Paola Caridi's Blog, page 127

November 23, 2010

Fuori dai sotterranei italiani


Me la concedete una incursione italiana da questo blog così mediterraneo? Ma sì, me lo merito… Perché, insomma, faccio anch'io parte di quel pubblico così folto che ieri sera è rimasto incollato alla tv, per vedere Vieni via con me. Ci sono rimasta incollata anch'io, italiana all'estero, nonostante tutto il cinismo di noi giornalisti, la capacità tecnica di scrutare il perché e il per come di quello che ci viene proposto dal piccolo schermo, le perplessità sul modo in cui Fabio fazio intevista gli ospiti in Che Tempo Che Fa. Nonostante tutto questo, ieri è stato – credo – diverso. Diverso dalla prima puntata, di certo, che non mi ha attratto così tanto.


Perché ieri sera è stato diverso? Ma certo, perché ieri è andato in onda il ritratto dell'Italia migliore. Non solo di quella famosa, degli intellettuali vituperati dal giornale e da libero, ma semplicemente dell'Italia migliore. Catalogo di visibili e soprattutto di invisibili. Soprattutto giovani. Ragione per la quale, a me che ne occupo per l'altra sponda del Mediterraneo, il Vieni via con me di ieri sera doveva per forza piacere.


Consolatorio, certo, pensare che sul piccolo schermo appaia ciò che amiamo, che ci rappresenta, che ci conforta, che ci fa sentire meglio e migliori. Banale, scontato, quasi. Credo, però, sia anche politicamente necessario che questa invisibilità dell'Italia che ha resistito al berlusconismo (eh sì, diciamolo, confessiamolo) esca dai sotterranei, come in una italianissima riedizione dei film hollywoodiani sul postnucleare. Esca allo scoperto, e risponda in questo modo alla guerra per bande che poco prima ci era stata raccontata dai tg. Allo scontro di potere campano sui rifiuti, si risponde spiegando perché i rifiuti sono un grande affare. Allo scontro ('altissimo') tra Mara Carfagna e Alessandra Mussolini si risponde con i tre elenchi di Simona Camusso, della giovane Arabella che ha paura – come l'abbiamo anche noi attempate – di tornare da sola a casa la sera al buio, e di Emma Bonino. Li cito in questo ordine, i tre elenchi, perché questa è la mia personale classifica rispetto allo spessore e alla capacità di rappresentare l'invisibilità del vivere quotidiano delle donne italiane. Con un grande applauso, sincero e forte, alla Camusso, e alla sua capacità di fotografare il lavoro delle donne. Commovente, anche per una che di cosette in giro per il mondo ne ha vista qualcuna.


E' solo in questo modo, uscendo dai sotterranei, che l'Italia potrà uscire da questo limbo, da questo coma, da questa incubatrice. Solo parlando, e scrivendo elenchi, spiegando che qualcosa di diverso esiste, sotto il sole mediterraneo d'Italia.


E infine, gli italiani all'estero. Quella sottolineatura – da parte di Renzo Piano – di una italianità che si approfondisce e si rende visibile vivendo all'estero è vera. Verissima. Verificata. Ci si sente italiani, all'estero, senza essere stupidamente patriottici. Si capisce chi si è, senza offendere gli altri.


In onore di mia madre, che sino a 18 anni aveva fatto la contadina, e che ha continuato a lavorare sino al penultimo giorno della sua vita in silenzio e nella invisibilità tipica di una generazione di donne, ho scelto questa foto, mediterranea più che palestinese. Raccolta delle albicocche, frutto delicato, e che dura poco.

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Published on November 23, 2010 08:34

November 22, 2010

Gerusalemme, o della parabola del calcio


Che c'entra il calcio con Gerusalemme? Tutto c'entra con Gerusalemme. Calcio compreso. Soprattutto quando il calcio, a Gerusalemme, si declina con il Beitar Jerusalem, la squadra più famosa di Israele, quella che ha vinto gli ultimi due campionati. Che non solo gli ultras, ma la gran parte dei tifosi della squadra giallonera siano di destra, lo si sapeva già. Nei decenni precedenti, si diceva che il Beitar Jerusalem aveva i likudisti tra i suoi fan, mentre quelli legati al tradizionale sindacato sionista-laburista, lo Histadrut, tifavano lo Hapoel Tel Aviv. In parte è ancora così. Beitar Jerusalem e Hapoel Tel Aviv si odiano e se le danno di santa ragione, rappresentando alla meglio la divisione tra le rispettive città e il rispettivo modo di concepire la vita quotidiana, tra mare e montagna.


E allora, dov'è la novità? La novità – se tali si può definire – è che ora ci si è accorti che il tradizionale, noto razzismo dei tifosi del Beitar Jerusalem può avere gravi conseguenze per la squadra della Gerusalemme ovest (a est, invero, ce ne sono altre, molto meno conosciute, ovviamente, e tutte palestinesi). In ambito UEFA, visto che il calcio israeliano ricade sulle organizzazioni europee. La UEFA combatte il razzismo, e con mano che vorrebbe essere dura. Non solo contro la Stella Rossa di Belgrado, l'ultranazionalista squadra serba ormai rappresentata iconicamente dal povero (si fa per dire) Bogdanovic. Ma in futuro anche contro il Beitar Jerusalem, se non si fa qualcosa contro tifosi che mostrano allo stadio striscioni con un "No agli arabi" (come nella foto) oppure, ancor peggio, la bandiera del movimento terroristico Kach, quello legato al rabbino Meir Kahane, i cui seguaci hanno celebrato il decennale della sua uccisione proprio poche settimane fa in un grande albergo di Gerusalemme.


E così, Haaretz si chiede se non sia il caso che nella dirigenza del Beitar Jerusalem si passi dalla politica dell'appeasement con i tifosi al pugno duro (non quello rappresentato nella bandiera del Kach, ovviamente…). Non solo. Il giornale liberal israeliano la butta in politica. Perché, in effetti, il Beitar Jerusalem la politica la fa. La squadra si vanta, infatti, di non aver mai avuto un giocatore arabo (cioè palestinese) nel team sin dalla sua fondazione nel 1936. Puro, insomma. E non contaminato come lo Hapoel Tel Aviv o, 'peggio ancora', il Bnei Sakhnin, pieno di arabo-israeliani, bersaglio dei fan del Beitar. Guai ad avere arabi in panchina o in campo, e i canti antiarabi sono stati condivisi anche tra i giocatori, come quando il giovane idolo del pallone Amit Ben Shushan fu colto dalla telecamera mentre li intonava assieme ai fan. Immagini che facevano impressione, come impressione fanno le interviste condite di razzismo puro con i fan dentro uno stadio, il Teddy Kollek Stadium, che è stato costruito sotto uno dei villaggi palestinesi distrutti nel 1948, Al Maliha. Malcha.


Haaretz va oltre e fa un paragone tra il direttore del Beitar e il premier Banjamin Netanyahu. Decisamente da leggere, come il resto dell'articolo.


Like Benjamin Netanyahu, Kornfein would very much like to capitulate to the extreme right; in the past, he has done so. But the comparison does not end there: Both men are subject to external and perhaps decisive pressures. Netanyahu is petrified of a total rift with the U.S. administration; Kornfein is worried that, even if Beitar manages to overcome its on-field woes and wins a place in a major European competition, it will quickly be booted out.

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Published on November 22, 2010 08:55

November 14, 2010

Eid Mubarak. E non solo


Buona 'festa del sacrificio' ai fedeli musulmani che celebrano in tutto il mondo lo Eid el Adha. Buona 'festa del sacrificio' ai fedeli musulmani in Italia, dove la questione del rispetto per gli immigrati non diventa di dominio pubblico se non quando quattro lavoratori decidono di protestare su di una gru. Buona 'festa del sacrificio' ai fedeli musulmani nel mondo arabo, a quelli che stanno compiendo lo hajj alla Mecca (con  o senza il Makkah Metro), a quelli che a Gerusalemme e dintorni si possono recare (o non si possono recare) a pregare alla moschea di Al Aqsa.


Un po' lontana dal mio banco di lavoro, aggiorno il blog con qualche consiglio di lettura, rivolto soprattutto a quei nuovi amici con i quali ho passato una bella e ricca serata parlando di Medio Oriente. Finalmente lontani dagli stereotipi. Food for Thought.


A proposito di uno dei temi affrontati, dei palestinesi con passaporto israeliano, ne parla Seamus Milne sul quotidiano britannico Guardian. Parla, anche Milne, della pressione crescente sulla comunità dei palestinesi dentro Israele, un milione e mezzo di persone.


Sul congelamento di tre mesi accettato da Benjamin Netanyahu dopo 7 ore di colloquio con Hillary Clinton, c'è l'editoriale sul New York Times. Molto duro col premier israeliano. "It's time for him to stop playing games, reinstate the moratorium, get back to negotiations and engage seriously in a peace deal."


Il ministro degli esteri Avigdor Lieberman, però, non ha alcuna intenzione di ragionare sulla Linea del 1967. Parla delle linee – imperialiste – disegnate da Sykes e Picot. E al centro delle sue parole c'è il Golan, che non dovrebbe essere restituito. A proposito di un Syria First e Syria not only, ho paura che la realtà vada oltre le nostre discussioni sul Medio Oriente…


Su Hamas, un'analisi di Mahmoud Jaraba sullo Arab Reform Bulletin.


Per chi ne vuol sapere di più, su cosa succede a Gerusalemme ovest, ci sono le denunce sugli attacchi ai palestinesi da parte di associazioni per la difesa dei diritti umani.


La foto è di Renato Amico

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Published on November 14, 2010 23:16

November 11, 2010

Sei anni dopo


Sono passati esattamente sei anni dalla morte di Yasser Arafat. E a Gerusalemme si respirava tutt'altra aria. Non solo perché l'aria era riempita dai canti coranici recitati in onore di Abu Ammar. Ma perché molto era diverso. Sembrava, allora, che fosse possibile una transizione politica palestinese. La miopia della comunità occidentale non l'ha resa possibile, dopo aver dato il via libera a Hamas a partecipare alle elezioni politiche. Ora, di tanto in tanto, qualche voce dentro la diplomazia occidentale mi dice che sì, in effetti, allora sbagliarono… A far la Cassandra non si hanno molte soddisfazioni. Per niente, anzi. Comunque, ora l'aria è diversa, e stiamo qui a ragionare di congelamenti più o meno temporanei, estesi, chissà, mentre sul terreno l'aggressività latente si intravvede, si vede, si tocca, a Gerusalemme est ancor più che in Cisgiordania. I fine settimana sono diventati appuntamenti per le proteste (pacifiche) in almeno quattro cittadine della Cisgiordania toccate dal Muro o dalle colonie israeliane. E la tensione nei quartieri palestinesi di Gerusalemme est si respira ampiamente, da Sheykh Jarrah a Issawiya. Sei anni possono essere tanti, qui a Gerusalemme.


Nel frattempo, stacco la spina per qualche giorno. Ma non è detto che non aggiorni il blog. E dunque, come sempre, stay tuned.


La foto è di Francesco Fossa

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Published on November 11, 2010 10:39

November 10, 2010

Stringere


….ovvero, accelerare i tempi. Le notizie di questi ultimissimi giorni sul fronte della riconciliazione interna sono di quelle tipiche dei momenti che potrebbero divenire importanti. Dopo vari rinvii, la tanto annunciata riunione di Damasco tra Fatah e Hamas si è fatta, ieri sino a notte fonda, presieduta da Khaled Meshaal per Hamas, e da Azzam al Ahmed per Fatah. La riunione riprende oggi, e gli ostacoli continuano a rimanere sui corpi di sicurezza. E proprio in gran parte sulle questioni legate alla sicurezza  ci sono stati movimenti, parole, atti – alla vigilia della riunione di Damasco – che mostrano quanto la questione della riconciliazione sia rilevante nel più complesso quadro della ripresa o meno di un processo negoziale tra Israele e dirigenti palestinesi.


Intanto, ci sono stati i segnali che hanno mostrato il disagio di chi su questa riconciliazione rischia di perdere potere. E cioè quelle parti di Fatah e Hamas che, soprattutto nei corpi di sicurezza, hanno guadagnato status, ruolo, e anche il salario. Alcuni giorni fa, è comparsa al notizia, riportata anche da un'agenzia di stampa italiana, di una sorta di Wikileaks alla palestinese, e cioè della pubblicazione di nomi e indirizzi di agenti della sicurezza di Hamas, resi noti su di un sito vicino a Fatah. E poi, proprio negli stessi giorni, la notizia sui costi eccessivi dell'addestramento  delle forze legate all'ANP in Giordania, quando i costi si sarebbero ridotti in Cisgiordania: lo aveva denunciato Tawfik al Tirawi, ex potente capo dei servizi di sicurezza palestinesi (di Ramallah), poi non più rinnovato al suo posto. E via elencando. Il tutto negli stessi giorni in cui ilministro degli esteri tedesco Guido Westerwelle era in Medio Oriente. Anzi, andava a Gaza. E i tedeschi, tutti lo sanno, sono parte mediatrice della trattativa sullo scambio dei prigionieri tra Hamas e Israele.


Anche Israele, in questi giorni, ha lanciato segnali, che riguardano in tutto e per tutto la riconciliazione tra Hamas e Fatah. Il più importante, e il più duro, e l'arresto alle prime ore dell'alba del segretario generale della Lista Riforma e Cambiamento, la lista con la quale Hamas si è presentata alle elezioni del 2006. Mahmoud al Ramahi, deputato, una laurea in medicina alla Sapienza di Roma, è stato arrestato dall'esercito israeliano all'alba nella sua casa di Ramallah. Nei giorni scorsi aveva incontrato un gruppo di deputati britannici, così come aveva incontrato americani, europei, stranieri, dopo esser stato rilasciato dalle autorità israeliane che lo avevano imprigionato assieme a una folta pattuglia di ministri e parlamentari di Hamas successivamente al rapimento di Gilad Shalit, arrestati tra l'estate e l'autunno del 2006. Ramahi è considerato uno dei più pragmatici, forse il più pragmatico, tra i deputati di Hamas. E dunque il suo arresto, ora, è un arresto eccellente.


E infine la società civile palestinese, quella che spesso guarda lo scontro tra Fatah e Hamas con la stessa rassegnazione con la quale guarda i checkpoint, il traffico al Muro di Qalandiya, le colonie israeliane che crescono in Cisgiordania, gli uomini che muoiono o vengono feriti mentre raccolgono l'asfalto nelle zone a ridosso dei confini a Gaza. Lamis Andoni, analista palestinese, dà un compito a Fatah e Hamas, nel suo articolo su Al Jazeera:


This ongoing power struggle – for this is largely what it is – over an authority that has no authority, has increased the violations, with each afraid of the challenge the other poses. The sanest voices in all of this have been those of the Hamas and Fatah detainees in Israeli prisons who have been at the forefront of calls for unity and the formulation of unity platform proposals. Palestinians have been urging the world to look into Israeli crimes and human rights abuses. They are victims of a colonial apartheid system, which is why participating in the abuse of their own people is not only unacceptable but a crime that must stop.


If the Hamas/Fatah talks are to have any real meaning they must begin with a vow to respect and cherish Palestinian human rights.

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Published on November 10, 2010 08:18

November 9, 2010

La battaglia in casa


Ariel e Ramallah, in fondo, non sarebbero così distanti. 42 chilometri e 33 chilometri in macchina, dicono con solerzia le indicazioni stradali fornite da Google maps che [sic!!!!] colloca sia Ramallah sia Ariel in Israele. A parte gli errori geopolitici di Google Maps, Ramallah e Ariel, entrambe in Cisgiordania, sono due mondi a parte. Ariel, la 'principessa' delle colonie israeliane in Cisgiordania. Ramallah, il vecchio villaggio cristiano, ora capoluogo in predicato di essere modificato – a tavolino – in una specie di Washington palestinese, con tanto di nuovi alberghi (Moevenpick compreso). Eppure, un punto di unione ce l'hanno avuto, ieri sera, Ramallah e Ariel. Un punto di unione tutto giocato in casa israeliana. La battaglia sul boicottaggio di Israele nei suoi comportamenti da potenza occupante. Ad Ariel, è stato inaugurato il teatro-centro culturale che aveva scatenato la reazione dura di una buona parte del mondo teatrale palestinese. Due mesi fa, attori e accademici dentro e fuori Israele (c'è stato anche l'appoggio di nomi importanti di Hollywood, provenienti dalla comunità ebraica americana) hanno firmato un manifesto per boicottare Ariel e tutte le colonie, scatenando le ire del governo israeliano, che giusto ieri è andato oltre, con il ministro della cultura e dello sport. Limor Livnat ha reso noto che progetta di tagliare i fondi a quei teatri che non firmeranno un impegno di lavorare in tutti i teatri di Israele [sic!!!!].


La risposta del fronte 'boicottaggio' è arrivata da Ramallah, per bocca di uno dei suoi più strenui sostenitori. Ilan Pappè, che si è autodefinito ieri sera uno dei "nuovi storici israeliani divenuto anziano", ha presentato i suoi ultimi libri (compreso uno sulla famiglia Husseini e l'aristocrazia palestinese) in un luogo simbolico. La Friend's Boy School di Ramallah, la scuola privata più importante della città, dove si continua a formare l'èlite palestinese in Cisgiordania. Almeno quattrocento persone nel teatro della scuola, equamente divise tra internazionali (me compresa) e giovani palestinesi, con qualche spruzzo di capelli brizzolati. Questo è il link con la sintesi dell'incontro scritta, appunto, da due universitarie palestinesi. Le parole di Pappè, autore de La pulizia etnica della Palestina,  sono state di una durezza che ha fatto impressione persino a me, che l'ho conosciuto a Torino, quando abbiamo fatto un incontro in una delle grandi Sale colorate della Fiera del Libro di Torino, edizione 2009.


Calmo, ed estremamente sereno, Pappè  ha detto di non poter spiegare il senso di "liberazione" che lo ha pervaso quando ha "varcato il Rubicone". Il Rubicone è quella soglia che alcuni israeliani hanno superato quando la loro critica nei confronti di Israele è andata tanto oltre, da cambiare il loro stesso "dizionario". Un cambiamento, ha spiegato Pappè, che è necessario per istituire un nuovo paradigma quando si parla di Israele, definito ieri sera "stato criminale", "rouge State", "stato coloniale che ha istituito l'apartheid". Uno stato da boicottare, dunque. Il nuovo dizionario di Pappè, che sostiene il boicottaggio accademico avversato ieri da 37 premi Nobel, è stato pronunciato con una serenità incredibile, di fronte – certo – a una audience che gli era amica o che perlomeno lo ascoltava con attenzione, ma comunque a Ramallah e non a Londra. Eppure, il tipo di pubblico era più simile a quello londinese che ai palestinesi che, a poche centinaia di metri di distanza, costituiscono la burocrazia dell'ANP cisgiordana. Una differenza evidente, ma anche sottolineata dalle domande che, alla fine, proprio i ragazzi di Ramallah hanno posto a Pappè, mostrando il nervo scoperto della piccola società palestinese in Cisgiordania. Il rapporto tra l'ANP e la società civile.


La storia del pro o contro il boicottaggio di Israele, insomma, prosegue. Non solo fuori, e soprattutto in Europa, come ha detto Ilan Pappè. Ma dentro Israele. Dentro l'intellighentisjia, persino dentro il campo pacifista. Una battaglia di cui fuori da Israele si sa poco, che poco interessa i media mainstream, e che è invece tanto importante da preoccupare (moltissimo) le autorità israeliane.


La foto (del Muro di Separazione) è di Francesco Fossa.

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Published on November 09, 2010 08:39

November 6, 2010

Ilana, l'alleata di Suad


Il sabato, a Gerusalemme, è giorno di lettura. Ci sono gli inserti settimanali di Haaretz e del Jerusalem Post, per esempio, oltre a chili e chili (nel mio caso) di libri specialistici e saggi e pagine e lunghi articoli… Comunque, fuori dai doveri professionali, ho cominciato la giornata con un bellissimo e lungo racconto di Ilana Hammerman, pubblicato nell'inserto di Haaretz. Nonostante il titolo (Viaggi nella iperrealtà), il racconto di Ilana Hammermann è la radiografia della vita quotidiana tra Tel Aviv e Israele, il "si vede" e il "non si vede per niente tanto è invisibile" che va in onda sul lungomare di Tel Aviv, tra le assi di legno del vecchio porto, riattato a passeggio trendy della città israeliana più pubblicizzata sulle riviste di viaggi.


Ilana Hammermann si descrive come una nota traduttrice, di Nietzsche e di quell'Albert Camus sconosciuto alle giovani poliziotte che la interrogano. Perché ha portato sulle rive del Mediterraneo donne palestinesi che vivono nei paesi della Cisgiordania e che il mare non l'hanno mai visto. Denunciata per ingresso illegale di palestinesi in Israele, insomma. Ma lei, questi viaggi, li fa e li continuerà a fare, e spera – anzi – di finire in tribunale, così da spiegare cosa – secondo lei – non va, nelle leggi israeliane.


Il richiamo a Murad Murad di Suad Amiry, pubblicato un po' di tempo fa da Feltrinelli, è evidente. E di quei lavoratori palestinesi in nero che ogni notte passano "frontiere" di diverso tipo e natura e vanno in Israele per alimentare il mercato nero dell'edilizia parla anche la Hammermann. Perché anche lei, come Suad Amiry, li ha incontrati e ci ha parlato. Pentendosi di non aver portato anche loro in Israele, e non solo donne a cui ha regalato un giorno senza conflitto, al mare, nel mare.


Portare anche gli uomini, che vanno in Israele per lavorare e mantenere la famiglia: la Hammermann vorrebbe risparmiare loro pericolo, fatica, arresti, umiliazioni.  Non è sola, in questo outing politico. C'è una parte di Israele, minoritaria e invisibile ai più, che sorprende sempre, per coraggio e coerenza. Intellighentsjia, ma non solo.


la foto ritrae uno dei checkpoint più importanti della Cisgiordania, quello di Huwwara a Nablus, da Wikimedia.

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Published on November 06, 2010 07:30

November 5, 2010

Segnare sull'agenda


E' da tempo che non segnalo qualche appuntamento interessante su Medio Oriente e dintorni, non solo in Italia ma un po' in giro.


Intanto, comincio – con profondo senso di colpa – con un appuntamento mancato, nel senso che è già passata qualche ora dalla presentazione a Roma, nella sede della FNSI, di un libro particolare, quello firmato da Ritanna Armeni  ed Emanuele Giordana. Due pacifisti e un generale (Ediesse) è il titolo, che già dice molto. I pacifisti sono gli autori, e il generale Vincenzo Camporini è il militare a cui Armeni e Giordana hanno chiesto molto su come sono cambiate le nostre forze armate. "Non più soldati di leva, ma professionisti della sicurezza, non più solo uomini, ma anche donne, non più militari ignoranti e inconsapevoli, ma ragazze e ragazzi addestrati, colti e curiosi, esperti di tecnologie, abituati a girare il mondo e a capirlo. La rivoluzione ha riguardato l'idea di pace, di guerra, di disciplina, di gerarchia, di comando, di tempo", dice la presentazione del libro.


E per farmi perdonare, ho scovato nell'archivio digitale della Library of Congress, una foto che riguarda proprio la Kabul così amata dal mio pard Emanuele Giordana, durante la visita dell'allora presidente statunitense Eisenhower, nel 1955.


Domani, a Venezia, nell'ambito del dialogo "Progettare etico e solidale", organizzato all'interno del Padiglione Italia per la Biennale di Architettura 2010 a Venezia, ARCò e Vento di Terra presenteranno i progetti Scuola di gomme e Scuola di bambù.


Entrambe le scuole sono state progettate da ARCò e realizzate nel quadro dei  progetti di cooperazione internazionale di Vento di Terra Onlus nei Territori Occupati Palestinesi, proprio a ridosso di Gerusalemme, vicino a due luoghi evangelici, davanti alla locanda del Buon Samaritano, e vicino al quartiere di Azzariyah, quella della Tomba di Lazzaro. Beneficiari, i beduini, protagonisti nascosti del conflitto, invisibili ai più, sofferenti come e più degli altri.


Per chi è invece a New York, un consiglio per il 15 novembre, data peraltro non scelta a caso, visto che è il giorno dell'Indipendenza palestinese. Rochelle A. Davis, brava studiosa, professore associato alla Georgetown, presenta il suo ultimo libro all'appena inaugurato Center for Palestine Studies della Columbia University. Palestinian Village Histories, Geographies of the Displaced parla del modo in cui i profughi palestinesi hanno costruito la memoria dei propri villaggi ormai distrutti e sepolti. (thhanks, Marcia)


Appuntamento più in là, il 4 dicembre, ma preferisco metterlo adesso, perché parla di un libro che mi è veramente piaciuto molto, e ch purtroppo è stato tolto dagli scaffali del Cairo quasi subito, sequestrato dalla polizia egiziana. Esce in Italia una graphic novel molto bella. Metro di Magdy al Shafee, per i tipi del Sirente, piccolo editore molto attento alla nuova letteratura egiziana. Il 4 dicembre ore 19 presso il cafè Savoia di Cagliari si terrà la presentazione di Metro, la prima contestatissima e attesa graphic novel egiziana, nell'ambito del NUES, il festival del Fumetto mediterraneo che dedica l'edizione di quest'anno al Mondo Arabo.


E infine, non un appuntamento ma un consiglio a tenere gli occhi aperti su di uno scontro che non è poi tanto sotterraneo. Israele ha reagito duramente contro 5 recenti risoluzioni dell'Unesco sui Territori Palestinesi Occupati (ne ho parlato qualche giorno fa). Ebbene, il vice ministro degli esteri Danny Ayalon è al centro di un po' di confusione sui rapporti tra Israele e Unesco. All'inizio, il suo ufficio aveva spedito a tutti i giornalisti un comunicato che annunciava la rottura dei rapporti con l'Unesco. Rottura poi smentita, il giorno dopo: rapporti solo parzialmente irrigiditi tra Israele e l'Unesco. Sulla Tomba di Rachele, luogo di importanza religiosa a Betlemme, circondato da un Muro alto nove metri e staccato dalla città palestinese.

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Published on November 05, 2010 13:22

November 4, 2010

Boicottaggi


Eh, sì, di boicottaggi è pieno il mondo, e possono essere di diverso tipo. Se poi si è da questa parte del mondo, è tutto più complicato. E allora, andiamo con ordine. Partiamo da nord, dalla cittadina di Safed, importante per tutt'e due le comunità che confliggono da decenni. Importante per l'ebraismo, regno della cabala, uno dei centri più importanti della comunità sefardita. Importante per i palestinesi, cacciati nel 1948, e tra loro c'era un uomo – ora anziano – che si chiama Mahmoud Abbas, presidente dell'ANP. A Safed il boicottaggio si concentra sulle case: sembra sia diventato molto difficile per gli studenti palestinesi e beduini trovar posto, una casa da affittare, un posto dove stare, soprattutto dopo la presa di posizione di alcuni rabbini, di non affittare a non ebrei. Ne parla Ynet, ma la cosa monta da giorni e giorni, e va oltre Safed, coinvolge un'area delicata come la Galilea e il nord di Israele.


Più a sud, al confine tra Cisgiordania e Giordania, c'è un valico controllato – come tutti i valichi – da Israele. E' il famoso ponte di Allenby, da dove – dice oggi Haaretz – i funzionari dell'Autorità Nazionale Palestinese non potranno passare. Salvo due casi: il presidente Mahmoud Abbas e il premier Salam Fayyad. La ragione, dice sempre Avi Issacharoff, è per le dure dichiarazioni nei confronti di Israele pronunciate da alcune figure di rilievo dell'ANP. E il valico di Allenby, per chi non lo sapesse, è l'unico modo per i palestinesi di Cisgiordania di recarsi all'estero, sotto il controllo israeliano. Cosa succederà? La Cisgiordania diventerà come Gaza?


Saltiamo la barricata, andiamo in casa palestinese. Il boicottaggio, in questo caso, è alle merci prodotte nelle colonie israeliane, costruite in Cisgiordania, illegalmente per il diritto internazionale. A Betlemme, dice Maannews, è stato depositato in tribunale il primo caso contro un commerciante che aveva contrabbandato merce proveniente dalle colonie per venderla nel suo negozio. I prodotti israeliani, ricordiamolo, sono merce preziosa: quasi l'unica che può arrivare sulle tavole e nelle case palestinesi, perché l'importazione dall'estero è soggetta a molte restrizioni. Quelle della dogana israeliana.


E infine una notizia che arriva da quella parte di pacifismo israeliano che segue la campagna per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro soggetti che operano con le colonie e sostengono l'occupazione dei territori palestinesi conquistati nel 1967. Africa Israel, dice questa notizia, non costruirà dentro le colonie israeliane in Cisgiordania e non investirà negli insediamenti. Per chi non conosce Africa Israel, si tratta di una importante holding (con qualche problema, a dire il vero) fondata dal tycoon Lev Leviev, e nata sul commercio dei diamanti in Africa. Il fronte pacifista israeliano la considera una notizia importantissima.


Sono innamorata dell'archivio fotografico della Library of Congress, come si capisce dalle scelte 'iconografiche' di questi ultimi giorni. Questa immagine verso Gerusalemme è commovente.

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Published on November 04, 2010 07:52

November 3, 2010

Lo Yacoubian, l'ebraico, il copyright

La querelle è scoppiata pochissimi giorni fa, quando 'Ala al Aswany è andato su tutte le furie. Non autorizzata, è comparsa una traduzione in ebraico del suo bestseller, Palazzo Yacoubian, sul sito dell'IPCRI, la ong guidata da Gershon Baskin. Baskin di mestiere non fa l'editore, né tanto meno sembra abbia voglia di farlo. Eppure, ha sfidato il rifiuto di Aswany, la sua ira, e ha pubblicato Palazzo Yacoubian. Senza diritti… Chiunque si sarebbe infuriato. Perché mai non dovrebbe farlo Aswany, uomo coerente e cortese, di quelli che rispettano ciò che dicono. In più Aswany rispetta la linea sempre seguita dall'Unione egiziana degli Scrittori, che non vuole la "normalizzazione" con Israele sino a che il conflitto israelo-palestinese non sarà risolto, e sarà finita  l'occupazione delle terre conquistate nel 1967.


Se volete sapere qualcosa di più, ho scritto un articolo sull'affaire 'Yacoubian in ebraico' che la Stampa pubblica oggi. Ho intervistato Yael Lerer, la fondatrice e l'anima di Andalus, la casa editrice israeliana che per dieci anni ha pubblicato la letteratura araba in traduzione ebraica. Senza mai incorrere, peraltro, nello scivolone di Baskin. Yaele Lerer ha sempre pubblicato – dalle poesie di Darwish a Elias Khouri – facendo ben attenzione a rispettare i copyright. Così come ha rispettato il rifiuto di 'Ala al Aswany, quando gli chiese di poter avere i diritti di traduzione in ebraico. L'atteggiamento di Baskin? Per Yael Lerer è insopportabilmente "paternalistico".



A proposito di letteratura araba. E' periodo di festival letterari, un po' in giro. Dalla penisola arabica al Regno Unito. Per saperne di più, ecco un post dallo arablit di Marcia Lynx Qualey.


La foto. Sempre presa dallo splendido archivio fotografico della Library of Congress. Ritrae un beduino siriano.

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Published on November 03, 2010 12:14