Paola Caridi's Blog, page 129
October 21, 2010
Canta (e recita) che ti passa
Nonostante la sua veneranda età, il re dei poeti di strada egiziani continua a far politica, così come non smette di fare dai tempi di Anwar el Sadat. Allora, appunto, cantava per strada con Sheykh Imam, e per questo è andato in galera. Ora, riverito da tutto il paese, ha deciso che bisognava di nuovo impegnarsi in politica, con il Wafd, l'erede del vecchio partito liberale che aveva fatto la storia dell'Egitto tra le due guerre mondiali. Il suo impegno nel Wafd non è durato molto, lo spazio di un mattino, si direbbe. Se n'è andato dal partito dopo il dimissionamento di Ibrahim Eissa, il direttore del Dostour, il giornale simbolo dell'opposizione. A decidere il suo licenziamento, appunto, il nuovo capo del Wafd, il businessman El Sayyed el Badawi, azionista sino a pochi giorni fa del Dostour.
Ahmed Fouad Negm, insomma, non può essere incasellato. Perché è e rimane un poeta di strada. Così navigando per la Rete per capirne qualcosa di più, ho trovato che c'è qualcuno che raccoglie la sua eredità. Intanto, c'è un poeta vernacolare del sud dell'Egitto che ormai va per la maggiore, anche al Cairo, Hesham el Gakh, parlando di disagio, politica, povertà. Poemi recitati in pubblico (e nel mondo arabo i poeti raccolgono grande pubblico, molto di più degli scrittori, da sempre…).
C'è anche una band 'impegnata', sempre sul solco del vecchio Ahmed Fouad Negm, che si serve di poeti per le sue canzoni, che è arrivata mainstream, si è guadagnata un pezzo sul Los Angeles Times, e parla sempre di povertà e della situazione difficile dell'Egitto. Si chiamano Black Theama, e fanno buona musica, ma sono riusciti anche ad arrivare alla Melody tv, una delle mtv fatte in casa nel mondo arabo.[image error]
Se la povertà arriva alle canzoni, e le canzoni hanno anche successo, la situazione è difficile… A poche settimane dalle elezioni politiche egiziane.
La rielaborazione grafica di una foto di Amr Abdallah, su Flickr e sotto licenza Creative Commons, è di arabawy.
October 20, 2010
Kairos, o del momento giusto
Si fa un gran parlare, nel mondo cattolico italiano, della Dichiarazione Kairos, un documento di palestinesi cristiani che ha quasi un anno di vita, oltre duemila firme e un obiettivo: mostrare che esiste un impegno dei palestinesi di fede cristiana che riguarda al propria identità nazionale e le proprie sofferenze.
Parliamoci chiaro. La Dichiarazione Kairos ha portato scompiglio, fatto emergere malumori, provocato imbarazzo nelle gerarchie cattoliche. E poi non è rimasta in un cassetto. E' divenuta, per esempio, un libretto presentato in questi giorni a Roma, proprio in occasione del Sinodo sul Medio Oriente. "KAIROS PALESTINA", Edizioni Messaggero Padova, Edizioni Terra Santa, questi i dati bibliografici di un libro voluto da don Nandino Capovilla.
Qual è il nodo della questione? Non è tanto che la Dichiarazione Kairos fotografi la situazione della Palestina, il Muro di Separazione, le colonie, le difficoltà della vita quotidiana dei palestinesi tutti, cristiani compresi. E' che a un certo punto il documento parla di resistenza, spiegandone il significato dal punto di vista cristiano e affermando che i palestinesi di fede cristiana sono chiamati a opporsi all'occupazione, declinando la resistenza a loro modo. Resistenza non violenta, resistenza col boicottaggio. Ecco cosa dice, alla lettera, la Dichiarazione Kairos, firmata, tra gli altri, dall'ex patriarca di Gerusalemme Michel Sabbah, dal arcivescovo ortodosso di Sebastya Atallah Hanna, da padre Jamal Khader, dell'università di Betlemme, e dai più importanti esponenti della comunità palestinese cristiana.
Diciamo che la nostra scelta come Cristiani di fronte all'occupazione Israeliana è di resistere. La resistenza è un diritto e un dovere per il Cristiano. Ma è resistenza con amore secondo la sua logica. E' quindi una resistenza creativa che deve trovare modi umani che toccano l'umanità del nemico. Vedere l'immagine di Dio nel volto del nemico significa prendere posizione alla luce di questa visione di resistenza attiva per fermare l'ingiustizia ed obbligare l'autore a terminare la sua aggressione e così raggiungere lo scopo desiderato, che è riavere la terra, la libertà e l'indipendenza.
4.2.4 Cristo nostro Signore ci ha lasciato un esempio che deve essere imitato. Noi dobbiamo contrastare il male, ma egli ci insegna che non possiamo contrastare il male con il male. Questo è un difficile comandamento, particolarmente quando il nemico è determinato a imporsi e negare il nostro diritto di rimanere qui nella nostra terra. E' un difficile comandamento, eppure solo questo ci può supportare fermamente di fronte alle chiare dichiarazioni delle autorità occupanti che rifiutano la nostra esistenza e le molte scuse che queste autorità usano per continuare a imporre l'occupazione su di noi.
4.2.5 La resistenza al male dell'occupazione è integrata, allora, con l'amore Cristiano che rifiuta il male e lo corregge. Esso contrasta il male in tutte le sue forme con metodi che entrano nella logica dell'amore e attingono a tutte le energie per fare pace. Possiamo resistere con la disobbedienza civile. Noi non resistiamo con la morte ma piuttosto con il rispetto della vita. Noi rispettiamo e abbiamo una grande stima per tutti quelli che hanno dato la vita per la nostra nazione. E affermiamo che ogni cittadino deve essere pronto a difendere la propria vita, libertà e terra.
4.2.6 Le organizzazioni civili Palestinesi, così come le organizzazioni internazionali, NGOs e certe istituzioni religiose chiamano gli individui, le società e gli stati a impegnarsi nel disinvestire e in un boicottaggio economico e commerciale di ogni cosa prodotta dall'occupazione. Capiamo questo, per integrare la logica della resistenza pacifica. Queste campagne di sensibilizzazione devono essere portate avanti con coraggio, proclamando apertamente e sinceramente che il loro obiettivo non è la vendetta, ma piuttosto mettere fine al male esistente, liberando sia gli autori che le vittime dell'ingiustizia. Lo scopo è liberare entrambi i popoli dalle posizioni estremiste dei diversi governi Israeliani, portando sia giustizia che riconciliazione. In questo spirito e con questa dedizione raggiungeremo finalmente la sospirata risoluzione ai nostri problemi, come é successo in Sud Africa e con molti altri movimenti di liberazione nel mondo.
4.3 Attraverso il nostro amore, supereremo le ingiustizie e metteremo le fondamenta per una nuova società sia per noi che per i nostri avversari. Il nostro futuro è il loro. O il ciclo della violenza che distrugge entrambi, o la pace che darà beneficio a entrambi. Chiamiamo Israele ad abbandonare la sua ingiustizia verso di noi, a non distorcere la verità o la realtà dell'occupazione pretendendo che sia una battaglia contro il terrorismo. Le radici del "terrorismo" sono nell'ingiustizia umana commessa e nel male dell'occupazione. Questi devono essere rimossi se c'è un'intenzione sincera di rimuovere il "terrorismo". Chiamiamo la gente di Israele ad essere nostri partner nella pace e non nel ciclo della interminabile violenza. Contrastiamo insieme il male dell'occupazione ed il ciclo infernale della violenza.
Il disagio è in quell'uso della parola resistenza, declinato secondo la regola cristiana della nonviolenza. Il disagio, però, nasce anche da un documento che non si sposa con la tesi corrente, e cioè che, se i cristiani se ne vanno da quella parte del Medio Oriente alla quale storicamente appartengono, non è per le persecuzioni che subirebbero da parte dei musulmani, ma per i conflitti che fanno fuggire molti. Musulmani compresi. Che poi il fondamentalismo ostaggio di tutte le fedi faccia il suo terribile lavoro, questo è anche vero, ma sono i conflitti a insufflarlo. Il documento, poi, conferma una tradizione storica che molti si dimenticano, e cioè il grande, a volte fondamentale appoggio che gli arabi di fede cristiana hanno dato al nazionalismo nella regione. Dal punto di vista teorico, soprattutto, in Siria, in Libano, in Iraq, in Palestina. E da quello dell'impegno politico. Chi frequenta Betlemme, Beit Jalah, Beit Sahour, ha visto la selva di bandiere rosse, quelle del Fronte Popolare, che ancora riempie le strade. Retaggio di un'appartenenza politica che riguarda soprattutto i cristiani e che è vecchia di decenni. Un Documento come il Kairos Palestina non è compresibile appieno se non lo si cala nella sua realtà, nella tradizione, nella storia palestinese.
La Madonna avvolta dalla bandiera palestinese è tratta dall'album di Kairos Palestine su Facebook.
October 19, 2010
Sposarsi a Gaza (e altro)
Quelli nella foto di Andres Bergamini (autore di un blog molto bello e ricco) sono sposi felici e consapevoli. Vivono in un luogo disperato, ma sono talmente coraggiosi da aver deciso di sposarsi… Il luogo è Gaza, gli sposi appartengono alla piccola comunità cristiana della Striscia. E il loro viaggio di nozze non sarà stato più lungo di qualche chilometro, entro uno spazio che è lungo 40 km e largo talvolta meno di 10. Spazio da qualche non si può uscire, a meno che non si sia un malato molto grave o terminale, o non si cerchi di scappare dai tunnel verso il Sinai. Ci si sposa lo stesso, però, in un posto che più è isolato più si radicalizza, più è chiuso più diventa chiuso, più è imprigionato più cova rabbia. "Un leone in gabbia non smette di esser leone", mi ha detto un trentenne a Gaza, l'ultima volta che ci sono stata, qualche settimana fa, descrivendo una gioventù che è sempre più incline all'opzione militare. Forse è quello che qualcuno vuole, sperando in questo modo di risolvere uno dei nodi del conflitto israelo-palestinese. Chiudere a Gaza e sperare che si radicalizzi e scoppi mi sembra un falso realismo, un modo semplicistico di risolvere problemi molto più complessi e regionalizzati, che nel passato ha solo prodotto situazioni ancor più ingarbugliate. Come l'Operazione Piombo Fuso. (A proposito di regionalizzazione, chi ha letto il ponderoso saggio di Elizabeth Kassab sul pensiero arabo contemporaneo, pubblicato qualche mese fa dalla Columbia University Press? Le recensioni che ho letto lo descrivono come un testo equilibrato, soprattutto nella disamina del post-1967, del confronto tra nazionalismo e islamismo).
La foto è un singolare commento al Sinodo sul Medio Oriente che si è svolto a Roma, dove i vescovi hanno ricordato che il conflitto, da quello israelo-palestinese a quello iracheno, è la prima pressione sulle comunità cristiane a lasciare la regione.La complessità, insomma, non va evitata, quando si parla di Medio Oriente, per lasciare il posto alle semplificazioni (tipo quella: sono i musulmani a cacciare i cristiani, dimenticando che entrambi musulmani e cristiani, sono prima di tutto arabi…).
Complessità, dunque. Che è la prima regola per tentare, un poco, di capirlo, questo posto. E la complessità oggi avvolge, per esempio, le relazioni tra Turchia e Israele, sulle quali s'addensano ancora le nubi della Mavi Marmara e del sanguinoso attacco della marina militare israeliana alla Freedom Flotilla dello scorso 31 maggio. Notizie di stampa dicono che la Turchia non parteciperà alla conferenza dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, voluta dal comitato per il turismo e in agenda da domani al 22 a Gerusalemme. Dai palestinesi è arrivata peraltro una richiesta – tardiva – a non partecipare alla conferenza, visto che rischierebbe di sancire l'occupazione della parte est di Gerusalemme. Spagna e Gran Bretagna potrebbe anche loro non partecipare, ma tutto si capirà domani, quando arriveranno le delegazioni. Torniamo però alla Turchia, il cui premier Erdogan potrebbe non partecipare a una conferenza sui cambiamenti climatici in programma ad Atene, se Netanyahu fosse presente. La motivazione, spiegata da Erdogan in una intervista a una televisione greca, è del tutto legata all'affaire Mavi Marmara.
"A prime minister who is proud of such an armed intervention is a prime minister with whom I do not agree to talk," Erdogan told Skai TV before his planned visit to Athens. "On this issue, I think that Israel is close to the point of losing a very important friend in the Middle East and that is Turkey," he said. "I think that they must pay for this audacity that characterizes the policy of this government," Reuters quoted him as saying.
E' evidente che la Mavi Marmara è solo la cartina di tornasole dei rapporti sempre più difficili tra Ankara e Tel Aviv. L'apertura sempre più evidente del governo turco alla Siria di Assad e all'Iran fa comprendere quanto tutto sia diventato più difficile, nella regione. Non solo per Israele, ma per la geopolitica militare, dalla gestione degli spazi aerei alle strategie che i diversi attori (Stati Uniti in testa) possono ora attuare verso l'Iraq, l'Iran, l'Afghanistan.
A movimentare la situazione, c'è l'idea che si diffonde, che i palestinesi possano chiedere all'Onu il riconoscimento di uno Stato di Palestina. Difficile compito, che potrebbe essere preceduto, – dice Haaretz – da una risoluzione in Consiglio di Sicurezza che ribadisca che le colonie israeliane in Cisgiordania sono illegali. I paesi arabi potrebbero spingere per un voto. Pressione che arriva proprio nei giorni in cui si riflette sulla cocente sconfitta del Canada, che ha fallito l'obiettivo di guadagnarsi un seggio al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, conquistato invece dal Portogallo. Si dice che i paesi arabi abbiano fatto lobby contro il Canada, che segue una politica dichiaratamente filoisraeliana. E il comportamento degli Emirati Arabi Uniti deporrebbe a favore di questa ipotesi.
October 18, 2010
Medio Oriente in pillole: da FB alla Columbia, passando per Google e CBS
Facebook-dipendenti? Il Medio Oriente rappresenta il 15% degli utenti di Facebook. Parola di Randi Zuckerberg, sorella di Mark, il papà del social network più importante del mondo (virtuale e non…). Insomma, più di quanto farebbero pensare geografia e demografia. Il perché? Di risposte ve ne sarebbero diverse. Due mi vengono subito in mente. La prima: il Medio Oriente è un luogo anche di forte emigrazione, interna e soprattutto internazionale. FB fa mantenere i contatti, per esempio a quella massa invisibile di studenti che vanno a fare l'università tra Stati Uniti, Europa, Asia. E poi le diaspore. Vi sono molti palestinesi che rintracciano la famiglia dispersa nel 1948 attraverso Facebook, dove sono nati anche gruppi legati ai nomi delle famiglie più grandi. Genealogia su social network, e recupero di legami frammentati dalla guerra d'indipendenza d'Israele, che per i palestinesi continua a essere la Nakba, la catastrofe.
A proposito di narrativa palestinese. E' nato all'inizio dell'anno, ma è stato praticamente inaugurato ora il Center for Palestine Studies della Columbia University, codirettore Rashid Khalidi, uno dei principali studiosi dell'identità palestinese. Il Centro dichiara il suo legame con l'eredità di Edward Said. E non poteva essere altrimenti. Bel parterre di studiosi. E il prossimo semestre Salim Tamari come visiting professor. Pas mal.
Il conflitto (anche) su Google. Le questioni terminologiche sono questioni serie, da queste parti. E dunque anche le definizioni di questo pezzo di terra su Google sono fonte di scontro. Arutz Sheva, L'agenzia di stampa espressione dei coloni israeliani si è molto arrabbiata perché Google definisce la Cisgiordania territorio palestinese, e non invece Giudea e Samaria, definizione usata non solo dai coloni, ma dalla maggior parte dei politici israeliani.
A resident of the Jewish community of Eli in Samaria has discovered that the giant Google search engine is apparently not waiting for Israel and the Palestinian Authority to complete final status negotiations. In Google's Internet world, life for Jews in the region has already taken on a new reality. Eliezer Tabor picked up a connection on his community's wireless router as usual this week. But he found that despite the fact that the rest of the sites he surfed recognized his location as within Israel, Google named his location as within "Palestinian territory."
La colonia di Eli è sotto Nablus, ed è una di quelle in cui i lavori sono ripresi dopo la fine del congelamento, lo scorso 26 settembre. Sull'argomento si potrebbe scrivere una bella inchiesta, a dire il vero. Perché il conflitto si gioca veramente su altri tavoli, che non siano quelli negoziali. Le previsioni metereologiche sui giornali israeliani non contemplano la Linea Verde. Sul Jerusalem Post ci sono i confini di Gaza. Su Haaretz neanche quelli. Sui siti meteo internazionali, così come su Facebook, Gerusalemme è collocata tutta in Israele, e non c'è una divisione – come invece c'è per l'ONU – tra Gerusalemme ovest e Gerusalemme orientale, la parte occupata. Si può continuare (quasi) all'infinito.
Il nodo di Gerusalemme, secondo la CBS. La CBS, il network televisivo americano, nel suo autorevole "60 Minutes", ha affrontato Silwan, la City of David, i coloni dentro il quartiere arabo che giace in una posizione così strategica, sotto le Mura, la Spianata delle Moschee e la Moschea di Al Aqsa. Polemiche assicurate, per una inchiesta completa, che susciterà reazioni soprattutto da parte israeliana. Immagini up to date, comprese quelle di David Be'eri, la guida di Elad, l'associazione radicale di coloni che gestisce la City of David, mentre travolge con la sua macchina due bambini palestinesi che tiravano pietre. Uno dei due è ora agli arresti domiciliari: ha 12 anni.
La foto è di Eduardo Castaldo (grazie!). Non sembra scattata in Italia…
October 15, 2010
Stato indipendente di Palestina – 2
Allora, sembra che il riconoscimento dello Stato di Palestina sia diventato un elemento di pressione sul governo israeliano presieduto da Benjamin Netanyahu. Oggi è stato il ministro degli esteri egiziano, Abul Gheit, a rispondere in maniera neanche tanto indiretta alla notizia che Tel Aviv aveva approvato la costruzione di 238 appartamenti negli insediamenti israeliani dentro Gerusalemme est. Nella fattispecie, a Ramot e soprattutto a Pisgat Zeev, quartiere che si trova in sostanza tra Beit Hanina e la periferia di Ramallah. Ahmed Abul Gheit, diplomatico a dir poco moderato, ha detto che una richiesta della Lega Araba all'Onu, di riconoscere lo Stato diPalestina, potrebbe arrivare il mese prossimo.
Non è la prima volta che palestinesi e arabi 'minacciano' la proclamazione unilaterale dello Stato di Palestina (la dichiarazione di indipendenza del 15 novembre 1988 non ha certo risolto tutte le questioni legate al pieno riconoscimento internazionale, come è facile intuire…). E tanto la questione è seria, che è stata anche studiata dal punto di vista della legalità internazionale dagli esperti israeliani. Questa, però, è una di quelle fasi in cui un passo del genere avrebbe terreno fertile. Il che, come spesso accade in Medio Oriente, non vuol dire necessariamente che il passo venga compiuto. Comunque, l'idea sta passando: non l'ha per niente esclusa Bernard Kouchner, la ripropongono gli arabi, e gli esperti europei – come la bravissima Muriel Asseburg, dell'autorevole centro studi tedeschi SWP – la spiegano ai politici della UE, perché conoscano nei dettagli i pro, i contro, la griglia legale, le necessità sul terreno. E le alleanze necessarie, soprattutto quella degli Stati Uniti, come spiega in questo articolo scritto assieme a Jan Busse.
The role of the U.S. is of crucial importance if European recognition were to be more than merely a symbolic act. This is particularly so with regard to Israel's reaction, and also to ensure that the UN Security Council agrees to proposing Palestine's full membership of the General Assembly. For the recognition of Palestine to be made a step of real significance, therefore, it is essential that Europe act in cooperation with the U.S. and the wider international community. Becoming a fully-fledged member of the UN would be a vitally important political underpinning for the Palestinian state.
Above all, if accompanied by an intensive international engagement, recognition of the State of Palestine in the territories occupied by Israel in 1967 could give the negotiations a decisive push, creating a new dynamic that could save the two-state settlement. The Palestinian state's territorial scope and international status would in this way no longer be up for negotiation. So the two parties could focus on sorting out their bi-lateral relations in such areas as security arrangements, land swaps, refugees, economic co-operation and water management.
Muriel Asseburg conferma quello che avevo scritto due giorni fa, e cioè che il riconoscimento a pieno titolo dello Stato di Palestina come membro dell'Onu cambia lo stesso vocabolario del processo di pace. Rimette peraltro in discussione lo stesso ruolo dell'OLP, rispetto a quello dell'ANP, che passerebbe da entità quasi statuale a Stato. Un fatto, questo, che fa anche comprendere a pieno – adesso – perché il premier di Ramallah, Salam Fayyad, si sia dato da fare per pubblicare un programma di governo che abbia come obiettivo l'istituzione di uno Stato palestinese entro l'autunno del 2011. Un programma dal titolo chiaro: "Ending the Occupation, Establishing the State". Riconoscere lo Stato indipendente di Palestina significherebbe anche l'inizio di una discussione difficile e dagli esiti ignoti sul ruolo dell'OLP, sul ruolo delle fazioni nell'ANP, sul peso specifico di Gaza e della Cisgiordania dentro lo Stato.
La foto di un graffito che ritrae Yasser Arafat è di Francesco Fossa, che peraltro ha appena pubblicato un bellissimo libro di fotografie non sul Medio Oriente, ma sul Matese. Quota Mille, introduzione di Paolo Rumiz.
October 14, 2010
Mahmoud Darwish, Benny Morris et alia
Qualche caccia è già sfrecciato, sopra Gerusalemme. Direzione, sembra, nord. Oggi è la giornata di Mahmoud Ahmadinejad. A proposito, sul Daily Star c'è un commento come al solito acuto, intelligente, completo, perfetto di Rami Khouri, che – dopo aver analizzato tutti i perché e i per come, definisce la visita di Ahmadinejad un
pretty routine event that does not necessarily break new ground, but mainly reflects and emphasizes existing political realities that generate frenzied, nearly hysterical, reactions on both sides.
Io, però, preferisco occuparmi di cultura che riguarda il Medio Oriente. E quindi, di seguito, qualche consiglio di lettura, per chi magari non sta qui, sta in Italia, in Europa, magari sta tra Milano e Londra, a occuparsi magari di tutto meno che di politica mediorientale, a occuparsi di studi economici, imprenditoria, governo locale, di televisione, o di storia moderna degli estensi.
Intanto, un lungo articolo di Andre Naffis-Sahely su di una pubblicazione postuma di Mahmoud Darwish.
Penned during Darwish's house arrest in Haifa prior to his exile from Israel in 1971, Journal of an Ordinary Grief is the first of his prose works to attempt a portrait of the artist as first and foremost a poet, and in the second place as a Palestinian. What is a Palestinian without a country, or even a physical memory of that country? Many of the lines in the Journal struggle with this paucity of means. As he puts it in "The Homeland," the second chapter in the book: "the map does not constitute an answer, because it is very much like an abstract painting. And your grandfather's grave is not the answer because a small forest can make it disappear.
Poi, su MondoWeiss , un duro attacco a Benny Morris scritto da Jerome Slater (thanks, arabist), professore emerito di scienze politiche. L'attacco è scritto in chiare lettere: "Today Benny Morris can no longer be regarded as a scholar and historian, but merely a propagandist, indeed a particularly shameful one, for he has traded on his former status and reputation as a fearless truth-teller in order to lend credibility to his ongoing series of disingenuous comments on current issues in the Israeli-Palestinian conflict".
Anche in Egitto si ride (magari per non piangere). La letteratura fondata sullo humour, a volte sul sarcasmo, è in ascesa, scrive M. Lynx Qualey nel suo sempre puntuale arablit, blog sulla letteratura araba che consiglio caldamente.
Sta per essere pubblicato in inglese un romanzo di Inaam Kachachi, autrice irachena, donna molto intelligente, già pubblicata in Italia, che ho conosciuto l'anno scorso ad Algeri. Si intitola The American Grandaughter, parla di emigrazione, reimmigrazione, rapporto tra le radici (irachene) e la formazione (americana). Lo pubblica la Bloomsbury Qatar Foundation.
Un po' di architettura. Masdar è il progetto di una città a zero emissioni, a un tiro di schioppo da Abu Dhabi. Gran battage pubbllicitario, per quella che su tabsir viene definita Disney on the Sand. Tutto oro quel che luccicherà?
La bellissima foto, scattata in Marocco, è di Francesca Nardi (grazie!!)
October 13, 2010
Stato indipendente di Palestina?
Mustafa Barghouthi, uno degli intellettuali palestinesi indipendenti, dice pubblicamente qual è il nodo politico di questi giorni. Bisogna dichiarare "immediatamente lo stato indipendente e democratico di Palestina" sui confini di tutti i territori occupati da Israele nel 1967 (dunque non solo Cisgiordania, ma Gaza e Gerusalemme est, tutti i territori che il diritto internazionale definisce occupati). Barghouthi, protagonista peraltro – tra 2006 e 2007 - della mediazione tra Fatah e Hamas che portò al breve governo di unità nazionale, non lega la proclamazione dello Stato di Palestina all'ultimo passo compiuto dal governo di Benjamin Netanyahu. E cioè la presentazione di un progetto di legge sul giuramento di fedeltà allo "Stato ebraico e democratico" da parte dei cittadini non ebrei (l'Unione Europea ha ieri detto a Israele che deve trattare nello stesso modo tutti i suoi cittadini, regola che dovrebbe essere aurea in tutti i paesi del Vecchio Continente).
Non è il giuramento di fedeltà il nodo della questione. E' il negoziato su di un piede di parità. Un potenziale processo di pace si svolgerebbe cioè tra parti eguali, "rather than conditions of the present negotiations that are happening between totally inequitable parties. Where Israel is effectively allowed a dominant veto power on all issues, including the agenda and terms of reference, as well as total impunity to violate international law and so many UN Resolutions." E' una idea, questa, che circola a dire il vero da qualche tempo, come dimostrano molti atti e molte dichiarazioni del premier di Ramallah, Salam Fayyad. E che però, nelle ultime settimane, è parsa essere stato introiettata anche dalla presidenza dell'ANP. Se i negoziati falliscono, l'unica alternativa alla soluzione dei due Stati, che pare ormai avere molti sostenitori, sia tra gli israeliani sia tra i palestinesi, è quella che la Palestina faccia la sua dichiarazione di indipendenza e proclami la nascita dello Stato. Facendo poi lobby perché lo Stato di Palestina sia ammesso all'Onu e riconosciuto da un numero alto di paesi.
Entrambi gli obiettivi – la proclamazione dello Stato e l'azione di lobby – non sembrano irraggiungibili, soprattutto perché la questione delle colonie israeliane nel cuore della Cisgiordania sta diventando pesante da gestire anche per l'amministrazione americana. In più, la presenza dello Stato di Palestina cambierebbe profondamente le carte in tavola, in un negoziato. Non più, dunque, uno Stato d'Israele e una entità di puro carattere amministrativo come l'ANP seduti al tavolo, bensì due stati che devono regolare contese territoriali partendo da un confine riconosciuto dalla comunità internazionale, e cioè quello dell'armistizio del 1949. Israele diventerebbe potenza occupante su di un suolo sovrano, e le colonie delle città costruite sulla terra dello Stato palestinese. E da ultimo, la questione della riconciliazione tra Fatah e Hamas: Hamas si rifiuta di riconoscere Israele, ma da anni dichiara di poter riconoscere uno Stato palestinese sui confini del 1967, con Gerusalemme capitale e il diritto al ritorno dei profughi del 1948 e del 1967. Sembra una questione di lana caprina, e non lo è. Visto la situazione difficile in cui versano i negoziati (sospesi) tra netanyahu e Abbas, e visti i contatti in corso sulla riconciliazione, l'ipotesi dello Stato palestinese potrebbe convenire a molti. E far superare un'impasse che dura – almeno con questi parametri – almeno dalla vittoria elettorale di Hamas del gennaio 2006.
Il post è dedicato a chi vuole che io mi occupi soprattutto di geopolitica. Voilà.
La foto, su licenza Creative Commons, è stata scattata da Whewes, nel 2006 vicino a Ramallah.
October 12, 2010
Consigli di lettura
Cielo azzurro, sole splendente, temperatura gradevole, tipica del lungo passaggio gerosolimitano tra estate e autunno. Gerusalemme stamattina è tersa, si vedono le montagne della Giordania, e si prevedono congestioni al traffico della città, causa esercitazione di sicurezza che – sembra – andrà avanti tutto il giorno. Alla vigilia della visita di Mahmoud Ahmadinejad nel vicino Libano…
E allora, qualche consiglio per la lettura.
Per chi si occupa di politica palestinese, la palma tra gli articoli di oggi va certamente a quello scritto per Haaretz Menachem Klein, studioso della Bar Ilan University, reduce da un periodo di ricerca in Italia. Fa un paragone provocatorio tra il governo di Salam Fayyad a Ramallah e quello di Ismail Haniyeh a Gaza. Quale funziona meglio? Il secondo. Quale rischia di crollare senza gli aiuti internazionali? Il primo. La tesi può sembrare paradossale, ma non lo è. Menachem Klein è uno studioso serio, e fuori dagli schemi. Sono curiosa di leggere il libro di cui mi aveva parlato, e che sarà nelle librerie dal I novembre, per i tipi della Hurst. Si intitola The Shift: Israel-Palestine from Border Struggle to Ethnic Conflict, e tratta il conflitto da un punto di vista straniante. Ecco la sinossi
The size and intensity of the Israeli army's operations since 2000 as well as the unprecedented scale of settlement construction brought about a qualitative change in the relationship between Palestinians and Israelis, altering it, Klein argues, from a border conflict to an ethnic struggle, pure and simple. Jewish Israel has now established its ethno-security regime over the whole area, from Jordan to the Mediterranean, a process that was accelerated and facilitated by election results in Israel, the United States and the Palestinian Authority. Arguing against the prevailing wisdom, which describes Israel's control system as merely one of 'occupation', in The Shift Klein contends that it is based now on twin ethnic and security pillars and seeks to include Israeli citizens of Palestinian origin. The core of his book examines the current ruling structure of the shrinking Jewish majority over the almost majority Palestinians
Ah, dimenticavo, l'articolo di Menachem Klein per Haaretz si basa anche su un saggio di Yezid Sayigh, che consiglio caldamente, pubblicato per il Middle East Brief della Brandeis University: Hamas Rule in Gaza: Three Years on.
Un link utile per sapere degli ultimi sviluppi sulle proteste di Bil'in. Abdullah Abu Rahma è stato condannato a un anno di prigione, per aver organizzato la protesta contro il Muro di separazione che va avanti da anni. Su +972.
A proposito di Libano, c' è un'analisi delle forze armate libanesi sullo Arab Reform Bulletin del Carnegie Endowment for Peace. di Nadim Hasbani.
E in Egitto, invece, i Fratelli Musulmani hanno deciso di partecipare alle elezioni politiche di novembre, per un numero limitato di seggi. Sul New York Times.
arabist linka, tra i tanti, anche il sito dei creatori di islamonline, il più seguito dalla maggioranza silenziosa musulmana. Dopo mesi di scioperi e frizioni per la riorganizzazione del sito, i fondatori (dissenzienti) di islamonline hanno creato onislam. A prescindere da una rapida e indolore riforma grafica, mi sembra molto simile all'originale. E per saperne di più, c'è sempre il mio capitolo sui blogger su Arabi Invisibili (Feltrinelli, 2007).
PS: Un funzionario del ministero dell'educazione dell'ANP a Ramallah ha smentito che il libro di Sami Adwan e Dan Bar On sulle due narrative del conflitto sia stato approvato dal centro per i programmi scolastici. Peccato. Comunque, controllerò. Può darsi che le scuole di Gerico abbiano fatto una scelta facoltativa, senza passare dal centro per i curricula.
La foto è di Pino Bruno. Un omaggio al Sinodo sul Medio Oriente, nella speranza che si guardi più ai cristiani d'Oriente come una parte ineludibile della storia e della identità di questa regione, e molto meno (anzi per niente) ai cristiani d'Oriente come una costola di quelli d'Occidente.
October 11, 2010
Leggere l'Altro
E' stato, forse, il primo libro che mi hanno regalato quando sono arrivata a Gerusalemme, sette anni fa. Ed è stato, di certo, un segno del destino. Un libro che mette insieme le due narrative storiche, quella israeliana e quella palestinese, scritto da due uomini, due studiosi, uno palestinese e uno israeliano. Daniel Bar On è morto, purtroppo. Sami Adwan continua a perseguire l'idea comune, che sia possibile vivere meglio, da queste parti, se si conosce l'altro, lo si riconosce e lo si accetta. Una volta, dopo la scomparsa del sodale e dell'amico, Sami Adwan disse che gli sembrava di "camminare su di una gamba sola", senza Bar On. Una descrizione perfetta, delle buone pratiche (termine caro agli onusiani) che sarebbe possibile usare qui, e che invece poche, rare e incredibili persone adottano.
Il libro delle due narrative parallele (tradotto anche in italiano ed adottato da alcune scuole) è ora anche nel programma scolastico dell'Autorità Nazionale Palestinese, che è al governo a Ramallah, e sarà in due scuole superiori di Gerico. Un programma scolastico al quale, in generale e non nel caso specifico, si conformano anche le scuole di Gaza, perché è il frutto di una discussione tra tutte le anime culturali e politiche palestinesi. Questo è il motivo per il quale, anche quando Hamas ha costituito il primo governo monocolore nel marzo del 2006, i programmi scolastici non sono stati cambiati, salvo un tentativo – subito stroncato – sulla proibizione di un libro di racconti per le elementari. La divisione del 2007 non è ancora arrivata al punto da far cambiare il curriculum del Palestinian Curriculum Development Center, anche se le polemiche non sono mancate, soprattutto tra il governo di Hamas a Gaza e l'UNRWA, sull'inserimento di testi sull'Olocausto. Per chi ne vuol sapere di più, su Arabi Invisibili (Feltrinelli, 2007) c'è un capitolo dedicato all'istruzione nel mondo arabo, e qualche accenno c'è anche su Hamas (Feltrinelli, 2009). Nathan Brown ha affrontato diffusamente l'argomento sul suo Palestinian Politics after the Oslo Accords (University of California Press, 2003). Il curriculum palestinese è peraltro disponibile online, e che per esempio indica, sui libri delle elementari, la Linea Verde del 1967. Il libro di Bar On e di Adwan (così come l'indicazione della Linea Verde, battaglia condotta e persa dall'allora ministra israeliana dell'educazione Juli Tamir) non è contemplato nel percorso educativo israeliano. Anzi, dice sempre l'articolo di Haaretz, il preside della scuola di Sderot che lo aveva inserito nel suo programma è stato chiamato dal ministero dell'educazione, e rischia un richiamo.
Perché parlare del libro di Daniel Bar On e di Sami Adwan proprio nel giorno in cui la notizia è un'altra, e cioè quella della proposta di legge approvata dal governo israeliano, che – se varata dalla Knesset – imporrebbe ai non ebrei un giuramento di fedeltà allo "Stato ebraico e democratico"? Non è difficile comprenderlo, visto che quasi un venti per cento della popolazione di Israele è palestinese, cristiana o musulmana, non ebrea. E per i palestinesi con passaporto israeliano l'indipendenza ha tutto un altro significato. Si chiama nakba, la "catastrofe", e ricorda la cacciata di centinaia di migliaia di palestinesi, diventati da un momento all'altro profughi. Tutto raccontato nel libro di Bar On e Adwan, dall'una e dall'altra parte.
La politica israeliana è spaccata. L'intellighentsjia pure. Consiglio l'articolo di Gideon Levy, The Jewish Republic of Israel.
Remember this day. It's the day Israel changes its character. As a result, it can also change its name to the Jewish Republic of Israel, like the Islamic Republic of Iran. Granted, the loyalty oath bill that Prime Minister Benjamin Netanyahu is seeking to have passed purportedly only deals with new citizens who are not Jewish, but it affects the fate of all of us.
From now on, we will be living in a new, officially approved, ethnocratic, theocratic, nationalistic and racist country.
October 8, 2010
Halal on my mind
La crisi non è ancora finita, la disoccupazione cresce, ma c'è un settore in grande espansione, ed è quello dei lavori che girano attorno a tutto quello che è "halal". Halal, e cioè tutto ciò che è consentito per chi professa la religione musulmana, e dunque non proibito. Versione musulmana di quello che per l'ebraismo più ortodosso è il kosher. Lo halal si sta sviluppando un vero e proprio mercato, fruibile – sulla carta – da centinaia di milioni di clienti, in Europa, nel mondo arabo, in Asia soprattutto. Tanto è vero questo, che esiste anche un forum mondiale sullo Halal. Il prossimo si terrà a Londra a novembre.
Cosa significa, in termini produttivi? Anzitutto lo sviluppo nel mercato agroalimentare, seguendo tutta la filiera, dal produttore al macellaio halal al distributore, sino ai ristoranti e ai fast food. Lungi dall'essere una potenzialità, peraltro, è già un fatto, se è vero che una grande società degli Emirati Arabi Uniti, Al Islami, sta pensando di aprire in franchising una catena di fast food di pollo in Francia e in Gran Bretagna, e che la potentissima Campbell ha creato una linea di zuppe halal. Con tanto di certificazione rilasciata dalla Islamic Society of North America (ISNA).
Se il mercato si limitasse solo al cibo, però, il fenomeno non desterebbe grande sorpresa. La nostalgia dei sapori di casa, a prescindere dai precetti religiosi, è sentimento che accomuna tutti. Soprattutto quando cibo significa cultura del fare, tradizione, storia. I fast food halal, insomma, non sono poi molto differenti dal concetto del McDonald o della nostra rosticceria. Sapori di casa, che per alcune religioni – non solo per quella musulmana – sono inseriti anche all'interno di precetti. Il fatto nuovo è che la concezione halal non riguarda più solo la gastronomia, e si è diffusa in tutto il resto della vita quotidiana. Con tutti i rischi che una visione ortodossa di se stessi e del mondo comporta, per musulmani e non solo. Così, si può viaggiare halal o ascoltare musica halal. Con tanto di certificazione e siti web che di questo si occupano. Un esempio lo si trova qui, su Crescentrating.
la foto è presa dal sito ehalal.


