Paola Caridi's Blog, page 117
March 3, 2011
Dimissionato via Facebook
E che non si dica più che la via digitale alla politica non abbia inciso sulla rivoluzione egiziana del 25 gennaio. L'immagine qui accanto è presa da Facebook, e fin qui non ci sarebbe nulla di strano. Più singolare, invece, è che si tratti del Comunicato numero 26 del Consiglio Supremo delle Forze Armate che sta governando l'Egitto dall'11 febbraio scorso, e che il Comunicato sia stato postato sulla bacheca dell'esercito egiziano, e abbia ricevuto circa 25mila commenti già alle cinque del pomeriggio, ora del Cairo.
Il comunicato numero 26 annuncia le dimissioni del premier Ahmed Shafiq, che aveva ricevuto l'incarico di presiedere il governo dal presidente Hosni Mubarak, nei primi giorni della rivoluzione. Dimissionato Shafiq, come chiedevano da giorni i ragazzi di Tahrir (e non solo loro), e subito sostituito con Essam Sharaf.
La politica egiziana, dunque, usa internet. Non solo i ragazzi, ma anche i generali di una certa età. Non è, però, questa la questione importante, nelle dimissioni di Shafiq. Perché è stata, invece, la vecchia televisione a segnare il punto di svolta. La vecchia, usurata televisione di stato o comunque filogovernativa, che ieri notte ha segnato un precedente. Quello che la blogger Zeinobia definisce "una notte indimenticabile" della storia della tv araba. I fatti: Ahmed Shafiq, e di questo si parlava al Cairo da giorni, voleva parlare in tv, e spiegare le sue ragioni. Certo, comunque, in una trasmissione blindata, con un contraddittorio morbido, quel tanto che basta per evitare troppi attacchi. E così è stato. Ieri sera, su uno dei talk show più famosi, va in onda un contraddittorio praticamente inesistente tra Shafiq, il tycoon Naguib Sawiris e Amr Hamzawy,politologo molto ascoltato negli States, l'unico che ha fatto qualche domanda un po' più incisiva, ma che invece ha potuto parlare pochissimo. Nella trasmissione successiva, dovevano invece parlare due campioni dell'opposizione, Alaa al Aswani e Hamdi Qandil. Per un dietro le quinte che ancora non si conosce, Shafiq partecipa sia alla prima trasmissione, sia alla seconda. Dalle 10 di sera alle 2 di notte. Soltanto che nella seconda trasmissione va in onda ciò che non è mai andato in onda sulla tv di Stato. Un primo ministro viene attaccato, e molto duramente, da uno scrittore, il più noto dell'opposizione, Alaa al Aswani. E chi lo conosce sa che non le manda a dire. Shafiq esce in sostanza distrutto dalla trasmissione.
Il giorno dopo, si dimette. Viva la tv egiziana.
Ahmed va all'America
Tahrir non è più sotto i riflettori, e giustamente – direi – visto quello que pasa in Libia. Questo non significa, però, che nulla accade, o che quello che accade sia solamente sotto il vessillo gattopardesco del "cambiare tutto perché nulla cambi". Il regime trentennale di Mubarak (e, aggiungerei, quello quasi sessantennale della prima repubblica egiziana) sta facendo di tutto per rimanere a galla, in qualche modo, in qualche settore. Ma la pressione continua ad esserci, soprattutto da parte dei ragazzi di Tahrir, che sono alle prese con un pezzo di rivoluzione per nulla eroica e decisamente più difficile: la rivoluzione dopo Tahrir, la rivoluzione dopo i milioni in piazza.
Tahrir non è un tutto omogeneo, certo. Anzi, è proprio da quella disomogeneità inclusiva sperimentata nella mini-repubblica di Tahrir la sua differenza dal resto. E il suo contributo possibile alla rivoluzione del 25 gennaio. Lo spiegano gli stessi ragazzi, con un'analisi lucida e una richiesta molto idealista ma non per questo meno intrigante. Questa è una riflessione – intitolata non a casa The Post-Revolutionary Road - presa da occupiedlondon
Tahrir Square worked. It worked because it was inclusive – with every type of Egyptian represented equally. It worked because it was inventive – from the creation of electric and sanitation infrastructure to the daily arrival of new chants and banners. It worked because it was open-source and participatory – so it was unkillable and incorruptible. It worked because it was modern – online communication baffled the government while allowing the revolutionaries to organize efficiently and quickly. It worked because it was peaceful – the first chant that went up when under attack, was always selmeyya! – peaceful!. It worked because it was just – not a single attacking paramilitary thug was killed, they were all arrested. It worked because it was communal – everyone in there, to a greater or lesser extent, was putting the good of the people before the individual. It worked because it was unified and focussed – Mubarak's departure was an unbreakable bond. It worked because everyone believed in it.
Inclusive, inventive, open-source, modern, peaceful, just, communal, unified and focussed. A set of ideals on which to build a national politics. A set of ideals to hold on to.
E visto che a Tahrir c'era disomogeneità, c'era anche da aspettarsi che Tahrir si dividesse, dopo le grandi manifestazioni. Così, Ahmed Maher, che sulla salmiyya, sulla non violenza imparata dai serbi di Otpor aveva fondato i primi giorni della partecipazione del Movimento 6 aprile alla rivoluzione, ha deciso di andare all'America. Tanto da meritarsi un articolo di Jackson Diehl sul Washington Post. Too early, direbbero gli americani, e lo dice anche un ultraliberal come Mahmoud Salem, alias Sandmonkey, che bolla la notizia come un "big big mistake", un grande grande errore. Commento affidato a twitter, perché la politica – dalle parti di Tahrir – si fa anche (se non soprattutto) in questo modo. Invece di scrivere un editoriale su un quotidiano, o affidare una dichiarazione politica alle agenzie, nella politica digitale tutto è più veloce. E in questa velocità sta anche qualcosa che va oltre il veicolo che trasmette il messaggio, mi spiegava un antropologo culturale palestinese qualche giorno fa.
Ahmed Maher salta alcuni passaggi, va a Washington, e così facendo non farà altro che dare corpo a chi lo accusava, negli scorsi giorni, di aver fatto la rivoluzione all'ombra degli americani. Accusa non vera, perché pensare che sia stato Ahmed Maher e il movimento 6 aprile a fare la rivoluzione vuol dire non aver seguito e visto lo stato di prostrazione e di disperazione in cui versava tutto l'Egitto negli anni più recenti…. Le rivoluzioni, a tavolino, non si fanno.
Certo è che, però, questo è un momento di svolta per i ragazzi di Tahrir. Devono capire cosa fare. Non vogliono fare un partito, alcuni. Perché un partito di tipo occidentale non risponde alle necessità del Nuovo Egitto. Mi convince molto, questa analisi, che è quella narrata dai ragazzi che scrivono su occupiedlondon. Ma allora come fare, a disegnare la proprio strada politica e, soprattutto, a rappresentarla dentro le istituzioni? Chissà come risponderanno i ragazzi. Sono certa che daranno risposte interessanti.
March 2, 2011
Per capire le rivoluzioni, e Al Jazeera
Ma allora Al Jazeera è cattiva? E' stata il deus ex machina delle rivoluzioni? Certo che no. Cassa di risonanza, questo sì, per trasformare slogan locali in slogan panarabi (come Al shab yurid isqat al nizam, il popolo chiede la caduta del regime, diventato il leitmotiv delle rivoluzioni arabe del 2011). Se un ruolo Al Jazeera ha avuto, lo ha avuto prima delle rivoluzioni, nell'ultimo decennio che l'ha scagliata nell'empireo dei brand più conosciuti e amati del mondo. Tra i primi cinque.
A decretare il successo di Al Jazeera è stata soprattutto la comunicazione dei regimi, che – lungi dall'aver conservato il rapporto stretto tra credibilità e messaggio – sono stati per decenni la velina, l'agenzia Stefani di autocrazie che non avevano nessun messaggio da trasmettere a cittadini trasformati in semplici sudditi di repubblica diventate ereditarie o di monarchie che si reggono ancora oggi solo sui tanti soldi e su di un rapporto di ferro con la comunità internazionale. Nelle maglie di questo decennio, c'è la trasformazione del pubblico panarabo, diventato più accorto nell'accoglimento e nella digestione delle notizie, perché le notizie finalmente le riceve. Per saperne di più, il sito di Arab Media & Society contiene una messa di saggi di approfondimento non solo su Al Jazeera, ma sull'intero e ormai complesso spazio mediatico arabo. Sulla Libia, per esempio, c'è un saggio recentissimo sul modo in cui i libici recepiscono le informazioni, e su quali informazioni ritengono più attendibili. Al Jazeera è in testa nella classifica della credibilità, e la cosa non stupisce. E poi assolutamente da seguire è il blog di Donatella Della Ratta, la studiosa italiana di Al Jazeera. Su Mediaoriente, c'è un post che racconta com'è e com'è cambiata Al Jazeera in questo decennio. Centrale, ancora una volta, è la parola popolo. Leggete il post, e capirete perché Al Jazeera dà così fastidio a qualche solone nostrano…
We saw the rising influence of social networks and some of us, mostly academic researchers with no real influence on institutional policies, spent years and years trying to convince EU institutions that those were the right folks to discuss with, the young blood of the new Arab generation. But sine we are ourselves "too young" (at least for EU parameters) nobody paid too much attention to our words, taking us as "kids" playing with the latest technology tool.
The same happened much longer before with TV stations. I remember when I first visited Al Jazeera, back in 2000, and then started to write articles and a book about the channel. It took years and years of work and public talks to have the EU elites starting to take this station "seriously" and not being just scared by it.
Today, 10 years after 9/11, the situation has completely changed. Al Jazeera has been in touch with "the street" as Wadah points out, and was able to catch up with the changing going on in the Region. Al Jazeera is a young station. Khanfar himself is young and was able to build up a team of youngsters in the New Media Department that is super-professional. People like Mohamed Nanahbay and Mooed Ahmad, with their teams at Al Jazeera Arabic and English, have been working since 2006 to build what Al Jazeera achieves today.
We can criticize the channel`s editorial policy, disagree with some of its programmes, dislike its "incendiary" style, but we cannot deny the professional way the channel has been building relations with the people during the years. That`s it: Al Jazeera has not dealt with Arabs as audiences, but as its "people". It has empowered them to express their opinions, send their messages, join online forum and chats, post videos, build the new brand identity of the channel all together.
March 1, 2011
Pane, rose, e libri
Pane o rose? Rivoluzioni nate dalla fame, dai prezzi sempre più alti dei beni di prima necessità. Oppure rivoluzioni nate dalla fame di libertà. La domanda è inutile, o meglio malposta. Pane e rose sono stati, insieme, le ragioni fondanti delle rivoluzioni arabe. E del pane e delle rose non possono non fare parte i libri, se libro significa cultura e conoscenza. Tanto per ritornare ai rapporti sullo sviluppo umano nel mondo arabo sponsorizzati dall'UNDP, gli AHDR, uno di loro – quello del 2003, scaricabile da internet in arabo o in inglese – era appunto dedicato alla Conoscenza. Rapporti sponsorizzati dall'ONU a parte, la produzione culturale di questi ultimi anni, in tutto il mondo arabo, è stata il 'cibo per la mente' al quale si sono abbeverati non solo i gruppi della dissidenza, ma in una maniera o l'altra una buona parte dei giovani arabi. E quando parlo di cultura, intendo tutto. Intendo libri, intendo romanzi, intendo saggistica, intendo soprattutto ciò che di culturale è passato attraverso la Rete. Dunque, testi molto più brevi di un libro, manifesti politici, poster, graffiti via web, grafica digitale, musica, sperimentazione.
Il quinquennio 2005-2010 è stato un periodo d'oro, per la cultura araba sul web. Che si sia trattato di un rapporto tra cultura fuori dal web e Rete, in cui il web ha fatto da cassa di risonanza. Oppure che si sia trattato di un nahda, di una rinascita culturale specifica della Rete, con nuove forme, nuovi spazi e nuovi tempi (di produzione o di acquisizione o di reazione). Un esempio è la nuova letteratura della città, in Egitto. Una città – in questo caso Cairo, la megalopoli – che fa parte a pieno titolo della cultura della Rete, e che è stata palcoscenico di cinema e romanzi.
Nel 2008, per esempio, succedeva questo, nell'editoria del Cairo. Il Medio Oriente era gravido, diceva un intellettuale, e presto partorirà. Ci sono voluti appena due anni. Era un articolo che avevo scritto per il Domenicale del Sole24Ore (direzione Chiaberge)
IL CAIRO – La rassegna stampa all'entrata di Dar Merit è tutta per lui. Ahmed Fouad Negm, l'ultimo poeta di strada egiziano. Il jongleur che ha maltrattato tutti i presidenti, da Gamal Abdel Nasser a Hosni Mubarak. Ed è il suo volto smagrito e rugoso – il vecchio Ahmed Fouad è uscito poche settimane fa dall'ospedale, dov'è stato ricoverato per problemi cardiaci – l'unico a essere ritratto in caricatura, sulla parete del polveroso salottino della più giovane e prolifica casa editrice d'Egitto. Dar Merit, meno di dieci anni di vita e almeno due bestseller all'attivo: la prima edizione del Palazzo Yacoubian di Ala' al Aswani, e l'innovativo An Takun Abbas el Abd del poco più che trentenne Ahmad Alaidy.
Il mito è e rimane, però, lui. Ahmed Fouad Negm, il provocatore, il coraggioso, il poeta popolare, l'intellettuale che si è fatto la galera. Le sue raccolte di poesie sono il fiore all'occhiello della casa editrice più prolifica del paese. La creatura di Mohammed Hashem, diventato nel giro di un pugno di anni il vero talent scout della letteratura egiziana, e il protettore dei giovani scrittori. Cinquant'anni a breve, membro del movimento d'opposizione Kifaya, Hashem vanta già quattro premi Sawiris nel suo catalogo, e un riconoscimento da parte della più potente associazione degli editori statunitensi, che nel 2006 l'ha premiato per il suo impegno a favore della libertà di espressione.
Il più grande risultato di Hashem e della sua Dar Merit, però, non sono né i premi né i bestseller. Sono i prezzi dei suoi libri. L'equivalente di un euro o poco più. Perché, nell'era del dopo Mahfouz, la vera scommessa è convincere i ragazzi a impiegare dieci pound non per una ricarica del telefonino, bensì per il romanzo di uno scrittore esordiente o la pièce di teatro di un nuovo talento. Per la traduzione di Chuck Palahniuk, o di Alessandro Baricco. Scommessa difficile da vincere, in un paese dove i prezzi stanno volando, la gente è sempre più povera, e la forbice sociale si sta allargando a vista d'occhio. Scommessa ancor più difficile, se si pensa che i libri sono uno dei tanti oggetti taroccati.
Basta andare per mercatini, o anche lungo i marciapiedi di downtown, al Cairo, per scoprire che anche la letteratura si può "copiare". L'ha sperimentato Ahmed Alaidy, uno dei nuovi scrittori egiziani in ascesa. Al mercato di Sayyed Zeynab – uno dei più importanti della megalopoli araba –, il suo An Takun Abbas el Abd è un successo anche per le fotocopiatrici. Due pound, un quarto di euro, ed ecco la copia contraffatta, con tanto di copertina fatta con la carta che si usa in macelleria.
Di per sé, scoprire il proprio libro taroccato vuol dire che la fatica letteraria ha tanto successo da raggiungere i mercati alternativi. Per Dar Merit, il risultato è che si vende meno, ed è sempre più difficile far quadrare i conti. Non è per questo, però, che la polvere e l'understatement regnano sovrani nella sede della casa editrice di Hashem. A downtown, a due passi da Groppi e dai suoi sempiterni marron glaçes. I due sofà che hanno visto tempi migliori, il tavolino ingombro di bicchierini di caffè e dell'immancabile shai, tè forte e zuccherato, i portacenere colmi, ricordano fin troppo da vicino le case editrici della sinistra italiana anni Sessanta, o il profumo della carta dei samiszdat dell'Europa dell'est pre-1989. Dar Merit, insomma, è la prima porta che si deve attraversare per capire che l'Egitto letterario non è più stantio. E che qualcosa, all'ombra del Nilo, sta succedendo. Soprattutto dopo la morte dell'unico premio Nobel per la letteratura arabo, Naguib Mahfouz, scomparso tre anni fa.
È paradossale, ma buona parte degli scrittori, siano d'avanguardia, di grido o di lunga esperienza, dicono che in Egitto – ora – è più facile fare letteratura. Anche se fare gli scrittori non fa quadrare i bilanci personali. Sarà forse per lo spazio dato da internet anche alla creatività, che ha fatto per esempio nascere case editrici dai blog. Sarà perché c'è una generazione, molto giovane, di scrittori che preme per pubblicare. Sarà perché, come ha detto un vecchio intellettuale, "Il Medio Oriente è gravido. L'Egitto è gravido. E presto partorirà".
Qualche link, a questo punto, ci sta bene, su quello che sta succedendo in questi ultimi giorni. Intanto, la Fiera del Libro del Cairo, saltata 'causa rivoluzione' si farà a piazza Tahrir alla fine di marzo. Non un posto a caso, dunque, ma il cuore della Rivoluzione del 25 gennaio. Una notizia molto bella, riportata dal Guardian (che parla anche dei libri censurati che sono tornati sugli scaffali di Tunisia ed Egitto) e dal Bookseller. E poi Marcia, di arablit, torna a parlare di poesia araba. E di pane. Non è un caso.
Piccola aggiunta: sul neocosmopolitismo giovanile del Cairo, c'è questo bel saggio di Heba Elsayyed su Arab Media & Society. E' tanto per spiegare ai sostenitori nostrani dei neocon che gli arabi (e gli studiosi arabi) non hanno l'anello al naso.
February 28, 2011
Al Jazeera is not my mother!
On Arab blogs and their cultural relation with the new panarab allnews networks , i.e. Al Jazeera (part of an essay on Arab blogs written in 2005)
In this first stage, characterised by expansion and experimentation, it is evident that the strongest core of Arab political and/or civilian blogs is characterised not so much by artistic production (although present and very interesting), but by the exchange and circulation of different information, which is not institutionalised. The choice proves how much these bloggers (and not only them) are not only the children of the Internet. They are instead the children of new forms of communication (political and informative), which in the Arab world has emerged with all-news satellite TVs.
This is primarily a chronological fact, pertaining also to simple vital statistics: bloggers are mostly young. The age range is up to forty years of age, but in great majority it refers to young people until their thirties. "The majority of the Arab blogger community is overwhelmingly youthful, with many of them being students or aged 20-40", says Haitham, of Sabbah's blog, one of the most famous and linked "virtual diaries" of the Arab world. "Youth is one of the striking characteristics of bloggers in the Arab world", explains Haitham. Whereas in the USA for example many bloggers are long-established journalists, commentators and political troublemakers, such personalities in the Arab world do not yet generally have blogs. Maybe this is partly because younger people have fewer inhibitions about mixing their writing about politics with contributions on more personal matters"[i].
Bloggers are, at least from the vital statistics point of view, the children of communication in the Arab world, the children of Al Jazeera and her "sisters", if it is true that at least from 2000, when Al Aqsa Intifada started, they received information not through anachronistic State-controlled televised news[ii]. Their unconscious relationship with such a different type of information thus makes them ready to use non-conformist modalities to produce information through communication channels different from television, precisely, like blogs.
However, Arab bloggers reject the idea of being the children of Al Jazeera. They primarily reject that there is a cause-effect relation between the Al Jazeera's revolution and blogs' revolution[iii]. The answers to a questionnaire sent by the author this summer to dozens of bloggers, from Morocco to Bahrain, are indicative of this perception. The majority tend to make precise and exact distinctions between the world of the Internet and television. In fact, the classic differentiation between these two worlds is applied, in the way in which a message is transferred. In one-way mode, from sender to receiver, like in the relation between TV and viewer. In two-ways mode, and essentially in typical agora's communication, inside the Web.
Moreover, the distinctions which the bloggers adopt, are clearly made to give a political value to these two communicative platforms: the TV (Arab national TV stations or satellite channels and pan Arab ones, like Al Jazeera) as a medium with a passive response, controlled from the top[iv]; Internet, instead, is a platform on which it is possible to build Arab democracy. Actually, the majority of bloggers think Arab democracy is being built through interlinking virtual diaries, at least within the social stratum, which can afford the access to the Internet, from an economic and educational point of view. In this respect, Arab bloggers are on the same wavelength as those on the other side of the Atlantic who theorise the capacity of "virtual diaries", to be able to challenge television or institutionalised information. Moreover, many of them entrust bloggers not only to make alternative information, especially on the local level, but also to monitor the information coverage provided by the mainstream media.
Little space for reflections is also given to a completely different interpretation, like the one offered by Jon Anderson, who in 1999 overturned the prospective talking about a TV forged on the "Internet model, which features seeking over reception, levels senders and receivers, circumvents authority or is self authorising, and interactive in practice"[v].
Certainly, a great part of politically oriented bloggers recognises Al Jazeera as a revolutionary contribution to the Arab media world. "Al Jazeera put the Arab street in front of the proper reality, i. e., the censorship imposed from the top and the self-censorship accepted by the base. Al Jazeera liberated the Arab discourse and radically changed the whole traditional media stage", admits Tunisian blogger Sami Ben Gharbia, founder of Fikr@. "It is clear, he says, that the information provided by Al Jazeera and its provocative method to present them have had effect to the generation of young bloggers"[vi].
In spite of recognition, there is a clear refusal among bloggers of a possible paternity of Al Jazeera. It is not only because of the indisputable diversity of communication tools, based on their nature's "genetic" diversity. It is not only because netizens consider themselves and the Net as a world of its own. For many bloggers, there's an essential distinction between the institutionalised information and the counter information, which has to be born from the base, from the Arab civil society. Bloggers are the first to say that the community which keeps online diaries is still too "restricted", and refers to more educated professions that sometimes organise themselves in real guild blogs. In Maghreb countries, for instance, there are blogs of medical doctors, journalists, managers, and even two business blogs in Morocco, as explained by Anouar Ouali Alami, 27, engineer, a blogger at www.anouar.org, and one of the members of aggregators www.maghreblog.net and www.marocblog.com. Although small and nationally fragmented, however, Arab blogosphere (especially the civil/politicised part of it) perceives itself in some ways as an avant-garde, in some others as a butterfly in a cocoon, waiting to liberate itself and forge the Arab Renaissance[vii].
For many bloggers, the quality of Al Jazeera information is also open for discussion. It may be true, in fact, that "Al Jazeera brought along with it the willingness to broach contentious subjects and even air unpopular opinions", says Raja Abu Hassan, the author of lebaneseblogger. "Now that the organisation is approaching 10 years of age (if not more), it has, at least in my own opinion, become somewhat conformist – says Raja Abu Hassan. Moreover, people have even questioned its claim of objectivity. Consequently, they have searched for alternative media of communication and sources of information – one of which is blogging".
According to the common opinion in the bloggers' world, Al Jazeera, as well as Al Arabyia, does not differ from CNN or BBC, Western information networks which the bloggers follow parallel to TV news broadcasted from Doha or Dubai. On the contrary, a great number of bloggers stress that Arab netizens were educated by Al Jazeera as much as by other Western countries' broadcasters. Due to censorship, education and even residence (for the Arab Diaspora), they had the opportunity to tune to channels beyond the Mediterranean, obtaining information different from the ones broadcasted by Arab State-controlled TVs or newspapers.
However, bloggers' views are different when opinion is required about the influence which the revolution led by Al Jazeera had, has and will have upon Arab bloggers. For example, Haitham, of Sabbah's blog, is convinced of the effect, which the Doha satellite network continues to have especially due to the fact that "most if not all Arabs see it as the first open-debate channel that touches on taboos, similar to what Arab bloggers do touch on". In this value's appreciation of talk shows broadcasted by Al Jazeera, Haitham in fact agrees with Faisal al Kasim, creator of The Opposite Direction, who in an interview with Donatella Della Ratta, in February 2005 mentioned that programmes like his have capacity to educate the Arab street to dissent. Even more, it was he who launched the comparison with Eastern Europe before 1989, claiming the role, which Radio Free Europe had. "They tell me that my programme does not tempt people to change regimes, to make a real opposition politics, and I say: Wait and see", says Kasim. "Give us time. I think that people cannot act without being educated, and we are educating them through this programme, but we are only eight years old".[viii]
Yet, this recognition given, bloggers move immediately away from Doha satellite network, and generally from all satellite TVs that broadcast information in the region. Haitham points out one of the main reasons for the difficult relationship between bloggers and Al Jazeera. "Sometimes one has the impression that young Arab bloggers cannot believe the attitude of the older generation and especially figures of authority locally and internationally", says Haitham. "And these are often challenged on Al Jazeera, but do not represent the Arab bloggers' views, which means that it does not represent the mass of educated and ignored young generation. In fact, I believe that young generation has no presentation in the Arab media "revolution", except few, very few Arabic newspaper articles here and there, on the other hand, much more attention from the Western media"[ix].
Mohamed, 23, a physicist, shares Haitham's pessimism. He is a blogger of From Cairo, with Love, a site inactive since 30th September 2005, when its creator abruptly left his audience. "Al Jazeera is just another mass media outlet, we can't get our voices through Al Jazeera or her sisters, we can only be on the receiving end", says Mohamed with disillusion. "It has its biases as any other media outlet in the world, so why should we feel connected in anyway to it?"[x]
The creator of Sabbah's blog convincingly describes two sides of the same coin: on one side it is this young generation that learned unconsciously from Al Jazeera the fundamental of contradictions from broadcasts like The Opposite Direction, the cult programme of Faisal al Kasim, and the value of information which is not submitted to preventive censorship. At the same time, many bloggers denounce that it is exactly that generation which is being ignored by Al Jazeera, if not in its most extraordinary expressions: when the young are protagonists of conflicts, like Israeli-Palestinian one.
The dark side of the moon, i.e. the Arab youth which is not victim and in the meantime the leading actor of the various conflicts, is not yet under TV spotlights, not even of Al Jazeera's. Allnews Arab TVs essentially don't see the other side of Arab youth, whether the part which is not always politically oriented or the other part which is deeply involved in the opposition against Arab regimes. Bloggers' accusation is as clear as the assertion that blogs were central in letting emerge this generation. It is the position of Issandr el Amrani, one of the members of arabist.net, one of the blogs most visited by journalists and scholars who are concerned with Arab world. There are hundreds of blogs "run by teenagers who write about their daily life", says Amrani, a journalist in Cairomagazine and a collaborator of international newspapers. "Eventually, these people will have different interests. Providing an outlet for youth is incredibly important in this region, where almost half of the population is under 25. I think it is helping to challenge some long-standing cultural notions, such as the idea that children/teenagers/adolescents should not be heard".
Conclusions
Despite the contrary opinion of bloggers, the Internet and traditional media also match in the Arab world, at an informative level, as communicating vessels, directly communicating with each other. It seems difficult to see the Internet without TV and now it seems difficult just to think about TV and newspapers without the support of the Internet. The role of the revolution produced by Al Jazeera is all in all recognised also by the protagonists of a overwhelming phenomenon like "virtual diaries". However, decreased is the influence which Arab all-news satellite TVs has on the blogosphere, and especially diminished is their role in the so-called Blogistan, the Arab Blogrepublic which needs to affirm the proper diversity and proper autonomy.
However, while analysing the Arab blogosphere from the outside, what is evident is the presence of mainstream information. One recent example, to explain the relationship between two different, but still close, fields: the behaviour of the blogosphere and all-news TVs regarding the death of Pope John Paul II. Al Jazeera and the blogosphere reacted in a very similar way. Both gave extreme importance to the agony and the death of the Catholic Pope, emphasising the profound importance which the pontificate of Karol Woytjla had even for the Islamic Arab world, especially noting some of his legendary actions, like the entering the Omayyadi Mosque in Damascus barefoot and kissing the Holy Ku'ran. The drumbeat which went through blogs would not have had the volume and passion if there had not been the extensive and comprehensive coverage of Al Jazeera and her sisters. Arab satellite networks decided to cover the event with very long live broadcasting, deep analyses, and debates which had filled up the Arab screens for almost a week.
Bloggers did not speak about John Paul II because Al Jazeera spoke about him. But they reacted, especially from the point of view of the proportion of intervention, to a real media campaign. Bloggers' reaction, anyhow, doesn't reduce the originality of messages which the blogosphere hosts, neither the capacity demonstrated by the Internet to show the other side of thoughts going on in the Arab world. Those, in fact, of the youngest citizens of the region, almost always mortified in their intention to be aware of their positions and their role in the Arab renaissance.
Blogs are shelters and are so considered by their creators. They are also at risk to be a ghetto, or a glass roof which closes around and above them. It is the young and among them many women[xi], who are the real leading actors of a blogosphere which Ammar Abdulhamid considers to be, for a while, in its "infantile phase"[xii]. And their decisive refusal of being connected to Al Jazeera's era and Arab allnews satellite TV networks revolution seems, for some reasons, to be a part of this assertion of their own diversity. Many of political/civil bloggers pretend to be the tools of an ongoing passage to a different chapter of the Arab cultural history. The chapter which, in case of political and civilian blogs means also the evolution of a dissent, which is virtual only in the selected medium, but it is easy to imagine it becoming real and material in its theoretical comprehensiveness.
[i]Answer to a questionnaire sent by the author in summer 2005.
[ii] To confirm unconsciously the connection between blogging and information is for example Mohamed of From Cairo, with love. "We are very young – he says -, and many of us first got involved in politics during the protests in solidarity with Palestinian Intifada and against the Iraq war, but Al Jazeera isn't something we look up to. There's Al Jazeera and there're many other tv stations and there are many news sites and we can get the news much more easier. You might think that Al Jazeera liberated us from the State-owned TV and that's why we are the sons of Al Jazeera phenomenon, but State-owned TV is ancient history to us now".
[iii] It is a doubt expressed by Sami Ben Gharbia (alias Chamseddine), 38, a Tunisian blogger, and a political refugee in the Netherlands since 1998, landed to the Internet in 2000. Frequent visitor of forums and sites of "Tunisian cyberdissidence", has later created his site www.kitab.nl, and then his blog Fikr@. Answer to a questionnaire sent by the author in summer 2005.
[iv] Cfr., for example, says Alia Khouri, blogger of saudigirl.blogspot.com, in an answer to a questionnaire sent by the author in summer 2005: "Saying that Al-Jazeera promotes blogging is like saying that CNN promotes blogging. Al-Jazeera and its ilk belong to the still highly controlled sphere of that means of distribution which encourages passive consumption of information: satellite TV broadcasting. Blogs belong to the sphere of the Internet, which appropriates and assimilates all types of digital media. True to form, the blogger feeds off other content types and resignifies their meaning as he or she sees fit".
[v] Jon W. Anderson, Technology, Media and the Next Generation in the Middle East, NMIT Working Papers, 1999. Cfr. Anche Jon Alterman, New Media, New Politics? From Satellite Television to the Internet in the Arab World, Policy Paper #48, The Washington Institute for Near East Policy, 1998.
[vi] Although in his family they "managed to survive the satellite-dish craze which broke out in Egypt a little over a decade ago (nothing ideological)", Ahmad Gharbeia (http://zamakan.gharbeia.org) says that "the constant showers of news that now pours into almost every home would sure motivate more and more people into ranting and commenting, and what a better way to do it than to blog!". Answer to a questionnaire sent by the author in summer 2005.
[vii] Mohamed Marwen Meddah, of subzeroblue (www.subzeroblue.com): "with time the butterflies will be able to break free". Answer to the questionnaire sent by the author in summer 2005.
[viii] Cfr. Donatella Della Ratta, Al Jazeera. Media e società arabe nel nuovo millennio, Bruno Mondadori 2005, p.212. Cfr. also K. Hafez, Arab Satellite Broadcasting: an Alternative to Political Parties?, TBS on line, n. 13.
[ix] Answer to the questionnaire sent by the author in summer 2005.
[x] Answer to the questionnaire sent by the author in summer 2005.
[xi] Cfr. Lone Highlander, a Libyan blogger (lonehighlander.blogspot.com), who started to write her virtual diary "to reach Western audience and show a small glimpse of Libya, but through our interaction I hoped to eventually learn more about myself and who I am. So you can say it is a personal trip with an agenda of dispelling some strange impressions about my country". According to Highlander, "blogging has a lot to offer, the least being fresh opinions from a region traditionally mysterious, misunderstood and misrepresented in the media. Through blogging, the rest of the world could learn and make friends with teenagers, professionals, grown ups or whoever, without the need to go between, 'au naturel' sort of. The special challenges you refer too could mostly be technical. I'm not worried about my blogging, because I believe that I have managed to present a calm and well balanced image of Libya or other countries in the region as you say". Answer to the questionnaire sent by the author in summer 2005.
[xii] Cfr. http://committeetoprotectbloggers.blogspot.com/2005/05/brief-on-blogging-in-arab-world.html. Abdulhamid said: "Arabs do take longer than others to catch the technological train. I would imagine that by mid 2006, certain serious inroads into the blogging community will have been made around here. The development of anonymous blogging tools might indeed help in this regard".
Especially in Libya, Al Jazeera became iconic, as a symbol of that kind of information in staunch opposition with the servile approach followed by state-run TVs or state-linked networks. Many years ago, there was a heated debate on Al Jazeera as a new Panarab political agora. Although it is of course impossible to give Al Jazeera the responsability to create a political agora, due to the fact that TV public is – by definition – a passive audience, it is true that Al Jazeera broke the chains of a petrified political communication and information in the Arab world. Blogs are the sons of Ala Jazeera revolution. No doubt.
February 27, 2011
La Storia non è una frittata
Ho letto, anche oggi, la rassegna della stampa italiana, sezione Mondo. Anzi, per meglio dire, sezione Medio Oriente. Dalla cronaca delle rivoluzioni siamo (finalmente) passati all'analisi delle rivoluzioni arabe, che sono persino arrivate anche alle pagine culturali. La cosa che mi ha colpito è come, in alcuni commenti, ormai da giorni, si stia provando letteralmente a rigirare la frittata. Se le rivoluzioni arabe son successe, udite udite, è perché George W. Bush jr. ha portato la democrazia sul fusto dei cannoni. E' perché la destra americana ha deciso che valori e democrazia dovevano far parte della strategia neocon del Grande Medio Oriente. Tutta questa storia, insomma, è cominciata nel 2001 perché Bush, Blair (e anche noi) abbiamo deciso di esportare la democrazia prima in Afghanistan e poi in Iraq.
A parte il fatto che i due interventi, quello del 2001 in Afghanistan e quello del 2003 in Iraq, sono concettualmente diversi. O almeno lo erano ab origine, diversi. Dire, comunque, che i visionari sono stati i neocon vuol dire non avere conosciuto il mondo arabo. Molto semplicemente. La riflessione dell'intellighentsjia araba è stata completamente staccata dall'intervento neocon, sia esso militare sia esso economico (il petrolio, sempre quello…) sia esso culturale. Al contrario, la riflessione si è concentrata sul rifiuto stesso del concetto di democrazia – decisamente a corrente alternata – propugnato dall'amministrazione Bush e dalla sua corte interna e internazionale. Un rifiuto della democrazia in salsa neocon a cui è stato sostituita una richiesta di democrazia sostanziale, di connubio tra libertà e dignità, di diritti inalienabili. Tanto lontana, la riflessione araba, che lo stesso rapporto AHDR 2004 (Arab Human Development Report) sulla democrazia nel mondo arabo, la cui pubblicazione fu guarda caso rinviata di qualche mese per le pressioni degli USA (amministrazione Bush) e poi finalmente imposta dall'agenzia sponsor, l'onusiana UNDP, non metteva la parola Democrazia, nel titolo. Troppo occidentale, e troppo legata a Bush. Metteva invece la parola Libertà. Towards Freedom in the Arab World. Scorrere soltanto l'indice di quel rapporto spiega quanto la Storia reale del mondo arabo sia lontanissima da quella che si vuole descrivere ora, per riguadagnare le posizioni e le sconfitte che i neocon stanno subendo in questi giorni. E non è, quello che dico, una difesa di Barack Obama e soprattutto della sua amministrazione, altrettanto concentrato su una strategia anacronistica, di sostegno ai regnanti e allo status quo.
Ecco, consiglierei a chi pensa che i neocon abbiano vinto, di ri-leggersi, e se non ha ancora trovato il tempo di farlo, di leggersi per la prima volta quel rapporto sullo sviluppo umano nel mondo arabo, quarto volume, che ha fatto il giro delle università di tutto il mondo. Si capirà che il frutto commovente e prezioso di queste rivoluzioni è nato da un albero che semmai è stato – per una minima parte – innaffiato da alcuni funzionari dell'Onu, visionari sicuramente e sicuramente sognatori. E non certo da una corrente neocon che in Medio Oriente ha prodotto solo e unicamente disastri. Il resto è tutto frutto degli arabi, rapporti AHDR compresi. Perché quei rapporti sono stati scritti unicamente da intellettuali arabi. Hanno suscitato vivaci polemiche, dibattito, attacchi, ma una cosa è certa: sono state polemiche, dibattiti, critiche tutte interne alla intellighentsjia araba, che non è meno preparata di quella occidentale. Né ha bisogno di essere presa per mano. Sfido gli intellettuali italiani a farsi una chiacchierata con alcuni di loro, sociologi, storici, scrittori, poeti, e farsi poi un vero esame di coscienza. Sulla nostra capacità di analisi.
L'orientalismo provinciale di chi esamina il mondo arabo senza averlo conosciuto è arrivato a livelli che ritenevo irraggiungibili. La lettura della Storia che rende meccanicistici gli eventi. Gli angloamericani sono andati in Iraq a portare democrazia (ne siamo certi?), e appena otto anni dopo la democrazia è arrivata. Non certo è arrivata in Iraq, dove l'unica cosa che sono riusciti a fare gli americani – oltre a spaccare il paese – è stato cercare di convincere gli iracheni che gli uomini che loro avevano scelto erano dei leader… Una democrazia a sovranità limitata che non attecchisce. In questa ricostruzione artificiale e (manzonianamente) da azzeccagarbugli della Storia, poi, manca sempre un paese, l'Arabia Saudita, contro il quale i neocon innamorati della democrazia non hanno mai detto nulla. Un esempio perfetto di doppio standard, mi sembra. Né mi sembra che in questi anni sia stato evocato, dai Bushe e dai Blair, il nome di Mubarak e di Benali, nell'elenco degli autocrati da buttar giù e dei paesi da cambiare…
Lasciamo a Cesare quel che è di Cesare. Lasciamo agli arabi le loro rivoluzioni, senza pensare di essere stati noi a provocarle, ispirarle, coltivarle. Quello che dell'Occidente tutto si pensa qui, nel mondo arabo, al contrario è veramente sconfortante. Siamo diventati ancora una volta coloro che predicano bene e razzolano malissimo. Gli intellettuali arabi che pure hanno studiato nelle università occidentali non hanno un atteggiamento servile nei confronti dell'Occidente. Conoscono la nostra cultura tanto quanto noi non conosciamo la loro. E se devono citare un intellettuale non citano né Christopher Hitchens né gli anglosassoni in genere. Citano il Gramsci del concetto di egemonia. E semmai riflettono sul concetto di stato postcoloniale. La conclusione, spesso, è quella di dire che solo ora, semmai, si può cominciare a riflettere sul postcolonialismo nel mondo arabo. Sinora, sino ad ora, il colonialismo viene considerata la vera condizione in cui i paesi arabi hanno vissuto. Perché i regimi che i Bush e i Blair in primis hanno appoggiato (e che anche la sinistra europea o i democratici americani non hanno fatto nulla per osteggiare) sono stati l'ultimo, tragico capitolo del colonialismo occidentale. Di altri colonialisti della mente gli arabi non hanno bisogno. Tanto meno adesso. Anzi.
Hanno dimostrato di aver seguito un percorso autonomo, quando su internet hanno creato agorà democratiche. Comunità che hanno usato l'ICT come uno strumento (ma non solo, mi faceva notare un antropologo palestinese, che invece spiegava quanto il mezzo e la sua velocità facessero anche parte del messaggio politico, tanto per ricordare le vecchie categorie di Jacobson). Conclusione personale. Sono arrivata nella cosiddetta regione MENA nel 2001, poco prima dell'11 settembre. Esattamente dieci anni fa. E ci sono rimasta a vivere, in questa regione, senza tornare in Italia, da esattamente dieci anni. Credo, dunque, di avere una visione di questa parte del mondo che è, ormai, molto meno occidentale e molto più regionale. Il mondo arabo che ho visto io ha avuto una Storia diversa da quella descritta in questi giorni. Una Storia culturale endogena, che non si può sminuire. E di cui non ci si può appropriare. I neocon hanno perso, e devono ammetterlo.
(Metto sempre pochi link, su questo blog, lo so. Mi permettete di consigliarvi le riflessioni di Alessandro Politi su Tripoli? Sono dure e illuminanti)
L'immagine di oggi l'ho trovata su Facebook, sulla pagina di un ragazzo palestinese. L'ho messa perché – a proposito di Arabi Invisibili – bisognerà prima o poi riflettere sul contributo che la cultura visiva, dalla fotografia al cinema, dai graffiti alla grafica web, ha dato a questo percorso tutto endogeno. La grafica delle rivoluzioni, per esempio, è stata la dimostrazione di quanto la fantasia e l'arte dei ragazzi arabi sia rimasta misconosciuta. Chissà perché… Molti erano impegnati, a Occidente, a leggere e santificare Samuel Huntington.
February 26, 2011
Da Tripoli (bel suol d'amore) a Shuhada Street
Grazie a Massimo Gramellini, perché il suo commento di oggi riporta la Storia e gli individui al centro della discussione. Gramellini difende i ragazzi di Tahrir, in sostanza. Molti dei commenti che sono stati postati sul suo blog sulla Stampa, a dire il vero, mostrano invece con chiarezza che il razzismo ha preso piede in Italia. Un razzismo becero, perché solo becero può essere il razzismo, che con la scusa del "non sappiamo se gli arabi sanno essere democratici" considera gli arabi, appunto, esseri inferiori. Incapaci di pensare, di ragionare, di gioire, di sognare, di costruire la propria casa. L'insegnamento – in questo caso, nel caso di molti dei commenti che contestano il pensiero di Gramellini – dovrebbe venire da noi, da noi europei che abbiamo fatto affari per decenni con autocrati, dittatori ed emiri, senza porci problemi di sorta. E dovrebbe venire, l'insegnamento, da noi italiani che in questi anni non brilliamo proprio di luce propria, dal punto di vista della democrazia compiuta, dello Stato di diritto e della difesa della divisione dei poteri. Eppure, vogliamo insegnare agli altri la democrazia. Mah.
Comunque, mentre sulla Libia continuiamo a non farci l'esame di coscienza, e non pensare alle nostre colpe di vecchi colonizzatori e colonialisti, il mondo va avanti. E il mondo arabo continua a mostrare tutta la sua insoddisfazione e la sua fame di democrazia. Con i grandi numeri, i numeri di piazza Tahrir, dove ieri sono scesi in piazza centinaia di migliaia di egiziani per chiedere "pulizia", cioè la fine reale del regime messo in piedi da Hosni Mubarak. In sostanza, chiedendo le dimissioni dell'ultimo governo designato da Mubarak, quello presieduto dall'ex generale Ahmed Shafiq, per evitare una controrivoluzione strisciante. Ad Amman, manifestazione importante, sempre ieri, e la Giordania è un paese da tener d'occhio, perché le tensioni verso una monarchia che non risponde più alle richieste di democrazia reale sono sempre più alte. E poi Hebron, la palestinese Khalil. Una notizia che forse non avete letto da nessuna parte, e che pure è una piccola notizia alla quale badare. Ieri circa mille persone hanno manifestato per la riapertura di Shuhda Street, in sostanza per la riapertura della città vecchia di Khalil/Hebron, da oltre quindici anni una città fantasma.
Il capoluogo della Cisgiordania meridionale vive una condizione unica. Cuore della Cisgiordania, ha nel suo centro storico una colonia di israeliani radicali che stanno distruggendo la vita quotidiana dei palestinesi che lì vivono. 500 israeliani in una città da 100mila abitanti, collegati alla catena di colonie radicali, da Kiryat Arba in poi. Ebbene, non è un caso che la manifestazione si sia svolta un 25 febbraio, perché il 25 febbraio del 1994 vi fu la più sanguinosa strage, quella compiuta da Baruch Goldstein, colono, dentro la moschea Ibrahimi, la più importante di Palestina dopo quella di Al Aqsa a Gerusalemme. Moschea dedicata a Ibrahim/Abramo, dentro la Tomba dei Patriarchi. Era ramadan, e i fedeli in preghiera furono uccisi dalle sventagliate di mitra di Goldstein. 29 i morti, oltre cento i feriti. Quaranta giorni dopo il massacro di Hebron, Hamas compì il primo attentato terroristico suicida, per la regola dell'occhio per occhio, nell'ultimo giorno del lutto musulmano (per chi ne vuol sapere di più, ne ho parlato nel IV capitolo nel mio libro su Hamas, edizioni Feltrinelli). Da allora, Hebron vive in una situazione particolare, i cui simboli sono gli osservatori internazionali del TIPH, l'apertura a singhiozzo della Moschea Ibrahimi (per questioni di sicurezza…) e Shuhada Street. Ieri erano in mille a manifestare, e questo significa che il vento di Tahrir ha anche raggiunto la Palestina. In piccolo, con piccole manifestazioni, ma è uno stato della mente a essere cambiato. Ora, a parlare per la strada, si percepisce che i ragazzi pensano ora che cambiare sia possibile. Si ragiona di nuovo, si riflette sulla soluzione possibile al conflitto. Si ragione a est, e si ragiona a ovest. Un esempio per tutti: quello che Yossi Rapoport propone in un suo commento su 972mag, sito di riflessione del pacifismo israeliano. Basta negoziati, torniamo al 1967, riportiamo centrale la questione dei rifugiati palestinesi, se vogliamo parlare allo stesso tempo dei coloni… Si può essere d'accordo o meno, ma una cosa è chiara. Niente è più come prima. Neanche qui, a Gerusalemme.
La foto ritrae la Libia coloniale a cui forse pensano molti di quelli che fanno commenti razzisti. E' la Libia dei tempi che furono, e che non furono per niente belli. Sempre dall'archivio del nonno di un mio caro amico. I bambini in acqua fanno il saluto fascista, per compiacere chi stava occupando la Libia.
February 24, 2011
Spleen arabo
Anche stamattina mi sono svegliata, aprendo Facebook, con la litania del burqa (afghano, non arabo, e ancora non l'ho visto indossato da nessuna, nel Mediterraneo), di Al Qaeda, dell'emirato, del califfato, e via elencando. Poi ho visto la rassegna stampa sul Medio Oriente, e mi sono accorta che la litania coinvolge buona parte dei quotidiani italiani… Che tristezza, veramente che tristezza. Agitare gli spauracchi per evitare di vedere cosa sta succedendo nel Nord Africa. Somalia, Afghanistan, chi più ne ha più ne metta: i paragoni con quanto di più caotico possa esistere sul pianeta musulmano vengono propinati a iosa.
La domanda che pongo è una sola: una Somalia non si crea dal nulla, né un Afghanistan, ci vogliono anni, ci vuole fatica, uomini e soldi. E dunque – se questo è il timore – cosa non abbiamo fatto perché questo succedesse (se succederà, ma a me continua a sembrare molto, molto improbabile)? Ci siamo tenuti caro per anni e anni Gheddafi, persino sdoganandolo, complice la nostra questione irrisolta: una riflessione seria, profonda e dura sul nostro colonialismo, per nulla morbido. Abbiamo per caso fatto un dibattito pubblico sulle nostre colpe? Ne hanno parlato Angelo Del Boca ed Eric Salerno, a diverso titolo, con diversi strumenti e diverse esperienze. Per il resto, nei miei cinquant'anni, non mi ricordo nulla di paragonabile né a quello che è successo in Francia, su Vichy, né a quello che è successo in Germania, sul nazismo. Ci siamo interrogati sulle foibe, e non sul genocidio che noi italiani abbiamo compiuto in Libia.
Ora, invece, discettiamo di Al Qaeda, come se in Libia non ci fosse nient'altri. Né uomini e donne, né morti, né storia. Eppure di Libia, della Libia vera, ce ne siamo interessati molto poco, lasciando il compito di conoscere la Libia agli italiani che nel corso dei decenni sono andati lì a lavorare, a costruire, a esercitare la loro professione di ingegneri nel settore energetico. Un lavoro di cui non conosciamo quasi nulla, se non perché conosciamo qualcuno che ha avuto quella esperienza. Per il resto, della Libia ce ne siamo disinteressati, come un fenomeno da operetta, con quello strano personaggio di Gheddafi…
La Libia era Gheddafi, per noi, e ora che Gheddafi sta scrivendo l'ultimo, tragico, sanguinoso capitolo della sua epopea, ci troviamo sguarniti. Dietro Gheddafi c'erano un paese, nascosto, che solo pochi in Italia possono dire di conoscere veramente (primo fra tutti, Eric Salerno, colui che l'ha vista nel corso degli anni, dei decenni). C'è un paese, non c'è solo il suo dittatore. E allora quali strumenti usiamo? Sbandieriamo Al Qaeda. Siamo soddisfatti? Questa caccia alle streghe inciderà sulla Storia, placherà i nostri timori, risolverà qualcosa? No, ci costringerà ancora una volta entro il recinto dello stereotipo, della propaganda, delle guerre altrui. Ma non cambierà la Storia, che sta travolgendo il Mediterraneo senza che ci sia una vera, profonda riflessione nella nostra intellighentsjia, sguarnita in gran parte di strumenti interpretativi.
Va bene così. Anche questo è lo specchio di un'Italia in declino. La foto della testata di Invisiblearabs, ironia della sorte, è stata scattata dal mio amico Francesco Fossa, grande fotografo oltre che grande cronista, in Libia. Quando la Libia non interessava ai giornali, nonostante attraverso la Libia passasse (e morisse) quell'umanità dolente che solo in parte è riuscita ad arrivare a Lampedusa. Gli arabi invisibili, quei due bambini che corrono in un vicolo, sono libici, per uno strano scherzo del destino. Non vediamo il loro volto (chi non ricorda Handala, il bambino palestinese più famoso del mondo della caricatura araba…), eppure un volto ce l'hanno. Nascosto prima dai dittatori e dagli autocrati con cui abbiamo lavorato, senza chiederci chi fossero e come trattassero la loro gente. E ora altrettanto nascosto dagli stereotipi e dalla caccia alle streghe.
La Storia va per conto suo. Senza di noi, per fortuna.
February 23, 2011
Manovre egiziane
Un aggiornamento veloce, stamattina. Mentre in Libia comincia l'ennesima giornata difficile, con le prime evacuazioni in corso (i cittadini turchi, dal porto di bengasi), i profughi libici non scappano soprattutto via mare, come si paventa in Italia, ma via terra. La macchina dell'emergenza, insomma, comincia a muoversi, attraverso il confine che dall'Egitto porta nell'area orientale della Libia, in gran parte in mano agli oppositori di Gheddafi. Convogli di medici egiziani sono già entrati. E i profughi libici cominciano a fuggire non via mare, come qualcuno paventa in Italia, ma per le vie più semplici. Verso la Tunisia, dove sono arrivati circa 10mila tra cittadini tunisini e libici. O verso l'Egitto, dove sono stati allestiti i primi centri di raccolta per accogliere chi sta fuggendo dalla repressione di Gheddafi e gli egiziani che risiedevano in Libia. E sui profughi ha parlato anche l'Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, questa volta da Ginevra, chiedendo agli Stati membri di non respingere i profughi. Un messaggio che sembra diretto all'Italia, quello di Melissa Fleming, portavoce dell'organizzazione dell'Onu. "Stiamo dicendo, per favore non respingeteli. Questo è il tempo di mostrare lo spirito umanitario verso gente che sta attraverso un momento traumatico".
E a proposito di Egitto, conviene buttare un occhio a quello che sta succedendo al Cairo, passata l'euforia della fase eroica della rivoluzione. I ragazzi di Tahr, e non solo loro, a dire il vero, temono che la rivoluzione venga scippata dalle manovre di palazzo ancora in corso. Nel mirino di chi ha fatto la rivoluzione è soprattutto Ahmed Shafiq, l'ultimo primo ministro designato da Hosni Mubarak, nel tentativo di placare la rivolta popolare. Si chiedono a gran voce le sue dimissioni, da giorni, e venerdì è stata indetta una nuova grande manifestazione in piazza al Cairo. Il consiglio militare supremo prova una soluzione di compromesso, con la designazione di nuovi 11 ministri, due del vecchio partito Wafd, e l'anima di uno dei centri culturali più interessanti degli ultimi anni al Cairo, El Sawi, come ministro della cultura. Cosmetica anche questa, rispondono i ragazzi di Tahrir.
E intanto cominciano le manovre per il futuro, per i nuovi partiti. Sulla scena islamista, i centristi del Wasat hanno finalmente ottenuto, dopo tanti anni, la licenza come partito politico. Mentre i Fratelli Musulmani hanno formalmente annunciato la costituzione di un partito che li rappresenti, staccato dal movimento socioreligioso. Una soluzione alla giordana, insomma.
I ragazzi di Tahrir vogliono costituire un fronte, e in parte lo hanno già fatto. Per ora, hanno formato dei comitati tra ragazzi e personalità con qualche anno in più per capire come organizzarsi, e soprattutto cosa chiedere al nuovo Egitto. Manovre di palazzo e manovre fuori dal palazzo. Da tenere d'occhio.
I consigli di lettura sono i soliti: il blog di arabist, la versione nuova di Al Ahram online, il quotidiano privato Al Masri al Youm, e un altro blog, stavolta di una ragazza egiziana, Zeinobia. In arabo, aggiungeteci Al Shorouk.
February 21, 2011
Noi, la Libia, la dignità
"Social media is the only space available to show our solidarity with the free people of the world as our govs stand silent". I social media sono il solo spazio disponibile per mostrare la nostra solidarietà con i popoli liberi del mondo, mentre i nostri governi rimangono silenziosi. E in questo strano blob, mentre un tweet di un utente che si chiama Razano esprime quello che molti pensano – me compresa -, scorrono le immagini di Hotel Rwanda, quello sì j'accuse alla ignavia e all'indifferenza sostanziale. Un abominio di oltre sedici anni fa, che nulla sembra aver insegnato, se la voce flebile dell'Unione Europea si è alzata solo di un po', solo per dire di fermare la violenza. "Sono dei codardi, Paul. La vostra vita non vale un solo voto, per loro", dice nel film il direttore della Sabena. "Devono arrossire di vergogna", dice poi Paul, il direttore dell'albergo Milles Collines di cui la Sabena era proprietaria, a Kigali.
Parlavano di Rwanda. Sembra. Oppure no?
In questi giorni il senso di nausea è diventato sempre più profondo, insopportabile. Non solo come cittadina italiana. Ma in questo caso soprattutto come cittadina italiana all'estero. Vedere il mio paese messo alla berlina, infangato, ridicolizzato per quello che il governo italiano ha detto (o più spesso non ha detto) su quello che stava succedendo in Tunisia, e poi in Egitto, e poi in Libia. Nella Libia dove il ricordo dell'Italia è quella del nemico, del colonizzatore, dell'omicida…
Italia colonizzatrice, Italia che fa affari col potente di turno, Italia che tenta di salvare i propri affari. Senza neanche pensare che, comunque vada a finire, il destino di Gheddafi è segnato, e che dunque avrebbe più senso – per gli affari prossimi venturi – non appoggiare ancora adesso Gheddafi, "non disturbarlo". E' questa l'immagine che vedo scorrere sui network, sugli schermi, nelle analisi dei grandi giornali internazionali. Un'Italia da commedia di quart'ordine, mentre montano anche le notizie false sui piloti dei jet che hanno bombardato Tripoli. A un certo punto, nel pomeriggio, su twitter, come in un flipper, rimbalzava la notizia che ci fossero anche italiani, tra i piloti dei caccia che stavano sparando sulla folla inerme, uccidendo centinaia di persone. Una notizia subito smentita, ma che comunque ha girato parecchio, e che ha costretto il nostro ministro degli esteri a una smentita formale. Un segnale pericoloso di quanto la nostra sia ormai un'immagine screditata, tanto screditata che le si può cominciare a imputare nefandezze di questo tipo.
Spesso, in questi ormai dieci anni vissuti all'estero, nel Medio Oriente e Nord Africa, mi è capitato di pensare all'ignavia dei governi che si sono succeduti in Italia, quando sentivo le dichiarazioni ufficiali sul mondo arabo. Dichiarazioni che ci sono costate peso politico, caratura diplomatica, capacità di incidere sulle scelte della comunità internazionale. Le immagini di questi ultimi giorni, le strette di mano troppo compiaciute a un Gheddafi ormai ombra di se stesso, gli spettacoli equestri, i sorrisi troppo sorridenti, sono state passate sugli schermi di tutti i network come un tamburo ossessivo. Facendole diventare la nostra immagine, l'immagine dell'Italia. Appiattendo su quell'immagine il lavoro, le lacrime e la dedizione di altri italiani, volontari, medici, cooperanti, preti, suore, e anche giornalisti.
C'è bisogno di una riflessione? C'è bisogno di capire perché siamo diventati così? C'è bisogno di uno scatto d'orgoglio, e soprattutto di dignità? Ha ancora senso rimanere in silenzio? Io non ci sto a essere rappresentata in questo modo. Non ci sto a mettere in gioco l'immagine del mio paese e di me stessa per l'incapacità del mio governo di prendere le distanze da chi sta bombardando il suo popolo. Se il viceambasciatore libico presso l'Onu chiede di indagare Gheddafi per crimini contro l'umanità, noi italiani potremmo anche spendere qualche parola di più. O no?
La nostra prudenza è usata, ora, per proteggere gli italiani che sono in Libia? Potrebbe avere un senso. Forse. Ma mi chiedo cosa pensino i libici, e non il regime libico, di un paese che non prende posizione con le vittime. Il giorno in cui Gheddafi non sarà più il potente, in Libia, pagheremo anche questo? Gli italiani all'estero si difendono difendendo la dignità dell'Italia. E' l'unico metodo che paga, nel breve come nel lungo termine.
PS. dopo essere stati al servizio di Gheddafi, molti tra i suoi principali ambasciatori si stanno dimettendo. Nella migliore delle ipotesi, non hanno resistito al senso di nausea e hanno avuto uno scatto di dignità. Nella peggiore delle ipotesi, si stanno già preparando per il dopo-Gheddafi.
La foto è quella di un aereo italiano ai tempi dell'Italia colonialista in Libia. Uno scatto di molti decenni fa, dall'archivio di famiglia di un amico caro


