienze, chimica, algebra, medicina e astronomia". Il regista di Halloween voleva "far sapere alla gente che l'islam non sono i talebani e non sono i terroristi". Quel film Akkad è riuscito solo a immaginarlo. Non a girarlo. È morto in un albergo di Amman, in una sera di metà novembre del 2005, dilaniato in un attentato kamikaze compiuto da uomini di Abu Musab al Zarqawi, il primo luogotenente di Al Qaeda in Iraq, ucciso qualche mese dopo dagli americani.
[...]
Loro sono arabi, dunque terroristi, dice ormai la vulgata. Loro, di conseguenza, si rinchiudono nel guscio, innescando talvolta una passività pericolosa che fa sì che rifiutino – a priori – qualsiasi idea di commistione, approccio, contaminazione anche solo superficiale con chi ritengono non nutra un atteggiamento di parità verso gli arabi. Ma solo di superiorità. La frase ricorrente, nella cosiddetta strada araba dove nasce il comune sentire, è "vorrei emigrare, ma ormai tutti ce l'hanno con noi. Sai, sono musulmano. Nessuno mi vorrebbe". Non è solo autocensura. È già discriminazione di fatto, questa, che colpisce nel mucchio e innesca una sorta di punizione collettiva. Che colpisce talvolta i terroristi veri. Spesso, anche gli arabi che terroristi non sono.
Gli arabi invisibili, insomma. Quelli su cui è calato il coperchio dello stereotipo. È a loro, a questa lunga teoria di uomini e donne a cui l'Occidente non riconosce volto e fattezze, che è dedicato questo libro. Nel tentativo di rendere almeno una parte di loro intelligibile. Con due obiettivi. Il primo, di scoprire almeno un angolo del velo del pregiudizio che copre la realtà araba, e di mettere al corrente di quello che – negli ultimi anni – è successo nel frattempo sulla riva sud del mare nostrum, oltre le catastrofi, le guerre, i conflitti sedimentati. Nella società, nella vita quotidiana, insomma. Tra innovazioni tecnologiche, costumi, ricerche identitarie, processi socioeconomici, tendenze artistiche. Il secondo obiettivo è quello di non perdere di vista gli intrecci invisibili che hanno sempre legato noi a loro, e loro a noi. Non perdere di vista quelle pietre bianche e nere del Palazzo Al Giabri, che si guardano come si guarda il duomo di Amalfi. Senza sentirsi spaesata, né dall'una né dall'altra parte. Quegli intrecci invisibili disegnano in Medio Oriente trame inestricabili, che riescono (persino?) a mettere insieme islam e cristianesimo, per esempio nella moschea degli Omayyadi, la cui raffinatezza damascena resiste ai muri ingrigiti del regime degli Assad. Quella moschea, l'unica in cui Giovanni Paolo II è entrato – a piedi nudi – nel suo pellegrinaggio del 2000 in Terrasanta, dice che la culla è sempre la stessa, che Giovanni Battista è seppellito in una moschea cara a sciiti e sunniti, costruita su una chiesa costruita a sua volta su di un tempio romano, accanto a un minareto che porta il nome di Gesù Cristo, il profeta venerato nel Corano, il cui sepolcro i fedeli musulmani in pellegrinaggio nella Città Vecchia di Gerusalemme vanno a omaggiare a piedi scalzi. Perché, questo credono i musulmani, sarà proprio nella moschea di Damasco, quarto luogo santo dell'islam dopo Mecca, Medina e Gerusalemme, che ci sarà il giudizio universale.
Quello che ci è stato proposto, in questi anni, è solo l'islam nemico del cristianesimo, solo quello che segue la trita logica dell'antinomia della tradizione crociata. Solo quello, pur presente, di Al Qaeda e anche dell'islam politico più radicale.
Nascosto, ai più, è rimasto invece il panorama variegato delle contaminazioni e – appunto – delle trame inestricabili che rendono il nostro e il loro destino comune. Come nella moschea degli Omayyadi a Damasco. Come nel quartiere copto del Cairo, dove chiese, sinagoghe e moschee usano gli stessi motivi dell'artigianato ligneo. E dove le donne musulmane che non riescono ad avere bambini vanno – in chiesa, però – per accendere ceri votivi e pregare san Giorgio e santa Teresa, chiedendo la loro intercessione. È una contaminazione che vive, dunque, in gran parte nella religiosità popolare, così come nel mescolarsi dei commerci e dei profumi dei mercati. Ed è proprio lì, tra i ceri votivi e il fumo della kofta e dei falafel, che alberga ancora oggi quella terra di mezzo sempre più stretta. E a rischio di estinzione.
Per chi non vuole appartenere alle sette che riempiono la nostra contemporaneità, e trincerarsi dietro i facili integralismi che vanno oltre quello islamico e tracimano nel fondamentalismo della laicità, queste contaminazioni sono come una carezza. Riguardano però, e sarebbe controproducente e stupido nasconderlo, una terra di mezzo che copre ormai una superficie sempre più limitata. Un territorio difficile e affascinante dove sono confinati gli occidentali che lottano contro i propri stereotipi e gli arabi che ci stanno simpatici. Laici, indipendenti, liberi. Quelli, insomma, che riterremmo meno pericolosi.
La sfida, invece, è altra. È guardare con animo altrettanto aperto e occhio quanto più possibile innocente agli altri arabi invisibili. La maggior parte, cioè. Gli arabi che sono stati inquinati dall'irrigidimento delle posizioni e dall'acredine dei conflitti, ben prima che – l'11 settembre – l'Occidente tutto intuisse almeno che qualcosa stava succedendo sul Pianeta Arabia. Che riguardava anche noi.
Questi ultimi decenni hanno, infatti, modificato l'evoluzione dell'homo arabicus. Spesso carico, oggi, di antioccidentalismo, competizione, rancore verso di noi, ma anche di modelli, teorie, percorsi che hanno comunque una loro valenza, anche se si sono affrancati dai nostri e hanno preso derive che noi consideriamo negative e pericolose. Se si va oltre l'antipatia che alcuni modelli suscitano in noi, o appena al di là della maschera che copre uomini e ideologie, appare un panorama umano che non solo è necessario a noi conoscere, ma che ha il pregio di rovesciare la prospettiva, mettere il nostro mondo a testa in sotto, fornire regole altre da quelle sottoscritte dalla nostra cultura. E instillare il dubbio che l'Occidente non sia più la riserva delle verità terrene. Meglio detto, che già non lo sia più per una congrua parte del pianeta: la più estesa, oltre la terra degli arabi, giù verso l'Africa, attraverso gli oceani verso la vulcanica America Latina e poi verso vero un Oriente estremo che scalpita in maniera sempre più palpabile.
Così, a guardar oltre le pieghe delle reciproche antipatie, si scopre un singolare catalogo degli arabi invisibili. Intrisi, per esempio, di quelle che a noi sembrerebbero antinomie: islamiste e femministe, integralisti e strenui difensori dei diritti umani, sceicchi intabarrati e hacker, commercianti e poliglotti. Oltre le curiosità da "strano ma vero", il catalogo è uno strumento indispensabile per comprendere le prospettive a breve e medio termine. E immaginare un po' di più il mondo in cui a noi – ma soprattutto ai nostri figli – toccherà di vivere.
Questa bellissima foto, scattata in Marocco, è di PierVittorio Buffa. Grazie…
January 30, 2011
Piazza della Liberazione
Chissà come finirà stanotte, visto che le forze armate egiziane non hanno ancora chiarito da che parte stanno. Ma è certo che Piazza Tahrir, piazza della Liberazione, ha oggi rappresentato visivamente il suo significato. C'è chi parla di 100mila egiziani a piazza Tahrir a gridare contro Hosni Mubarak. Egiziani senza paura, che hanno sfidato i caccia dell'aeronautica militare mandati sopra la piazza a bassissima quota, nell'evidente tentativo di spaventare la folla. Quello che è successo, al contrario, è che la folla ha urlato più forte la sua rabbia pacifica dopo che i jet erano passati.
Direttamente dalla piazza, la mia amica Ahdaf Soueif, scrittrice egiziana che vive a Londra, non nascondeva la sua gioia. "E' la rivoluzione", mi ha detto. "E' la rivoluzione, ti prego, dillo a tutti, diffondi la notizia. Siamo qui, e la gente non ha paura di sfidare i caccia!"
La gioia, il coraggio degli egiziani, in queste ore, è evidente, anche per chi al Cairo – purtroppo – non è, come me. Ahdaf Soueif è volata apposta al Cairo, il 25 gennaio, direttamente da Delhi, dove si trovava, per partecipare a un momento unico, decisivo, del suo paese.
Assieme a lei, scrittrice, intellettuale, figlia di una famiglia di intellettuali, sorella e cognata di due tra gli intellettuali conosciuti nel paese, zia di uno dei blogger più conosciuti, c'erano oggi anche i giudici. La gente li stava aspettando, i giudici, che avevano avuto il coraggio negli scorsi anni di affrontare Mubarak, scontrarsi con lui, protestare contro i cambiamenti costituzionali (parlo dell'Egitto, non dell'Italia….). E i giudici oggi sono scesi in piazza per dimostrare con la loro presenza che lo Stato egiziano non è il regime, e che lo Stato, la sua magistratura, è col popolo.
Il regime, invece, è sempre più compresso attorno a figure dell'esercito molto anziani. Hosni Mubarak, Omar Suleiman, il premier Ahmed Shafiq, il nuovo – per così dire – ministro della difesa Mohammed Hussein Tantawi. Nulla è ancora chiaro sulle forze armate. L'aeronautica sembra attorno al presidente, che dall'aeronautica proviene. Ma cosa dicono le altre armi? Si parla di disagio, di ufficiali che si rifiutano di obbedire agli ordini, mentre altre voci dicono questa notte ci potrebbe essere il bagno di sangue. Sfinge come sempre, l'esercito continua a essere un mistero.
Mohammed el Baradei dovrebbe essere arrivato a piazza Tahrir, con in tasca l'appoggio della Fratellanza musulmana come negoziatore con il regime. Ma la piazza dice che è stato il popolo, l'egiziano della strada a superare la paura e guidare la rivoluzione. Verissimo. Certo, ora, qualcuno comincia a parlare di leadership, e sono sicura che l'opposizione sta discutendo come gestire non tanto la caduta di Mubarak, ma la transizione del dopo Mubarak.
La foto è di piazza Tahrir il 25 gennaio,quando la rivoluzione è iniziata. Oggi c'erano molti più egiziani
E' il giorno decisivo?
Tonight is the night, ha detto una figura importante dei fratelli musulmani all'analista Shadi Hamid, del Brookings Center. Questo è il giorno cruciale, nella rivoluzione egiziana. E c'è chi teme oggi il bagno di sangue.
Speriamo che non sia Bloody Sunday, e che sia solamente la domenica decisiva per la rivoluzione egiziana. Il coprifuoco è stato anticipato alle 3 del pomeriggio. I militari hanno avuto ordine di sparare. Voci della piazza non credono che il "vero" esercito egiziano sparerà sulla folla. Dalla diretta di Al Jazeera si sentono gli elicotteri volare sul cielo del Cairo. La domanda ora è cruciale: cosa farà l'esercito. Cosa farà tutto l'esercito, e non solo la guardia presidenziale e le alte gerarchie legate a Mubarak, a Suleiman, al capo di stato maggiore Tantawi. Cosa faranno gli ufficiali, cosa faranno i quadri delle forze armate. Esercito che è popolo, che è importante settore economico (in parte simile a quello indonesiano). Cosa faranno gli ufficiali? Non sappiamo, nessuno sa la composizione dell'esercito, dove probabilmente ci sono esponenti dei fratelli musulmani.
Spareranno sulla folla? Appoggeranno il popolo? Pregate per l'Egitto.
J'accuse
Mi verrebbe da riprendere la parola che da anni gira per le strade del Cairo. Kifaya. Basta. Ne ho abbastanza. Sono giorni che leggo la stampa italiana sull'Egitto, e giorni che m'imbatto in articoli catastrofisti. Di quelli: se cade Mubarak sono guai per noi. O meglio, per l'Occidente. O meglio, per quell'ambiente artificiale che avevamo creato: una specie di resort, di albergo a cinque stelle politico, in cui gli altri sono solo i camerieri che ci devono servire cocktail a bordo piscina. Senza nome, senza faccia. Invisibili. Ops, ma i camerieri si sono ribellati! Quel dommage. Ma come… Ops, sono esseri pensanti, e magari hanno anche pensieri politici. Parlano di libertà, democrazia, dignità. Ops, ma allora non hanno solo fame perché lì, in quegli alberghi a cinque stelle gli danno uno stipendio da fame. E allora, ora, che succede?
Ho letto che Hosni Mubarak è un moderato. Anzi, è il campione dei moderati. Ho letto che Omar Suleiman ci ha salvato dai Fratelli Musulmani. Ho letto che l'"intifada di Baradei" è "nemica dell'Occidente". Che "ora il rischio è un secondo Iran". Addirittura che se cade il rais è "l'inferno terrorista". Ops, non me n'ero accorta. E' strano, però. Perché è da dieci anni che frequento l'Egitto. Ho vissuto per anni al Cairo, ho amici egiziani, ci torno perché sono una giornalista, un'analista, ci ho anche scritto un libro sopra, e poi una parte del mio cuore è lì. Eppure non mi sono mai accorta che Hosni Mubarak fosse un moderato. Né mi sono mai accorta che la concezione sunnita della politica sia simile a quella sciita. Non mi consta che ci sia un clero così solido come quello sciita, che dunque può governare l'Iran. Mi consta, invece, che nel sunnismo non ci sia gerarchia, e che già solo per questo il paragone con l'Iran e la rivoluzione khomeinista sia totalmente improprio. Se mai ci può essere un paragone, quello sì, è tra Hosni Mubarak e lo scià Reza Pahlavi, entrambi sostenuti e foraggiati dall'Occidente in generale, e dagli Stati UNiti in particolare…
Ah, non mi sono neanche accorta che l'opposizione a Mubarak fosse fatta da terroristi. Che strano… Eppure io gli oppositori li ho incontrati. Mi pregio di essere amica di Alaa al Aswani. Ho incontrato intellettuali egiziani che vivono all'estero, intellettuali egiziani che si sono subiti censura e attacchi in Egitto. Ho incontrato giovani (blogger o meno) laici, islamisti, di sinistra, senza colore politico, musulmani e copti. Ragazzi e ragazze. Ho amici nella media borghesia, tra i professionisti, tra i figli dell'èlite (dell'èlite, sì…), tutti contro il regime. Conosco figli del popolo, artigiani, poveri, pieni di dignità e rispetto per gli altri. Non mi davano idea di essere dei terroristi, eppure – chissà perché – erano tutti contro Mubarak anni fa, e lo sono ancora di più adesso. Volevano e vogliono da tempo, inascoltati, trasparenti, invisibili, poche cose: pane e rose, futuro, dignità, libertà di espressione, libertà di voto, democrazia. Libertà dalla paura, soprattutto. Ah, già. La paura, il controllo della polizia, il controllo dei servizi di sicurezza. Onnipresenti. Presenti nel controllare i telefoni (molto probabilmente anche il mio), nel sapere tutto di tutti, nel costruire una rete di informatori infinita, pagata qualche soldo. Il sistema, per chi non lo sapesse, è stato creato da Omar Suleiman, ora vicepresidente. Lo stesso Suleiman che oggi, per esempio, Amnesty International accusa delle extraordinary rendition.
Vogliamo parlare di tortura, abusi, maltrattamenti, morti per pestaggi e torture nel paese campione del moderatismo arabo? Vogliamo parlare dei ragazzi prelevati e portati chissà dove, delle torture subite nelle stazioni di polizia (è chiaro, adesso, perché le hanno bruciate)? Spero che a nessuno dei soloni che sproloquino senza aver mai visto l'Egitto vero, tocchi l'esperienza di essere arrestato e portato in una stazione di polizia egiziana. Ci sono racconti non proprio edificanti, del moderatismo del regime di Hosni Mubarak. Li hanno scritti e pubblicati, da anni, tutte le associazioni per la difesa dei diritti umani, dentro l'Egitto così come a Londra e a New York. Non potevamo dire, insomma, che non sapevamo quello che stesse succedendo dentro il paese guidato dal campione del moderatismo. E se abbiamo voltato la faccia dall'altra parte, guardando il mare di Sharm invece di guardare la faccia dei camerieri, è solo ed esclusivamente colpa nostra.
E poi, ancora una volta, lo spauracchio dell'islam politico. Se cade il rais Mubarak, arrivano i Fratelli Musulmani. Alias, il 'terrorismo'. Vorrei sapere se qualcuno dei soloni ha mai incontrato un 'fratello musulmano'. Non solo i leader, non solo i capi. Se ha incontrato l'elettricista dei fratelli musulmani, il giornalista, il padre di famiglia. Vorrei sapere se sa la differenza tra salafiti, riformatori, jihadisti, e via elencando. Se sa qualcosa della galassia islamista, se fa qualche differenza tra Abdel Moneim Abul Futouh o Essam el Aryan, e quelli che sparavano ai turisti a Luxor e al Museo Egizio nel 1997. Chissà se questi nomi sono familiari, a chi discetta d'Egitto. Chissà se i soloni si erano posti gli stessi problemi quando il regime aveva truccato le elezioni del novembre scorso, dando il vero via libera al popolo per ribellarsi contro l'autocrazia. Chissà se i soloni era lì, a guardare le elezioni politiche del 2005, quando i Fratelli Musulmani egiziani avevano partecipato come indipendenti, ma con un numero tale di candidati da non poter mai superare la metà dell'Assemblea del Popolo: un messaggio mandato all'occidente, per non far paura all'Occidente, e chiedere un ingresso morbido nella vita politica. Dopo gli 88 seggi conquistati al primo turno, il regime impedì alla gente di andare a votare al secondo e al terzo. Chissà se i soloni hanno queste foto conservate (scattate dai blogger) dei cittadini egiziani che tentano di entrare nei seggi con le scale, dalle finestre, per poter esercitare il proprio diritto di voto.
E chissà quanto conoscono dell'opposizione egiziana, che tutto d'un tratto, cinque anni fa, si riunì tra sinistra e islamisti, liberal e barbuti. Superando differenze in nome della richiesta di democrazia. Vorrei fosse ancora vivo Mohammed El Sayyed Said, portato via troppo presto da un cancro, uomo mite, tra i fondatori di Kifaya, il cartello delle opposizioni. Vorrei che parlasse, ora, e dicesse veramente ai soloni come stanno le cose. Vorrei che fosse vivo il giovane Khaled Said, ammazzato di botte dalla polizia ad Alessandria, attorno al cui nome i ragazzi egiziani si sono riuniti allora, al momento della sua morte, e in questi giorni rivoluzionari. Vorrei che i lettori italiani ascoltassero il vero Egitto, e non quello che viene spiegato in molti commenti. Vorrei che sentissero le richieste normali, e pronunciate in un perfetto inglese, dei ragazzi della strada egiziana, di quella araba. Ragazzi che non hanno nulla a che fare con le squadracce di agenti in borghese, i famigerati beltagi, che hanno picchiato selvaggiamente chi era in piazza (ehi, basta guardarsi Al Jazeera, per guardare le loro facce e le loro spranghe di ferro) e ora, da due giorni, saccheggiano e vandalizzano il Cairo, dopo che gli è stata data mano libera dal regime.
Accuso chi sta descrivendo un Egitto diverso da quello reale. Chi sta parlando di un incubo che, semmai ci dovesse essere, sarà solo colpa della nostra insipienza. Accuso chi continua a sostenere gli autocrati senza chiedere a se stesso, prima che agli altri, perché un milione e mezzo di persone normali, quasi sempre senza affiliazione politica, hanno sfidato la paura e chiesto democrazia. Accuso chi si è dimenticato, negli scorsi anni, di parlare della corruzione dilagante in Egitto, e di quei tycoon che hanno dilapidato un paese e i soldi che noi, italiani, noi europei, e gli americani hanno versato nelle casse del regime di Hosni Mubarak. Accusa chi non ha detto niente di un paese reso sempre più povero, disperato. Un paese che chiedeva dignità e rispetto.
Uno degli ultimi tweet che ho visto, questa mattina, è di Samih Toukan, un imprenditore. Questo è il testo
Arab people are not extremist nor terrorists.Our time has come.
We deserve democracy and to live with freedom and dignity #jan25 #egypt
Parliamo di essere umani, non di subumani o schiavi. Pensateci, quando scrivete. Guardate le loro lacrime, leggete le loro facce, fatevi raccontare la loro vita. E per favore, per amore di verità, se non sapete, se non conoscete l'Egitto, scrivete d'altro. La Storia si scrive in altro modo, e la stanno scrivendo i ragazzi del Cairo.
Nella foto, un minuto di silenzio per Khaled Said. Non è una foto di questi giorni. E del giugno 2010
January 29, 2011
Make-up di Palazzo
Dunque, siamo alla cosmesi del potere. Hosni Mubarak fa un passo ulteriore, oltre quello di nominare un nuovo governo dopo aver costretto il precedente a rassegnare le dimissioni. Nomina Omar Suleiman vicepresidente dell'Egitto. Carica mai ricoperta da nessuno, da trent'anni. Era stato lo stesso Mubarak a rifiutarsi di designare il suo vicepresidente, e cioè colui che avrebbe dovuto esercitare le funzioni di presidente in caso di impossibilità da parte del vecchio Faraone. Chissà, forse per paura di un golpe di palazzo, oppure – ed è questa la tesi più accreditata – per poter sostenere la successione del suo secondogenito Gamal. Come che sia, quella sedia vuota è occupata formalmente da alcune ore da Omari Suleiman, capo dei servizi segreti, uomo chiave nella protezione di Mubarak nell'ultimo ventennio (ha praticamente sventato un attentato contro il presidente nel 1995), uomo che ha sconfitto l'estremismo jihadista in Egitto negli anni Novanta. Il generale Suleiman, però, non è solo il capo dei servizi segreti. E' da anni il secondo uomo forte dell'Egitto. Secondo, appunto, solo a Mubarak. E' l'uomo dei dossier difficili, dal rapporto con Israele sino alla riconciliazione palestinese. Non è, dunque, un uomo che siede ai limiti del regime. Ne fa parte al 100%. Questo è il motivo per il quale la piazza non lo vuole, tanto quanto non vuole Mubarak.
E', cioè, l'uomo che ha gestito l'intelligence interna del paese, fatta di un esercito di informatori, dal semplice portiere alle intercettazioni telefoniche di chiunque. La gente che è scesa in piazza, dal 25 gennaio in poi, lo considera insomma l'uomo che ha gestito legge e ordine, che ha fatto in modo che il regime funzionasse, almeno nell'ultimo ventennio. Il più duro, per la popolazione egiziana.
E dunque? E dunque l'idea che circola diffusamente è che la decisione di designare Omar Suleiman come vicepresidente sia, da una parte, l'accettazione da parte di Hosni Mubarak di lasciare il potere, sia, dall'altra parte, il tentativo da parte del regime di non uscire di scena. Il dipartimento di Stato americano, è vero, ha chiesto al governo del Cairo di non fare solo cosmesi. Nello stesso tempo, però, chi ha parlato, dalla piazza, ha già fatto sapere che non crede che gli USA non entrino per nulla in questo make-up. Suleiman, infatti, è sulla falsariga di Mubarak: non si mette in questione nulla dell'alleanza con Washington, né – soprattutto – del trattato di pace con Israele. Un pilastro fondamentale nella strategia americana nella regione.
A conferma di una cosmesi tutta interna al regime, è la designazione di Ahmed Shafiq come nuovo primo ministro, generale in congedo, ex capo di stato maggiore dell'aeronautica, eroe della guerra del 1973, ex pilota sotto il comando dello stesso Mubarak. Messi gli abiti civili, Shafiq è rimasto famoso per aver ristrutturato la EgyptAir per farne il perno della politica turistica egiziana, di cui hanno fatto parte anche le recenti ristrutturazioni degli aeroporti del Cairo e di Sharm el Sheykh. Decisionista ma fedele al regime, Shafiq è stato scelto proprio per questo, per l'immagine e per la fedeltà. Quanto questo gioco riesca, è tutto da vedere.
Certo è che le ore sono decisive, e che il regime sta ricalcando, per alcuni versi, le orme di Ben Ali. Soprattutto riguardo al ruolo della polizia e dei servizi di sicurezza. I saccheggi, lo stato di anarchia descritto da molti dei testimoni egiziani credibili sembranoun tentativo, da parte delle forze di sicurezza, di distogliere l'attenzione internazionale dalla rivoluzione in piazza e di canalizzare le energie della gente nella protezione delle proprie cose e delle proprie proprietà. Se il ponte del 6 Ottobre è senza macchine, insomma, è perché la gente è tornata a casa a proteggere appartamento, strada, quartiere. Come in Tunisia.
Stay tuned. Sono ore difficili e interlocutorie
la foto, scattata oggi a piazza Tahrir, è presa dall'album di Ramy Raoof. Lo skyline in fondo comprende alcuni degli edifici della corniche più noti, dall'Intercontinental sulla sinistra sino al Nile Hilton. In mezzo, lo storico palazzo della Lega Araba, praticamente afasica in questi giorni. I ragazzi della rivoluzione egiziana salgono sui carriarmati delle forze armate, sulla cui posizione ancora si sa poco, salvo quello che riguarda le altissime gerarchie, legate anche dal punto di vista anagrafico a Mubarak.
Bignami dell'opposizione egiziana – 2° puntata
Seconda parte del bignamino. Sempre da Arabi Invisibili, edizioni Feltrinelli (2007), prefazione di Alaa al Aswany, l'autore di Palazzo Yacoubian, severo oppositore del cosiddetto moderato Hosni Mubarak, in piazza con i ragazzi del 25 gennaio. La foto è presa da RNN.
Democristiani in salsa islamica?
L'alleanza tra laici e islamisti è quella che appare all'occhio occidentale del post-11 settembre come un vero e proprio matrimonio impossibile, tra il diavolo e l'acqua santa. A un occhio arabo, però, è molto meno incomprensibile, molto più accettabile. Anzi. Fa parte di una discussione che – ignorata dall'Occidente monopolizzato dalla lotta a un magma indistinto chiamato terrorismo islamico – va avanti da molti anni.
Anzitutto, una precisazione tautologica, ma necessaria. I movimenti di massa islamisti non sono Al Qaeda, non teorizzano la guerra santa, non usano strumenti violenti per raggiungere il potere. Si chiamano Fratellanza Musulmana in Egitto, in Siria, in Giordania. Oppure hanno due espressioni in Marocco: una legale, con il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, e una invece molto più diffusa nella società con il movimento guidato nei fatti da Nadia Yassine, Giustizia e Benessere. Nella piccola isola arabica del Bahrein, frammentata dal punto di vista etnoreligioso, si dividono tra gli islamisti sciiti del Wefaq e quelli sunniti del Minbar. Nell'Algeria uscita martoriata da dieci anni di una guerra civile che avrebbe dovuto risolvere con l'esclusione la questione islamismo, ora i partiti che si richiamano all'islam politico sono diventati tre, due in parlamento e l'altro, il vecchio FIS contro il quale cominciò il conflitto fratricida, ancora fuori. E in Tunisia, gli islamisti del An-Nahda sono del tutto illegali, tanto che la dirigenza è tutta all'estero. Sono, dunque, formazioni legali che siedono in parlamento, in alcuni paesi. In altri contesti nazionali, si tratta di movimenti formalmente illegali ma profondamente radicati nella società.
Osama Bin Laden, e soprattutto il dottor Ayman Al Zawahry, l'urologo egiziano considerato numero due ed eminenza grigia della rete del terrore, non amano i movimenti di massa islamisti. Anzi. Per Al Qaeda sono un pericolo e un nemico. Allo stesso modo in cui, con un paragone immediato, le Brigate Rosse non amavano il Pci di Enrico Berlinguer né la Cgil di Luciano Lama. I movimenti di massa islamisti sono bersaglio degli strali di Bin Laden e Zawahry già da molto tempo, e ancor di più da quando si è fatto più forte il loro tentativo di entrare nel gioco politico ed elettorale, in Egitto, in Siria, in Tunisia. Con il sostegno di gran parte delle opposizioni. Anche quelle più lontane dalle chiarine della religione.
Da noi, la possibilità di un accordo di programma tra laici e islamisti nei diversi sistemi nazionali suscita soprattutto una perplessità teorica, oltre che un pregiudizio di pelle. Come potrebbero, insomma, raggiungere un'intesa correnti di pensiero che consideriamo agli antipodi? I rappresentanti di un mondo arabo secolarizzato, gli alfieri della modernità sulla riva sud del Mediterraneo, da un lato, e dall'altro coloro che dipingiamo come i portabandiera dell'antimoderno e di una "regressione" sociale e culturale? Viene da pensare che, forse, le stesse perplessità albergassero anche in chi – con occhio estraneo – guardava all'alleanza tra socialisti anticlericali e democristiani durante la seconda guerra mondiale.
Diavolo e acqua santa si unirono, allora, su urgenze e priorità che avevano fatto piazza pulita degli attriti precedenti. C'era il nazifascismo da combattere in terra italiana, così come in terra francese, tanto per citare due storie politiche che vanno parallele almeno tra la fine del conflitto e l'inizio della guerra fredda. C'era da portare a casa indipendenza e libertà. Le differenze, gli approcci religiosi e culturali diversi, moderno e antimoderno, li si sarebbe discussi dopo. A obiettivo raggiunto. Poi, con la fine della seconda guerra mondiale, l'alleanza che in Italia era nata nei CLN, nei Comitati di Liberazione Nazionale, resistette a una prova politica durissima come fu la Costituente, e uomini di estrazioni così diverse ci regalarono una bella carta costituzionale che riuscì a salvare tutti, senza neanche far perdere la faccia a qualcuno dei contraenti di quel patto fondativo.
I paragoni storici – si sa – lasciano il tempo che trovano quando quasi tutte le variabili cambiano. L'Europa del secondo dopoguerra, distrutta da un conflitto di così immani proporzioni, non è la regione araba dell'inizio del terzo millennio, in crisi e in transizione. I democristiani non sono i fratelli musulmani. Il cattolicesimo da cui la Dc nacque come urgenza politica di masse di fedeli, non è l'islam. Una variabile, in questo parallelo, è però rimasta tale: il senso di urgenza che pervade le èlite arabe e arriva sino alle masse più indistinte. Non per un conflitto mondiale in corso, certo. Ma per quel sentimento di trovarsi ora all'ultima spiaggia, sospinti verso un angolo da un mondo altro che non si vuole più come deus ex machina del proprio futuro.
Le truppe occidentali stazionano ormai da anni nei deserti iracheni. E non, com'era successo nella guerra del Golfo del 1991, per un conflitto interarabo in cui la coalizione internazionale prese posizione per una delle due parti in causa. Contro l'Iraq. Per la sovranità del Kuwait, sostenuto da buona parte della Lega Araba, Siria inclusa. Le truppe occidentali, Stati Uniti e Gran Bretagna in testa, sono invece arrivate non richieste a Bagdad, nel 2003. Sono, dunque, truppe d'occupazione, dicono indistintamente tutti gli arabi. E questa presenza non può non ricordare, in primis, un passato ancora non del tutto digerito, come quello del patto Sykes-Pikot del primo dopoguerra e della spartizione del mondo arabo tra le potenze coloniali europee. Non solo. Carri armati e marines americani rendono ora fisica e intellegibile quella invasione neocoloniale che la gran parte degli arabi (laici e islamisti insieme) contesta da decenni agli Stati Uniti. Considerati, nella lettura imperante, la longa manus di Israele e dei suoi desiderata in una ricomposizione territoriale e geopolitica degli assetti mediorientali.
L'urgenza c'è. Il senso dell'assedio militare, oltre che culturale e politico, anche. Il corollario è il rapporto tra i cittadini arabi e i regimi al potere. Considerati autocratici, corrotti o, quando va meglio, decisamente imperfetti dal punto di vista dell'assetto democratico. L'urgenza di liberarsi dal neocolonialismo e la priorità di instaurare democrazie compiute ed effettive sono, dunque, alla base di un potenziale accordo tra laici e islamisti: in una parola, è la ricerca delle libertà a tenerli insieme. E ad aver convinto molti laici che bisogna sdoganare gli islamisti, perlomeno dentro le società politiche arabe.
Quelli che gli studiosi chiamano laici pluralisti, i settori secolari aperti all'ingresso degli islamisti nel gioco politico, credono anzitutto che sia impossibile pensare a una democrazia nei paesi arabi senza almeno i cosiddetti modernisti. O, secondo un'altra terminologia, nazionalisti. Che si scelga l'una o l'altra formula, si tratta di quei movimenti non solo sunniti che, in diversa forma, si richiamano all'islam politico, ritenendo che il Corano possa essere affiancato da una interpretazione della modernità che consenta di vivere dentro il reale. Sono i movimenti che teorizzano la ijtihad, il valore dell'interpretazione del presente per capire se sia compatibile con i sacri testi, e che hanno nello sceicco qatariota Yussuf al Qaradawi il loro principale rappresentante.
I laici pluralisti ritengono che sia impossibile una democrazia araba a breve, o anche a medio termine, se si continua a perseguire l'emarginazione sia dell'islam in quanto ideologia politica sia degli islamisti come attori politici. Dal canto loro, i modernisti hanno lanciato in questi anni numerosi segnali di apertura verso una contaminazione selettiva sia dell'universo laico sia del sistema di valori occidentale. È Rashid al Ghannouchi, leader del tunisino An-Nahda, a spiegarne i motivi. "Se agli islamisti viene data la possibilità – scriveva dieci anni fa – di comprendere i valori della modernità occidentale, come democrazia e diritti umani, cercheranno nell'islam un posto per questi valori, li impianteranno, li cureranno e li proteggeranno esattamente come hanno fatto prima gli occidentali, quando li hanno piantati in un terreno molto meno fertile".
La contaminazione, certo, ha limiti ben precisi, e non è possibile pensare che gli islamisti arabi possano "addolcirsi" secondo i nostri desiderata. Ci sono, però. E sono gli unici movimenti di massa esistenti nella regione, passati quasi indenni attraverso la stagione in cui, di movimenti di massa, ce n'erano altri, quelli nazionalisti socialisti e panarabi, ora ridotti a partitelli di nessuna importanza o trasformati nel corso dei decenni nei partiti-stato, com'è successo al Baath siriano o allo Fln algerino. "Chi è rimasto in competizione e chi è stato scartato in questa storia così recente?", commenta con la sua solita verve Nadia Yassine, la portavoce del più importante movimento islamista marocchino, Al Adl Wal Ihsan, Giustizia e Benessere, non rappresentato in parlamento come invece il PJD, il partito Giustizia e Sviluppo, altra costola (legale) dell'islam politico nella terra dell'Atlante, che alcuni studiosi definiscono addomesticato dalla monarchia, prima da Hassan II e poi da suo figlio Mohammed VI, discendenti di Maometto.
"I movimenti islamisti sono il risultato di un sostrato molto profondo, i movimenti di sinistra hanno perso il loro ancoraggio con la scomparsa dell'impero sovietico ma continuano a "filosofeggiare" sulla loro esperienza ormai datata". Questa la ragione, dice la Yassine, per cui, "sì, i movimenti islamisti influenzeranno il futuro (già presente) del mondo arabo". Per la precisione, almeno i prossimi venti o trent'anni, commenta il laico Mohammed el Sayyed Said, che non limita l'influenza alle classi povere (nella vulgata che impera in Occidente, organizzazioni come i Fratelli musulmani, avendo associazioni caritatevoli, si conquistano solo in questo modo il sostegno delle masse). No, gli islamisti "hanno influenzato grandemente le classi medie", dice el Sayyed Said. E lo dimostra la conquista, in tutto il mondo arabo, di una leadership indiscussa negli ordini professionali, che hanno preparato le èlite regionali prossime venture, un esercito di dottori, avvocati, ingegneri, farmacisti, insegnanti, tecnici che hanno scelto la via islamista alla nuova politica araba.
Mohammed el Sayyed Said è il più incline a pensare che questi movimenti possano "occupare il posto della destra (moderata)", come fecero i democristiani in Italia e in Germania nel secondo dopoguerra. E come la destra (moderata) europea, anche gli islamisti sono portatori di un pensiero conservatore che se ha avuto un merito, in questi anni, è stato quello di fare da baluardo alla difesa identitaria, per il mantenimento di una identità messa a dura prova da una modernizzazione solo a parole positiva, ma più spesso dilaniante dal punto di vista dei costi sociali, culturali, morali. Un caso per tutti: il costo dal punto di vista del collante identitario della inurbazione, con la creazione di bidonville, banlieu, baraccopoli enormi, dove il senso di sé, della comunità, e di un insieme solido di valori ha lasciato il posto, spesso, alla disperazione.
Attenzione, però, a non fare differenze tra cristianesimo e islam. "L'islam è molto più interventista nella vita pubblica e privata" di quanto lo sia il cristianesimo, secondo il vicedirettore del Centro di Studi Al Ahram. Il dottor Abdel Moneim Abul Futouh preferisce spiegarlo alla radice, e fuori da ogni ambiguità, com'è suo costume. "In Occidente si immagina che l'islam sia una religione simile alla fede cristiana, il cui ruolo si compie dentro la chiesa. E si crede che anche per l'islam il suo ruolo si esaurisca dentro una moschea". Non è così, e a chiarirlo sono le stesse figure dei due profeti, Gesù e Maometto. "Gesù era un profeta e un messaggero di Dio. Maometto è stato un profeta, un messaggero e un leader politico", spiega il leader dell'Ikhwan egiziano. Ecco perché la lettura occidentale risulta falsata. Perché, dice, "talvolta la descrizione che prevale è quella che sia il movimento politico a voler politicizzare la religione. Invece, è la religione musulmana a occuparsi di politica". "Dai a Dio quel che è di Dio, e a Cesare quel che è di Cesare, è scritto nella Bibbia. Libro che noi rispettiamo", chiosa Abul Futouh. Ma l'islam può "interferire e dire la sua opinione sulle leggi, sull'economia, sui diritti umani e politici".
È proprio questo il nodo dell'incomprensione, e della sempre più netta distanza da un Occidente percepito come rinchiuso a doppia mandata dentro un credo illuminista che non è possibile né mettere in dubbio, né relativizzare. Nadia Yassine, perfettamente padrona della cultura occidentale, è ancora più chiara, quando rigetta l'idea che i movimenti islamisti – in futuro – si possano dividere tra un settore più dichiaramente religioso e ideologico (dunque, dalle posizioni più dure) e un vero e proprio partito politico. Com'è successo ad esempio in Giordania, dove il Fronte di Azione Islamica è la rappresentazione politica e parlamentare dei Fratelli musulmani. "Questa scissione deriva forse da una volontà occidentale di comprendere le cose separatamente. Ma nell'islam bisogna smontare questa struttura mentale per comprendere al profondo che il perfezionamento spirituale dell'individuo non è per niente incompatibile con la sua lotta per una società giusta ed equa." E "l'islam è per eccellenza la religione del giusto mezzo, checché ne dicano i suoi detrattori. La prassi del giusto mezzo".
In Occidente, invece, ha per adesso partita vinta l'idea che islam e democrazia non siano compatibili (sic!). E c'è più di qualcuno, sulla riva nord del Mediterraneo ma anche dentro le èlite totalmente liberali del Medio Oriente e del Nord Africa, che si spinge oltre, paragonando tutti i movimenti islamisti (indistintamente) con quello nazionalsocialista di antica memoria. Anche i nazisti aveva consenso di massa. Il numero e il seguito delle folle, dunque, non sono sufficienti a sdoganare un movimento. Tutto vero. Salvo per una non piccola differenza: che gli islamisti non sono i nazisti. E che è comodo e riduttivo cercare di appaiare il nazionalsocialismo all'islam politico, senza differenziare, e senza riconoscere l'evoluzione che i grandi movimenti di massa hanno subito negli ultimi anni.
La tendenza sempre più evidente tra gli esperti di mondo arabo e islamico, nonché tra i laici dialoganti, è invece proprio quella di cambiare l'approccio tenuto almeno negli scorsi vent'anni verso le principali espressioni politiche islamiste. Superare il dibattito ideologico. E osservare la prassi. La pratica quotidiana. Gli atti compiuti negli anni recenti. Ci si accorge, generalizzando, che è la gran parte delle leadership islamiste a chiedere lo sdoganamento, ad aprire lo spiraglio di una porta ancora chiusa. Mentre, da parte degli ambienti laici, si fa presente che solo con l'inclusione è possibile – se si vuole, anche solo in chiave cinica – imbrigliare gli islamisti in una cornice istituzionale che li blindi. E non consenta fughe in avanti verso le tesi più rigide e tradizionaliste. C'è un solo modo, insomma, per superare la paura che gli islamisti, una volta al potere, buttino a mare le regole. Secondo la tesi (imperante soprattutto negli Stati Uniti) che l'islam politico chieda democrazia e libere elezioni con un solo fine: "una testa, un voto, una volta sola". Bisogna includerli, dicono molte teste pensanti. Come in fondo dimostra, seppur in maniera parziale, quello che è successo in Marocco. E che sta succedendo in Algeria, ma dopo dieci anni di guerra civile.
Persino il modello algerino parla, oggi, la lingua di una "inclusione selettiva", come la definisce in termini efficaci Isabelle Werenfels, un'analista di uno dei migliori think tank europei, il tedesco Swp. Dopo il sostanziale fallimento dell'esclusione, che ha significato per il paese nordafricano dieci anni di sanguinosissima guerra civile, e confronto armato tra le forze di sicurezza e il terrorismo di marca islamista. La scelta del golpe bianco, presa dai dirigenti politici e dall'esercito algerini nel gennaio 1992, quando non venne riconosciuto il responso delle urne che avevano decretato la vittoria a valanga del Fronte Islamico di Salvezza, non ha segnato la fine dell'islamismo. Né l'hanno estirpato la repressione, gli arresti di massa, le esecuzioni extragiudiziali. Più efficace, semmai, è stata la politica del divide et impera, realizzata soprattutto negli ultimi anni dall'uomo forte, il presidente Abdelaziz Bouteflika. Alcuni settori islamisti sono stati legalizzati e in parte inglobati nelle istituzioni, mentre il Fronte Islamico di salvezza rimane nell'illegalità, anche se nel 2006 Bouteflika ha aperto la porta a una riconciliazione guidata dall'alto (e che non prevede, però, il riconoscimento delle violazioni compiute dalle forze di sicurezza), liberando centinaia di esponenti del Fis che ancora si trovavano in galera.
Ancora più interessante il modello marocchino, in cui l'"inclusione selettiva" (o meglio, l'"addomesticamento", come lo definisce la Werenfels) è cominciato da subito. Imparando proprio dalla lezione del bagno di sangue algerino. Meglio cooptare gli islamisti, ha pensato il vecchio Hassan II alla fine del suo lungo regno, per evitare guai peggiori. Soprattutto partendo da un dato di fatto, essenziale anche per spiegare la legalizzazione dei Fratelli musulmani in Giordania compiuta già dal padre di Abdallah II, Hussein: la monarchia rischia di meno della repubblica, nel mondo arabo. Perché la monarchia gode già di una forte legittimità in sé, che tantomeno in Marocco può essere messa in gioco dagli islamisti, visto che il re è diretto discendente di Maometto. Anche in questo caso, certo, il quadro non è né sempre nitido né sempre costante, come dimostra l'attacco alla monarchia condotto ormai da anni da Nadia Yassine, che ha compreso bene quanto la figura del re sia anche di ostacolo a un'ascesa compiuta degli islamisti. Una riforma tutta calata dall'alto – com'è quella di Rabat – non risolve il cuore del problema: la richiesta profonda e indiscutibile di una democratizzazione reale.
Bignami dell'opposizione egiziana – 1
A uso e consumo di colleghi, analisti, diplomatici, e magari anche qualche solone, ecco cosa succedeva nella politica egiziana nel 2005-2006. Quando noi – europei e americani – appoggiavamo il moderato Hosni Mubarak. In questa prima parte, c'è il ritratto di uno dei leader dell'ala pragmatica dei Fratelli Musulmani egiziani, Abdel Moneim Abul Futouh, che nel frattempo si è fatto altra galera. Della stessa generazione di Issam el Aryan, altro leader dell'ala pragmatica arrestato due giorni fa. Sono le prime pagine del capitolo di Arabi Invisibili (Feltrinelli, 2007), dedicato alla richiesta di democrazia che veniva allora e continua a venire oggi dall'Egitto e dal mondo arabo. Tanto per smentire, come mi son sentita dire ieri, che l'Egitto sia premoderno, dal punto di vista politico… Ricordo che l'Egitto è stata la prima vera democrazia parlamentare nel mondo arabo.
Il protagonista delle fotografie appese al muro, accanto alle bacheche degli appuntamenti, ha i capelli precocemente bianchi, e una barba appena accennata attorno a un viso largo. Il sorriso è pieno, ma in ogni scatto fotografico traspare una certa timidezza. O forse è solo la ritrosia a farsi spazio sul suo viso, mentre il dottor Abdel Moneim posa assieme al team di medici arabi e alle vittime dello tsunami del 26 dicembre 2004. Sullo sfondo, la devastazione di Banda Aceh, il cuore indonesiano del disastro. Un cuore musulmano, come il resto delle settemila isole dell'arcipelago.
Poche fotografie, appese lungo il corridoio che porta al suo studio, nel grande palazzo dell'ordine professionale dei medici che s'affaccia su una delle vie più trafficate e più centrali del Cairo. Qasr el Ayni. A due passi dall'ospedale, a poca distanza dal Museo Egizio, dal ministero degli interni e dal quartiere governativo. Mentre basta una piccola passeggiata per arrivare a quella facoltà di medicina dell'università del Cairo, appena al di là del Nilo, dove il dottor Abdel Moneim Abul Futouh mosse i suoi primi passi politici all'inizio degli anni Settanta. Solo le poche foto della squadra di soccorso alle vittime dello tsunami testimoniano dell'incarico che Abul Futouh ricopre dalla fine degli anni Novanta. È il segretario generale dell'Unione Araba dei Medici, ed è in quella veste che era andato a Banda Aceh a portare aiuti e soldi. Ma non è al suo incarico che il dottor Abdel Moneim – in Egitto e fuori – deve la sua fama, la sua visibilità sulle tv arabe via satellite. O anche la possibilità di scrivere commenti persino sullo Al Ahram Weekly, il settimanale governativo in lingua inglese. Nonostante i capelli incanutiti, il dottor Abdel Moneim è il rappresentante più in vista della "giovane guardia" dei Fratelli Musulmani, il più importante, radicato e diffuso movimento di massa islamista di tutto il mondo arabo.
Che Abul Futouh – classe 1951 – sia considerato l'ala giovane (e pragmatica) dell'Ikhwan al Muslimun può apparire paradossale. Visto che l'Egitto – di ragazzi che premono per entrare nel gioco della vita e anche della politica – ne ha veramente tanti. Ma in un paese dove l'esercizio della politica è irregimentato in una democrazia bloccata – o meglio, in una autocrazia con alcuni ritocchi cosmetici -, Abul Futouh può essere ancora una "promessa". Una potenzialità. Nel 2006, c'è stato più di qualche osservatore qualificato che l'ha addirittura indicato come la prossima "guida suprema" del movimento, al murshi al 'amm, il leader non solo politico ma spirituale dei Fratelli musulmani. È come se lui, e con lui buona parte della sua generazione, fosse stato ibernato all'inizio degli anni Ottanta. Dopo l'uccisione di Anwar el Sadat, durante la parata del 6 ottobre del 1981 che ricordava la vittoria nella guerra arabo-israeliana del 1973. E dopo l'immediata entrata in vigore di una legislazione d'emergenza che non è mai stata tolta per tutta la durata della presidenza di Hosni Mubarak e che, anzi, è stata prolungata per altri due anni nella primavera del 2006.
La metafora dell'ibernazione, certo, riguarda un certo livello della politica, e dimentica quello che tutta la "giovane" dirigenza dei Fratelli Musulmani ha fatto negli scorsi trent'anni. Dal lavoro di base, in quell'ampia gamma di servizi sociali che ha irraggiato in maniera capillare la militanza nell'Ikhwan, sino agli anni di galera. Abul Futouh ne ha trascorsi almeno cinque, in prigione, ivi compresi i lavori forzati, dopo essere stato arrestato nel 1995 per appartenenza a un'associazione illegale (i Fratelli Musulmani, appunto). Amnesty International lo avev catalogato come "prigioniero di coscienza" e aveva allora seguito il suo caso sino alla sua scarcerazione. Come ha seguito quello di Essam el Aryan, collega di partito di Abul Futouh, candidato in pectore in una immaginaria corsa alle presidenziali egiziane a cui possano partecipare anche i Fratelli Musulmani: Essam el Aryan in galera entra e dalla galera esce continuamente. E come lui, in tutti i quasi ottant'anni di esistenza del movimento fondato da Hassan al Banna, in prigione ci sono passati migliaia e migliaia di militanti. "Le celle delle prigioni egiziane – ha detto una volta Abul Futouh nel 2005 – non sono mai state vuote di fratelli musulmani".
Il dottor Abdel Moneim, e con lui quella parte della sua generazione che non ha fatto carriera dentro il partito di maggioranza (lo Npd) da sempre al governo, è stato "scongelato" solo pochissimi anni fa. Quando la questione di una democrazia compiuta in Egitto ha travalicato i confini nazionali, ed è entrata nel campo visivo di una comunità internazionale comunque interessata al caso egiziano solo a fasi alterne e in maniera contraddittoria. Da allora, anche se timidamente e sempre sotto la spada di Damocle della repressione delle forze dell'ordine, la politica è rientrata in gioco, al Cairo. E a giocarla sono stati soprattutto quelli, durante la primavera araba del 2005, che la politica l'avevano fatta almeno all'università, sotto Sadat. Abul Futouh, anzi, la politica l'aveva proprio cominciata nell'ateneo del Cairo, laboratorio privilegiato sia per i movimenti della sinistra marxista, sia per le organizzazioni islamiste che stavano prendendo forma. Perché sotto Sadat, spiega il dottor Abdel Moneim, "si era liberi di fare lavoro politico dentro le università. Semmai, non c'era la libertà di informazione che c'è, invece, adesso. In compenso, si potevano fare riunioni, incontri, dimostrazioni, conferenze". Ed è come se, a trent'anni di distanza, le parti si fossero invertite: "adesso c'è libertà d'espressione, ma si può più fare politica come allora".
Lui, studente di medicina, incontrò i Fratelli Musulmani all'inizio degli anni Settanta. Poi, un cursus honorum velocissimo e la guida dell'Unione studentesca. Che gli costò, nel 1977, uno scontro divenuto famosissimo con Sadat. L'universitario Abdel Moneim osò sfidare in pubblico il presidente con una domanda posta senza ricevere il permesso, in cui chiedeva conto a Sadat della crisi in cui versava lo Stato egiziano, in una delle fasi più dure della storia repubblicana, durante la cosiddetta "rivolta del pane". Coraggio ne aveva, il giovane Abul Futouh, perché aveva sfidato non solo il presidente, ma anche Anwar el Sadat, proprio colui che aveva, da un lato, dato via libera alla diffusione del «discorso islamista» negli atenei per fronteggiare i movimenti di sinistra. E dall'altro, proprio nel 1977, sarebbe andato a Gerusalemme per parlare alla Knesset e avrebbe poi firmato la pace con Israele. Sadat rispose all'attacco di Abul Futouh sfoderando la tradizione patriarcale araba, quella del nucleo familiare che sta sopra a tutto. «Tu, oseresti parlar male del capo della famiglia?», gli disse. Ma Abul Fotouh, da quell'espisodio, disse che aveva imparato che la verita bisogna dirla sempre, anche se davanti c'è il capo dello Stato.
Sono passati trent'anni da allora. Il dottor Abdel Moneim indossa un gessato blu, e non è più la testa calda di allora. È considerato l'uomo della mediazione, il moderato, la colomba, il pragmatico. Quando incontra una donna occidentale non ha problemi a stringerle la mano, anche se nelle consuetudini degli islamisti dare la mano a una donna non è possibile, se per evitare il contatto diretto non si frappone un guanto. Ci si limita, semmai, a mettere una mano sul proprio cuore, in segno di rispetto e di accoglienza. Abul Futouh, però, la mano la dà. Ed è il vero trait d'union tra i Fratelli Musulmani e i nuovi movimenti di protesta (èlitari) che sono sorti dopo l'11 settembre e la guerra anglo-americana all'Iraq. Non a caso, Abul Futouh è stato tra i fondatori di Kifaya, nella riunione carbonara che si svolse, il 2 novembre del 2004, a casa di Abul El Ala Madi, segretario del partito islamista moderato Al Wasat. Presenti, appena una ventina di persone, delle estrazioni politiche più varie.
Divenuta famosa per le contenute ma evidenti proteste di piazza messe in atto nel centro del Cairo dalla primavera del 2005, Kifaya è infatti una strana bestia politica messa assieme attorno a un nome che in arabo significa molto. È la traduzione efficace del tradizionale Ya basta dei nostri vecchi tempi. Una dichiarazione d'intenti rivolta, inizialmente, contro l'idea di una repubblica ereditaria anche in Egitto, dopo l'esperimento che in Siria ha prodotto l'ascesa al potere di Bashar el Assad, figlio di Hafez il "leone di Damasco". Quelli di Kifaya (e non solo loro) hanno infatti deciso di scendere in campo quando l'incertezza è stata sciolta, ed è apparso allora chiaro a tutti che anche Gamal Mubarak, nel pieno di una carriera politica rapidissima dentro il partito del padre, lo NDP, avrebbe realmente potuto sostituire Hosni. Nonostante le ripetute smentite dell'intera famiglia Mubarak. E la repubblica ereditaria – dicono gli oppositori – non può far altro se non consolidare i tratti di un regime considerato autocratico anche dagli stessi studiosi occidentali.
Nessun vero giovane c'era in quella riunione di fondazione, a casa di Abul El Ala Madi. I giovani egiziani, che nella loro vita non hanno conosciuto altro se non la legislazione d'emergenza, sono venuti dopo. Per esempio con i blogger e gli attivisti che a più riprese hanno manifestato a favore di quei giudici egiziani che nel 2006 hanno chiesto più volte l'indipendenza dal ramo esecutivo dello Stato, contestando la regolarità delle elezioni politiche dell'autunno 2005. All'inizio della nuova stagione egiziana di proteste, dunque, ci sono stati solo ex ragazzi, ora coi capelli ingrigiti e il profilo un po' inbolsito, decisi a ricominciare una nuova, diversa primavera del dissenso, scongelati dopo decenni di ibernazione, trascorsa nel ventre molle del regno di Hosni Mubarak che piace tanto all'Occidente. Intellettuali, professionisti, attivisti sono confluiti nel cartello di Kifaya da provenienze politiche, culturali, religiose profondamente diverse. A volte opposte. La gran parte di loro ne aveva già avuto "abbastanza" trent'anni fa, quando frequentavano le università inquiete del Cairo e protestavano – su opposte barricate – contro Anwar el Sadat. Allora, se le davano di santa ragione soprattutto nel principale ateneo, la grande università del Cairo. La sinistra, che ancora controllava gli atenei, contro gli islamisti ai primi vagiti. I "fascisti", come li chiamavano i loro avversari marxisti, contro socialisti e comunisti in salsa egiziana. Perché la vulgata racconta, difatti, che i ragazzi che – già allora – gridavano che l'islam è la soluzione avessero l'appoggio neanche tanto nascosto della polizia di Sadat.
Dal 2005 in poi, i protagonisti di quella lontana era inquieta compiutasi e conclusasi negli anni Settanta si sono invece ritrovati sulla stessa barricata di Kifaya. Vecchi marxisti, fratelli musulmani, antiamericani e antiisraeliani, attivisti contro l'occupazione dell'Iraq. O anche copti della sinistra socialista, come lo stesso segretario di Kifaya, George Ishaq, vecchio e appassionato rivoluzionario che descrive la nascita del cartello come un tentativo di superare la "cultura della paura" che aveva ormai coinvolto tutti da decenni.
A spiegare cos'è successo in quello che a buon titolo è diventato il principale laboratorio politico di tutta la regione è Mohammed El Sayyed Said, esponente dell'intellighentsjia laica, vicedirettore del centro (governativo) di studi strategici Al Ahram, e uno dei più importanti esponenti del dissenso. "Negli scorsi quindici anni – dice – si è messo in atto un processo gigantesco di mutua comprensione". Comprensione tra la vecchia sinistra degli atenei e l'ala pragmatica degli islamisti, superando gli stereotipi con cui gli uni dipingevano gli altri. Sono i cinquantenni, infatti, i pragmatici dei Fratelli musulmani, quelli che guidano gran parte dei potenti ordini professionali, ad aver superato lo steccato e cominciato il dialogo. Senza, comunque, aver messo in gioco la propria identità di militanti islamisti. Dall'altra parte, a rispondere al dialogo, ci sono stati intellettuali del calibro di Saad Eddin Ibrahim, il più importante sociologo del paese, messo in galera per un anno e mezzo tra 2001 e 2002 formalmente per aver ricevuto fondi da potenze straniere (l'Unione Europea) per il suo centro di studi Ibn Khaldoun. Che, però, aveva parlato di violazioni verso i copti nelle elezioni politiche del 2000. Saad Eddin Ibrahim i Fratelli musulmani li ha conosciuti dietro le sbarre, e il rapporto gli ha solo confermato quello che già pensava: che con l'Ikhwan bisognasse non solo parlare, ma pensare al loro ingresso legale nel panorama politico. Stessa conclusione alla quale sono arrivati i ragazzi (laici) messi in galera assieme agli altri ragazzi (islamisti) nella tornata di arresti della primavera 2006. "Questa nuova razza di islamisti legge blog, guarda Al Jazeera, canta le canzoni sha'by, parla di storie d'amore appassionate e canta "via Mubarak"", ha spiegato nella primavera del 2006 il più grande blogger egiziano, Alaa di manalaa.net, dopo essere uscito da un mese e mezzo di prigione per aver manifestato pacificamente in piazza al Cairo in sostegno dei giudici che chiedevano autonomia.
Nonostante le dimensioni èlitarie di Kifaya, il cartello delle opposizioni egiziane ha reso evidente quello che stava già bollendo in pentola nel dissenso in atto in tutto il mondo arabo contro regimi considerati, nella migliore delle ipotesi, da riformare profondamente o addirittura da superare in quanto ostacolo a una democrazia compiuta. La riforma nella regione, dice la più parte degli intellettuali arabi sostenuta anche dalla gran parte degli studiosi europei e persino americani, è possibile solo a patto che si crei un'alleanza tra l'area genericamente laica (al cui interno vivono, in diverse diluizioni nazionali, liberal, socialisti, neo-nazionalisti) e i movimenti di massa islamisti. Gli unici "movimenti di massa del XXI secolo" nel mondo arabo, precisa un rapporto stilato nel marzo del 2006 dal Carnegie Endowment for International Peace, think tank americano ma dalle posizioni distanti da quelle dell'amministrazione Bush.
Nathan Brown, Amr Hamzawy e Marina Ottaway sono categorici, nel loro rapporto: "nella gran parte dei paesi gli islamisti rappresentano le uniche forze di opposizione praticabili contro i regimi non democratici esistenti". Forniscono, insomma, ai movimenti di massa islamisti quella licenza di fare politica, quella patente di interlocutori necessari che ribalta la prospettiva sinora tenuta dalle cancellerie occidentali. Nonostante, sia ben chiaro, anche gli esperti del Carnegie non dipingano il panorama come tutto rose e fiori. I problemi non sono stati tutti chiariti, insomma, e nell'islam politico ci sono ancora almeno sei "zone grigie". Dal ruolo della shar'ia, della legge islamica all'interno dei quadri giuridici nazionali, sino all'uso della violenza, che se è stato rimosso da gran parte dei movimenti, è ancora presente in casi importanti come quello del partito sciita Hezbollah in Libano o Hamas in Palestina. Dal pluralismo politico alla difesa dei diritti civili, entrambi aspetti che in molti ancora ritengono non tutelati nel caso di ascesa al potere degli islamisti. E infine le due questioni più scottanti, i diritti delle donne e il ruolo delle minoranze religiose, sulle quali gli occidentali spesso concentrano il loro sguardo critico. E su cui invece, in una cospicua parte dell'intellighentsjia araba, il dialogo va avanti.
Perché la domanda che si è posti è stata semplice. Banale, si direbbe. Perché l'islam politico ha resistito per decenni, senza perdere smalto e soprattutto appeal verso i suoi sostenitori? La sempre più presente dicotomia tra un occidente indistinto e un islam altrettanto confuso può fornire una delle chiavi di lettura. Ma non la più esaustiva. Soprattutto a osservare il comportamento delle donne, vera cartina di tornasole. Sono state loro a fare la differenza, in alcuni paesi e in alcune elezioni, nonostante la questione delle donne sia ancora considerata – e non solo dagli analisti del Carnegie Endowment – una delle "zone grigie" del pensiero islamista. In Palestina, per esempio, le donne sono state il simbolo dello scollamento ormai diffuso tra i nazionalisti di Fatah e la loro base storica nella laicissima società palestinese. A Hebron, alla vigilia delle elezioni legislative del 25 gennaio 2006 che avrebbero decretato la vittoria di Hamas (inattesa nelle sue proporzioni anche dallo stesso movimento integralista), era chiaro cosa avessero scelto le donne del capoluogo della Cisgiordania meridionale. Quasi nessuna di loro è andata al comizio conclusivo di uno degli uomini più potenti di Fatah, Jibril Rajoub, circondato da una folla di poche migliaia di uomini che avevano più l'aspetto e il sapore della clientela politica. A decine di migliaia, e decisamente convinte, hanno invece scelto il comizio del fratello minore, sheykh Nazef Rajoub, leader di Hamas, dando visibilità alla separazione ormai palese tra un partito-Stato e una società che non si sente più riconosciuta e rispettata, e che ha scelto l'arma elettorale per punire chi ha usato il potere senza farne beneficiare il popolo. Piuttosto – è stata l'accusa – ha alimentato corruzione e privilegi di una piccola casta.
La Palestina, peraltro, non è un unicum, in questa scelta femminile. Basta scendere lungo la penisola arabica, sino ai deserti kuwaitiani, per scoprire che il tanto atteso voto alle donne, ricercato per decenni dalla popolazione femminile e concesso solo nella primavera del 2005, è stato approvato soltanto quando le islamiste hanno premuto sui dirigenti dei loro partiti perché cambiassero atteggiamento, togliessero il veto e consentissero l'ingresso di un'altra fascia di elettorato in gioco. Sicuri, in fondo, che ne avrebbero guadagnato in termini di consensi e di seggi.
January 28, 2011
Buonanotte, Egitto. Tesbah ala khayr…
Brucia la sede del partito dei Mubarak, di Hosni ma anche di Gamal. Brucia la sede dello NDP, il partito che ha tenuto il potere in Egitto. Uno dei palazzi simbolo. Forse il palazzo simbolo. Brucia il palazzo dello NDP, di fronte alle finestre della redazione di Al Jazeera, strategicamente aperte a piazza Abdel Moneim Riad. Esattamente dall'altra parte del Museo Egizio. Lo stesso palazzo in cui, per anni, tre piani sopra Al Jazeera, c'era la redazione della Rai.
Finestre aperte sulla rivoluzione. Finestre aperte, tra l'Egitto e il mondo che guarda, attonito, una rivoluzione veloce. L'Egitto, il popolo, le persone normali, tutte le categorie della società egiziana, smettono di avere paura, scendono per strada, sfidano i poliziotti (figli del popolo anche loro) e soprattutto sfidano i beltagi, gli agenti in borghese che hanno picchiato selvaggiamente, non solo ieri, non solo l'altro ieri, ma per anni.
Il palazzo dello NDP brucia come un cerino. Accanto al Museo Egizio, che rischia di incendiarsi. Brucia come un cerino, accanto al Nile Hilton, che ha ospitato per decenni turisti con gli occhi alle piramidi, e poco alla povera gente che li serviva. Brucia come un cerino, alle spalle dell'elegante palazzo della Lega Araba, chiusa perché era venerdì. Venerdì 28 gennaio 2011. Il giorno della terza rivoluzione egiziana. Sale il fumo nero, mentre dietro i profili dei grandi alberghi sembrano scheletri illuminati. Il Cairo è cambiato.
L'immagine che dice molto, assieme a quello del palazzo dello NDP che è ormai una torcia, è quello dei camion, dei cellulari pieni di poliziotti che abbandonano Piazza Tahrir, verso il Ponte 6 Ottobre. Un convoglio lunghissimo di camion, il potere armato che abbandona un altro dei luoghi simbolo del potere burocratico, politico, come il ministero dell'interno. Al posto della polizia, appaiono i cingolati e i carriarmati delle forze armate egiziane. La gente li saluta, sale sui cingolati, sventola le bandiere egiziane. E poi saccheggia i palazzi del potere. Porta via di tutto.
Mentre il palazzo dello NDP brucia, mentre i cingolati scendono per le strade del Cairo e di Suez. Mentre Alessandria guarda i fumi che salgono dagli incendi nella città che ha visto, dicono le notizie, la più imponente manifestazione. Mentre Cairo e il paese cambiano, Hosni Mubarak appare alla tv di Stato, parla al popolo egiziano, dice che conosce i problemi della gente, la povertà, la disoccupazione, la corruzione [sic]. Dice che le manifestazioni ci sono state, venerdì, perché vi è libertà di espressione [sic]. E allora, la ricetta del presidente Hosni Mubarak è semplice [sic]: ha chiesto e ottenuto le dimissioni del governo, ed entro domani ne designerà un altro, di governo. La gente, dice Al Jazeera, urla nello stesso momento "Down with Mubarak". Non un cenno alla responsabilità personale, nel discorso di Mubarak. Non un accenno allo stato d'emergenza che viene rinnovato di anno in anno da 29 anni come una cambiale.
Un abisso, tra il presidente e la gente. Come se non avesse visto le immagini. Da Washington, pur balbettando, pur dimenticando la responsabilità degli USA nel sostegno a un autocrate, l'amministrazione Obama aveva chiesto di ascoltare la gente. Cosa questo possa significare, è ancora difficile da dire. Lunga la notte, e lunga la giornata di domani. Con una sensazione, la stessa che ho da quattro giorni. Quando una rivoluzione comincia, non la si può fermare. E' lì. E non si può tornare indietro.
Buona notte. Buona notte, Egitto. Che la notte ti protegga. E che il risveglio ti sia dolce.
Foto sotto Creative Commons.


