Paola Caridi's Blog, page 123
January 28, 2011
Le ultime dall'Egitto – Egypt Rev update
Difficile fare una sintesi di quello che sta succedendo in Egitto, dall'una di oggi, soprattutto se invece di stare al Cairo, per strada, sei a Gerusalemme… Ma la Rete mi aiuta, e anche la memoria delle strade, dei ponti, delle moschee. Della Cairo reale.
Ci sono notizie che MOhammed el Baradei sia stato arrestato, dopo la fine della preghiera del venerdì. Arrestati centinaia di attivisti del movimento 6 aprile (questo sì, nato veramente sulla Rete con Facebook), arrestati militanti dei Fratelli Musulmani. Arrestati leader della Fratellanza, compreso il moderato e pragmatico Essam el Aryan (come spesso è successo in questi anni). Arrestati giornalisti. Sfasciate telecamere e macchine fotografiche. E soprattutto, interrotto internet, evento incredibile, mai successo nella storia della Rete. Chiuse le comunicazioni con i telefonini (Vodafone si è scusata, ma è già partito il boicottaggio). Le autorità egiziane, non paghe, hanno anche bloccato le trasmissioni di Al Jazeera Arabic, che stava trasmettendo in diretta, dalle finestre della sua redazione a piazza Abdel Moneim Riad, una manifestazione sul ponte 6 Ottobre. Bloccato il segnale sul satellite NileSat.
Sui cyberattivisti, ha scritto oggi Pino Bruno, sul suo bellissimo blog.
In questo modo, il regime pensa di aver partita vinta di una rivolta che, ora, ha tutto il sapore di una rivoluzione. Di un prima e di un dopo, di una cesura nella storia. Le notizie che, nonostante tutto, rimbalzano su Twitter (attraverso, spesso collegamento via linee telefoniche fisse) parlano di decine di migliaia di manifestanti in diverse città egiziane. Soprattutto ad Alessandria, roccaforte dei Fratelli Musulmani, con 100mila in piazza. 40mila a Mansoura, e da Menufeya, città di Mubarak, Delta egiziano da cui sono arrivati tutti e tre i presidenti della repubblica, dal 1952 a oggi. Ismailia, Suez. In alcune di queste città l'obiettivo sono stati soprattutto gli edifici del Partito Nazionale Democratico, il partito dei Mubarak, il partito al potere. La polizia attacca, spara lacrimogeni, live ammunitions, mentre gli agenti in borghese fanno il lavoro sporco. Spaccano telecamere e si aggirano con sbarre di ferro, tentano di far scorrere il traffico e controllano i ponti del Cairo, fondamentali per la sicurezza del regime.
Al Cairo sembra che siano diverse le manifestazioni in corso, a cui partecipa la gente normale, quella descritta per esempio nel Palazzo Yacoubian di Alaa al Aswany (Feltrinelli). Gente normale, come paradossalmente sono anche i poliziotti. Alcuni di loro sembra, ma il condizionale è d'obbligo, che siano passati con i dimostranti, o che si siano rifiutati di sparare sui dimostranti. Questa è la chiave. Se la polizia smette di essere lo strumento del regime.
Stay tuned, soprattutto oggi. Cercherò di aggiornare ancora il blog. Altrimenti, seguitemi su twitter. Invisiblearabs, come sempre. Arabi Invisibili, come quelli che sono scesi in piazza.
Good morning, #Egypt, and good luck #Jan25
Stamattina le parole di Alaa al Aswany mi hanno confortato. Difficile spiegare che quella rabbia composta ma irrefrenabile dei ragazzi del Cairo non nasce da oggi, né è emulazione della rabbia tunisina. Ci ho provato in questi giorni, e alle domande importanti, sulle rivoluzioni, sulle direzioni politiche, sulla politicizzazione delle masse, ho saputo rispondere in un modo che è tutto meno che scientifico. "Da' retta al mio naso". Talvolta, non mi riconosco più…
La verità è che penso che dobbiamo abbandonare alcune delle categorie alle quali siamo stati educati. Con le quali leggiamo il mondo. Vedo i video, le fotografie, i tweets, i blog, gli audio dei ragazzi del Cairo, e capisco che cosa stia succedendo dentro di loro. Perché me lo hanno spiegato de visu tante volte, in tante occasioni.
Che siano capaci di fare una rivoluzione non lo so. Che abbiano la determinazione di farlo, ne sono certa. E il mio amico Alaa al Aswany, cantore della gente delle strade del Cairo, che ascolta con empatia, di cui è lui stesso parte pur appartenendo per storia famigliare all'intellighentsjia del paese, spiega perché, oggi sul Guardian. La sua empatia, peraltro, era stato il motivo per il quale gli avevo chiesto (e mi aveva scritto) la prefazione al mio libro sugli Arabi Invisibili.
I found myself in the midst of thousands of young Egyptians, whose only point of similarity was their dazzling bravery and their determination to do one thing – change the regime. Most of them are university students who find themselves with no hope for the future. They are unable to find work, and hence unable to marry. And they are motivated by an untameable anger and a profound sense of injustice.
I will always be in awe of these revolutionaries. Everything they have said shows a sharp political awareness and a death-defying desire for freedom.
[...]
I was in the company of a friend, a Spanish journalist who spent many years in eastern Europe and lived through the liberation movements there. He said: "It has been my experience that when so many people come out on to the streets, and with such determination, regime change is just a matter of time."
So why have Egyptians risen up? The answer lies in the nature of the regime. A tyrannical regime might deprive the people of their freedom, but in return they are offered an easy life. A democratic regime might fail to beat poverty, but the people enjoy freedom and dignity. The Egyptian regime has deprived the people of everything, including freedom and dignity, and has failed to supply them with their daily needs. The hundreds of thousands of demonstrators are no more than representatives of the millions of Egyptians whose rights have been invalidated."
Libertà e dignità. Qualcuno, in Europa e altrove, sarà sorpreso che ragazzi e ragazze, con o senza velo desiderino Libertà e Dignità, a modo loro. Che per loro valgano le stesse regole dell'umanità che valgono per noi. Non sono solo degli invisibili senz'anima, desideri, e solidità politica. Di questi tempi, dimostrano di averne più loro di noi italiani. Più dignità e indignazione. E il richiamo al 1989, fatto dal giornalista spagnolo che accompagnava Alaa in piazza, non è peregrino. Le rivoluzioni, a un certo punto, succedono. E non ci si può far niente. Non nascono dal nulla, nascono da anni di dissidenza, opposizione, repressione. E poi un giorno scoppiano.
Oggi sarà dura. E da questa giornata, con buona probabilità, dipenderà il destino del nuovo Egitto che già esisteva, e che è sceso per strada il 25 gennaio. Qualche ora fa (stanotte) il corrispondente della CNN, Ben Wedeman, il miglior giornalista ora al Cairo, salutava la sua audience di Twitter con una frase che fa venire i brividi:
Time for a few hours sleep. Good night, #Egypt, and good luck. #Jan25
Fanno talmente paura, i ragazzi, che pochi minuti fa cellulari, comunicazioni non con telefoni fissi sono saltate, al Cairo. Twitter fa paura, internet fa paura. Perché dietro di loro ci sono ragazzi in carne e ossa. Che non hanno più voglia di non avere libertà.
All'una, fuori dalle moschee e dalle chiese del Cairo, l'opposizione chiede che i manifestanti si radunino e marcino verso le piazze della città. E così nelle altre città d'Egitto. Rischiando, forse, anche la loro vita.
Buona fortuna, Egitto. Con tutto il cuore.
January 27, 2011
Fantasia in azione, aspettando domani
mentre a Suez ci sono scontri tra manifestanti e polizia, il tam tam dei ragazzi egiziani (a proposito, è ricomparso il mio cyberstalker personale… chissà perché, ma i ragazzi egiziani fanno paura) è tutto concentrato su domani. Giornata particolare, difficile, in cui tutte le possibilità sono aperte. Compresa, purtroppo, una repressione durissima. I testimoni parlano di tensione e nervosismo nel partito al potere, lo NDP. E uno dei segnali del nervosismo è una notizia che, se vera, la dice lunga su quanto il regime Mubarak tema questa ventata di proteste. Domani il campionato di calcio è stato sospeso.
Intanto, però, i ragazzi del web usano la fantasia. Il poster che vedere sarà usato domani.
Egyptian Revolt, Day 3
Per due giorni interi, le forze dell'ordine, quelli che vedete in fondo a questa foto indimenticabile, vestiti di nero, hanno dovuto fronteggiare eventi che nella storia trentennale della presidenza di Hosni Mubarak non si erano visti. Dimostrazioni di piazza, diverse, di diverso tipo, in punti differenti del Cairo, nelle altre città egiziane. Soprattutto a Suez dove, per la prima volta, sono stati dati alle fiamme edifici governativi, e una sede del partito al potere, quello di Hosni (e di Gamal) Mubarak. Per due giorni interi, questi poliziotti che vengono spesso dal sud dell'Egitto, per un po' di pound egiziani, hanno dovuto fronteggiare quello che il sistema di sicurezza egiziano non si aspettava. Che, cioè, la partecipazione alle manifestazioni fosse alta, e che fosse continua. Non ci sono, certo, i numeri del primo giorno, di quello che ormai viene definito il Giorno della Rivolta egiziana, il 25 gennaio che ancora volta torna nella storia del paese come l'inizio, il punto di partenza. Ma la rivolta continua, e questo è un fatto di cui devono tenere conto le diplomazie occidentali, che continuano purtroppo a balbettare, a non capire, a essere impreparate al 2011.
Quei poliziotti, dicono i testimoni, cominciano a essere stanchi. E il tentativo dei manifestanti è anche quello di stancarli, prima del venerdì, che si annuncia come un giorno cruciale. Sono da 48 ore in piazza, come ci sono soprattutto i beltagi, quelli in borghese, agenti di diverso tipo, molto violenti e molto pericolosi, quelli che arrestano, portano via i dimostranti, e sono accusati di tortura e maltrattamenti.
Anche Alaa al Aswani, intervistato dal mio amico caro Michele Giorgio, è certo che l'Egitto non sarà più come prima del 25 gennaio 2011.
Siamo davvero alla svolta sognata dagli egiziani?
Sì, ne sono certo. Nei mesi scorsi avevo detto in più occasioni che il regime aveva vita breve e quanto stiamo vedendo e vivendo in questi giorni conferma che siamo di fronte a una svolta senza precedenti negli ultimi 40 anni. L'altra sera ho parlato a una folla di migliaia di persone riunita in Piazza Tahrir, al Cairo. Di fronte a me non avevo più il solito gruppo di amici e attivisti impegnati con coraggio a favore della democrazia e del lavoro, con i quali mi sono incontrato in questi anni. Avevo invece tante persone qualsiasi: manovali, operai, avvocati, impiegati, donne e uomini che non hanno più paura della polizia e della repressione. Persone che vogliono libertà e democrazia ma anche lavoro e migliori condizioni economiche, perché in Egitto non esiste una separazione tra politica ed economia. È una novità assoluta. Nessuno potrà fermare il processo che si è messo in moto, dopo il 25 gennaio nulla sarà come prima.
Nulla sarà come prima. Nulla, in Egitto, sarà come prima del 25 gennaio. E se così è, come ben sa chi si occupa della regione, nulla sarà come prima in tutto il mondo arabo. Perché tutto, nel mondo arabo, comincia al Cairo. Se n'è accorto il Dipartimento di Stato americano? Ce ne siamo accorti noi?
Per domani, ci si prepara alla manifestazione dopo la preghiera del venerdì. Appuntamento all'una, ora del Cairo. I ragazzi del web hanno già cominciato il tam tam. Lo hashtag è #1M, un milione in piazza. Chissà se ce la faranno. Magari un milione in tutto l'Egitto, ma se anche fossero di meno, quello che sta succedendo è inimmaginabile rispetto alla Cairo di appena un anno, due anni, cinque anni fa. Circa due anni fa, con un amico che di Egitto sa moltissimo, cercavamo di capire quando sarebbe scoppiato. Ci eravamo dati, appunto, due anni di tempo. Non di più. Non perché abbiamo la sfera di cristallo, ma perché un disagio così compresso, una sofferenza così diffusa, una povertà così elevata, una fame di libertà così disperata, non poteva resistere a lungo. Anche se a Sharm, nonostante gli squali, tutto è normale.
Se la manifestazione è per domani, non vuol dire che oggi non succederà niente. Intanto, è il giorno di Mohammed el Baradei, che aveva dichiarato di sostenere il 25 gennaio ma aveva già detto che non vi avrebbe partecipato. Era a Vienna. E oggi torna in Egitto. Non sono del tutto certa che potrebbe rimanere il candidato alla successione di Mubarak. Se lo sarà, sarà forse perché per le nostre cancellerie sarà considerato il meno peggio. Aspettiamo, però, di vedere cosa deciderà di fare Amr Moussa, e cosa decideranno di fare altri uomini. Come Zakaria Abdel Aziz, il presidente del Jaudge Club, l'ANM egiziana. Non più tardi di due settimane fa, dopo un discorso del presidente Hosni Mubarak, aveva commentato in questo modo le parole del vecchio capo di stato.
In his comment on Mubarak's speech, Abdel Aziz replied, questioning: Who prevents the maintenance of true justice? Does the regime seek to bring justice as the President claims? He answered: The regime stands in the way of bringing justice to the people, either by enacting unconstitutional laws that are challenged as unconstitutional, or the results of ill-considered decisions that make citizens resort to courts, or by failing to implement judicial rulings as there are many decisions that executives refuse to implement. Does this actually bring about justice?
He added: If we look at it, we will notice that the largest share of cases filed before the State Council were caused by the system, which caused more than 3000 appeals to be filed before the Administrative Court during the last parliamentary election. The government's unsound proceedings are causing many lawsuits.
Nonostante le questioni che pone Zakaria Abdel Aziz sembrino molto di categoria, il suo ruolo continua a essere quello di pungolo del regime. Lo era stato nel 2007, quando la presidenza aveva deciso e dettato gli emendamenti alla Costituzione che consentirono a Mubarak di vincere senza concorrenti di peso. Lo potrebbe essere anche adesso. Forse
Anche oggi, stay tuned, seguite i ragazzi del Cairo.
January 26, 2011
Da FB alla strada, lacrimogeni compresi
"The Egyptian 11th commandment: Thou Shall Not Tweet or Facebook". L'undicesimo comandamento egiziano: Tu Non Dovrai né Twittare né usare Facebook. E' uno degli ultimi messaggini mandati oggi pomeriggio via twitter dai ragazzi egiziani che non demordono. Oggi non ci sono i numeri di ieri. Le piazze non sono stracolme, dalla piazza Tahrir del Cairo alle strade di Suez e di Alessandria. Dopo aver disperso la folla che si trovava ancora a piazza Tahrir, stanotte, la polizia ha preso il totale controllo del Cairo, nella downtown. Difficile, per chi avesse voluto manifestare, arrivare soltanto vicino ai palazzi del potere, al ministero dell'interno, al parlamento, in una Cairo paralizzata. Eppure, qualcosa è successo lo stesso. Di fronte al sindacato dei giornalisti. E soprattutto a Galaa street, l'arteria che arriva alle spalle del Museo Egizio e che passa d avanti al consolato italiano. I ragazzi che hanno incendiato copertoni erano proprio davanti al grande complesso di color rosso che sta all'angolo del quartiere del Boulaq, e poco distanti dalla sede del più importante quotidiano del regime, Al Ahram.
La polizia è intervenuta duramente, oggi. Almeno 40 arresti. Botte. Lacrimogeni, idranti, c'è chi parla di live ammunition contro i dimostranti. Nonostante twitter e facebook oggi abbiano incontrato ancor più difficoltà di ieri, tra blocchi e chiusure, nonostante i blogger abbiamo fatto fatica ad aggirare la censura del regime di Hosni Mubarak, le notizie sono filtrate lo stesso. E la notizia principale è che soprattutto i giovani non hanno voglia di demordere. La parola d'ordine che gira è: grande manifestazione dopo la preghiera del venerdì. Di venerdì prossimo. Ci riusciranno? Riusciranno ad avere i numeri, nonostante non abbiano alle spalle le grandi organizzazioni politiche? In parallelo con quello che è successo in Tunisia, va in onda al Cairo, a Suez, a Mansoura un fenomeno che prima o poi dovremo studiare. La capacità di scendere in piazza nonostante non vi siano i sindacati, i partiti di massa…
L'opposizione politica egiziana è stata in questi ultimi anni decimata. I Fratelli Musulmani hanno subito costantemente retate di militanti e arresti di leader (soprattutto quelli pragmatici). I partiti rappresentati in parlamento sono spesso l'ombra di se stessi, organismi che non riescono ad avere contatto con il consenso reale. L'unico che gode ancora di un'organizzazione diffusa è lo NDP dei Mubarak. Il resto sembra magmatico: una tendenza, un sentimento, un flusso che si divide nei movimenti su Facebook (come il '6 aprile'), nel cartello che appoggia Mohammed el Baradei, in ciò che resta del cartello d'opposizione di Kifaya. Divisi, eppure uniti dallo stesso desiderio, e soprattutto dalla stessa urgenza di riportare democrazia in Egitto. E' anche di questo humus che si nutre la piazza, e il consenso di cui la piazza gode.
E' un quadro decisamente diverso, questo, dal quadro che qualcuno sta raccontando in Italia. Il regime di Hosni Mubarak non è moderato da molto tempo, soprattutto con i cittadini di uno Stato che vorrebbero essere cittadini e che invece si sentono sudditi. Paradossalmente, questa realtà passa inosservata, come se non esistesse nelle università, nelle scuole, nelle strade, nei quartieri, negli ospedali del Cairo. La frattura tra il regime e i suoi cittadini è talmente ampio che rischia di non essere più sanabile. Anzi, non lo è più da tempo.
E allora pongo una domanda banale: cos'hanno di meno questi ragazzi del Cairo da quelli di Teheran? Hanno lo stesso valore, la stessa dignità, oppure valore e dignità si misurano a seconda della convenienza e delle alleanze delle nostre cancellerie? Mubarak non è Ahmadinejad, e dunque i ragazzi del Cairo non hanno lo stesso valore. Questo sembra l'assunto, leggendo alcune interpretazioni di quello che sta succedendo in Egitto. Meglio che l'Egitto non cada. Lo sento ripetere da tanti anni. Se avessimo pensato prima a rafforzare la democrazia egiziana, invece che puntellare un palazzo con seri problemi di stabilità strutturale, forse non dovremmo discutere ora cosa sia meglio per noi. E non per l'Egitto degli egiziani. Dei camerieri di Sharm, dei venditori di souvenir di Assuan, delle guide del Cairo…
Gooood morning, Egypt!
Haneen243 ha iniziato il suo nuovo giorno twittando. Il suo saluto, accanto a una fotina che ritrae una ragazzina sorridente, con il suo velo bianco, è di quelli che spiegano un bel po' di cose. "Good morning Egypt…Good Morning Freedom". Buongiorno Egitto… Buongiorno libertà. Dina Hussein va oltre, e dice "Ma sì, chiamiamolo il primo giorno della rivoluzione egiziana".
E' ancora mattina presto, al Cairo, ma la blogosfera egiziana è già attiva, nonostante in Egitto le giornate inizino tardi. Ma è inverno, e poi bisogna andare a lavorare, perché ieri era festivo. Festa della Polizia. Per la prima volta festa nazionale. Ma per l'Egitto, ieri, è stata tutta un'altra cosa. Una cesura tra un prima, lungo 29 anni, e un dopo, che non si sa ancora quale sarà. Cederà Hosni Mubarak alle richieste dell'opposizione, in primis quella di non candidare suo figlio alle prossime elezioni presidenziali (in calendario proprio quest'anno) e di non ricandidarsi lui stesso? Aprirà il regime egiziano le porte a una sana transizione alla democrazia? E poi gli americani usciranno dall'apnea nella quale si sono costretti per così tanti anni, nonostante i loro think tank – vox clamans in deserto – chiedessero alle varie amministrazioni che si sono succedute alla Casa Bianca di sostenere la transizione alla democrazia?
Gli interrogativi sul futuro dell'Egitto sono tanti. Tutti irrisolti, per ora. Per ora parla la piazza e parla il web arabo, che anche ieri ha dato prova di essere il veicolo per aggirare la censura e sostenere la democrazia (per chi vuole leggerselo, oggi ho scritto un articolo per La Stampa sull'argomento, sui miei blogger prima tanto invisibili e ora visibilissimi a tutti. Molti dei protagonisti sono gli stessi di cui avevo parlato nel mio Arabi Invisibili pubblicato da Feltrinelli del 2007). I blogger non sono nati ieri, erano nel web egiziano da anni, ed è per questo che tutto è sembrato così organizzato, perfetto, nonostante il blocco di twitter, le lentezze nei collegamenti telefonici, l'elettricità che andava e veniva in alcune città egiziane. I ragazzi del Nilo, però, sono dei provetti informatici, ormai, quando si tratta di aggirare la censura, fanno cose che noi umani (occidentali) non ci sognamo. E soprattutto arrivano là dove l'informazione classica non riesce ad arrivare. Quello che abbiamo raccontato, tra ieri pomeriggio e oggi, è stato fatto non solo da un pugno di giornalisti che hanno seguito in loco, con coraggio, quello che stava succedendo a piazza Tahrir, ma anche grazie ai telefonini, fermo immagine, video, foto che man mano i manifestanti e gli egiziani dalle finestre hanno filmato e consegnato al web. Compresa l'immagine del ragazzo che ferma il blindato con l'idrante. Reminiscenza di una rivoluzione di giovani soffocata nel sangue. Forse, a giudicare da quel fermo immagine, quella rivoluzione non è stata invano. Almeno si spera.
L'effetto domino è nei fatti, ormai. L'Egitto – completamente diverso dalla Tunisia – ha mostrato di avere coraggio, scendendo per le strade. I palestinesi, dopo le rivelazioni di Al Jazeera e l'indignazione e il disgusto che ha reso esplicito sul comportamento dei suoi dirigenti a Ramallah – dice per le strade che forse la Tunisia arriverà anche qui. Chissà. Di certo c'è che il mondo arabo del 2011 non è come il mondo arabo del 2010. E noi, quelli dell'altra sponda, dovremmo una volta tanto capirlo.
January 25, 2011
Cairo, Egitto, 25 gennaio 2011
Non ci sarà una rivoluzione così veloce come la rivoluzione delle 12 ore in Tunisia. Ma quello che sta succedendo ora, in questi minuti, in queste ore, in questo pomeriggio al Cairo è qualcosa che non si era mai visto. Almeno da dieci anni a questa parte, da quando seguo l'Egitto. Vorrei essere lì, al Cairo, a piazza Tahrir, proprio accanto al Museo Egitto. Sotto i viadotti di piazza Abdel Moneim Riad, da dove sono accorsi i manifestanti verso Tahrir, verso Qasr el Aini, verso il Parlamento, verso downtown. Le immagini di Al Jazeera, i video subito postati in internet dai manifestanti. E poi Twitter che si blocca per sovrabbondanza di contatti, i blogger che tentano di comunicare in altro modo. Migliaia e migliaia di persone. Mai così tante persone sono scese in piazza in Egitto, dove tra qualche mese si dovrebbero celebrare i trent'anni dello stato di emergenza.
Non sarà la rivoluzione. Sarà il Tunisami, come ha cominciato a chiamarlo il mio amico Ben Wedeman della CNN, in questo momento in piazza a Tahrir, nel centro del Cairo, a seguire come sempre i fatti con i suoi occhi. Ma qualcosa è, ed è qualcosa di differente dal solito. Segnatevi la data. 25 gennaio 2011. L'Egitto ha mostrato che è disperato, che è povero, ma anche che da anni grida al mondo di voler democrazia. E il mondo non lo ha ascoltato. Solo ora, solo ora, qualcuno si accorge anche da noi che esistono i blogger egiziani. Sono anni che chiedono al mondo di guardare l'Egitto oltre le alleanze, per le strade del Cairo e di Alessandria.
Stay tuned. E soprattutto, non lasciateli soli.
Le notizie. tra le 15mila e le 20mila persone sono scese in piazza al Cairo, sfidando le leggi d'emergenza, nel giorno dedicato alla polizia. La polizia, prima colta di sorpresa, ha cominciato a caricare. Ma le manifestazioni ci sono anche in altre zone del Cairo e in altre città. Si parla di 20mila persone in piazza ad Alessandria. Dai tweetting, partecipano persone che prima mai sarebbero scese in piazza. Si dice anche che i manifestanti vogliano passare la notte a piazza Tahrir.
Cairo, #25jan
Non è un messaggio in codice. E' il tag usato in questi giorni dal web egiziano per chiamare a raccolta chi, oggi, protesterà contro il regime del presidente Hosni Mubarak. In una data che per gli egiziani è simbolica. La festa della polizia, dichiarata quest'anno per la prima volta festività nazionale con scuole e uffici chiusi. Decisione, questa, presa all'inizio di gennaio, mentre imperversavano le manifestazioni in Tunisia contro Ben Ali. Il fatto è che la festa della polizia non è solo simbolica in sé, ma viene considerata uno dei punti di partenza della Rivoluzione dei Giovani Ufficiali guidata da Gamal Abdel Nasser nel 1952. Allora, il 25 gennaio del 1952, la polizia difese la gente contro gli occupanti britannici.
Oggi, invece, la manifestazione è stata indetta per protestare contro le maniere – per così dire – rudi con le quali la polizia egiziana agisce contro chi contesta e chi protesta contro il presidente Mubarak. Negli ultimi anni, sono aumentate le denunce da parte delle associazioni nazionali e internazionali di difesa dei diritti umani contro le forze di sicurezza egiziane, accusate di arresti illegali, torture e maltrattamenti.
Occhi puntati, dunque, sul Cairo. Anche se l'Egitto non è la Tunisia. E' vero, però, che questo 2011 è iniziato con un tono diverso dagli altri anni. In tutta la regione.
January 24, 2011
Storia di una capitolazione
Abu Ala, il vecchio Ahmed Qurei, l'ha detto chiaro, nel meeting trilaterale con americani e israeliani, il 15 giugno 2008. Presente, Condoleezza Rice. "Abbiamo proposto che Israele si annetta tutte le colonie a Gerusalemme eccetto Jabal Abu Ghneim (Har Homa). Questa è la prima volta nella storia che facciamo una proposta di questo tipo; ci siamo rifiutati di farla a Camp David". Saeb Erekat va oltre, e indica tutte le colonie che, a Gerusalemme est, i palestinesi sono disposti a cedere a Israele (che dice più volte, in differenti documenti, di voler partire dai facts on the ground, dai fatti sul terreno, e non dalle linee indicate dalla legalità internazionale): "there are Zakhron Ya'cov, the French Hill, Ramat Eshkol, Ramot Alon, Ramat Shlomo, Gilo, Tal Piot, and the Jewish Quarter in the old city of Jerusalem".
Quella che esce dai Palestine Papers, i documenti confidenziali che da ieri sera Al Jazeera e il Guardian hanno cominciato a rendere pubblici, è la storia di una capitolazione. Una resa senza (quasi) condizioni dell'Autorità Nazionale Palestinese e dell'OLP nei confronti degli israeliani, che però non è bastata al governo guidato da Ehud Olmert (e di cui era ministro degli esteri Tzipi Livni) per firmare una pace.
Niente di più, niente di meno. Una capitolazione che non ha sortito effetto. La resa senza (quasi) condizioni di una dirigenza palestinese resa fragilissima anche dalla divisione tra Cisgiordania e Gaza, tra Fatah e Hamas, e completamente scollegata da Gerusalemme est.
Il fatto più rilevante è, certo, l'offerta su Gerusalemme, sulle colonie a est della Linea Verde, che i dirigenti e i negoziatori israeliani continuano a disconoscere nei meeting resi noti dai Palestine Papers perché – dicono – nel 1967 non c'era nessuno Stato palestinese. "Gerusalemme è persa", mi aveva detto una volta un intellettuale palestinese di vaglia, ben prima di conoscere i documenti segreti che ora stanno uscendo. Aveva ragione. Gerusalemme valeva bene una messa, per una dirigenza che sapeva benissimo di essere fragile. Abu Mazen – dice Saeb Erekat all'ambasciatore americano David Hale – "is not planning to run in elections. He is ready to resign – but he will not be thrown out of office. Our credibility on the ground has never been so low. Now it's about survival". La nostra credibilità è ai suoi minimi storici. Adesso stiamo parlando della nostra sopravvivenza…
E' un ritratto amaro della politica palestinese degli ultimi anni, quando la finestra di opportunità aperta dalle elezioni presidenziali del 2005, ma soprattutto dalle politiche del 2006, venne chiusa dalla comunità internazionale, come unico modo per fermare Hamas. Fermare Hamas perché non aveva accettato le condizioni imposte dal Quartetto, oppure fermare Hamas e la transizione politica palestinese perché non avrebbe sottoposto a Israele proposte così convenienti al tavolo negoziale? I Palestine Papers, almeno quelli resi noti sinora, dicono questo. Dicono che la dirigenza palestinese era diventata (o era stata messa nelle condizioni di diventare) talmente debole, da non poter proporre altro che una capitolazione.
Eppure, nonostante questo, la pace non si è fatta. Non si è fatta neanche con il governo Olmert. E neanche con il governo Netanyahu che ha preso il suo posto.
Nella foto, la colonia di Har Homa, la vecchia collina di Jabal Abu Ghneim, su cui Ahmed Qurei tiene il punto con Tzipi Livni, nel meeting trilaterale del giugno 2008
January 23, 2011
Palestine Papers. Wikileaks insegna…
E' facile prevedere che il terremoto politico, in Medio Oriente, è già iniziato. Da quando, alle 21, i siti di Al Jazeera e del Guardian hanno pubblicato in contemporanea i primi dei 1600 documenti diplomatici sul processo di pace [sic] tra israeliani e palestinesi. Si tratta, per ora, di alcuni documenti tra 2008 e 2010, ma bastanti per avere il quadro reale di quello che stava succedendo dietro le quinte, tra i negoziatori.
Mentre al pubblico si diceva che Gerusalemme est non si sarebbe mai toccata, che il diritto al ritorno non era negoziabile, che il 1967 era altrettanto intoccabile, dietro le quinte l'ANP era disposta a cedere praticamente tutta Gerusalemme est, e a trattare anche sulla Città Vecchia. Quello di cui i negoziatori avevano bisogno però, ed è soprattutto Saeb Erekat a reiterarlo più volte, era una 'foglia di fico', una modalità pubblica per la quale i negoziatori e Abu Mazen non dovessero perdere la faccia di fronte alla loro gente.
Questo è solo l'inizio, il coperchio appena alzato su di un vaso di Pandora che forse confermerà quello che la voce della strada araba dice da molto tempo. Nei prossimi tre giorni scopriremo molto, molto della realtà che c'è dietro le parole spesso ridondanti e vuote su processo, pace, futuro. Sarà tutto più triste, più cinico, ma anche vero. Forse.
Stay tuned. Da domani, da qui, avremo ancor più da lavorare…
La foto, di profughi palestinesi, è presa dall'archivio dell'Unrwa, divenuto patrimonio dell'umanità sotto protezione Unesco


