Paola Caridi's Blog, page 114

April 13, 2011

In galera!


Agli arresti. Tutti gli uomini della famiglia Mubarak. La Rivoluzione del 25 gennaio raggiunge un altro dei suoi obiettivi, sotto la pressione di un popolo paziente ma tenace. Hosni Mubarak era stato ricoverato in ospedale, ieri sera, dopo la convocazione da parte della procura generale della repubblica egiziana, per rispondere di corruzione e abuso di potere. Si pensava a un modo per evitare l'interrogatorio, ma l'interrogatorio c'è stato lo stesso. Si dice che Mubarak, 82 anni, abbia avuto una crisi cardiaca.


I suoi figli, invece, non sono in ospedale, ma in carcere. Alaa, il primogenito, businessman, e Gamal, l'altro figlio, cresciuto per fare l'erede di Hosni. Entrambi prelevati dalla sontuosa villa di Sharm el Sheykh, in cui si erano rifugiati e rinchiusi dopo la caduta di Hosni Mubarak, l'11 febbraio. Il video postato sul blog di Hossam el Hamalawy mostra la manifestazione di fronte alla villa, e l'uscita di una macchina con vetri oscurati, in cui dovrebbero essere Gamal e Alaa.


Un altro passo verso l'uscita dal regime si è compiuto, anche se ancora molto c'è da fare. E i timori sul comportamento delle forze armate aumentano. Soprattutto riguardo ai diritti civili. Dopo la rivoluzione portata sugli scudi di internet, un blogger è stato condannato a tre anni di carcere da un tribunale militare, suscitando anche la reazione del dipartimento di Stato americano. Maikel Nabil è stato condannato per aver insultato le forze armate.


Stay tuned…


La foto, in cui è immortalato un graffiti su Hosni Mubarak durante la Rivoluzione di Tahrir, è presa dal photostream di Ramy Raoof, su Flickr.

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Published on April 13, 2011 07:14

April 12, 2011

Succede in Cisgiordania, ad Awarta


Salam Fayyad doveva andare a visitare il villaggio palestinese di Awarta, vicino a Nablus, nella Cisgiordania settentrionale, domenica scorsa. Non era una visita di cortesia. Voleva portare la solidarietà sua e del governo dell'ANP di Ramallah agli abitanti del paese, da un mese esatto divisi tra il coprifuoco e la serie di retate compiute dalle forze armate israeliane. Vicino al villaggio di Awarta è sorta la colonia di Itamar, nel corso degli anni. Una colonia radicale, molto sorvegliata, ed è in quella colonia che l'11 marzo scorso è stato compiuto un vero e proprio massacro. Cinque persone della stessa famiglia uccise, di sera, padre, madre, due bambini, un neonato. Si ignora ancora oggi chi siano i responsabili della strage, anche perché le autorità israeliane hanno subito ordinato il segreto istruttorio sulle indagini. La rete di difesa con sensori elettronici non ha funzionato, né la sorveglianza dell'esercito.


I coloni, e anche i politici israeliani, non hanno però dubbi. Sono stati i palestinesi. Dall'altra parte, invece, i palestinesi negano qualsiasi ruolo nell'uccisione della famiglia Fogel. Con una modalità molto rara nella storia delle fazioni armate palestinesi, tutti i gruppi hanno preso le distanze da quello che è successo a Itamar, smentendo di essere loro gli autori. In Cisgiordania, anzi, si continua a dire che il colpevole potrebbe essere uno dei lavoratori thailandesi della colonia, che ha ucciso per vendetta per non essere stato pagato.


Awarta, in tutta questa storia, è però un villaggio che non vive più da un mese. Coprifuoco, arresti di massa, raid nelle case, perquisizioni molto dure. E' per questo che Salam Fayyad aveva deciso di andare a visitarlo, per "esprimere la solidarietà agli abitanti", riferisce Maannews. Israele, però, ha impedito che Fayyad si recasse ad Awarta, per questioni di sicurezza.


Israeli authorities prevented Fayyad from completing the visit. During a call with Awarta's mayor, Fayyad said he was required to coordinate with the Israeli side but they refused his request. Israel's military confirmed receiving a request but said "security activity" prevented the visit. In response to an inquiry from Ma'an, the army said in a statement late Monday that "Following his request to arrive at said location, Mr. Salam Fayyad's request was handled by the appropiate coordination authorities. Due to security activity in the area Mr. Fayyad did not arrive."


L'associazione palestinese per la difesa dei diritti civili, Addamer, denuncia che dall'11 marzo sono stati tra i 600 e i 700 gli abitanti di Awarta arrestati e condotti in una vicina base militare in una serie di raid, per interrogatori e per il prelievo del Dna. Secondo l'associazione, 55 abitanti di Awarta sono ancora detenuti, e tra loro ci sono due minori sotto i 18 anni. In uno degli ultimi raid, sono state prelevate dalle loro case un centinaio di donne, anche in età avanzata.


Le critiche contro le autorità israeliane aumentano, giorno dopo giorno. E' ormai passato un mese, e un paese intero è costretto a vivere in condizioni a dir poco difficili. La tensione montante deve essere giunta anche sino in Israele, se ieri Haaretz scriveva che"le forze di sicurezza israeliane ritengono che presto ci sarà una svolta nelle indagini sugli assassini di Itamar". Il viaggio mancato di Fayyad, le ripetute denunce di violazioni dei diritti civili e delle convenzioni internazionali stanno infatti crescendo, ed è difficile pensare che le autorità israeliane possano continuare a gestire la situazione nello stesso modo in cui l'hanno gestita sinora, senza che le critiche non raggiungano la comunità internazionale.


Per il momento, però, Awarta è un villaggio dimenticato vicino a Nablus. Invisibile, come molto di quello che succede da queste parti.


La foto è tratta dal sito dell'International Solidarity Movement. Ritrae Nabil Awad e sua moglie, entrambi tra gli arrestati dall'esercito israeliano ad Awarta.


Ecco il racconto di un raid dell'inizio di aprile, tratto sempre dallo stesso sito:


At approximately 10.00pm last night the army once again entered the village of Awarta, throwing sound-bombs into the streets and declaring it a closed military zone, putting the residents under house arrest. This time the army arrested over 200 people, amongst them women and the elderly. The arrested were marched two kilometres out of the village before being tightly packed into buses and taken to Huwwara military base. Some of the villagers were in their pyjamas and without shoes when they were taken to the base and questioned, before having their fingerprints, DNA and photographs taken. Villagers were held until 4.00 in the morning; during this time those who were ill with conditions such as asthma were denied their medication. The oldest villager taken was 80 year old Nabil Awad who was arrested with his 70 year old wife. The soldiers entered his house by breaking the door, they hit his wife and his son and daughter who asked them not to take Nabil who is sick with heart failure. Nabil's house had been searched in the previous weeks by the army who had destroyed many of his possessions and poured oil into his sugar supply.

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Published on April 12, 2011 07:39

April 11, 2011

Processi eccellenti


Sono passati esattamente due mesi da quell'11 febbraio che ha segnato la caduta del regime di Hosni Mubarak. Due mesi dalle dimissioni del presidente rimasto in carica poco meno di trent'anni. La Rivoluzione del 25 gennaio, travolgente come tutte le rivoluzioni, ha raggiunto così il suo scopo simbolico, ma la strada per l'uscita piena dal regime costruito in decenni da Hosni Mubarak e dagli uomini a lui più vicini è ancora lunga. Lo sanno bene i milioni di egiziani che continuano a scendere in piazza Tahrir quasi ogni venerdì, e per ragioni diverse. L'ultima volta, venerdì scorso, era per chiedere il processo contro Hosni Mubarak e gli alti papaveri, non solo per corruzione e abuso di potere, ma anche per le centinaia di morti – forse ottocento – uccisi durante le settimane della rivoluzione.


La magistratura, che in Egitto è stato uno dei poteri istituzionali che ha cercato di opporsi al regime, ha già aperto le indagini contro ministri, imprenditori, grand commis legati al vecchio sistema di potere. Ora sta addentando i dossier più scottanti, quelli che riguardano la famiglia Mubarak. E così Hosni Mubarak è comparso in tv, ma solo con un messaggio audio, per difendere se stesso,  registrato per il  canale satellitare saudita Al Arabiya.


La prima uscita pubblica di Mubarak ha sorpreso gli egiziani, ma non li ha sorpresi né la sua difesa d'ufficio, né la scelta di Al Arabiya per diffondere il suo messaggio. Al Arabiya è di proprietà saudita, e la vox populi dice che tra i protettori dell'ex presidente vi sia proprio la famiglia reale di Riyadh.L'ufficio di Al Arabiya al Cairo, però, smentisce di aver saputo nulla del messaggio audio: una smentita interessante, perché molti, sempre al Cairo, accusano chi dirige l'ufficio di essere stata vicina al regime. Un'accusa fondata anche sul fatto che Al Arabiya, durante la rivoluzione del 25 gennaio, non abbia subito lo stesso trattamento riservato ad Al Jazeera, il cui segnale fu interrotto più volte dalle autorità.


Dal suo 'esilio' interno di Sharm el Sheykh, l'ex presidente Mubarak non si è dunque fatto vedere dagli egiziani, ma si è lo stesso difeso – via audio – dall'accusa di aver accumulato una fortuna per sé e per la sua famiglia. Non ho nessun conto bancario all'estero, ma solo in una banca egiziana, ha detto Hosni Mubarak,parlando però di se stesso e di sua moglie. Altra cosa è la situazione patrimoniale dei suoi due figli, Gamal e Alaa. Il primo, suo erede politico, per anni impegnato a disegnare per se stesso un cursus honorum dentro il partito al potere, lo NDP. Alaa, il primogenito, business di successo, su cui però la vox populi del Cairo, la strada araba, raccontava storie di corruzione.


Sulla testa di Mubarak e della sua famiglia pende, ora, un'indagine giudiziaria sulla possibile, illecita distrazione di fondi pubblici, abuso di potere e guadagni fatti attraverso la corruzione. Il Washington Post ha pubblicato sabato scorso un documento in cui il procuratore generale egiziano Abdel Meguid Mahmoud chiede agli Stati Uniti aiuto per rintracciare la bella somma di 700 miliardi di dollari. Dieci volte la cifra dei 70 miliardi di dollari di ricchezza personale di cui si era parlato quando Mubarak si era dimesso e si era rifugiato nella sua lussuosa villa di Sharm el Sheykh, dove – peraltro – molti programmano di andare a manifestare, se non si dovesse arrivare presto a un processo.


La rivoluzione egiziana, dunque, sta per toccare realmente gli uomini più importanti del regime. Non solo la famiglia Mubarak (girano voci, al Cairo, che Gamal Mubarak sia stato già convocato dalla procura, ma non si sia presentato davanti ai magistrati), ma gli uomini più vicini all'ex presidente. Ieri sono stati infatti congelati i beni di due dei pilastri del regime, l'ex storico ministro dell'informazione Safwat el Sherif e l'ex capo di gabinetto Zakaria Azmi. Sono solo le ultime decisioni della magistratura, che nelle scorse settimane ha emesso ordini di arresto, di domiciliari, di divieto di espatrio o di congelamento dei beni per un numero sempre più alto di ex ministri e maggiorenti del regime. Ministri del calibro del vecchio premier Ahmed Nazif, incensato per anni dall'Occidente come il fautore della modernizzazione dell'Egitto. O come il vecchio ministro dell'Agricoltura, Youssef Wali. Quello dell'edilizia, Ibrahim Soliman. Problemi ci sono anche per un nome notissimo in Occidente, il principe saudita Walid bin Talal, al quale sono stati congelati i terreni del gigantesco progetto di Toshka, in Alto Egitto.


Anche Amr Moussa, segretario generale uscente della Lega Araba e candidato alle presidenziali egiziane, ha chiesto una reale epurazione del regime, facendo sua la forte spinta popolare che chiede la testa dei vecchi dirigenti, e dimostrando che la sua corsa alla presidenza è reale. Amr Moussa sa infatti quali corde toccare, nei sentimenti popolari egiziani, e nello stesso tempo la sua mossa conferma quello che si era sempre detto al Cairo, e cioè che la sua 'promozione' a segretario generale della Lega Arab, tanti anni fa, fu un modo per allontanarlo dal ministero degli esteri e dalla possibilità di fare ombra a Hosni Mubarak.Promoveatur ut amoveatur.


La foto è una rielaborazione grafica di una foto di Ramy Raoof, dal suo album Flickr.

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Published on April 11, 2011 08:55

April 9, 2011

Tahrir: la resa dei conti?


Guardate questa foto. E' stata scattata ieri, venerdì 8 aprile, a piazza Tahrir al Cairo. Una piazza Tahrir piena come un uovo, dicono tutti i testimoni, che parlano di circa un milione di persone. Come ai bei tempi, a febbraio. Sul palco, assieme ai dimostranti che chiedono il processo a Hosni Mubarak e al regime, ci sono tre militari. Soldati? Più presumibilmente ufficiali, anche a giudicare dall'età (la foto è su  yfrog). E' molto presumibilmente la loro presenza a fianco dei manifestanti, assieme a quella di altri militari, ad aver cambiato il segno a Tahrir, e ad aver scatenato una reazione dura da parte delle forze armate egiziane. A Tahrir, stanotte, la polizia militare e altri apparati della sicurezza hanno reagito molto duramente, alcune testimonianze parlano di brutalità, nei confronti delle poche migliaia di manifestanti che erano rimasti in piazza. E tra loro, anche i militari che già ieri – lo si è saputo attraverso alcuni tweeps – avevano paura a lasciare la piazza, perché temevano ritorsioni. La Reuters, oggi, parla di due morti, nella repressione di questa notte. Associazioni per la difesa dei diritti umani fanno salire il numero delle vittime a 7, mentre nulla si sa ancora dei militari che erano sul palco. Alcuni tweeps dicono che sono stati arrestati.


Il Consiglio Militare Supremo, dal canto suo, dice invece che sono pezzi del vecchio regime ad aver provocato lo scontro tra forze armate e manifestanti. In attesa che la nebbia su quello che è successo stanotte si diradi (se si vuole una ricostruzione dettagliata, si può consultare arabist, con una testimonianza di prima mano), quello che si può arguire, sinora, è che si sta arrivando alla resa dei conti. Tra chi e chi? Fino a questo punto, la Rivoluzione egiziana è stata costretta entro i limiti voluti dal Consiglio Militare Supremo, un direttorio militare che si è auto-attribuito il compito istituzionale di traghettare l'Egitto dal regime all'inizio della democrazia, per poi tornare nelle caserme e lasciare il potere civile ai civili. Questa confusione sul ruolo delle forze armate è stata, ovviamente, oggetto delle infinite discussioni politiche di queste settimane, sempre – però – sull'assioma che le forze armate egiziane sono il popolo, che il loro legame col popolo è indissolubile, e che questo legame è più importante del legame delle alte gerarchie con il vecchio regime di Mubarak.


Le critiche ai militari, dunque, sono state sopite da una sorta di autocensura collettiva, che nasce dalla rivoluzione nasseriana del 1952 e dal ruolo delle forze armate nella storia contemporanea del paese. Ciò non vuol dire, però, che nessuno si sia posto la domanda sul ruolo di Mohammed Hussein al Tantawi, capo del Consiglio Militare Supremo, uno degli uomini che è sempre stato presente durante il regime di Hosni Mubarak. E la mano dura delle forze armate, in queste ultime settimane, è già stata stigmatizzata da molti dei 'ragazzi di Tahrir', degli attivisti per i diritti civili.


Dopo quello che è successo questa notte, è evidente che la resa dei conti si avvicini, a grandi passi. Una resa dei conti molto pericolosa, perché si capirà davvero, a questo punto, da quale parte stiano le forze armate. La reazione durissima di questa notte, dopo che in piazza erano comparsi ufficiali a fianco dei dimostranti, dice infatti molto della domanda su cui tutti noi ci siamo arrovellati, sin dal 25 gennaio: cosa sono le forze armate egiziane? Chi è chi tra i quadri dell'esercito? C'è per caso una sorta di riedizione dei Giovani Ufficiali (quadri, appunto…) che nel 1952 non solo buttarono giù la monarchia, ma scardinarono anche i vecchi equilibri tra i militari? E se vi fossero Nuovi Giovani Ufficiali, che peso avrebbero verso le alte gerarchie militari? Tutte domande a cui è necessario rispondere, per capire cosa stia veramente succedendo al Cairo.


Non credo che vi sarà un ritorno del regime. L'Egitto ha varcato una soglia che lo ha portato al di là del regime di Hosni Mubarak. Qualunque cosa succeda. E' vero, però, che la controrivoluzione non è solo un fantasma, è un pericolo reale. Controrivoluzione, però, significa tante cose. Significa pezzi del regime che non vogliono perdere il loro potere. Significa gli alti papaveri del regime che provano a riorganizzare le forze, magari sotto mentite spoglie. Significa anche che, nella regione, in molti hanno paura della rivoluzione egiziana.

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Published on April 09, 2011 10:49

April 8, 2011

Fuoco su Gaza


E' da ieri sera che i raid israeliani continuano a colpire senza sosta la Striscia di Gaza. A sud, al centro, al nord, di una stricia di quaranta chilometri per dieci. L'escalation militare fa seguito al lancio del missile anticarro sparato ieri pomeriggio da Gaza verso Israele. Colpito uno scuolabus, ferito gravemente un ragazzo, di 16 anni, praticamente in fin di vita: l'unico rimasto ancora sull'autobus che faceva il giro per riaccompagnare gli studenti a casa, lungo la frontiera con Gaza. Ferito leggermente anche l'autista. Sono state le brigate Ezzedin al Qassam, il braccio armato di Hamas, a rivendicare l'attacco, a sua volta in risposta del raid aereo in cui, sabato scorso, erano stati uccisi tre suoi membri, tra cui una ex guardia del corpo di Abdel Aziz al Rantisi.


Subito dopo l'attacco allo scuolabus, sono cominciati i raid israeliani, che non si sono fermati neanche dopo che Hamas ha dichiarato di aver concordato una tregua con le fazioni della Striscia, in vigore dalle 11 di ieri sera. Oggi, sono partiti da Gaza altri colpi di mortaio verso Israele.  Il bilancio delle vittime dei raid israeliani è parziale: almeno dieci morti, decine e decine di feriti, mentre anche le autorità di Tel Aviv avvertono che tra le vittime ci potrebbero essere dei civili. I civili, nella lista di morti e feriti, sembrano già essere molti….


Il rischio di una escalation è sempre più alto, dopo la tensione delle ultime settimane. Perché è da settimane che i fuochi sono ricominciati, a sud. Tra raid aerei israeliani e i lanci di razzi da Gaza. A pesare però, se non soprattutto, sono anche gli ultimi sviluppi politici. Anzitutto, la ripresa dei colloqui sulla riconciliazione tra Fatah e Hamas, ancora una volta al Cairo. Abu Mazen si è recato in Egitto, alcuni giorni dopo che una delegazione di alto livello della leadership di Hamas a Gaza (compreso Mahmoud az-Zahhar che, ricordiamolo, è di madre egiziana) era andato a incontrare Nabil el Arabi, Amr Moussa, addirittura (ed è un mistero come mai) la dirigenza del partito liberale del Wafd. Oggi è invece in calendario l'incontro tra Nabil Shaath e Khaled Meshaal, mentre anche i turchi sono di nuovo scesi in campo. Il regime di Hosni Mubarak ha sempre accuratamente evitato che la Turchia di Recep Tayyep Erdogan potesse avere un ruolo nel dossier della riconciliazione. Ora, Ankara prova nuovamente a entrare nella partita più importante per il futuro della politica palestinese, e cioè la condivisione del potere.


Contro la riconciliazione, però, sono tanti gli attori a giocare. Anzitutto Israele, che non ha mai fatto mistero di osteggiare quanti altri mai una Palestina unita dal punto di vista istituzionale e politico, con Fatah e Hamas insieme. E poi anche, e questa è la mia ipotesi, l'ala più radicale (e anche militare) di Hamas, che ha assunto un vero e proprio ruolo politico proprio quando, con atti eclatanti come il rapimento di Gilad Shalit, ha bloccato il processo di riconciliazione che era arrivato a un passo dall'accordo, nel 2006. Anche ora, che la riconciliazione sembra finalmente su binari seri, la fazione armata rientra in gioco. Se veramente riprendesse la guerra guerreggiata a Gaza, la riconciliazione subirebbe un nuovo stop, un nuovo rinvio, in attesa degli eventi.


A pesare sulla tensione, certo, c'è anche la parziale ritrattazione del Rapporto Onu sull'Operazione Piombo Fuso, fatta dal suo autore, Richard Goldstone, con un articolo sul Washington Post.


La foto, presa da Facebook, ritrae i manifestanti che da Tahrir si dirigono verso la vicinissima ambasciata americana al Cairo, per dimostrare contro i raid israeliani su Gaza. Oggi Tahrir era piena come ai tempi delle tre settimane di rivoluzione. Un segnale al Consiglio Militare Supremo. La rivoluzione c'è stata, e indietro non si torna, dicono gli egiziani.

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Published on April 08, 2011 13:58

April 7, 2011

Aria da terremoto


L'articolo di Richard Goldstone sul Washington Post ha scatenato in Israele un dibattito che è ancora lungi dall'essersi concluso. Un dibattito che la tragica morte di Juliano Mer Khamis non ha neanche lambito. Eppure, tutti e due gli eventi hanno in comune qualcosa: il conflitto. Non si può discutere del Rapporto Goldstone, dell'Operazione Piombo Fuso, senza discutere di Juliano Mer Khamis, del Freedom Theatre, della storia del campo profughi di Jenin, delle generazioni perdute. Dei morti e delle ragioni della loro morte.


Ieri Amira Hass ha scritto (su Haaretz) un articolo bellissimo su Juliano Mer Khamis, un articolo che – ne sono certa – riguardava anche lei, la sua vita quotidiana, il suo lavoro, la sua inestinguibile carica morale. Oggi Gideon Levy fa lo stesso, sempre su Haaretz, riflettendo su quello che Goldstone ha fatto, con il Rapporto Onu e con la sua singolare revisitazione alla luce delle indagini che le forze armate israeliane hanno compiuto su se stesse. Senza rivolgersi a un giudice terzo. Israele sta usando l'articolo di Goldstone come uno strumento per migliorare le pubbliche relazioni con il mondo: ne sono conferma gli articoli, non solo sulla stampa israeliana, ahimè, che parlano del Rapporto Goldstone come uno degli strumenti della propaganda palestinese.


L'Operazione Piombo Fuso, lo sappiamo bene, è stata ben altro che un Rapporto d'indagine dell'Onu. È stata una guerra con circa 1500 morti, molti civili, molti donne e bambini, tutti intrappolati dentro una striscia di terra di 400 chilometri quadrati colpita con bombardamenti la cui pesantezza ha pochi precedenti nella storia della regione. E un articolo del Washington Post non risolverà i problemi morali della società israeliana che Gideon Levy ricorda nel suo articolo.


Andando oltre l'Operazione Piombo Fuso, tra le pieghe di entrambi gli articoli, e solo mettendoli insieme, riesco almeno a intuire quel bandolo della matassa che, oggi, il conflitto israelo-palestinese nasconde. È un bandolo, un piccolo filo scoperto che parla di tensione, di piccoli e grandi episodi, di un'aria che sembra foriera di tempesta. Un po' come quei giorni in cui l'aria è tanto ferma, tanto pesante e tanto calda che – dicono i vecchi in Italia – è "aria da terremoto".


Amira Hass si interroga su chi possa essere l'omicida di Juliano Mer Khamis, perché conoscendo i dati dell'omicida riusciamo anche a capire le motivazioni. A capire, in sostanza, cosa sta succedendo nella Cisgiordania sempre occupata, dove la tensione tra coloni e palestinesi sta arrivando a punte talmente alte da essere solo foriere di violenza diffusa. Gideon Levy dal canto suo, come sempre, non lascia spazio neanche alla più timida speranza. Dice, in sostanza, che dobbiamo prepararci a una Operazione Piombo Fuso 2, a Gaza, dove nelle scorse settimane ci sono stati, seguendo la cronologia, raid aerei israeliani, razzi delle fazioni armate, raid aerei israeliani, tregua tra le fazioni palestinesi, raid aerei israeliani, colpi di mortai palestinesi. In entrambi i casi, ci sono due convitati di pietra. Israele e le Rivoluzioni arabe.


Provo a spiegare perché. Da circa tre mesi Gerusalemme non è più il centro del mondo. Il conflitto israelo-palestinese non è più il catalizzatore delle tensioni geopolitiche regionali. È un perdurante conflitto locale con le sue 'regole' e il suo tragico equilibrio. Le Rivoluzioni arabe, però, hanno pesato e stanno pesando moltissimo. Il tragico equilibrio decennale è stato travolto dalla tempesta politica e sociale che continua ad attraversare tutti i paesi arabi, nessuno escluso. L'establishment israeliano non sa più dove si trova, quali sono le nuove regole che verranno scritte, chi saranno i nemici, gli avversari, i potenziali attori con i quali trattare. È come se, in una ricetta di cucina, si dovesse reinventare tutto perché gli ingredienti e le dosi sono tutti – ripeto: tutti – cambiati.


I palestinesi stessi sono stati travolti. Come società araba, che sente il vento del "potere al popolo", e che della tempesta rivoluzionaria fa parte. Come politica, costretta dalla tempesta a dare risposte che prima ha voluto negare, rinviare sine die. Anzitutto, sulla riconciliazione tra Fatah e Hamas. E se la società e la politica palestinese sono travolte, è evidente che questo inciderà sul conflitto con Israele. Risultato: stanno saltando le regole del conflitto stesso. Rimangono gli attori, Israele e Palestina. Ma è come se si dovesse riempire i rispettivi involucri di altre categorie, altri parametri, altre interpretazioni. Nebbia, nient'altro che nebbia. Una nebbia in cui può succedere di tutto, dalla strategia della tensione a una nuova guerra.


Nelle scorse settimane, i segnali che qualcosa di violento stia covando si stanno sommando come quando si vedono i segnali di un terremoto. I cani abbaiano, gli uccelli volano bassi, l'aria è stagnante, quasi grigia. Non è però con la solita via militare alla soluzione dei problemi che si uscirà dalla nebbia. Neanche questa volta. Soprattutto, neanche questa volta.


Il dossier della riconciliazione è parte importante, se non determinante, di questa nebbia. Stavolta le cose sembrano più serie di prima, per arrivare a una riconciliazione tra Fatah e Hamas. Abu Mazen stavolta la vuole sostenere. Hamas è divisa, ma potrebbe essere spinta a farla. E soprattutto l'Egitto non è quello di prima. Fuori scena (ma dove?) Omar Suleiman, gli egiziani vogliono la riconciliazione, anche perché non vogliono Gaza. Quanto, però, la riconciliazione piace a Israele. Non molto. Anzi, per niente, a giudicare anche dalle dichiazioni di questi ultimi giorn. Ma la riconciliazione ha bisogno di più spazio, anche su questo blog. Ne parlo nei prossimi giorni, dopo la visita (di oggi) di Abu Mazen al Cairo.


La foto rivisitata da Guebara, è presa dal suo album su Flickr, Support the Revolution.

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Published on April 07, 2011 13:09

April 6, 2011

Rabbia, dolore e….


Non so quanti si sarebbero attesi così tanto sommesso clamore, canalizzato attraverso il web, per l'uccisione di Juliano Mer Khamis. Un clamore silenzioso, una rabbia diffusa e allo stesso tempo contenuta, l'amaro in bocca per quel gesto insano e per quello che la morte di un uomo a suo modo esemplare significa per coloro che restano. Come scrive oggi Amira Hass, su Haaretz, tocca solo a chi l'ha conosciuto – Juliano Mer Khamis – il compito di parlarne. Agli altri tocca il compito di parlare del suo esempio.


E allora, suggerisco solo quache link, il giorno dopo la tumulazione del direttore del Teatro della Libertà di Jenin, del figlio di Arna Mer, dell'attore arrabbiato, dell'uomo al 100% ebreo e al 100% palestinese. E comincio con l'articolo appassionato di Amira Hass, un viaggio che credo in parte autobiografico attraverso una rabbia che è difficile narrare e catalogare. Un articolo da leggere, forse più di altri. La cronaca di Selim Saheb Ettaba, su Maannews. racconta il giorno dopo l'uccisione di Julian Mer Khamis a Jenin, lo sconforto, le indagini…


Facebook ha poi cominciato a mettere assieme coloro che vogliono ricordare il direttore del Freedom Theatre. Da una di queste pagine è tratta la foto che ho scelto, scattata durante la marcia che a Ramallah si è svolta ieri. A Haifa, invece, i funerali e la tumulazione a Ramot Menashe.


In molte parti del mondo si pensa a come ricordare Juliano Mer Khamis, e il modo più semplice – e anche più drammatico, se si vuole – è la proiezione del documentario che dedicò a sua madre Arna, e a quei ragazzi, a quella generazione perduta che Arna Mer cercò di aiutare. Un modo – la proiezione di Arna's Children - che considero anch'io il migliore, per narrare molto. Di Julian Mer Khamis, di Jenin, e anche di una parte di Israele ora negletta che lo stesso Juliano Mer Khamis rappresentava a suo modo, quella che la stessa Amira Hass racconta oggi. In onore al loro coraggio, e al loro amore per la verità.

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Published on April 06, 2011 09:13

April 5, 2011

RIP Juliano Mer-Khamis


Una notizia brutale, per il gesto, per il contenuto, per tutto. Una notizia arrivata in un pomeriggio freddo di uno strano aprile, freddo come non mai. Addirittura piovoso. "Un attore è stato ucciso all'entrata del campo profughi di Jenin." Un attore, a Jenin, la sede del Freedom Theatre. Il teatro dei ragazzi di Arna. Un gioiello, un unicum in tutti i Territori Palestinesi. Poi il nome: Juliano Mer Khamis. L'anima del teatro di Jenin.


Israeli actor and political activist Juliano Mer-Khamis, 53, was shot dead on Monday outside a theater which he founded in a refugee camp in the West Bank city of Jenin.


Jenin police chief Mohammed Tayyim said Mer-Khamis was shot five times by masked Palestinian militants, but that Israeli security forces were still investigating the circumstances of his murder. A Palestinian ambulance took his body to a nearby checkpoint to be transferred into Israel.


Una notizia terribile, per il destino di un uomo che a quel campo profughi e a quel teatro aveva dato tanto. Il figlio di Arna, figlio dell'amore tra una donna israeliabna ebrea e un palestinese. Su, a Nazareth.  Notizia terribile anche per tutto ciò che rappresenta. Che essere coraggiosi e liberi non vuol dire avere su di sé una sorta di corazza, di immunità dalla violenza assurda. Che far nascere qualcosa di bello significa anche dare molto fastidio, come mi ha confermato oggi pomeriggio un collega che ne sa molto più di me: Juliano Mer Khamis   era stato minacciato di morte più volte, scrivono anche i giornali israeliani online. Il suo lavoro dava fastidio a molti, come spesso fa la cultura. L'anno scorso aveva rappresentato in teatro La fattoria degli animali, di George Orwell. Un testo politico come quello non poteva non fare male, non dare fastidio.


Non lo avevo mai incontrato, in questi sette anni. Ma del suo lavoro ho saputo ciò che bisognava sapere. Che era un buon lavoro. E il suo viso è quello che ho visto in Arna's Children, il film dedicato a sua madre, che tentò di salvare una generazione di ragazzi e di bambini insegnando loro il teatro. A Jenin. Quella stessa Jenin, quello stesso campo profughi in cui è ambientato il romanzo di un'altra donna che ha lavorato per i bambini, Susan Abulhawa. Strana, la vita. Dentro quel campo profughi sono stati immersa da ieri, perché immersa nella lettura del romanzo della Abulhawa, Mornings in Jenin. E da Jenin, oggi, arriva una notizia che è come uno squarcio.


Questo posto indurisce come la pietra di Al Khalil. E diventa duro anche chiedersi perché.


Here is the message issued by the Board of Management of The Freedom Theater


The Jenin City, Jenin Camp, Palestinian Culture and Freedom Children have lost a martyr of great humanity Juliano Mer-Khamis who was killed by black betrayal buletts by an unknown murderer.


Juliano represented a model of someone who caused for freedom, culture and human values. He was one of the cultural resistance symbols in our society.


We are very sorry that the end of his life had place in the exact place where he started it,  but it was what life wanted: and now we must keep Juliano and his works, creations and beloved ones, keeping him alive always in our hearts. The Freedom Theatre will always stay the symbol for Freedom that Juliano has provided his soul on his slaughter.


"They were the betrayal bullets when they were shot, almost apologizing if they saw your eyes" . Juliano, you deserve our loyalty to you and your mother, your children, wife and we will keep alive your immortal artistic message.


All the people that loved you and your students will always remember your art and your values forever, and let your name continue to be part of the Palestinian Culture.


E questo è un passo del breve ma intenso articolo che Gideon Levy ha dedicato a Julian Mer Khamis e al suo coraggio, oggi su Haaretz:


I first saw Mer-Khamis in another time and another place. It was in the late 1980s, when he stood for a number of days in the front yard of the Israel Fringe Theater festival in Acre, his naked body dipped with oil as part of a one-man show that knew no end. Years later I caught "Arna's Children," a brilliant film which he co-directed with his dying mother, Arna Mer, the founder of the theatre in Jenin and the daughter of the doctor who cured malaria in Rosh Pina. It is arguably the most moving film ever created about the Israeli occupation.


Since then, I have met him on numerous occasions, always in the camp. This tall, strapping, handsome man who oozed charisma, a Jew and an Arab on account of his parents – perhaps a Jew in the eyes of the Arabs and an Arab in the eyes of the Jews – decided to devote his life to Jenin, where he lived as an Israeli and as a human being. One of the most talented theater actors to ever emerge here was also the most courageous of them.

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Published on April 05, 2011 05:30

April 4, 2011

Con il Libraio di Gerusalemme – Update


Questo post necessita un aggiornamento. Da quando l'ho scritto, sabato scorso, le firme alla petizione per consentire a Munther Fahmy di rimanere nella sua città natale sono aumentate di oltre cento nomi. La petizione è poco sotto quota 2000, e molte firme sono arrivate, in questo fine settimana, dall'Italia. Un dettaglio che mi fa molto piacere, perché so di aver contribuito, nel mio piccolo, al sostegno alla piccola libreria dell'American Colony. Vorrei, anzi, che a Gerusalemme est ve ne fossero più di due, di librerie. Più di due, di centri di cultura, di luoghi di scambio, di posti dove i libri e la cultura sono pane per il pensiero. Non si dovrebbe aver paura dei libri, né degli uomini e delle donne. Vi aggiornerò su quello che succede, a est della Linea Verde. Intanto, grazie.


Il Guardian, ieri, ha dedicato a Munther un lungo articolo.


Munther Fahmy è solo uno dei tanti. E se si vuole, con tutta la carica paradossale che una frase del genere può avere, uno dei più fortunati. Uno di quelli che, a oggi, ha ottenuto oltre 1800 firme di sostegno, alcune molto pesanti, come quelle di Amos Oz, David Grossman, e Ian Mc Ewan. Sostegno per cosa? Per non essere privato della possibilità di risiedere e lavorare a Gerusalemme – sua città natale – con un visto turistico. Lo stesso visto turistico che si fa rinnovare dal 1993 a oggi, nonostante lui – Munther Fahmy – sia palestinese, sia nato a Gerusalemme, appartenga a questa città così come questa città è parte integrante della sua storia e della sua cultura. E l'ultimo visto turistico che hanno apposto sul passaporto di Munther scade proprio oggi, 2 aprile. Visto turistico, e non visto di lavoro, come quello che invece può essere concesso agli stranieri che vengono a Gerusalemme, a esercitare la loro professione.


Padre preside di scuola, madre insegnante,  Munther Fahmy è nato e ha studiato a Gerusalemme, per poi trasferirsi negli Stati Uniti dove si è laureato. Tutto il contrario dello stereotipo (stereotipo, non realtà…) del palestinese, che vige in Italia. E' stato privato della blue ID, che attesta per le  autorità israeliane la residenza permanente di un palestinese a Gerusalemme est, perché per sette anni ha vissuto all'estero. Lo stesso destino e lo stesso trattamento ricevuto da una schiera numerosa di palestinesi di Gerusalemme, che non hanno più per questi  motivi la blue ID, né – spesso – possono  mettere più piede nella loro città natale.


Per chi vive in città, Munther è semplicemente il Libraio, il Libraio di Gerusalemme. Non solo perché ha la sua piccola e fornitissima libreria in uno dei posti più magici e neutrali di Gerusalemme, l'American Colony. Ma anche perché la sua presenza – così come quella di Imad Muna, con  il suo Educational Bookshop, a poche centinaia di metri di distanza – fa sì che Gerusalemme est non muoia. Soprattutto dal punto di vista del tessuto culturale, sociale, morale.


Un libraio è importante, lo sappiamo tutti. Perché i libri cambiano la vita, incidono sulla politica, rompono gli stereotipi. E' per questo che Munther fa così paura?


Per firmare la petizione a favore di Munther Fahmy, la petizione che chiede che Munther possa rimanere a Gerusalemme, basta fare un clic, e firmare la petizione online.


La foto è tratta dal sito del Palfest, Il Festival letterario (itinerante) che anche quest'anno porterà autori in genere anglofoni (l'anno scorso c'erano americani, britannici, indiani, ma anche scandinavi, a dire il vero…) in città palestinesi o con una forte comunità palestinese, da Gerusalemme (est) a Nablus, da Nazareth a Ramallah e Betlemme. Anche quest'anno, verso la primavera: dal 15 al 20 aprile.

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Published on April 04, 2011 10:36

April 2, 2011

Con il Libraio di Gerusalemme


Munther Fahmy è solo uno dei tanti. E se si vuole, con tutta la carica paradossale che una frase del genere può avere, uno dei più fortunati. Uno di quelli che, a oggi, ha ottenuto oltre 1800 firme di sostegno, alcune molto pesanti, come quelle di Amos Oz, David Grossman, e Ian Mc Ewan. Sostegno per cosa? Per non essere privato della possibilità di risiedere e lavorare a Gerusalemme – sua città natale – con un visto turistico. Lo stesso visto turistico che si fa rinnovare dal 1993 a oggi, nonostante lui – Munther Fahmy – sia palestinese, sia nato a Gerusalemme, appartenga a questa città così come questa città è parte integrante della sua storia e della sua cultura. E l'ultimo visto turistico che hanno apposto sul passaporto di Munther scade proprio oggi, 2 aprile. Visto turistico, e non visto di lavoro, come quello che invece può essere concesso agli stranieri che vengono a Gerusalemme, a esercitare la loro professione.


Padre preside di scuola, madre insegnante,  Munther Fahmy è nato e ha studiato a Gerusalemme, per poi trasferirsi negli Stati Uniti dove si è laureato. Tutto il contrario dello stereotipo (stereotipo, non realtà…) del palestinese, che vige in Italia. E' stato privato della blue ID, che attesta per le  autorità israeliane la residenza permanente di un palestinese a Gerusalemme est, perché per sette anni ha vissuto all'estero. Lo stesso destino e lo stesso trattamento ricevuto da una schiera numerosa di palestinesi di Gerusalemme, che non hanno più per questi  motivi la blue ID, né – spesso – possono  mettere più piede nella loro città natale.


Per chi vive in città, Munther è semplicemente il Libraio, il Libraio di Gerusalemme. Non solo perché ha la sua piccola e fornitissima libreria in uno dei posti più magici e neutrali di Gerusalemme, l'American Colony. Ma anche perché la sua presenza – così come quella di Imad Muna, con  il suo Educational Bookshop, a poche centinaia di metri di distanza – fa sì che Gerusalemme est non muoia. Soprattutto dal punto di vista del tessuto culturale, sociale, morale.


Un libraio è importante, lo sappiamo tutti. Perché i libri cambiano la vita, incidono sulla politica, rompono gli stereotipi. E' per questo che Munther fa così paura?


Per firmare la petizione a favore di Munther Fahmy, la petizione che chiede che Munther possa rimanere a Gerusalemme, basta fare un clic, e firmare la petizione online.

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Published on April 02, 2011 08:36