Paola Caridi's Blog, page 120

February 7, 2011

Vademecum sul Comitato dei Saggi

Francamente, sarei rimasta a parlare dei 'ragazzi di Tahrir, che mi sembra – ancora – oggi – il lato più importante, dirimente, visionario e qualificante della rivoluzione egiziana del 25 gennaio (la foto è dedicata a loro, ovviamente, presa dall'album su Flickr di Hossam el Hamalawy).


Siccome, però, gli scenari politici fanno tanto à la page, forse è meglio dare qualche indicazione di massima, su alcuni dei personaggi di questi colloqui in corso tra il vicepresidente e capo dell'intelligence egiziana Omar Suleiman e parti dell'opposizione al regime di Hosni Mubarak.


Anzitutto, cominciamo dal Comitato dei Saggi, un gruppo di 18 persone che si è formato negli scorsi giorni, per tentare di mediare tra la rivoluzione di piazza e il regime, pur non avendo mandato  da nessuno. Ne ho individuati 13, del Comitato dei Saggi. Molte di loro sono persone stimate, e credo anche possano fare un buon lavoro. Non c'è però nessuno di quel mondo dell'attivismo sui diritti civili e umani (avvocati, medici, professionisti) che negli anni ha tenuto alta la barra.


Andiamo però con ordine. Di Naguib Sawiris, ex patron della Wind, si sa tutto. Anche che lui, cristiano copto, è l'uomo più ricco dell'Egitto, e potrebbe anche profilarsi in un modo simile a quello in cui George Soros (meglio, Gyorgy Soros) si è profilato per l'Ungheria 1989. Certo, ha vissuto nel regime, lui e la sua famiglia di tycoon, dal fratello che ha investito nei resort (e in downtown Cairo) sino al padre che ha creato il gigante Orascom. Comunque, Sawiris è determinante anche per il ruolo della comunità copta, divisa sull'appoggiare o meno Mubarak, dopo il pronunciamento (scellerato?) dell'anzianissimo pope Shenouda III a favore del regime. Sawiris è con il cambiamento, e questo fatto aiuta il futuro di una comunità che non è solo dentro lo NDP, è anche in piazza Tahrir.


Anche di Ahmed Zewail si sa quasi tutto. E' l'esponente di una diaspora diffusa, e che è soprattutto concentrata negli Stati Uniti (per un suo magnifico ritratto, c'è Chicago di Alaa al Aswany). Gente che si è fatta valere all'estero, che ha addirittura avuto il Nobel, ma che non si è dimenticata del suo paese. Alcuni anni fa, Zewail parlò della necessità di un rinascimento arabo, perché non è estraneo al dna arabo, se solo si pensa all'età dell'oro andalusa. Zewail può essere anche un uomo che non spaventa gli americani, timorosi – per usare un eufemismo – del nuovo Egitto che negli scorsi anni non hanno voluto conoscere e vedere, dietro i vetri fumè delle loro auto blindate e dei loro macchinoni che ho visto sfrecciare per le strade del Cairo, e nei loro compound totalmente separati dalla vita della città, come separata è la loro blindatissima ambasciata di Garden City.


Altro uomo che non dispiace certo agli americani, anzi, potrebbe essere l'uomo che sa spiegare l'Egitto agli americani e viceversa, è Amr Hamzawy, giovane ma dentro il Comitato dei Saggi. È un politologo che ha cercato di raccontare l'Egitto – spesso inascoltato – dal Carnegie Endowment for Peace, il think tank americano che nel corso degli anni ha dimostrato di conoscere meglio le dinamiche politiche e i cambiamenti in corso al Cairo. Politologi sono anche Diaa Rashwan e Amr el Shobaki, entrambi profondi conoscitori dell'islam politico egiziano ma con accenti diversi. Così come diverso è stato l'impegno di Diaa Rashwan, vicino alcuni anni fa a Kifaya, pur essendo dentro il Centro di Studi Strategici Al Ahram, totalmente governativo.


Ci sono poi due giuristi, due ex ambasciatori, l'ex ministro dell'informazione Mansour Hassan. Ma gli altri nomi importanti sono due. Amr Moussa, segretario generale della Lega Araba, molto popolare, di cui ho già parlato in un altro post. E soprattutto Ibrahim al Moallem, capo del gruppo editoriale indipendente e privato Dar al Shourouk, il gruppo che pubblica Alaa al Aswany (suo buon amico), ma anche gli altri grandi scrittori egiziani. Da poco, da meno di due anni, ha aperto anche un quotidiano che prende il nome dal gruppo, e che ha ospitato i severissimi attacchi di Aswany al regime.


Il Comitato dei Saggi non è inviso ai ragazzi di Piazza Tahrir. Anzi. Non li rappresenta, però, e non è questo il suo compito. Può tessere il sostrato giuridico per cambiare la costituzione egiziana, che lo stesso Mubarak aveva voluto emendare nel 2005 per tenersi in sella il più possibile, alla faccia di una normale e sana democrazia rappresentativa e sostanziale. Può portare richieste, facilitare, ma non più di questo. A meno che, e questo è possibile, non decida di assumere un altro ruolo, ma senza una rappresentatività (tanto da essere stato definito il simbolo di una nuova oligarchia).


Quando si parla, dunque, di un accordo, di una mediazione, di un negoziato, bisogna stare attenti ai termini che si usano. Siamo ancora ai preliminari, ed è ancora presto per parlare di una transizione guidata da Omar Suleiman, considerato dagli egiziani il numero due di Mubarak, colui che ha organizzato il mukhabarat, l'intelligence, che non gode certo di buona fama – neanche in questi giorni – per il suo controllo della vita di ognuno, e per lo stato di paura che gli egiziani hanno sempre vissuto in questi anni. Nessuno Jaruzelski, insomma, nessun Gorbachev si nasconde dietro Omar Suleiman, e diplomatici così come gli opinionisti farebbero bene a ricordarselo.


Quello che vorrei dire, e che tento di dire da quando è iniziata la rivoluzione, il 25 gennaio, è che le scorciatoie sono sempre possibili. Come quelle che qualche cancelleria sta cercando, nella speranza gattopardiana di conservare lo status quo: e non solo quella americana inciampata su Frank Wisner e il suo lavoro di lobby per le forze armate egiziane. Ma non solo non risolvono il problema, semmai lo amplificano. Ho citato, in un altro post, Willy Brandt e la Realpolitik. E non l'ho fatto a caso. Ero in Germania, in quel periodo, per motivi di studio (la mia noiosissima tesi di dottorato, scelta prima del 9 novembre e della caduta del Muro di Berlino, si intitola "La Questione della Riunificazione tedesca e la SPD 1949-55"). La riunificazione, insomma, non era un tema avulso dalla socialdemocrazia sin dall'inizio della nuova Germania, e lo fece capire con il lavoro per la Grundgesetz, la legge fondamentale. Anche la SPD aspettava solo il momento in cui la riunificazione potesse diventare realtà, e a capirlo fu lo stesso Willy Brandt, ex sindaco di Berlino, quando nel luglio-agosto del 1989 cominciarono a partire le famiglie della DDR in trabant. Era entusiata, ed era a favore della riunificazione. L'altra parte della SPD, rappresentata ad esempio da Oskar Lafontaine, non lo capì, pensava che la DDR riunificata alla Germania occidentale avrebbe trasformato il paese non più nel volano dell'Europa, ma in un elefante lento e quasi depresso. Non fu così, e Brandt ebbe ragione, perché Brandt sapeva mescolare visione e realismo, principi e conoscenza della società tedesca.


Solo partendo da una profonda conoscenza dell'Egitto di questi ultimi decenni si può pensare a una transizione seria e solida. Solo conoscendo il percorso dei protagonisti della politica, della società, della cultura e dell'economia egiziana, della loro stima o disistima tra la popolazione. Altrimenti, affidandosi solo a quelli che noi consideriamo nostri amici, la strada è breve. E il dopo sarà ancora peggio.


Ieri uno dei blogger di piazza Tahrir diceva in un tweet, lo cito a memoria, "se la rivoluzione ora fallisce, non preoccupiamoci troppo. Ci si rivede qui tra 7 mesi". Era una piccola lezione di storia. Il 25 gennaio 1952 è considerato l'inizio della rivoluzione. Si concluse e realizzò sette mesi dopo, il 23 luglio. Memento.


Il prossimo post, sempre a proposito di scenari, sarà sui Fratelli Musulmani

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Published on February 07, 2011 14:33

La diaspora in piazza


Non ci sono solo le manifestazioni della diaspora egiziana negli Stati Uniti o in Europa. C'è anche una parte della diaspora che, dopo la manifestazione del 25 gennaio, è tornata al Cairo, di gran corsa. Per partecipare alla rivoluzione, hanno detto chiaro e tondo alcuni di loro. Sono soprattutto membri dell'intellighentsjia, professionisti, attivisti per i diritti umani e civili. Sono figli di egiziani che sono andati all'estero a vivere, seconde generazioni, figli di coppie miste. E poi gli esponenti degli anni Sessanta e Settanta egiziani. Non ci sono solo, insomma, Mohammed el Baradei e Ahmed Zewail, figure più note della diaspora, persone che hanno passato buona parte della loro vita all'estero, e che ora sono tornati in Egitto. Ce ne sono anche altri, che i contatti con l'Egitto non li hanno mai persi, che hanno partecipato a entrambe le società in cui hanno vissuto, a ovest e a sud.


Una di queste persone si chiama Ahdaf Soueif, scrittrice, autrice di romanzi noti, uno dei quali tradotto in italiano, che lei scrive in inglese, e non in arabo. Anima del Palestine Literature Festival, Ahdaf Soueif, che vive a Londra, è una esponente di rilievo dell'intellighentsjia egiziana. Famiglia di docenti universitari, parenti noti nell'attivismo politico. Cercatela su Google, e soprattutto leggete In the Eye of the Sun. Comprenderete meglio la generazione dei padri e delle madri dei ragazzi di Tahrir.


Lei è tornata al Cairo, è a piazza Tahrir, dal palco ha letto i nomi delle decine di attivisti di cui non si ha notizia (Wael Ghonim, di Google, dovrebbe, si spera, essere rilasciato oggi pomeriggio)


La foto è di Omar Robert Hamilton, su Flickr.

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Published on February 07, 2011 11:45

La lezione della "Repubblica di Tahrir"




Mi sono appena vista una inchiesta (molto bella) che al Jazeera English aveva girato nel 2007 sui blogger, sull'attivismo politico in Egitto dal 2005 in poi, concentrato sul periodo in cui i blogger subirono ondate di arresti. Alaa Abdel Fattah, il più famoso, fu arrestato, stette in galera per 45 giorni, lui, ragazzo di sinistra, laicissimo, assieme ai blogger islamisti. Ascoltò musica sha'bi con loro (lo raccontò sul suo blog, uscito di galera), ed è questa una delle immagini che spiega come mai, a piazza Tahrir, ci siano diverse anime che convivono senza problemi. sandmonkey, l'esempio del blogger maledettamente filooccidentale e liberal, convive con alaa, con arabawy, con monem.



Il filo rosso è richiesta di diritti civili, eguaglianza, responsabilità individuale. Niente di più, niente di meno. L'Occidente deve stare molto attento, a non tenere conto di richieste che sono così simili alle nostre, perché se questa fame di cittadinanza e democrazia, declinata in modo così "fragile eppure così forte" (parafraso le parole di Alaa, stamattina su twitter), non verrà ascoltata e soprattutto accolta, saranno allora tempi veramente duri. E nessuno potrà dire di non aver visto quello che la Repubblica di Tahrir (definizione azzeccata di Roger Cohen sul New York Times) ha insegnato un Occidente disattento, o forse peggio, in malafede. Una lezione che parte da lontano, dal 2005, ed è per questo che i ragazzi di Tahrir sono così preparati, così tenaci. Sanno cos'è la dissidenza, la fanno da anni, e hanno pagato già per questo.



Di seguito, un articolo che scrissi nel maggio del 2006, pubblicato dall'Espresso. Erano i segnali, grandi, evidenti, così visibili, di quello che sta succedendo adesso. Tra richiesta di cittadinanza, di stato di diritto, di informazione seria e responsabile. (la foto, bellissima, è di Eduardo Castaldo, che me l'ha mandata per un gesto di amicizia, perché io la possa pubblicare sul blog. grazie. Eduardo è uno dei fotografi italiani, anche loro invisibili, che stanno raccontando piazza Tahrir, e le facce della piccola "repubblica".


Una fotomanipolazione. E sopra, un titolo: Egyptian Gandhuevara. Il prototipo, cioè, del mito in voga in questi giorni in riva al Nilo. Faccia di Che Guevara, capigliatura genericamente araba, e l'aura nonviolenta di Gandhi. A guardare la fotomanipolazione che campeggia sul web, tutto sembrerebbe semplice. I blogger, i diaristi virtuali a sud del Mediterraneo, pescano a mani basse nel catalogo dei miti occidentali, tra rivoluzione e pacifismo vecchia maniera. Le due righe di spiegazione sotto Gandhuevara, però, sono a dir poco ermetiche. "Il cittadino è come una mosca che continua eternamente a spiaccicarsi sul finestrino posteriore di una macchina in movimento", scrive Walladshab, il blogger di egyptoz.blogspot.com. E il quadro, a questo punto, si complica. Che Guevara e Gandhi non bastano a spiegare tutto. Bisogna aggiungere a pacifismo e rivoluzione, come condimento necessario, anche la strenua difesa del concetto di cittadinanza e dello Stato di diritto.


Walladshab non è certo il più sperimentale dei diaristi virtuali che riempiono la blogosfera egiziana. E più in generale quella araba. Anzi. Walladshab si colloca in quella fascia media di ragazzini e ragazzi che stanno disegnando un altro mondo (mediorientale e nordafricano) sul web. Sono le èlite urbane della regione, soprattutto, a sfruttare internet per proporre una carta d'identità diversa degli under30 che vivono tra Casablanca e Doha. E a guardar bene, i tratti somatici di questa strana, coinvolgente e sempre più diffusa cultura underground araba sorprendono anche i più restii e prevenuti osservatori.


Prendiamo ancora Egyptian Gandhuevara come esempio. E' la rappresentazione più semplice ed efficace del sincretismo ideologico e culturale che va per la maggiore, nella blogosfera araba. Dove la politica va a braccetto con le canzonette. E il diario sentimental-amoroso più infantile non disdegna di occuparsi anche di grandi sofferenze planetarie, come fame e Aids in Africa. Basta attuare un semplice zapping da un blogger all'altro (moltissime le donne che parlano attraverso la Rete), e subito appare un frastornante catalogo di quello che affolla le menti dei giovani della riva sud del Mediterraneo. Non solo guerra, non solo Iraq, non solo "vignette danesi". Non solo Bush e Condoleezza Rice. Che – peraltro -  vincono la palma dei più gettonati e dei più odiati, battendo persino i dirigenti israeliani. Piuttosto, parecchio citizens' journalism, "giornalismo dei cittadini". O – come si sarebbe detto una ventina d'anni fa in Italia – controinformazione sulla repressione attuata nell'ultimo anno da parte di molti regimi di quella che è stata definita la "primavera araba". Le foto dei pestaggi si accompagnano alle dettagliate descrizioni delle manifestazioni represse per le strade del Cairo. Soprattutto, però, c'è parecchio attivismo in rete, tanto da ricordare – a tempi ormai mutati – altre dissidenze ben più strutturate, come quelle est-europee degli anni Settanta e Ottanta. I cui protagonisti, stavolta, sono produttori di testi che vivono, spesso anonimi, in gran parte su internet, e che da qualche mese sono anche le prime vittime di censure, oscuramenti e arresti.


Progressivamente, nelle scorse settimane, è aumentato in maniera esponenziale il numero dei banner che i diaristi virtuali egiziani mettono in pagina per chiedere  la liberazione dei blogger incarcerati. E proprio l'arresto  al Cairo un mese fa del più famoso tra di loro, l'egiziano Alaa al Seif al Islam, 25 anni appena, è stata la cartina di tornasole per comprendere quanto il  mondo virtuale egiziano (ma anche panarabo) abbia ormai superato la fase dilettantesca e infantile. E possa ormai competere con altre blogosfere regionali. Il tam tam degli amici di Alaa – famoso perché aveva creato assieme a sua moglie manalaa.net, il più importante database di blog nazionali aggiornato in tempo reale – si è trasformato in meno di 48 ore dall'arresto in una campagna via web che usa i mezzi tipici dell'attivismo in rete derivato anche dalla cultura hacker. Per esempio, cercando di forzare il più importante motore di ricerca, Google, a inserire la campagna Freealaa nei primi risultati di una semplice ricerca impostata con la parola Egypt, Egitto. Il tentativo, difficile, è chiamato Google-bombing, e si combina a una sequela di altre iniziative simili in continua evoluzione. Mentre, dal carcere, Alaa continua a bloggare dando i suoi testi a chi lo va a trovare.


Se la blogosfera egiziana – difficile da quantificare, ma che conta almeno 500 siti – si limitasse alla controinformazione e all'attivismo politico, comunque, ci sarebbe poco di cui parlare. E molto di già detto. È il sincretismo, invece, a essere uno dei tratti interessanti per capire cosa stia bollendo nella pentola (caldissima) delle nuove generazioni. Perché le foto e i diari dei pestaggi si accompagnano a molto, molto altro. Dalla finale coloratissima della Coppa d'Africa, vinta dall'Egitto, alle citazioni, immagini e peana di Ahmed Fou'ad Negm, il più grande poeta popolare del Cairo, grande oppositore di Anwar el Sadat e ritornato da poco di gran moda tra i blogger. Dalla foto del Robert De Niro insanguinato delle scene finali di Taxi Driver, alle procacità di Hayfa Wehbe e Nancy Ajram, stelle brillanti del firmamento dei videoclip arabi. Tutte immagini e commenti che possono tranquillamente convivere, nel post successivo, con la citazione della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo,  con la foto del proprio gatto, con le immagini della Formula1 in Bahrein, con l'ultimo concerto di una band underground, con esperimenti grafici di buon livello. Oppure con appelli accorati all'unità dell'Egitto, messa in discussione in questi ultimi mesi da un ritorno di fiamma della frizione tra i musulmani e la minoranza copta. Il tutto, scritto indifferentemente in inglese, arabo, oppure in quel gergo ormai imperante nella regione che mette insieme le due lingue in una lingua terza, l'arabisi, contrazione locale tra arabi e anglisi. In una continua altalena tra lo slang americano, i tipici intercalare dell'arabo colloquiale traslitterati per essere più comprensibili a tutti, sino all'inserimento di testi completamente in arabo.


Perché la lingua scelta dai blogger è, allo stesso tempo, strumento e immagine del sincretismo che va per la maggiore. Lo specchio della crisi. O meglio, la radiografia di come la fascia giovane del mondo arabo – laica e islamista – stia digerendo il post-11 settembre. In origine, la lingua dei blogger non è stata l'arabo. Piuttosto, il francese dei vecchi colonizzatori a Tunisi. E l'inglese di Washington – che foraggia il regime di Mubarak e nutre gli studenti dell'American University del Cairo – in Egitto. A remare contro l'arabo, non solo gli studi dei blogger, spesso ingegneri, informatici, comunque laureati in università straniere. Soprattutto la tastiera e i sistemi presenti in rete per poter aprire e far funzionare un blog. Tutti, rigorosamente, in lingue occidentali. È bastato poco, però, perché anche internet si aprisse a un idioma complesso come l'arabo. Grazie anche a qualche informatico di buona volontà che si è messo ad "arabizzare" le nuove tecnologie, per esempio attraverso Arabeyes e EGLUG. "La gran parte della gente, su internet, non ha vissuto il periodo coloniale", spiega Ahmed Gharbeya, il blogger di zamakan.gharbeia.com (in arabo). "Ma sono comunque cresciuti imparando che l'arabo è una lingua non moderna e che né il mondo moderno né scienza e tecnologia riusciranno a modificare".


C'è chi dice, però, che a usare l'inglese continuano a essere i più laici e americanizzati. O, anche, quelli che in arabo non riescono più a scrivere perché i loro genitori li hanno mandati, al Cairo piuttosto che ad Amman o nel Golfo, in scuole internazionali (statunitensi o britanniche) dove l'arabo è un optional. E lo studente, alla fine, lo sa a mala pena parlare. Ma certo non scrivere. L'equazione inglese=laico, però, funziona fino a un certo punto. Perché la blogosfera mediorientale e nordafricana ha molte più facce di quella, dicotomica, o secolarizzato o islamista. E' piuttosto una riserva culturale inquieta, che odia essere irreggimentata e pretende, semmai, una libertà di espressione – laica e islamista – che considera negata da tutti. Dai regimi in cui sono nati e che ormai non sopportano più. E da un Occidente molto attento alla realpolitik. E poco alle idee.

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Published on February 07, 2011 09:23

February 6, 2011

I primi sposi del Nuovo Egitto


Eccoli. I primi sposi di piazza Tahrir.

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Published on February 06, 2011 09:34

A messa a piazza Tahrir


Il titolo di questa pagina parla dei "martiri della rivoluzione". Le foto sono quelle di alcuni dei ragazzi di Tahrir morti in questi 13 giorni di Thawra, di rivoluzione. Facce di ragazzi, che stringono il cuore. Come quella bella ragazza, sorriso contagioso, ritratta nella parte centrale, Salah Zahran.


Oggi, domenica, è il 'giorno dei martiri', a piazza Tahrir. E le loro storie sono sintetizzate su un sito, che sta elencando i nomi e foto perché questi ragazzi non siano solo numeri.


Saranno ricordati con una messa, la messa dei copti, perché è domenica. E i copti sono una delle dita di quella mano con cui viene rappresentato l'Egitto. Una mano con molte dita, molte diversità, e le minoranze. Così come la preghiera del venerdì, e le rituali cinque preghiere musulmane sono state protette, nei primi giorni più difficili, dai copti, ora è il turno dei musulmani proteggere i copti. Come fecero, peraltro, partecipando all'inizio di gennaio alla messa di Natale, dopo l'attentato ad Alessandria. I musulmani andarono alla messa di Natale, ad Alessandria, al Cairo, perché non succedesse un'altra volta. Perché il terrorismo non rovinasse il paese, spaccandolo tra fedi. Particolare sconosciuto a molti lettori italiani, perché la vulgata deve parlare solo dei cristiani minoranza a rischio, e non anche di quei gesti che proteggono gli arabi di fede cristiani da un estremismo che non riguarda la maggioranza della gente. Il popolo.


Così, oggi a piazza Tahrir non ci sono solo i copti a pregare, di domenica. Ci sono i musulmani. Uno dei tweets di questa mattina, scritto da NadiaE, lo dice e lo spiega. "Sto andando a Tahrir a partecipare alla messa cristiana. Mio padre, un uomo di 73 anni, malato, un musulmano conservatore con tanto di barba, è con me".


Questo è l'Egitto reale, quello del popolo. Sulle manovre di palazzo, e sulle soluzioni di breve durata (e staccate dal reale) che piacciono a qualche pezzo di diplomazia, ne parlo domani. Un solo appunto, che devo fare dopo aver letto paragoni azzardati e che non tengono conto di quello che sta succedendo nelle fondamenta della società egiziana: Suleiman non è per niente Jaruzelski. L'Egitto 2011 non è la Polonia del 1981. E la Realpolitik ha delle regole fondamentali, che Willy Brandt conosceva bene: non si fa Realpolitik se non si conosce la realtà. Non quella dei palazzi e dei corridoi. Quella della strada.

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Published on February 06, 2011 09:26

E se i ragazzi di Tahrir facessero un partito?


Più volte, dai giornalisti al Cairo, è stato chiesto ai ragazzi se fossero organizzati in un partito. Chi fosse il loro portavoce, se avessero un ufficio stampa. Da quello che ho capito, in questi anni, gli attivisti sono una piccola comunità che si con0sce, ha intessuto una rete di relazioni, iniziate magari in Rete e proseguite nelle strade dell'attivismo. Loro sono lì, in piazza  Tahrir. Ma dal 25 gennaio sono molti, molti di più. E soprattutto – come si dice nel gergo di noi analisti – sono diventati un soggetto politico. Non un partito, non un movimento (certo, c'è il Movimento 6 aprile, ma non si può usarlo come ombrello per coprire tutti i ragazzi che sono a Tahrir). Stanno comprendendo, molto in fretta, che la "loro"  rivoluzione rischia di essere gestita in toto da qualcun altro, se non si organizzano in maniera tale da parlare con una sola voce, e da partecipare alla mediazione in corso. Parlo di ragazzi, e non dei Fratelli Musulmani che in piazza c'erano, come ha anche detto Ahmed Maher del Movimento 6 aprile, disciplinati, forti di una organizzazione rinsaldatasi negli anni, e che fonda questa capacità organizzativa sull'esperienza nei servizi sociali e nell'adesione all'Ikhwan dei settori dei professionisti (ci sono libri di studiosi molto bravi che si sono concentrati proprio sull'aspetto, come quello di Carrie Rosefsky Wickham, Mobilizing Islam: religion, activism, and political change in Egypt).


Un primo passo è stato fatto, con un documento uscito ieri, in cui si sono messe nero su bianco le richieste dei ragazzi. Ma capire chi l'ha scritto, e se la maggioranza di quell'attivismo esteso lo condivide, non è impresa semplice. E così, ieri sera Sandmonkey, al secolo Mahmoud Salem, uno dei blogger della prima ora, e ora del tutto dentro la rivoluzione del 25 gennaio, ha cominciato a dire, su twitter (ovviamente) che c'è bisogno di organizzarsi, di contarsi, di eleggere dei rappresentanti per distretto. In una parola, diventare – appunto – un soggetto politico che non faccia semplicemente da pungolo e, in un futuro prossimo, da massa di manovra. A mediare con il regime, insomma, ci sono andati sinora un Comitato dei Saggi (chi ne fa parte, a parte Amr Hamzawy?) e i rappresentanti dell'Assemblea per il cambiamento di Baradei.


E i ragazzi? Un cambiamento comincia a diventare urgente, a leggere quello che gira su twitter. Perché la politica classica, quella politicante, si direbbe, si è sempre dovuta rimodulare in questi giorni per la tenacia della piazza.  Di una generazione diversa da quelle che l'hanno preceduta in Egitto. Difficile da comprendere in una definizione semplificata, fatta di diverse anime, culture, riferimenti ideologici o culturali, unita dal desiderio e dalla necessità di avere futuro e cittadinanza. Una generazione tollerante, e che proprio per questo sembra malleabile e debole, e che invece ha dimostrato di non cedere.


Una piccola parentesi sul fatto che l'Egitto, di pancia, voglia tornare alla vita normale. E' vero, c'è la richiesta di tornare a casa, che in fondo qualcosa è stato raggiunto. Credo però che di questa richiesta di normalità faccia parte anche l'assuefazione al regime, a una prigionia dalla quale non si ha neanche più il coraggio di uscire, o almeno di anelare alla libertà. Difficile che quel passo si riesca a fare, come alcuni, dopo la tenacia dei ragazzi di Tahrir, hanno cominciato a fare. Ciò non vuol dire  che i ragazzi, alla generazione precedente, non abbiano già insegnato qualcosa. Che si può fare.


Per inciso, c'è già il primo rap inciso durante la rivoluzione egiziana, da uno dei gruppi hip hop più noti, Arabian Nights, con Lauryn Hill. Rebel, e la parte rap ha subito parole riconoscibili. As-shab iurid…


La foto è di Sarah Carr, su Flickr.

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Published on February 06, 2011 04:52

February 5, 2011

Le prime dimissioni eccellenti – update


La domanda che gira tra i ragazzi di Tahrir e tra gli analisti che si occupano da tempo di Egitto è la seguente? Cosa vogliono dire le dimissioni eccellenti di questo pomeriggio? Significa che il regime trentennale costruito attorno alla figura di Hosni Mubarak sta pian piano cedendo, o che invece si sta rifacendo il trucco? Le dimissioni, a dire il vero, sono eccellenti. Di primo rango.  E' durata poco la notizia che lo stesso Hosni Mubarak avesse accettato di dimettersi da qualcuno dei suoi incarichi, e cioè quello di presidente del Partito Nazionale Democratico, lo NDP, lo Hizb el Watani. Prima annunciato, e poi prontamente smentito dalla tv di stato egiziana. Rimangono confermate, invece, le dimissioni di suo figlio, Gamal El Mubarak, dal posto di rango che occupava ormai da tempo dentro il partito, in sostanza nel comitato che disegnava le strategie dello NDP e dunque della politica di governo, non sono da sottovalutare. Si dimette, con lui, il leader della nuova guardia riformatrice, quella che doveva segnare non solo il cambio generazionale, ma anche il diverso tipo di sostegno a Gamal nel suo cursus honorum, tutto dentro il partito, da concludersi poi con la candidatura alle presidenziali. Con lui, però, si dimette – con il comitato esecutivo en masse -  anche il segretario generale dello NDP, il vecchio, esperto, tradizionale ministro dell'informazione Safwart el Sherif. Il primo che parlò dopo le manifestazioni del 25 gennaio. Lui, invece, appartiene alla generazione di Mubarak.


Tutto azzerato? Non proprio. Al posto di Sherif c'è sì, ora, un uomo più giovane, Hossam el Badrawy, ma è da sempre considerato un intimo amico di Mubarak. La sua clinica per ricchi è nel quartiere per internazionali e potenti di Maadi, dove c'è anche la casa di Gamal Mubarak. Ma questo è solo un dettaglio. La vera domanda è se Badrawy vuol dire continuità, e dunque la nuova guardia che prende il potere nel partito, oppure se invece Badrawy abbandona i vecchi amici per segnare un cambiamento nello NDP. Tutto da vedere. Per ora, queste ipotesi se la giocano 50 a 50.


Assieme alle dimissioni eccellenti, i primi segnali di – per così dire – ammorbidimento sono le indagini aperte su Habib el Adly, potentissimo ministro dell'interno, il re dell'acciaio Ahmed Ezz e qualche altro ministro da parte del procuratore generale egiziano. Ahmed Ezz appartiene a quel tipo di tycoon egiziano che non solo è diventato ricco con il regime, ma che del regime, da un certo punto in poi, ha fatto anche parte, parte politica, con un posto in Senato, o dentro lo NDP.


Questo, però, non è considerato abbastanza dalla piazza, che anche oggi pomeriggio è piena. Piazza Tahrir, dove oggi – in un evento raro per l'inverno egiziano – ha anche piovuto. I dimostranti chiedono ancora e sempre le dimissioni di Hosni Mubarak da presidente della repubblica. Dopo, si potrà parlare, anche, perfino con il capo dell'intelligence, e ora vicepresidente, Omar Suleiman. Lo hanno detto in molti, nel fronte delle opposizioni che – a differenza di quello che sostiene oggi il neo premier Ahmed Shafiq – non sembra siano indeboliti. Oggi hanno parlato sia una delle figure pubbliche del cartello di Baradei, Abdel Rahman Youssef, sia il capo del Movimento 6 Aprile, Ahmed Maher.


I believe that youth awakening and political awareness will not fade even after the current regime falls, which is the most important of all gains.


Al-Masry: Did you achieve political reform?
Maher: Steps taken by the government in response to our demands are positive, but I think that they are old demands. The appointment of vice president, dismissing the idea of Mubarak's son inheriting his father's seat, reforming the government, and Mubarak's non-nomination for presidency should have been a natural response to political demands that rose with the rise of the Kefaya movement in 2004. The main demand the 25 January youth are calling for is the fall of Mubarak's regime, besides achieving comprehensive reforms on all levels.
Al-Masry: Why don't you ask the international community to help you achieve these demands?
Maher: Like all Egyptians we reject any foreign intervention in Egypt's internal affairs, except the European union and the UN Security Council, because we believe that change must come from inside, moreover change by foreign powers will take into account western countries' interests and therefore we would not feel the meaning of words such as freedom, democracy and change.
Al-Masry: Some people accuse you of receiving financial support from abroad, are they right?
Maher: Yes, we receive help from outside–from outside of Tahrir square! We receive humanitarian aid like food, water and medical supplies for protesters who haven't left the square since 25 January.
Al-Masry: What about Muslim Brotherhood control of the movement in general and Tahrir Square in particular?
Maher: Yes, there is a large number of Brotherhood supporters and their role is organizing movement inside the square and supporting protesters morally and with physical needs. But this doesn't mean Egypt would accept falling under Islamic control. Egypt is about to become a civil state. The role and presence of a large number of youth and other political movements is effective.
Al-Masry: When do you think life will come back to Tahrir Square?
Maher: When President Mubarak steps down and hands over power to Vice President Omar Suleiman and when the amendment of constitution Articles 76, 77, and 88 takes place before the next presidential elections. The president talked about reform, but all we witnessed were thugs bullying protesters and attacking them on horses and camels–which reflects that he has no intention to reform.



A parlare è stato anche Abdel Rahman Youssef, poeta, uno degli uomini più vicino a Baradei, terzo figlio di Yussuf al Qaradawy, il cosiddetto sheykh di Al Jazeera. Assieme a Mohammed Abul Ghar, pediatra, coordinatore dell'Assembea Nazionale per il Cambiamento (NAC) sono andati a parlare con Shafiq. E la richiesta chiave per cominciare i negoziati è che Mubarak si dimetta da presidente della repubblica egiziana, dando i suoi poteri al vice. Un segnale importante, perché nella NAc ci sono anche i Fratelli Musulmani.
I ragazzi, intanto, non lasciano Tahrir, che continua a essere molto piena, nonostante i timori che si erano diffusi durante la giornata, che cioò l'esercito volesse svuotare la piazza. Per ora almeno non ci sono riusciti. Per domani, si prevede la messa dei copti in piazza.

Non spendo parole per l'ineffabile prontezza di riflessi con cui l'inviato di Obama al Cairo, Frank Wisner, è intervenuto nella delicatissima situazione egiziana, dicendo che Mubarak (padre) doveva restare al suo posto per dirigere la transizione. Frase poi in sostanza smentita dai funzionari americani. Nel frattempo, però, ha segnato l'ennesimo punto a suo sfavore in Egitto. Come se non ve ne fossero già tanti…


Stay tuned-



La foto è presa dall'album di Ramy Raoof, su Flickr. Sul web, appena inserite, ci sono le foto di Eduardo Castaldo, appena inserite. Le facce di piazza Tahrir, finalmente
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Published on February 05, 2011 17:16

Le prime dimissioni eccellenti


La domanda che gira tra i ragazzi di Tahrir e tra gli analisti che si occupano da tempo di Egitto è la seguente? Cosa vogliono dire le dimissioni eccellenti di questo pomeriggio? Significa che il regime trentennale costruito attorno alla figura di Hosni Mubarak sta pian piano cedendo, o che invece si sta rifacendo il trucco? Le dimissioni, a dire il vero, sono eccellenti. Di primo rango. Non solo perché è lo stesso Hosni Mubarak ad aver accettato di dimettersi da qualcuno dei suoi incarichi, e cioè quello di presidente del Partito Nazionale Democratico, lo NDP, lo Hizb el Watani. Anche le dimissioni di suo figlio, Gamal El Mubarak, dal posto di rango che occupava ormai da tempo dentro il partito, in sostanza nel comitato che disegnava le strategie dello NDP e dunque della politica di governo, non sono da sottovalutare. Si dimette, con lui, il leader della nuova guardia riformatrice, quella che doveva segnare non solo il cambio generazionale, ma anche il diverso tipo di sostegno a Gamal nel suo cursus honorum, tutto dentro il partito, da concludersi poi con la candidatura alle presidenziali. Con lui, però, si dimette – con il comitato esecutivo en masse -  anche il segretario generale dello NDP, il vecchio, esperto, tradizionale ministro dell'informazione Safwart el Sherif. Il primo che parlò dopo le manifestazioni del 25 gennaio. Lui, invece, appartiene alla generazione di Mubarak.


Tutto azzerato? Non proprio. Al posto di Sherif c'è sì, ora, un uomo più giovane, Hossam el Badrawy, ma è da sempre considerato un intimo amico di Mubarak. La sua clinica per ricchi è nel quartiere per internazionali e potenti di Maadi, dove c'è anche la casa di Gamal Mubarak. Ma questo è solo un dettaglio. La vera domanda è se Badrawy vuol dire continuità, e dunque la nuova guardia che prende il potere nel partito, oppure se invece Badrawy abbandona i vecchi amici per segnare un cambiamento nello NDP. Tutto da vedere. Per ora, queste ipotesi se la giocano 50 a 50.


Assieme alle dimissioni eccellenti, i primi segnali di – per così dire – ammorbidimento sono le indagini aperte su Habib el Adly, potentissimo ministro dell'interno, il re dell'acciaio Ahmed Ezz e qualche altro ministro da parte del procuratore generale egiziano. Ahmed Ezz appartiene a quel tipo di tycoon egiziano che non solo è diventato ricco con il regime, ma che del regime, da un certo punto in poi, ha fatto anche parte, parte politica, con un posto in Senato, o dentro lo NDP.


Questo, però, non è considerato abbastanza dalla piazza, che anche oggi pomeriggio è piena. Piazza Tahrir, dove oggi – in un evento raro per l'inverno egiziano – ha anche piovuto. I dimostranti chiedono ancora e sempre le dimissioni di Hosni Mubarak da presidente della repubblica. Dopo, si potrà parlare, anche, perfino con il capo dell'intelligence, e ora vicepresidente, Omar Suleiman. Lo hanno detto in molti, nel fronte delle opposizioni che – a differenza di quello che sostiene oggi il neo premier Ahmed Shafiq – non sembra siano indeboliti. Oggi hanno parlato sia il capo del Movimento 6 Aprile, Ahmed Maher.


I believe that youth awakening and political awareness will not fade even after the current regime falls, which is the most important of all gains.


Al-Masry: Did you achieve political reform?
Maher: Steps taken by the government in response to our demands are positive, but I think that they are old demands. The appointment of vice president, dismissing the idea of Mubarak's son inheriting his father's seat, reforming the government, and Mubarak's non-nomination for presidency should have been a natural response to political demands that rose with the rise of the Kefaya movement in 2004. The main demand the 25 January youth are calling for is the fall of Mubarak's regime, besides achieving comprehensive reforms on all levels.
Al-Masry: Why don't you ask the international community to help you achieve these demands?
Maher: Like all Egyptians we reject any foreign intervention in Egypt's internal affairs, except the European union and the UN Security Council, because we believe that change must come from inside, moreover change by foreign powers will take into account western countries' interests and therefore we would not feel the meaning of words such as freedom, democracy and change.
Al-Masry: Some people accuse you of receiving financial support from abroad, are they right?
Maher: Yes, we receive help from outside–from outside of Tahrir square! We receive humanitarian aid like food, water and medical supplies for protesters who haven't left the square since 25 January.
Al-Masry: What about Muslim Brotherhood control of the movement in general and Tahrir Square in particular?
Maher: Yes, there is a large number of Brotherhood supporters and their role is organizing movement inside the square and supporting protesters morally and with physical needs. But this doesn't mean Egypt would accept falling under Islamic control. Egypt is about to become a civil state. The role and presence of a large number of youth and other political movements is effective.
Al-Masry: When do you think life will come back to Tahrir Square?
Maher: When President Mubarak steps down and hands over power to Vice President Omar Suleiman and when the amendment of constitution Articles 76, 77, and 88 takes place before the next presidential elections. The president talked about reform, but all we witnessed were thugs bullying protesters and attacking them on horses and camels–which reflects that he has no intention to reform.

A parlare è stato anche Abdel Rahman Youssef, poeta, uno degli uomini più vicino a Baradei, terzo figlio di Yussuf al Qaradawy, il cosiddetto sheykh di Al Jazeera. Assieme a Mohammed Abul Ghar, pediatra, coordinatore dell'Assembea Nazionale per il Cambiamento (NAC) sono andati a parlare con Shafiq. E la richiesta chiave per cominciare i negoziati è che Mubarak si dimetta da presidente della repubblica egiziana, dando i suoi poteri al vice. Un segnale importante, perché nella NAc ci sono anche i Fratelli Musulmani.
I ragazzi, intanto, non lasciano Tahrir, che continua a essere molto piena, nonostante i timori che si erano diffusi durante la giornata, che cioò l'esercito volesse svuotare la piazza. Per ora almeno non ci sono riusciti. Per domani, si prevede la messa dei copti in piazza.



Stay tuned-

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Published on February 05, 2011 17:16

February 4, 2011

Ir7al ya Mubarak


E' il suono di questi undici giorni. Ir7al ya Mubarak. Vattene, Mubarak. Sale dai forse due milioni che oggi sono arrivati a Piazza Tahrir, e che magari non sono riusciti a entrare nell'enorme piazza, e sono rimasti al di là della Lega Araba, dove gli stessi dimostranti avevo messo su il servizio d'ordine accanto all'esercito. Folla sul ponte di Qasr el Nil (il ponte dei Leoni, noi vecchi residenti del Cairo lo conosciamo così, vero?), verso l'Opera. Folla dagli altri ingressi. Vattene, Mubarak, in un'atmosfera che tutti i testimoni descrivono come festiva, allegra. Musica, poeti che recitano poemi (pratica estremamente popolare, nel mondo arabo, e tutt'altro che di nicchia). Famiglie, bambini, padri e figli. Esattamente il contrario di quanto richiesto ieri sera da Omar Suleiman, potente capo dell'intelligence egiziana e ora vicepresidente. Aveva chiesto ai ragazzi di tornare a casa, e aveva chiesto ai genitori di chiedere ai figli di tornare a casa. Il risultato, a giudicare dai milioni in piazza tra Cairo e Alessandria, è stato esattamente l'opposto. Un risultato che deve insegnare molto, non solo e non tanto a Suleiman, ma anche ai nostri politici (italiani ed europei), quando si scelgono gli interlocutori.


C'è, insomma, una società civile, in Egitto. Una società civile e un popolo che in questi giorni sta abbattendo lo stereotipo dell'egiziano che ha segnato il nostro immaginario. Pasticcione, ritardatario, voltagabbana, disorganizzato. Piazza Tahrir ha mostrato un'altra faccia del paese. La faccia ignota. Un popolo che si riappropria del proprio paese, che pulisce le strade dove gli spazzini non passano, che si prende cura degli altri. Tutti gesti che spiegano, anche a noi che abbiamo avuto a che fare con lo stereotipo (pasticcioni, ritardatari etc) che c'era un motivo politico dietro tanta incuria. Il popolo non sentiva il paese come suo, perché si sentiva suddito e non cittadino. L'etica della responsabilità, piombata di colpo a piazza Tahrir, è il segno che una generazione di giovani è cresciuta sana, chiedendo cittadinanza.


Bisogna ascoltarla, questa piazza. Credo che sia necessario anche da parte di chi, in questo momento, sta trattando la transizione. Il comitato di saggi che è andato a parlare con Omar Suleiman portando le richieste dei manifestanti, per esempio. Per questo motivo non mi convincono tanto le argomentazioni di Amr Hamzawy, che pure è tra coloro che in questi anni ha cercato di tracciare i contorni di un Egitto politico dimenticato, nel suo lavoro al Carnegie Endowment for Peace. Dagli schermi di Al Jazeera, Hamzawy ha spiegato quale potrebbe essere l'accordo: presidenza onoraria a Mubarak, che gli consentirebbe di conservare la dignità e arrivare a settembre, e poteri reali a Omar Suleiman come vicepresidente, se verranno accolte tutte le richieste per garantire che questo risultato non venga inghiottito dal regime, come altre volte è successo. Non credo, però, che la piazza riesca a ingoiare il fatto che Mubarak, pur con una presidenza onoraria, rimanga sino a settembre. Mi sembra l'abbia capito anche Mohammed el Baradei. E, ma solo in parte, anche Amr Moussa, che oggi ha fatto sostanzialmente la sua discesa in campo.


Amr Moussa says he expects Mubarak to remain in his post until his term ends in seven months, though "there are extraordinary things happening and there is chaos, maybe he will make a different decision."


Le parole di Amr Moussa lasciano aperta la strada al segretario generale della Lega Araba di cambiare le sue opinioni, a seconda della voce della piazza. Perché è Amr Moussa uno dei possibili antagonisti di Baradei. Molto noto nel paese (gli era stata dedicata anche una canzone da uno dei più famosi e popolari cantanti sha'bi), Amr Moussa è un po' appannato, ora. Ma pur sempre carismatico. Tanto è vero che ha praticamente detto che si potrebbe presentare candidato. Non è sorprendente. Era molto popolare, come ministro degli esteri, e Mubarak lo fece promuovere alla Lega Araba per evitare che qualcuno gli potesse far ombra. Promoveatur ut…


Il comitato dei saggi, dunque, deve ascoltare la piazza. Che ha dimostrato la presenza di una società civile ricca, costruita, per nulla artificiale. Lo si vede anche dal fatto che vi sono rappresentate tutte le categorie, tutte le facce dell'Egitto, da quello povero a quello medio borghese, dall'analfabeto allo scrittore e all'artista, mortificato per decenni dalla censura. Non è un caso che anche oggi vi fossero in piazza i vecchi della cultura egiziana (compresa Nawal al Saadawi) e che la protesta avesse l'appoggio di chi, coerente e dunque osteggiato, non ha accettato prebende dal regime, come Sonallah Ibrahim, scrittore di vaglia. Non è un caso che vi fossero i giovani attori (Khaled Abul Naga tweetta da giorni e da notti), artisti, musicisti… Il Nuovo Egitto, cresciuto all'ombra del regime com'è sempre successo in tutti i regimi. Vaclav Havel e gli altri insegnano.


Se Tahrir continuerà a essere 'terra liberata', presidiata nei prossimi giorni, ciò significherà che quella piazza non vuole essere estranea alla mediazione. Con tutte le complicazioni (buone, sane) che questo significa.

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Published on February 04, 2011 18:12

I pensieri di una generazione coraggiosa

Difficile, dopo dieci giorni, dire qualcosa di più, ancora qualcosa di questa rivoluzione egiziana, e di Midan Tahrir. Difficile, soprattutto, dire qualcosa di meno scontato. Sarà che si comincia a sentire un po' di stanchezza… Poi, magari domani, chissà, scriverò qualcosa sui Fratelli Musulmani, visto che anche oggi mi è arrivata una email di una signora, molto gentile e cortese, che si chiede se non si rischia un Egitto peggiore di quello di Mubarak. Un Egitto che possa diventare come l'Iran di Khomeini. Non si può comparare l'Iran all'Egitto, e viceversa. Ma oggi non vorrei parlare di questo. Vorrei lasciare la parola alla piazza, sin tanto che la piazza, Fort Tahrir come alcuni ragazzi hanno cominciato a chiarmalo, oppure 'terra liberata', è ancora piena.


E vorrei cominciare da una blogger, che su twitter trovate come monasosh. E' una figlia della borghesia e dell'intellighentsjia egiziana, madre docente universitaria molto nota, padre direttore di un centro legale che difende gli oppositori e si occupa di diritti civili. Il più conosciuto del paese. E' in Piazza Tahrir, c'è anche sua madre, c'è un pezzo della sua famiglia. Suo padre è stato arrestato ieri, nel centro legale Hisham Mubarak assieme ai rappresentanti di Amnesty International e di Human Rights Watch. "Si è già fatto cinque anni nelle prigioni di Mubarak, è già stato torturato allora, se la caverà". È suo figlio che ieri subito diffonde e conferma la notizia, come sempre via twitter. È un blogger, forse il più famoso d'Egitto.


Ahmed Seif, dunque, si è già fatto cinque anni di galera, torture comprese, nel paese del moderato presidente HosniMubarak. Sua figlia, nel suo blog, nel 2010, lo racconta. E da piazza Tahrir, accanto a sua madre, pensa che questo sia il suo gesto d'amore nei confronti del padre, il suo contributo alla conoscenza di un paese, il suo grido di libertà da Midan Tahrir. Questo è il link, e vi consiglio caldamente di leggere questo racconto intimo, molto bello, anche efficace dell'amore tra un uomo e una donna, e di come questo amore ha fatto crescere (bene, chapeau) i figli.


Questo è solo un brano, scritto in un inglese impeccabile, semplice. Sua nonna, la nonna di monasosh, era la più grande docente universitaria di inglese dell'intero paese.


I was born while my dad was in prison.
He was sentenced to spend 5 years in prison because he was part of  a communist group opposing Mobarak and his regime.
When the verdict came, my mother was not in Egypt. Their friends managed to hide him away and bring them together before he goes to prison.
Mama knew Baba will be away for years. They both wanted a baby girl and she thought that having a baby would soften the coming years with out him. So they hid away, took their time in creating me and in bidding each other farewell.
When they were certain my mother was pregnant in me, my dad went and turned himself in.
I had images of visits to my dad in prison. Blurred images stored in my head. It was strange because I was too young to remember. But when I sat with mama and described the images and she confirmed them. Then she started telling me how it was.
Alot of her friends shielded their children from this. They thought that exposing their kids to seeing their dads in prison is a harsh experience that they should try to avoid as much as possible.
Mama thought differently. She thought this should be a day to celebrate. She turned it into Eid day. She would dress me up in a nice dress, arrange my hair in my favorite updo (i used to call it the palm-tree style :) , and we go visit Baba in our most colorful bubble…



Tra i dissidenti c'è anche un attore, molto bello, molto giovane, di quelli che potrebbero pensare solo alla gloria e fare la passerella a Venezia, dopo aver salutato i fan dal motoscafo. Si chiama Khaled Abol Naga, mito per le giovani egiziane. Forse qualcuno/a l'ha notato, accanto a El Baradei che parlava alla folla col megafono, il 28 gennaio. Alto, barba appena accennata. Anche lui ha un blog, ma non parla solo dei film, come quello che lo ha reso celebre, nel 2005, Sahar el Layali, commedia all'apparenza leggera, e invece spaccato dei rapporti sociali e sentimentali, diventato di colpo film di cassetta.
Ecco il suo ultimo post, oggi, prima della manifestazione

#TAHRIR #EGYPT Millions getting ready today to join protests all over Egypt again, while secret police and police stopping citizens from reaching Tahrir by firing real live bullets and 100′s of Mubarak Thugs and local TV & Media and terrorizing masses to join the protests today (even friday mosques prayers speeches ordered to ask people not to protest) and key protestors getting phone calls targeting physically by snipers if they protest the Army is still playing a neutral role that is not even protecting peacefull protestors from molotof bombs and rocks attacks


E poi Deena: "Forse il risultato più sorprendente della rivoluzione del 25 gennaio è che noi veramente, profondamente amiamo il nostro Egitto. Non lo sapevamo".


"Good morning, mie cari combattenti per la libertà", scriveva Mosa'ab el Shami, in arte mosaaberizing, a giudicare dalle foto messe in rete un fotografo di gusto, oltre che tifoso del Barcellona (cosa comune, nel mondo arabo). È uno dei ragazzi che sta da più giorni e da più notti a Piazza Tahrir . Era stato colpito pesantemente, in uno dei primi scontri. E' tornato appena ha potuto, a difendere le barricate erette verso piazza Abdel Moneim Riad, a lato del Museo Egizio. Ieri sera raccontava: "paragonata a quella precedente, stiamo trascorrendo una romantica notte a piazza Tahrir".


E Hossam el Hamalawy, arabawy, autore di molte delle foto che ho usato in questi giorni per illustrare la protesta (compresa quella che ho scelto oggi): "La libertà costa. La battaglia non è finita. Ma non so se l'Egitto stia vivendo un incubo oppure un sogno bellissimo", scrive stamattina. Lui, questa storia, la segue da anni, perché da anni è cominciata. E' quello che ho spiegato al collega di Panorama, Pino Buongiorno, che mi ha contattato per sapere la mia opinione sulla nuova opposizione egiziana che avevo raccontato nel 2007 in Arabi Invisibili, e poi l'ha messa nel suo lungo articolo pubblicato oggi.


NadiaE:"Passeggiando lungo la corniche. due bambini usano le barriere messe su dall'esercito come rete per giocare a tennis, mentre l'ufficiale li guarda adorante".


…. una scelta random, non la migliore, comparata con i post, gli sms, le telefonate di questi giorni. Che ognuno si faccia la playlist di questa rivoluzione. Twitter, hashtag #jan25, 25 gennaio, il giorno in cui tutto è cominciato.

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Published on February 04, 2011 09:38