Paola Caridi's Blog, page 128
November 3, 2010
Quando i Belbal comprarono la tv
L'ultimo numero di Words Without Borders è tutto sulla nuova letteratura mediorientale. Nuova? Diciamo, meno conosciuta. Diciamo, la letteratura mediorientale che ingloba tutta la congerie linguistica che arriva molto più a oriente. Arabo, ebraico, turco, urdu, persiano…
E così, la rivista web che rende disponibili in inglese testi difficilmente accessibili nelle lingue originali, pubblica per esempio la vecchia riflessione di Khalil Gibran sulla lingua araba.
"The future of the Arabic language is tied to the presence or absence of invention in all the countries that speak Arabic. [...] It is the nation's resolve to move ever forward. It is in the nation's heart, a hunger and thirst for the unknown, and in its soul a chain of dreams that the nation seeks to realize day and night, and every time one of the links in the chain is realized, life adds another one".
Interessante My Father's Antenna di Fouad Laroui, sull'arrivo della tv in un paesino marocchino. Niente di più e niente di meno dello stesso stupore che è possibile narrare sull'arrivo della tv nell'Italia dei paesi e dei vecchi quartieri cittadini… Laroui, a dire il vero, scrive in lingua accessibilissima, in francese. E' uno di quegli intellettuali maghrebini che viaggiano con la propria identità tra le sponde di mondi vicini, tra Casablanca, Parigi e Amsterdam. E' tra i finalisti del Goncourt e ha scritto un testo non di fiction, De l'islamisme, da laico contro il discorso integralista, ma senza l'integralismo laico che spesso rende il dibattito sterile.
E poi musica. Torna Fayrouz, ormai molto anziana, con un album che ha già fatto il giro del mondo arabo. Eh Fi Amal, che significa suppergiù, Ehi, C'è ancora speranza. Sembra che non sia arrivato – il CD di Fayrouz – né in Arabia Saudita, né in Egitto. Ma ora non è un problema. Il popolo – esteso – dei fan della grande cantante libanese, l'eterna rivale di Umm Kulthoum, si scaricano l'ultimo album direttamente dalla Rete. Eh, potenza del download…
La foto, scattata nella splendida marocchina Fez, è di Francesca Nardi
November 2, 2010
Update: me lo vietano, ma ci vado
Salam Fayyad è andato lo stesso nei quartieri della periferia di Gerusalemme dove l'ANP aveva investito per ristrutturare alcune scuole private. Stamattina il premier palestinese è andato a Dahiyat al Barid, nonostante il divieto israeliano di recarsi "a Gerusalemme". Dahiyat al Barid, considerato entro i confini del municipio di Gerusalemme, è però dall'altra parte del Muro di Separazione che è stato costruito dentro Gerusalemme, e che separa quartieri palestinesi da quartieri palestinesi (non è un refuso, separa quartieri palestinesi da quartieri palestinesi, per questioni di sicurezza…).
Il messaggio politico, dunque, è chiaro, sia verso Netanyahu sia verso le fazioni palestinesi. Salam Fayyad non ha alcuna intenzione di fare un passo indietro, ma continua a volersi profilare come uno degli attori politici in questa ultima fase del conflitto israelo-palestinese. Soprattutto ora, che questione della successione ad Abu Mazen alla presidenza dell'ANP si fa più stringente.
E a Netanyahu, Fayyad conferma che per i palestinesi è una città occupata:
During the visit, Fayyad slammed the Israeli prime minister. "Netanyahu defined these suburbs as suburbs of Jerusalem, the united capital. And we say, yes, these are suburbs, but suburbs of our occupied capital which will always be the capital of our independent state." He clarified that there will be no peace and stability until the Palestinians could reach those areas.
La foto? E' una delle migliaia di foto di Gerusalemme storica conservate presso la Library of Congress. Ritrae, in questo caso, un preciso modo di coprirsi la testa durante la rivolta araba del 1936-39. Fu allora che, a Gerusalemme come altrove, la keffiyah assunse il significato nazionalistico che ancora oggi ha. Anche le donne parteciparono a questa sfida condotta attraverso il vestiario. E così le donne palestinesi di fede cristiana, al posto del cappello, indossarono il velo. Sì, proprio il velo, con un significato tutto nazionalistico. La foto è del 1938.
Divieto di ingresso a Fayyad
Ingresso vietato a Gerusalemme per Salam Fayyad. Lo ha firmato il ministro israeliano per la pubblica sicurezza, Yitzhak Aharonovitch, confermando il bando delle attività dell'Autorità Nazionale Palestinese a Gerusalemme est, occupata dal 1967. Il premier palestinese Fayyad doveva inaugurare stamattina (ma ha poi cancellato la sua partecipazione) una scuola appena finita di ristrutturare con i soldi dell'ANP, a Dahiyat as-Salam, in uno dei quartieri più poveri e dimenticati di Gerusalemme est, proprio a ridosso del Muro di Separazione. Uno dei 15 progetti che l'ANP ha finanziato, assieme alla pavimentazione di alcune strade alle quali non aveva provveduto la municipalità israeliana di Gerusalemme, sotto la cui giurisdizione cade Dahiyat as-Salam. La reazione israeliana è più dura di quanto si possa immaginare, perché i finanziamenti dell'ANP evidenziano quello che la municipalità israeliana non ha fatto perché Gerusalemme est potesse vivere, respirare e svilupparsi come la parte ovest della città, in linea con la politica di Israele, che considera la città unificata. E il passo di Fayyad è anche considerato preoccupante dal punto di vista mediatico, se è vero che il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, ha inaugurato proprio ieri in un altro quartiere palestinese di Gerusalemme est – Ras al Amud, teatro di frizioni costanti per la presenza di una colonia radicale proprio nel cuore del quartiere – una scuola femminile.
L'attivismo di Fayyad a Gerusalemme est segnala una novità importante, rispetto alla politica seguita dall'ANP negli ultimi anni, dopo la morte, poco meno di dieci anni fa, del leader più importante di Gerusalemme palestinese, Faysal al Husseini, e la successiva chiusura della Orient House, decisa dalle autorità israeliane. Da allora, la presenza dell'ANP a Gerusalemme è divenuta sempre meno importante, se non residuale, a causa anche della costruzione del Muro di Separazione e del progressivo distacco della Cisgiordania da Gerusalemme est. Ciò non vuol dire che la presenza plaestinese sia ridotta, con i 200mila abitanti che risiedono entro i confini della municipalità, né che l'ANP non sia a suo modo presente, per esempio con i testi scolastici che si usano in molte scuole palestinesi della città. Lo scollamento è tra una presenza fisica degli abitanti palestinesi e la presenza di una politica attiva palestinese, sempre più incapace di produrre una linea comune.
La storia insegna che questo è già successo molte volte, nei momenti importanti della vita contemporanea di Gerusalemme. Basta guardare alle divisioni della politica palestinese, tra la fine dell'Impero Ottomano e il Mandato Britannico, cartina di tornasole della spaccatura tra le figure più di rilievo del notabilato. Oggi, anno domini 2010, lo scenario è ancora più deprimente, non solo per l'assenza di un leader carismatico come Faysal al Husseini, che ancora tutti rimpiangono. Ma soprattutto per l'assenza di una visione sul futuro della città. Per questo il passo di Salam Fayyad, di riportare Gerusalemme est alla ribalta, segnala una differenza rispetto al recente passato. Quanto questa sia foriera di una nuova visione, è tutto da verificare.
La foto è tratta dal sito di B'tselem, che nel 2008 si era occupato di una discarica illegale a Gerusalemme est, proprio nel quartiere negletto di Dahiyat as-Salam
November 1, 2010
Mala tempora per le chiese
Finito malissimo il sequestro dei fedeli cattolici presi in ostaggio da un gruppo di armati legati ad al Qaeda, a Baghdad. L'intervento dei soldati iracheni è finito in una bagno di sangue, 37 morti, decine di feriti. E' finito così un sequestro iniziato ieri nella chiesa della Nostra Signora del Soccorso, già colpita nel 2004 da un attentato. Un sequestro che non era diretto ai fedeli cristiani, ma che è stato il prosieguo di un azione terroristica fallita, diretta contro la Borsa di Baghdad. I terroristi avevano ucciso due delle guardie della Borsa, ma non eran riusciti a entrare nell'edificio. Sono allora scappati, sono entrati nella chiesa, lì accanto, ed è iniziato il sequestro, l'assedio delle forze irachene, poi l'intervento (sanguinoso) per liberare gli ostaggi.
Mala tempora per le chiese, insomma. E non solo a Baghdad. Ha fatto pochissima notizia, ma a Gerusalemme giovedì scorso c'è stato un incendio in un luogo storico, la sede della Christian Alliance a Gerusalemme ovest. Era, sino al 1948, il Palestine Bible College, ed è uno degli edifici storici della via dei Profeti, che dalla Linea Verde corre dentro Gerusalemme ovest e che ospita alcuni degli esempi architettonici della Gerusalemme alla fine dell'Impero Ottomano. Compreso il Bible College.
Sulle cause dell'incendio viene detto ancora poco, ma sembra assodato che non sia stato un incidente, si legge nel Jerusalem Post. C'è chi dice che sia stato un altro episodio del price tag, il modo in cui i coloni israeliani, negli ultimi anni, "ripagano" azioni politiche che ritengono contro di loro, soprattutto i rari e timidi tentativi delle autorità di rimuovere alcuni piccoli avamposti illegali.
Nell'incendio della Christian Alliance di Gerusalemme ovest ci sono stati 13 contusi per inalazione di fumo. E molto imbarazzo. Non solo per l'incendio di un luogo cristiano, ma anche per le prime dichiarazioni dell'International Christian Embassy, l'associazione che raccoglie quella parte del protestantesimo che si definisce "cristiana-sionista" e che è strenua sostenitrice della politica israeliana. Evitare i retropensieri, questa è la linea. Ed è anche questo il motivo per il quale la notizia è stata – come si dice in gergo – tenuta molto, molto bassa.
Perché non si turbi l'immagine di una Gerusalemme tollerante verso tutte le religioni, proprio mentre la città è invasa di pellegrini.
La foto, scattata dall'Austrian Hospice nella Città Vecchia di Gerusalemme, è di Pino Bruno
October 29, 2010
Gli screzi tra UNESCO e Israele
Almeno tre delle cinque decisioni vanno lette per intero (sono purtroppo in inglese, lo so, ma non ho tempo per tradurle…):
The Ascent to the Mughrabi Gate in the Old City of Jerusalem: the Board voted 31 to 5 (17 abstentions) to reaffirm the necessity of Israel's cooperation in order to arrange access to the Mughrabi Ascent site for Jordanian and Waqf experts and that no measures should be taken which will affect the authenticity and integrity of the site, in accordance with the Convention for the Protection of the World Cultural and Natural Heritage and the Hague Convention for the protection of Cultural property in the Event of Armed Conflict.
• Jerusalem's cultural heritage: The Board voted 34 to 1 (19 abstentions) to "reaffirm the religious significance of the Old City of Jerusalem for Muslims, Christians and Jews. The decision expresses "deep concern over the ongoing Israeli excavations and archaeological works on Al-Aqsa Mosque compound in the Old City of Jerusalem, which contradicts UNESCO decisions and conventions and United Nations and Security Council resolutions". It invites the Director-General to appoint experts to be stationed in East Jerusalem to report on all aspects covering the architectural, educational, cultural and demographical situation there. It also invites the Israelis to facilitate the work of the experts in conformity with Israel's adherence to UNESCO decisions and conventions.
• The Palestinian sites of al-Haram al-Ibrahimi/Tomb of the Patriarchs in al-Khalil/Hebron and the Bilal bin Rabah Mosque/Rachel's Tomb in Bethlehem: the Board voted 44 to one (12 abstentions) to reaffirm that the two sites are an integral part of the occupied Palestinian Territories and that any unilateral action by the Israeli authorities is to be considered a violation of international law, the UNESCO Conventions and the United Nations and Security Council resolutions.
L'altro elemento di frizione è il fatto che l'UNESCO sottolinei che Israele opera nei Territori Palestinesi occupati, e dunque non a casa sua. L'attenzione dell'UNESCO, di questi ultimi giorni, fa seguito a una politica seguita da anni, quella di tracciare il patrimonio culturale e archeologico palestinese, individuando per esempio i siti più importanti, che l'ANP non può chiedere siano inseriti nella lunga lista dei patrimoni storici dell'umanità perché non è uno Stato. Sono siti importanti, alcuni fondamentali per la storia di questa parte del mondo, Betlemme e Gerico in testa.
October 28, 2010
"Come l'OLP nel 1990″
Tra le tante cose che ho letto tra ieri e oggi (francamente? Non mi va di parlare di Umm al Fahm. Era già tutto previsto, diceva una canzonetta dei miei tempi…), l'articolo di apertura del Jerusalem Post è di quelli che dà soddisfazione. Intanto, perché conferma alcuni segnali che sono nell'aria da settimane, e li conferma in maniera indiretta, attraverso una fonte che raramente esce così allo scoperto.
Di che si parla, intanto?Di riconciliazione tra Fatah e Hamas. Di una questione che ai più potrà sembrare di lana caprina, e che invece è fortemente intrecciata col processo di pace (pace!?) tra israeliani e palestinesi, col dossier sullo scambio di prigioneri tra Gilad Shalit e molte centinaia di detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, e soprattutto con la possibilità di dichiarare unilateralmente uno Stato di Palestina sui confini del 1967. A parlare di riconciliazione in toni diversi è stato un uomo che raramente parla, pur essendo un portavoce. E cioè il generale Adnan Damiri, portavoce delle forze di sicurezza in Cisgiordania, quelle addestrate dal programma gestito per anni dal generale Americano Keith Dayton. "The Palestinian leadership has learned that the US officials are now studying the situation of Hamas the same way they studied the situation of the PLO in 1990", dice con chiarezza a Khaled Abu Toameh del Jerusalem Post. Dalle forze di sicurezza palestinesi, preoccupate da quello che potrebbe significare un cambiamento nella strategia di Washington per il loro futuro, individuale e di gruppo, arriva una indiretta conferma del nuovo interesse di europei e americani verso l'idea che Hamas sia coinvolta nel processo negoziale israelo-palestinese, proprio attraverso il grimaldello della riconciliazione.
Sdoganare Hamas, insomma, potrebbe essere una ipotesi sul tappeto, pensando al modello precedente, e cioè al coinvolgimento dell'OLP nel processo negoziale che fu poi quello di Oslo, togliendo la patente di 'terrorista' all'Organizzazione per la Liberazione della Palestina e al suo leader, Yasser Arafat. Mai fare paragoni, tantomeno tra l'OLP e Hamas, o tra Fatah e Hamas, fratelli-coltelli sin dalle loro rispettive nascite. E' però da registrare che c'è movimento dietro le quinte, come segnala anche la visita odierna a Ramallah e Amman del ministro egiziano per gli affari esteri, Abul Gheit, e del capo dei servizi di sicurezza del Cairo, Omar Suleiman, l'uomo che ha in mano i due dossier 'infiniti', quello sulla riconciliazione e quello sullo scambio di prigionieri. Raro che Abul Gheit e Suleiman facciano insieme un tour diplomatico, e dunque bisogna seguirlo con attenzione.
A completare il quadro, le dichiarazioni di ieri di Ismail Haniyeh da Gaza, rilasciate durante un incontro con un team di esperti francesi, tra cui anche Regis Debray, vecchio consigliere del presidente Francois Mitterrand, che ha soprattutto posto la questione di Gilad Shalit a Haniyeh. E' importante avere incontri e dialogo diretto con i governi occidentali, ha detto il premier del governo de facto di Gaza. E' la linea che viene ribadita da settimane, dal suo vice ministro degli esteri Ahmed Youssef, da Khaled Meshaal.
La foto, scattata nella città vecchia di Hebron, è di Francesca Nardi. Quelli che si vedono in fondo sono i tornelli che immettono nella zona della Tomba dei Patriarchi/Moschea Ibrahimi.
October 26, 2010
X + 0.56 R + Y – C = Z. Le equazioni della fame
La fame, e soprattutto quel sottile discrimine tra la fame e la sussistenza, si può descrivere con una formula matematica? Si può prevedere che sugli scaffali di un negozietto ci debbano essere tre barattoli di yoghurt, due di labaneh, 5 confezioni di hummus, 6 di biscotti, etc etc? La risposta è sì, certo. Niente di così nuovo né trascendentale. Quello che sorprende non è applicazione di modelli matematici al consumo alimentare umano, è che i modelli matematici siano stati usati dalle autorità israeliane, in questo caso da quell'organismo di collegamento tra Israele, ANP, organizzazioni internazionali che si chiama COGAT, per capire quando aprire e quando chiudere i rubinetti dei prodotti da far entrare a Gaza.
E' notizia di oggi, la si trova su Haaretz, in un articolo che firma Amira Hass. Il COGAT ha reso noto le regole e le procedure seguite in questi tre anni per fare o meno entrare prodotti alimentari e altre merci nella Striscia di Gaza sotto il controllo di Hamas. Un piccolo spazio di 40 chilometri per dieci da cui un milione e mezzo di persone non può uscire, fisicamente, da molti anni, molti di più dei tre anni in cui Gaza è sotto il controllo di Hamas. Ebbene, le autorità israeliane, dice l'articolo di Amira Hass, hanno individuato un limite massimo e un limite minimo della presenza dei prodotti sugli scaffali dei negozi, a seconda della 'vita' dei prodotti, lunga o breve. Il limite massimo che non è mai stato raggiunto, e cioè non c'è mai stata abbondanza di cibo. In compenso, si è stati attenti a non scendere sotto il livello minimo. Vivaddio. A Gaza, dunque, si è mangiato a seconda di formule matematiche che hanno mescolato consumo medio per famiglia, il tipo di alimentazione, le necessità nutrizionali. Che a nessuno venga in mente di fare una dieta 'diversa' dal solito, di avere desideri alimentari di un certo tipo… Il rancio è quello, e basta.
I documenti ufficiali sono stati resi noti grazie alla richiesta reiterata dell'associazione Gisha, in virtù del Freedom of Information Act israeliano. Ed è dunque possibile leggere, sul sito di Gisha, anche le formule usate. Per calcolare l'inventario relativo a pollame e uova, ad esempio, l'equazione era X + 0.56 R + Y – C = Z.
Ma la cosa più interessante è leggere l'elenco delle "considerazioni" (sì, considerazioni) che sono state applicate ai modelli. Oltre alle considerazioni di sicurezza, oltre ai bisogni umanitari, ci sono considerazioni che riguardano l'"immagine" del prodotto (normale? di lusso?), che riguardano la possibilità che lo status di Hamas possa migliorare a seconda dell'ingresso o meno di un prodotto, che riguardano le implicazioni legali. E poi – sì – "la sensibilità della comunità internazionale". Tradotto: se la comunità internazionale si indigna nel caso si vieti un prodotto piuttosto che un altro, allora il modello si può riconsiderare… Risultato: il modello è stato riconsiderato dopo il maggio del 2010, dopo il tentativo di parte delle Freedom Flotilla di forzare il blocco navale che ancora chiude Gaza anche dal mare, e dopo i morti causati dall'attacco sanguinoso della marina militare israeliana contro la Mavi Marmara, l'"ammiraglia" della flottiglia. Da allora, le regole sono state riconsiderate.
I commenti, a una notizia del genere, li lascio francamente a voi. A me, la lettura delle regole, delle considerazioni, dei modelli applicati a un milione e mezzo di persone che ho visto in carne e ossa, mi ha rovinato la giornata. E mi ha ricordato alcune pagine – quelle del pane nascosto in un pezzetto di stoffa – de Una giornata di Ivan Denisovic.
La foto? Eh, la foto è stata scattata in una scuola dell'UNRWA a Rafah, trasformata durante l'Operazione Piombo Fuso in un rifugio per sfollati. Una piccola cucina da campo, insomma.
X + 0.56 R + Y – C = Z. Formule matematiche e fame
La fame, e soprattutto quel sottile discrimine tra la fame e la sussistenza, si può descrivere con una formula matematica? Si può prevedere che sugli scaffali di un negozietto ci debbano essere tre barattoli di yoghurt, due di labaneh, 5 confezioni di hummus, 6 di biscotti, etc etc? La risposta è sì, certo. Niente di così nuovo né trascendentale. Quello che sorprende non è applicazione di modelli matematici al consumo alimentare umano, è che i modelli matematici siano stati usati dalle autorità israeliane, in questo caso da quell'organismo di collegamento tra Israele, ANP, organizzazioni internazionali che si chiama COGAT, per capire quando aprire e quando chiudere i rubinetti dei prodotti da far entrare a Gaza.
E' notizia di oggi, la si trova su Haaretz, in un articolo che firma Amira Hass. Il COGAT ha reso noto le regole e le procedure seguite in questi tre anni per fare o meno entrare prodotti alimentari e altre merci nella Striscia di Gaza sotto il controllo di Hamas. Un piccolo spazio di 40 chilometri per dieci da cui un milione e mezzo di persone non può uscire, fisicamente, da molti anni, molti di più dei tre anni in cui Gaza è sotto il controllo di Hamas. Ebbene, le autorità israeliane, dice l'articolo di Amira Hass, hanno individuato un limite massimo e un limite minimo della presenza dei prodotti sugli scaffali dei negozi, a seconda della 'vita' dei prodotti, lunga o breve. Il limite massimo che non è mai stato raggiunto, e cioè non c'è mai stata abbondanza di cibo. In compenso, si è stati attenti a non scendere sotto il livello minimo. Vivaddio. A Gaza, dunque, si è mangiato a seconda di formule matematiche che hanno mescolato consumo medio per famiglia, il tipo di alimentazione, le necessità nutrizionali. Che a nessuno venga in mente di fare una dieta 'diversa' dal solito, di avere desideri alimentari di un certo tipo… Il rancio è quello, e basta.
I documenti ufficiali sono stati resi noti grazie alla richiesta reiterata dell'associazione Gisha, in virtù del Freedom of Information Act israeliano. Ed è dunque possibile leggere, sul sito di Gisha, anche le formule usate. Per calcolare l'inventario relativo a pollame e uova, ad esempio, l'equazione era X + 0.56 R + Y – C = Z.
Ma la cosa più interessante è leggere l'elenco delle "considerazioni" (sì, considerazioni) che sono state applicate ai modelli. Oltre alle considerazioni di sicurezza, oltre ai bisogni umanitari, ci sono considerazioni che riguardano l'"immagine" del prodotto (normale? di lusso?), che riguardano la possibilità che lo status di Hamas possa migliorare a seconda dell'ingresso o meno di un prodotto, che riguardano le implicazioni legali. E poi – sì – "la sensibilità della comunità internazionale". Tradotto: se la comunità internazionale si indigna nel caso si vieti un prodotto piuttosto che un altro, allora il modello si può riconsiderare… Risultato: il modello è stato riconsiderato dopo il maggio del 2010, dopo il tentativo di parte delle Freedom Flotilla di forzare il blocco navale che ancora chiude Gaza anche dal mare, e dopo i morti causati dall'attacco sanguinoso della marina militare israeliana contro la Mavi Marmara, l'"ammiraglia" della flottiglia. Da allora, le regole sono state riconsiderate.
I commenti, a una notizia del genere, li lascio francamente a voi. A me, la lettura delle regole, delle considerazioni, dei modelli applicati a un milione e mezzo di persone che ho visto in carne e ossa, mi ha rovinato la giornata. E mi ha ricordato alcune pagine – quelle del pane nascosto in un pezzetto di stoffa – de Una giornata di Ivan Denisovic.
La foto? Eh, la foto è stata scattata in una scuola dell'UNRWA a Rafah, trasformata durante l'Operazione Piombo Fuso in un rifugio per sfollati. Una piccola cucina da campo, insomma.
October 25, 2010
Welcome to Jerusalem
Possiamo metterla così. Che a Gerusalemme non ci si annoia mai. Nelle pieghe di una città unica – bisogna poi vedere se questa unicità riesca a dare, più che la felicità, la dignità a tutti i suoi abitanti -, accadono cose talmente particolari che una stenta a credere che siano possibili.
Per esempio. A Gerusalemme domani si celebra il rabbino Meir Kahane, fondatore di un movimento inserito nella lista delle organizzazionei terroristiche negli Stati Uniti, dichiarato illegale anche in Israele. Tanto per far capire la caratura ideologica, Baruch Goldstein, quello che compì la strage nella moschea Ibrahimi di Hebron nel febbraio del 1994, era un cosiddetto kahanista. Una pubblicità in giro per Gerusalemme, un invito, una riunione: domani alle 18 al Ramada Renaissance hotel. E c'è anche un fumetto, per i bambini, che racconta le gesta di Meir Kahane, al costo di circa dieci euro.
Altri soldi. Domenica il comitato ministeriale israeliano sulla legislazione ha approvato la proposta di un Jerusalem Priority Bill, una legge con la quale Gerusalemme beneficerà di fondi per l'edilizia, l'educazione, l'occupazione. Soldi per lo sviluppo di Gerusalemme, insomma. E, dice il Jerusalem Post, non si specifica se questi fondi andranno solo allo sviluppo della zona occidentale, israeliana, o anche per i quartieri che si continuano a costruire a est, occupata dal 1967. Altri soldi, e molto probabilmente altre frizioni, altre polemiche, altri sassi. Come quelli che si continuano a tirare a Silwan, anche se la stampa italiana non ne parla più.
Home/Casa. A Gerusalemme est. L'UNRWA racconta in video in un sito molto bello, ancora in parte in costruzione, quindici storie di rifugiati. una riguarda proprio Gerusalemme. E' la storia di Alaa e della sua famiglia.
Like many Palestinian residents of occupied East Jerusalem, Ala'a and his family faced insurmountable obstacles when trying to obtain an Israeli building permit to build their home. They were left with practically no choice but to build without a permit, rather than not at all. In 2001 the family moved to their new home in Beit Hanina, East Jerusalem. They were fined 70,000 shekels for not having a permit. Three months after they paid the last installment of this fine, the family received a demolition order for their home. Shortly after that, they watched as their home – and with it their entire life savings – was demolished.
Unfortunately Ala'a's story is far from unique. Palestinians make up about 30 per cent of Jerusalem's population but can only apply for permission to build on 13 per cent of the land in the eastern half of the city, much of which is already built-up.In addition, the number of permits granted to Palestinians each year does not meet demand for housing. The gap – around 1,100 houses each year – has caused a serious housing shortage.
The UN estimates that between 28 and 46 per cent of Palestinian homes could be at risk of demolition.
Cristianesimo, conflitti, giustizia. Ve lo siete letto il famoso documento finale del Sinodo sul Medio oriente, che ha suscitato tante polemiche? Ecco il passo scandaloso…
Abbiamo analizzato quanto concerne la situazione sociale e la sicurezza nei nostri paesi del Medio Oriente. Abbiamo avuto coscienza dell'impatto del conflitto israelo-palestinese su tutta la regione, soprattutto sul popolo palestinese che soffre le conseguenze dell'occupazione israeliana: la mancanza di libertà di movimento, il muro di separazione e le barriere militari, i prigionieri politici, la demolizione delle case, la perturbazione della vita economica e sociale e le migliaia di rifugiati. Abbiamo riflettuto sulla sofferenza e l'insicurezza nelle quali vivono gli Israeliani. Abbiamo meditato sulla situazione di Gerusalemme, la Città Santa. Siamo preoccupati delle iniziative unilaterali che rischiano di mutare la sua demografia e il suo statuto. Di fronte a tutto questo, vediamo che una pace giusta e definitiva è l'unico mezzo di salvezza per tutti, per il bene della regione e dei suoi popoli.
E i passi sul rapporto con i musulmani, poi, sono ancora più scandalosi, ma poco degni di tanto spazio sui giornali, quanto invece ne ha avuto un prelato libanese che citava Corano e spada
Abbiamo riflettuto sulle relazioni tra concittadini, cristiani e musulmani. Vorremmo qui affermare, nella nostra visione cristiana delle cose, un principio primordiale che dovrebbe governare queste relazioni: Dio vuole che noi siamo cristiani nel e per le nostre società del Medio Oriente. Il fatto di vivere insieme cristiani e musulmani è il piano di Dio su di noi ed è la nostra missione e la nostra vocazione. In questo ambito ci comporteremo con la guida del comandamento dell'amore e con la forza dello Spirito in noi. Il secondo principio che governa queste relazioni è il fatto che noi siamo parte integrale delle nostre società. La nostra missione basata sulla nostra fede e il nostro dovere verso le nostre patrie ci obbligano a contribuire alla costruzione dei nostri paesi insieme con tutti i cittadini musulmani, ebrei e cristiani.
[...]
Diciamo ai nostri concittadini musulmani: siamo fratelli e Dio ci vuole insieme, uniti nella fede in Dio e nel duplice comandamento dell'amore di Dio e del prossimo. Insieme noi costruiremo le nostre società civili sulla cittadinanza, sulla libertà religiosa e sulla libertà di coscienza. Insieme noi lavoreremo per promuovere la giustizia, la pace, i diritti dell'uomo, i valori della vita e della famiglia. La nostra responsabilità è comune nella costruzione delle nostre patrie. Noi vogliamo offrire all'Oriente e all'Occidente un modello di convivenza tra le differenti religioni e di collaborazione positiva tra diverse civiltà, per il bene delle nostre patrie e quello di tutta l'umanità. Dalla comparsa dell'islam nel VII secolo fino ad oggi, abbiamo vissuto insieme e abbiamo collaborato alla creazione della nostra civiltà comune. È capitato nel passato, come capita ancor'oggi, qualche squilibrio nei nostri rapporti. Attraverso il dialogo noi dobbiamo eliminare ogni squilibrio o malinteso.
La foto è di Pino Bruno
October 22, 2010
Da Shalit alla riconciliazione. Si riaprono i tavoli?
A dire il vero, a giudicare da quello che i giornali arabi (e non solo) riportano in questi ultimissimi giorni, le aperture di cui si era parlato si stanno pian piano richiudendo. Come sempre è successo negli scorsi tre anni. Ma andiamo con ordine, anzi, seguendo la cronologia recente. Il tavolo sulla riconiliazione tra Fatah e Hamas si riapre quando -a sorpresa – il capodei servizi di sicurezza egiziani Omar Suleiman incontra alla Mecca l'8 settembre il capo dell'ufficio politico di Hamas, Khaled Meshaal. E' il segnale che il dialogo tra Hamas e Fatah, praticamente interrotto da molti mesi, riprende per volontà degli egiziani. Fa seguito un incontro a Damasco tra lo stesso Meshaal e Azzam al Ahmad, che nel corso degli anni si è qualificato come il capo negoziatore sulla riconciliazione interpalestinese dalla parte di Fatah. Tutto a posto, sembra. Quasi tutti gli ostacoli superati, dicono tutti i protagonisti. Ci si rivede a ottobre, per finalizzare un accordo da mettere in parallelo al documento che gli egiziani produssero nell'ottobre del 2009 e che non vogliono cambiare. La mediazione egiziana, insomma, non si presenta come le precedenti: Hamas e Fatah possono venire al Cairo solo per firmare, conferma anche Salah al Bardawil, uno dei dirigenti di Hamas a Gaza impegnato in molti dei diversi negoziati degli ultimi due anni.
Poi, come spesso è successo da quando il dialogo interpalestinese è iniziato, l'ennesima doccia fredda. L'incontro del 20 ottobre a Damasco salta, perché la Siria ci ha umiliato, dice Abu Mazen, con le sue affermazioni al summit della Lega Arab nella libica Sirte. Sarà vero, oppure è solo un rinvio dovuto a pressioni internazionali, ci si chiede tra Ramallah, Gerusalemme, Gaza? Hamas non vuole cedere, e incontrare Fatah in un'altra città, anche se si pensa a un trasferimento dei colloqui a Sana', in Yemen. Fatah chiede invece un posto qualunque, basta che non sia Damasco, da cui invece sembra possa arrivare un invito in piena regola. Scaramucce preelettorali, per evitare di mettere in imbarazzo Obama che attende le consultazioni di midterm con molta preoccupazione? Da Washington i diversi portavoce smentiscono. Resta il fatto che lo stesso Nabil Shaath, uomo di lunghissima esperienza negoziale, afferma che non si parlerà di colloqui tra ANP e Israele, per esempio, se non dopo il midterm, che peraltro è alle porte.
Nel frattempo, mentre la stampa internazionale si sofferma sulle centinaia di case che i coloni israeliani hanno già ricominciato a costruire in Cisgiordania, giungono notizie che riguardano l'altro tavolo negoziale, e cioè il dossier dei prigionieri, il caporale Gilad Shalit contro mille prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Il tutto ha inizio quando trapela la notizia che Gerhard Conrad, inviato dei servizi segreti tedeschi, è andato a Gaza, dopo mesi di stop ai negoziati. Lo stesso Conrad, peraltro, si dice si fosse dimesso dopo che il governo Netanyahu aveva cambiato alcune richieste, alla fine dello scorso anno. Hamas fa sapere che Conrad, che aveva mediato lo scambio di corpi di soldati tra Hezbollah e Israele dopo la guerra del 33 giorni dell'estate 2006, è tornato a Gaza, e che del dossier prigionieri si riparla. Lo confermano subito anche gli israeliani, e poi Jimmy Carter, in giro per il Medio Oriente con gli Elders, dice che Hamas vuole arrivare a un accordo. L'intesa si era arenata sui nomi più importanti dello scambio, in primis Marwan Barghouthi, di Fatah, la cui liberazione creerebbe non pochi problemi agli equilibri dell'ANP di Ramallah. E della stessa Fatah, scossa negli scorsi giorni dalle dichiarazioni di Yasser Abed Rabbo, uno degli uomini più vicini ad Abu Mazen, che aveva lanciato un ballon d'essai sul riconoscimento dello stato ebraico. Dateci quello che ci spetta, i territori del 1967, e riconosciamo quello che vi pare: questo il senso dell'affermazione di Abed Rabbo. Le reazioni critiche sono state immediate, e sembra giri una lettera con 40 firme di altrettanti membri del consiglio rivoluzionario di Fatah che chiedono le dimissioni immediate di Abed Rabbo.
Si arriverà a un accordo sui prigionieri? In molti sono scettici, e forse ha ragione chi dice che lo scambio, ora, non convenga a nessuno, né agli israeliani né ai palestinesi. L'impasse può essere gestita meglio di un rimescolamento di carte politiche così importante come lo scambio di prigionieri. Stessa considerazione per il dialogo interpalestinese, già arenato ancor prima di cominciare. A chi conviene pensare di nuovo a una casa comune palestinese, in cui si possa condividere potere, forze di sicurezza, finanziamenti, e consenso? Per ora, a quasi nessuno. Ma c'è chi non perde la speranza, come dimostra la formale discesa in cambio dei sudafricani, da anni molto impegnati nei Territori palestinesi per comprendere cosa stia succedendo, e come risolvere la frattura tra Cisgiordania e Gaza. Vogliono essere parte della mediazione tra Hamas e Fatah, superare il monopolio egiziano sul tavolo negoziale, e portare a casa un successo che li qualificherebbe come una potenza più che regionale. Ci riusciranno?


