Paola Caridi's Blog, page 112

May 25, 2011

Da Washington ad at-Tuwani


La grande politica si può vedere da Washington, oppure da at-Tuwani, un paesino palestinese delle South Hebron Hills, da anni a rischio 'estinzione', nel senso che la pressione dei coloni sul villaggio, sui suoi abitanti, e sui bambini che debbono andare a scuola è diventato un simbolo della vita quotidiana in molte zone della Cisgiordania. Persino Tony Blair, l'inviato speciale per il Medio Oriente del Quartetto, lo ha visitato,  l'anno scorso.


La grande politica che condiziona il Medio Oriente, dunque, la si può vedere da due prospettive diverse, molto diverse tra di loro. Me l'ha stranamente insegnato un film con Robin Williams, che parlava di tutt'altro, di un malato di mente. E da at-Tuwani la preoccupazione di Netanyahu, che i confini del 1967 non siano difendibili, assume un sapore tutto speciale, un sapore per il quale ci si chiede se sia più difendibile Israele quando si penetra così a fondo in Cisgiordania. Se per esempio Psagot, la colonia che sta proprio di fronte, a due passi da Ramallah, sia più difendibile di Tel Aviv. Se lo sia Bet El, o Kiryat Arba, tanto per citare alcuni degli insediamenti più vicini alle più importanti città palestinesi, Ramallah o Hebron (Al Khalil).


Torniamo, però ad at-Tuwani, che ha ricevuto per l'ennesima volta la visita dei soldati israeliani, stavolta assieme a membri dell'intelligence. Il problema – dicono quelli del Christian Peacemakers Team, che assieme ai volontari italiani  aiutano gli abitanti del villaggio – sembra fosse la resistenza nonviolenta. Interessante, vero? Il problema non è Hamas, non è il terrorismo, bensì la resistenza nonviolenta, che è la novità degli ultimi anni, tra i palestinesi. A Bil'in, a Nabi Saleh, a Beit Ummar, ad at-Tuwani, dovunque la comunità locale si è organizzata per reagire, al muro, al furto della terra, agli attacchi dei coloni. La resistenza non violenta fa paura, sembra.


Questo è il resoconto degli internazionali, a Tuwani:


Intelligence personnel also interrogated villagers about recent demonstrations and direct actions carried out by the community, and demanded that Palestinians cease their nonviolent resistance. "Do you want to become the father of a martyr?" They asked one of the village leaders, hinting that the occupation forces might retaliate on his children.


Neither soldiers nor intelligence officers gave any reason for the military operation and the prolonged interference in people's privacy and security. When asked why they were in the village the armed men responded only "It's our job." Agents also requested that internationals refrain from taking any pictures of the unfolding events but presented no warrants or identification. The intelligence personnel threatened to call the police to arrest the internationals. The operation lasted over two hours.


Questo è solo un esempio di quello che succede lontano da Washigton e dal Congresso americano, i cui deputati sono sempre così sorridenti. E prima che qualche politico italiano, un giorno, mi venga a dire che nessun analista – però – ha mai detto niente o previsto niente o capito niente di quello che succede in Medio Oriente, comunico che sulla resistenza nonviolenta palestinese è già uscito più di qualche libro. Tanto per pura conoscenza personale…


E infine, visto che dal 28 maggio sarà in scena l'Antigone palestinese tra Gerusalemme e Ramallah, qualche verso – che ci sta molto bene – di Mahmoud Darwish (in traduzione francese…), citato dagli organizzatori della pièce per spiegare il legame tra il dramma di Antigone e quello che succede da queste parti, tra la terra e l'umanità. Ci sta proprio bene.


« J'ai choisi d'être un poète troyen. Je suis résolument du camp des perdants. Les perdants qui ont été privés du droit de laisser quelque trace que ce soit de leur défaite, privés du droit de la proclamer. J'incline à dire cette défaite ; mais il n'est pas question de reddition ».


Sono risolutamente nel campo dei perdenti…

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Published on May 25, 2011 05:34

May 24, 2011

Musulmano. Si dice musulmano…


Citazione del presidente del Consiglio dei ministri italiano, nella sua veste di leader del suo partito politico. "Alla vigilia dell'Expò 2015, Milano non può diventare una città islamica, una zingaropoli piena di campi rom e assediata dagli stranieri a cui la sinistra dà anche il diritto di voto".


Si dice "musulmana", non "islamica".  Il vocabolario è un oggetto non solo interessante, ma anche utile. Se, invece, "islamico" deve avere quel non so che di negativo, perché gli italiani (cattolici, soprattutto) ne abbiano paura, beh, l'uso del termine "islamico" invece del più corretto "musulmano" è una pratica che dura da molti anni nella stampa italiana. Un uso che ha trasformato ormai una fede in una posizione politica, una religione in un mostro da combattere.


Complimenti, ai politici e alla stampa italiana. E' il motivo per il quale sono rimasti sorpresi e senza parole quando hanno scoperto che a sud e a est del Mediterraneo, dove avevano scritto hic sunt leones, c'erano ragazzi del tutto diversi dalla descrizione stereotipata che ne avevano fatto per almeno dieci anni.  E sono stati (lo sono ancora…) travolti dalle rivoluzioni.


Non paghi, visto che non si riesce a usare altri strumenti politici, usano – a destra – lo spauracchio "islamico". "Islamico", non "musulmano".


Ah, nel frattempo, così come la destra non si è accorta (è stata incapace di farlo, d'altra parte come la sinistra…) di quello che i ragazzi arabi facevano al Cairo, a Tunisi, e via elencando, non si accorge neanche di quello che dicono i ragazzi musulmani di Milano, spesso nati a Milano ma purtroppo senza la cittadinanza italiana, forse più italiani di altri, o comunque italiani e basta. Basterebbe leggere i loro commenti su Facebook, sentirli parlare, fare politica, per scoprire che molti di loro difendono i diritti più di qualche deputato che cita Al Qaeda… Per esempio non sono omofobi, lo sapevate? Militano anche dentro la Sel, lo sapevate? Ah, forse è proprio per questo che fanno paura. Meglio etichettarli. "Islamico" fa più comodo di "musulmano".

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Published on May 24, 2011 07:28

May 23, 2011

Le date che contano


Ci sono anniversari che contano più di altri, perché non si può essere sempre equanimi, come usava dire un mio caro amico che ora non c'è più. Ci sono giorni che non si dimenticano, e che non bisogna dimenticare, che ci si occupi di politica, di botanica o di relazioni internazionali. Ieri sera mi sono vista il film per la televisione dedicata a Giovanni Falcone e alla procura di Palermo di quei tempi. E' stato un viaggio in un'Italia e in una Sicilia e in una Palermo che sembrano lontane mille miglia. Quella teoria infinita di morti ammazzati, di servitori dello Stato ammazzati mi ha fatto tornare in gola la nausea per quello scandaloso manifesto apparso a Milano, quello che metteva magistrati e BR sullo stesso piano. Vergogna! E' l'unica parola che mi è venuta, quando è cominciata la teoria dei nomi degli uomini che sono stati ammazzati dalla mafia, appena hanno provato a rompere quel gioco terribile e perverso della collusione tra poteri. Il giudice Costa, Rocco Chinnici, Ninni Cassarà, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, e poi il giudice-ragazzino, Rosario Livatino, e poi Paolo Borsellino, Giuseppe Fava, Peppino Impastato, Pio La Torre e l'agente Mangano che lo accompagnava. Solo alcuni nomi, per tutti i nomi.


C'è un ricordo a cui tengo molto, legato a queste lapidi attraverso le quali si visita Palermo, come dice con il suo solito tenero sarcasmo il mio amico Roberto Alajmo. Ero a Palermo, con la famiglia, e ci rubarono il passaporto in pieno centro. Il tempo di rimanere delusi, un po' tristi, ed ecco lo squillo sul telefonino. "Mi scusi, sono un agente del commissariato Libertà. Abbiamo trovato il portafogli. Anzitutto mi scuso per aver frugato, ma era l'unico modo per rintracciare il suo numero. Un cittadino lo ha portato qui da noi. Potreste venire a ritirarlo?" Commissariato Libertà, noto a chi s'occupa di mafia, lungo la strada un altro ricordo, quello dell'uccisione del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e di sua moglie. L'agente aveva nella guardiola alcune foto appese. Poche, ma bastanti. Tra le foto, quella di Emanuela Loi. Mio figlio, piccolo e curioso, chiede all'agente chi è quella signora. "Un'amica. Un'amica che non c'è più." Il poliziotto non voleva traumatizzare il bambino con quelle storie, con quel sangue, ma mio figlio non ha smesso di chiedere. E lui ha dovuto dire la verità, che era morta, con una delicatezza che non dimenticherò mai, e di cui gli sono grata. Toccò poi a noi genitori spiegare come quella poliziotta, l'amica di quel poliziotto, era stata uccisa. Faceva parte della scorta di Paolo Borsellino.


Ci sono giorni, ci sono date che non si possono dimenticare. Oggi è il 23 maggio 2011, 19 anni dopo la strage di Capaci. Ci sono date che fanno un paese. Lo rendono grande, se quei giorni rimangono stampati nella memoria di ciascuno e nella responsabilità individuale. Ne decretano il declino, se quella memoria si scioglie.

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Published on May 23, 2011 14:39

Là dove la Storia va avanti


Ho sbirciato quello che Barack Obama ha detto ieri, quando si è rivolto all'AIPAC, la sua necessità di spiegare meglio quello che intendeva quando aveva parlato dei confini del 1967, e poi tutto il coté di affermazioni, prima e durante l'incontro con la più importante organizzazione della destra ebraica americana, sul fatto che con Hamas non si può fare la pace, e persino che l'accordo tra Hamas e Fatah è un ostacolo, a un processo di pace che – a dire il vero – ha perso la strada.


Ho sbirciato, e ho immediatamente deciso che era meglio occuparsi d'altro. Della Storia che va avanti, da queste parti, oltre i discorsi, le riconsiderazioni, le strategie a tavolino che sanno di vecchio, di molto vecchio.


Allora, facciamo un giro tra le cose che qua e là succedono, quelle che riguardano il mondo arabo. Cominciamo dal  Marocco? Eh sì, dobbiamo cominciare dal Marocco, dal paese meno considerato in questa incredibile primavera araba. Eppure, i ragazzi marocchini hanno cominciato a manifestare il 20 febbraio. Anzi, si  definiscono quelli del Movimento del 20 febbraio. Ieri sono scesi di nuovo in piazza, a Casablanca, a Tangeri, a Fez, ad Agadir, nella capitale Rabat volevano addirittura restare lì, di fronte al parlamento, sulla falsariga della grande esperienza di Tahrir e della nuova (e vicinissima) esperienza di Puerta del Sol.


Reazione della polizia marocchina: la stessa usata dalle polizie dei regimi arabi, bastonate sulla testa e sul corpo, decine di feriti. E un Movimento che, però, non si ferma per i bastoni. Per saperne di più, (r)umori del Mediterraneo di Jacopo Ganci continua a fare un ottimo lavoro, spiegando i dettagli di una rivolta invisibile e dando un volto a chi la sta facendo.


Torno per un momento più a est, alla Palestina e ai palestinesi. Intanto, perché ha finalmente un volto  l'uomo che ha dato i Palestine Papers ad Al Jazeera, e le motivazioni di Ziyad Clot sono sul solco di quello che sta succedendo nel Secondo Risveglio Arabo, di cui Clot fa parte, mi sembra, a pieno titolo:


I feel reassured that the people of Palestine overwhelmingly realise that the reconciliation between all their constituents must be the first step towards national liberation. The Palestinians from the West Bank and the Gaza Strip, the Palestinians in Israel and the Palestinians living in exile have a future in common. The path to Palestinian self-determination will require the participation of all, in a renewed political platform.


Nel frattempo, mentre in America si usa il vecchio vocabolario, a Mosca si incontrano in terreno neutro Fatah e Hamas, per superare le distanze e costruire un governo. Non è un caso, mentre la Turchia fa capire che è all'interno di questa storia, e che non c'è niente che è come prima: la Turchia può far parte del gruppo di paesi che sorveglia la riconciliazione perché l'Egitto – dice Azzam el Ahmed, il capo negoziatore di Fatah – è il nuovo Egitto, e dunque non si fanno più concorrenza, non si elidono a vicenda. Non è poco.


Ah, segnatevi anche un'altra data, in questo meraviglioso calendario arabo del 2011 fatto di giorni, di date, di tag, di appuntamenti, di flash mob e di creatività. Il 17 giugno in Arabia Saudita. Difficile, certo, che sia voi sia io riusciremo a esserci, ma i sauditi ci saranno. Uomini e donne. Siccome si sono arrabbiati per l'arresto di Manal, la donna che ha sfidato il divieto di guidare imposto alle donne,  hanno deciso che ill 17 giugno sfideranno il divieto. Non solo le donne. Ma anche molti uomini che hanno già detto che guideranno la mmacchina indossando il niqab, il velo integrale imposto alle saudite da una casa reale, quella degli Ibn Saud, con cui facciamo affari da tempo, da molto tempo. E sulla quale il centrodestra italiano, mentre grida al lupo, al lupo sull'islam a Milano, non dice nulla. Come mai?


La foto del graffito è presa da likepinkelephant, una blogger marocchina. Seguitela anche su twitter, e così seguirete un po' anche il movimento #20Feb.  E poi un giorno vi (ri)parlo dei graffiti arabi…

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Published on May 23, 2011 07:15

May 20, 2011

Obama e le vecchie ricette


Alla fine, in ritardo, il discorso di Barack Obama sulle rivoluzioni arabe me lo sono letto tutto, parola per parola. Era necessario. Premetto anche che molto è cambiato,  nella mia percezione, dal discorso del Cairo, giugno 2009. Non solo per le rivoluzioni arabe del 2011, ma perché quella schizofrenia che avevo colto all'inizio nell'amministrazione Obama, riguardo alla politica estera, si è risolta pochi giorni fa con la vittoria della linea molto più vicina a Israele e la sconfitta della strategia impersonificata da George Mitchell. George Mitchell, insomma, si è dimesso da inviato speciale per il Medio Oriente della Casa Bianca, e le fonti palestinesi si sono affrettate a dire (credo con più di una ragione) che il senatore se n'era andato sbattendo la porta perché a vincere – in questa tenzone sulla pelle del Medio Oriente – era stato Dennis Ross.


Bene. Questo era lo stato delle cose quando è stato annunciato il discorso di Obama su di un Medio Oriente travolto dalle rivoluzioni, e su di una politica estera americana stravolta da quello che molti intellettuali arabi definiscono il Secondo Risveglio Arabo. E' arrivato il discorso, sul quale non nutrivo – a dire il vero – grandi speranze. Il discorso di ieri, però, è riuscito persino a deludere quelle poche aspettative che avevo. Perché? Anzitutto per il pacchetto economico. Un nuovo Piano Marshall per il mondo arabo. Salvo che non siamo all'indomani di una guerra mondiale, non abbiamo l'orso sovietico di fronte a noi, e soprattutto non è più il caso di considerare gli altri come un salvadanaio in cui mettere i soldi dell'America per continuare ad averceli amici. Investimenti e non più assistenza, commercio, questo ha detto Obama per convincere gli arabi che gli aiuti economici non sono più quelli di prima. Quelli con i quali, per decenni, gli USA hanno sostenuto i dittatori arabi. Poi, tutto d'un tratto quando un ambulante tunisino, col suo sacrificio ricordato in una parte kennedyana del discorso di Obama, cambia le carte in tavola, Washington decide di rivedere la sua politica di assistenza economica in Medio Oriente… Un minimo di scetticismo è d'obbligo, e con tale scetticismo il discorso è stato per esempio accolto al Cairo (ecco il link con un articolo su Al Ahram Online che mette insieme le reazioni molto, molto scettiche degli economisti egiziani), dove si rimprovera agli americani di continuare a non essere neutrali in termini economici, perché si tenta di influenzare il più possibile il corso degli eventi decidendo quali investimenti vanno bene e quali non vanno bene. Tutto come prima, insomma, direbbe il Gattopardo.


Obama reagisce a un terremoto di proporzioni incredibili proponendo, dunque, una ricetta vecchia. Non credo ci si potesse attendere altro dai suoi consiglieri, che mi sembrano decisamente legati a un modo vecchio e molto poco creativo di guardare al Medio Oriente e soprattutto al mondo arabo. I tentativi, nel discorso, di cambiare passo e di far vedere che Washington ha capito la lezione mi sono sembrati tardivi, troppo prudenti, e legati a un modo vecchio di far politica estera. E a conferma dell'anacronismo della politica estera americana è arrivato il lungo brano del discorso dedicato a Israele e Palestina. Due Stati, due popoli, i confini del 1967 (quelli sì, finalmente rimessi dentro il discorso di un presidente degli Stati Uniti). Buone parole, persino qualche coraggiosa critica a Israele sulle colonie (salvo il fatto che la risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu proprio sulle colonie non è passata per il veto americano…). Ma dov'è la sostanza? Dove la novità? Dove il cambio di passo? La Palestina non può essere Stato, a settembre all'Onu. Niente da fare, non passerà. Israele deve fare passi seri verso la pace, dice Obama, in un passo del discorso dedicato evidentemente a Netanyahu e alla sua coalizione di governo. E allora? Di nuovo, dov'è la novità? A Gerusalemme, a Gerusalemme ovest ma soprattutto a Gerusalemme est, di parole se ne sono sentite tante, per decenni. Ora non le si ascolta neanche più. Il discorso di Obama non cambia nulla nella geometria politica israelo-palestinese. Quella che è invece cambiata è la geografia politica, le sue categorie e le richieste che vengono dal basso, soprattutto da parte dei palestinesi, che non sono fuori dal contesto delle rivoluzioni arabe.


E' da lì, dalla nuova geografia politica, che credo sia necessario ricominciare. Noi analisti, gli europei, e pure Obama e il suo staff che farebbe meglio a sciacquare i panni nel Nilo e nei pochi fiumi che percorrono il Medio Oriente e il Nord Africa. La geografia politica palestinese, per esempio, è tanto cambiata da aver posto – paradossalmente – non lo Stato di Palestina (quello che forse verrà votato dall'Assemblea dell'Onu a settembre) al centro della discussione. Quanto i palestinesi. Tutti i palestinesi. Quelli di Cisgiordania, Gaza, e Gerusalemme est. Quelli del 1948, dentro Israele. Quelli dei campi profughi. Quelli della diaspora. A loro, alla loro richiesta di identità collettiva che va oltre i confini e i nazionalismi geografici, cosa si risponde? E' qui, in questo, che il discorso di Obama è stato deficitario. Vecchi modelli, vecchia politica, vecchie risposte ormai inutili perché deficitarie.


A proposito di Palestina e palestinesi, grazie a invictapalestina su YouTube ci sono lunghi brani dell'incontro che ho moderato al Salone del Libro di Torino con Sari Nusseibeh, Ilan Pappe e Jamil Hilal. Prima, seconda, e terza parte. Grazie a Rosario.

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Published on May 20, 2011 10:48

May 15, 2011

#May15: il tag di una "giornata particolare"


Nessuno aveva dubbi – tra gli israeliani, tra i palestinesi, tra gli arabi – che il 15 maggio 2011 sarebbe stata una giornata particolare. Nascita di Israele, e parallelamente la commemorazione della Nakba, della "catastrofe" palestinese, la fuga sotto la paura di essere ammazzati di 750 mila palestinesi dalle loro case, i loro villaggi, la loro storia, la loro terra. Che sarebbe stata una giornata particolare, oggi, lo si sapeva da settimane. Le rivoluzioni arabe hanno abituato a questa "chiamata" attraverso l'indicazione di una data precisa. La data  precisa era il Nakba Day, 15 maggio, la decisione – comune da nord a sud – era quella di un gesto eclatante: andare ai confini, per dire che quei confini rappresentano ciò che va ridiscusso. La fine dell'occupazione, il diritto al ritorno per i palestinesi, una identità palestinese che si riappropria di una geografia che non è limitata a (un pezzo di) Cisgiordania e a una Striscia di Gaza chiusa da tutti i lati.


Strano Nakba Day, insomma. Non solo le manifestazioni dei palestinesi di Israele, ma i palestinesi a Qalandiya, a Ramallah, al Muro che impedisce loro di andare a Gerusalemme. E poi – per la prima volta – palestinesi alla frontiera tra Libano e Israele, e palestinesi e siriani sul Golan. Infiltrati, li hanno chiamato le autorità israeliane, riferendo sulla reazione durissima delle forze armate  di Tel Aviv. Molti i morti, sia lungo il confine libanese, sia sul Golan occupato dal 1967. Moltissimi i feriti, come molti i feriti a Qalandiya e a Erez, al valico tra Gaza e Israele. Una decisione, quella di manifestare lungo i confini, che ancora una volta conferma quanto questo 2011 stia cambiando parametri, comportamenti, strumenti politici. Mai, negli ultimi anni, era successa una cosa del genere. Mai si era preparata in così poco tempo, e con questa partecipazione, una dimostrazione così diversa dal solito. Le rivoluzioni arabe, insomma, sono arrivate ai confini. E questo cambia molto.


Questo 15 maggio l'ho passato, invece, a Torino, con grande gioia. Perché è stato un vero piacere vedere quanto, ancora una volta, il pubblico sia migliori di quanto l'Informazione pensi. E' stato un piacere presentare di fronte a una sala piena al Salone del Libro un romanzo come quello di Susan Abulhawa, Ogni Mattina a Jenin, pubblicato da poco più di un mese da Feltrinelli. Affresco con le pennellate tipiche di una mano e di uno sguardo femminile, grande racconto del dolore palestinese, ma anche dell'amore, della passione e della terra. Così come è stato un gran piacere moderare un dibattito molto  poco 'italiano' e  molto interno, come quello tra Sari Nusseibeh, Jamil Hilal, Ilan Pappe. Oltre la soluzione dei 2 Stati, considerata impossibile da tutti quanti, la discussione è stata sul futuro possibile, sulle nuove coordinate imposte dalle nuove generazioni palestinesi, e soprattutto su di una identità palestinese che non può rimanere confinata all'interno dei territori dell'ANP. Confini, ancora una volta. Perché l'identità palestinese si riappropria di una geografia che va oltre i confini di Oslo e di una retorica della pace che non risponde più alle richieste di oggi.


Da ultimo, una piccola parentesi egiziana: il ministro degli esteri egiziano Nabil el Arabi è appena stato designato nuovo segretario generale della Lega Araba. Promoveatur ut amoveatur? Stay tuned, soprattutto ora….


La foto è solo una delle tante, tantissime che descrivono le manifestazioni di questo particolare Nakba Day che si è concentrato attorno alle frontiere di Gaza, della Cisgiordania, di Israele, tutte – salvo Rafah, nello scatto di Melshamy – controllate dalle forze armate israeliane.

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Published on May 15, 2011 18:22

May 11, 2011

La Palestina…a Torino


Come forse molti lettori già sanno, quest'anno il Salone del Libro di Torino, che inizia domani, ha due paesi ospiti. La Russia. E la Palestina. Saranno presenti al Salone scrittori e intellettuali di valore, e la loro presenza cade, peraltro, proprio a ridosso del 15 maggio, che per i palestinesi è l'anniversario della nakba, della catastrofe. Un anniversario particolare, quest'anno, nel turbinio delle rivoluzioni arabe.


Se volete scorrere tutto il programma, basta collegarsi al sito del Salone. Io sarò al Lingotto venerdì, sabato e domenica, per tre appuntamenti, tra letteratura e attualità.


Ecco il mio programma:


Venerdì 13 maggio, Ore 14, Sala Blu, Scrittori della Palestina, Incontro con Salman Natour. Interviene: Paola Caridi




Sabato 14 maggio, Ore 12, Sala Blu, Il futuro della Palestina, Intervengono: Jamil Hilal, Sari Nusseibeh, Ilan Pappé. Conduce: Paola Caridi. Un incontro che si preannuncia molto interessante, visti gli ultimi sviluppi in casa palestinese, a cominciare dalla riconciliazione tra Hamas e  Fatah…




Domenica 15 maggio, Ore 14, Sala Blu, presento Susan Abulhawa, a Torino in occasione dell'uscita di Ogni Mattina a Jenin (Feltrinelli).


E a proposito di scrittori, è il caso di parlare non solo di occasioni piacevoli come il Salone del LIbro, ma anche degli scrittori in galera. Come Ahmed Qatamesh, in detenzione amministrativa (carcere preventivo, in sostanza…) dal 21 aprile, quando è stato arrestato dalle forze armate israeliane a El Bireh, a Ramallah. Amnesty International ha emesso un duro comunicato per premere sulle autorità israeliane, minacciando di considerare ancora una volta Qatamesh prigioniero di coscienza. Negli anni Novanta, lo scrittore palestinese ebbe il record, per nulla piacevole, del detenuto con il più lungo periodo di detenzione amministrativa sulle spalle.


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Published on May 11, 2011 07:48

May 9, 2011

Non è mica tanto semplice…


C'è la Libia. C'è OBL, che è il modo in cui gli utenti di twitter e non solo 'siglano' il nome di Osama Bin Laden. C'è il tempo che passa e, insomma, mica si può star dietro a tutte 'ste rivoluzioni arabe. Eppure è proprio questo il momento di starci dietro. Quello che sembra un momento di stanca. Perché è proprio lì, dietro l'angolo, che possono succedere cose – per così dire – spiacevoli. Gli scontri a Imbaba, per esempio. Grande quartiere popolare del Cairo, dove tra sabato e domenica la tensione tra musulmani e cristiani ha raggiunto punte talmente alte da scatenare la battaglia più dura, con morti, feriti e centinaia di arresti. A sentire chi è lì, chi ha fatto più di qualche domanda, lo zampino della 'controrivoluzione' c'è tutto. Basta soffiare sul fuoco da una parte (i salafiti), e poi soffiare sul fuoco dall'altra (i copti), ed ecco che è facile accendere un bel falò, con tutto ciò che ne consegue.


Certo, non basta dar la colpa alla controrivoluzione – pezzi del regime, pezzi di imprenditoria, gente che non vuole perdere potere e privilegi, altri che vogliono far capire che la rivoluzione non sarà impresa semplice etc etc – per risolvere la tensione tra cristiani e musulmani. È, questa, la fase più delicata della rivoluzione egiziana, la fase in cui ha buon gioco chi soffia sul fuoco e  dice che 'si stava meglio quando si stava peggio', la fase in cui la crisi economica si fa sentire in maniera più dura (a proposito, spero che le nostre imprese continuino a investire come prima, anche se Mubarak e la sua dittatura sono state sconfitte…). E poi, se proprio vogliamo mettere tutto nel calderone, l'attivismo regionale del Nuovo Egitto non fa certo piacere a tutti: il grande  successo nel mediare la riconciliazione palestinese è la dimostrazione che l'Egitto è tornato centrale, negli equilibri regionali, ma è tornato centrale in modo del tutto diverso rispetto a prima, al tempo di Mubarak e – soprattutto – di Omar Suleiman.


Una regione stravolta dalle rivoluzioni, insomma, non può far piacere a tutti, sia dentro sia fuori dai confini del mondo arabo. Perché gli equilibri precedenti erano stati saggiati, e il caos democratico di oggi può portare chissà dove. Dunque, anche una Siria senza Bashar comincia a suscitare grandi timori. L'International Crisis Group diceva qualche giorno fa che siamo al "punto di non ritorno". Analisi azzeccata: ci sono ormai troppi morti, sulla strada della repressione attuata dal regime di Bashar el Assad. Troppi morti perché si possa tornare indietro: "il popolo chiede che il regime cada", gridano anche a Banias, a Deraa, in tutti i luoghi in cui la rivoluzione siriana sta pagando un alto prezzo di sangue. Mentre il mondo sta a guardare, perché non sa cosa fare.


Così come non sa cosa fare col Marocco. Il Marocco, direte voi? Sì, il Marocco, paese di cui non si parla. O meglio, di cui non si vuole parlare. Paese che arriva alle prime pagine per il sanguinoso attentato nella piazza più famosa del turismo made in Marocco, a Marrakesh, nel bar in cui tutti siamo stati. Per il resto, si tace. Si tace sulle manifestazioni che  si susseguono dal 20 febbraio, e che interessano tutte le grandi città marocchine. Si tace sulla repressione, sulle risposte non date. Meglio  non disturbare il manovratore. Salvo che un giorno, quando la tensione sarà più alta, ci chiederemo come mai, come mai quello che pensavano il laboratorio di un possibile compromesso tra regimi arabi e popolo non ha funzionato (consiglio, in questo caso, la lettura di un blog, quello di Jacopo Granci, che mi sembra l'unico up-to-date su una realtà che a nord del Mediterraneo non si vuole proprio vedere…).


Ho citato Egitto, Siria, Marocco. Ci aggiungo la Tunisia. Per dire che la rivoluzione, nel 2011, si sviluppa secondo alcune linee molto simili (società civile in piazza, donne, richieste profonde di democratizzazione) in particolare nei paesi in cui si è sviluppata una pop culture di tutto rispetto. Dai blog alla musica innovativa, dalle radio private (in Marocco) al cinema (in Siria), passando per letteratura e tutto ciò che riguarda arte, innovazione, cultura giovanile. Là dove questo è successo negli scorsi anni, la rivoluzione trova terreno fertile, uomini e donne pronti a recepire, masse che scendono in piazza.


Abbiamo da imparare….


La foto su twitpic è di Yasmine Perni. Scattata al Cairo. Perché le rivoluzioni sono panarabe…

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Published on May 09, 2011 14:01

May 6, 2011

Dal Cairo al Nuovo Cairo


E' quasi sicuramente involontaria, la data del 4 maggio per la firma della riconciliazione palestinese. Eppure, in questo strano, singolare, travolgente 2011, fatto di date che si sommano a date e che diventano esse stesse simboli, il 4 maggio è nella storia recente egiziana uno di quei giorni pesanti, il compleanno di Hosni Mubarak. Il giorno dei festeggiamenti ufficiali, in pompa magna,  e, in privato, dei bilanci pesanti su quanto la dittatura avesse influito sul singolo individuo egiziano. Poco da festeggiare, insomma. Molto da piangere e recriminare.


Cacciato Mubarak, il 4 maggio diviene il giorno della riconciliazione palestinese. Di nuovo al Cairo. Anzi. Nel Nuovo Cairo. Non è più l'atmosfera dello storico accordo del marzo 2005, quello che spianò la strada alle elezioni politiche palestinesi, all'ingresso di Hamas nell'agorà della rappresentatività istituzionale. Oggi non ci sono più, sul palco, i due protagonisti di allora, da parte egiziana. Senza Hosni Mubarak. Senza Omar Suleiman. E alla guida del ministero degli esteri un uomo che ha già dimostrato che la politica regionale dell'Egitto sarà diversa, perché Nabil el Arabi non è una figura di secondo piano come lo sono stati tutti i ministri degli esteri egiziani dopo le dimissioni  (oltre dieci anni fa) di Amr Moussa.


Ancora una volta, dunque, l'Egitto entra con tutti e due i piedi dentro la casa palestinese, ma le premesse sono esattamente opposte a quelle sulle quali poggiava l'interventismo mubarakiano. L'esempio è proprio la riconciliazione, il dossier più nascosto e meno considerato nell'analisi della questione palestinese degli ultimi cinque anni, eppure il più importante, rispetto a tutti gli altri. Perché la riconciliazione sottende tutto: sottende il caso Shalit e il dossier dei prigionieri, sottende le varie tregue con Israele. E' per questo, perché è così determinante, che Omar Suleiman e Hosni Mubarak lo avevano lasciato in un cassetto, per anni, salvo poi ritirarlo fuori per qualche settimana, addirittura per qualche mese. Il tempo di due o tre incontri, di un documento abbozzato da far girare tra Fatah e Hamas a tempo debito, dire al mondo che la riconciliazione era cosa fatta, che necessitava solo di qualche piccolo dettaglio. E poi, tutto d'un tratto, il fallimento, la doccia fredda, il rinvio sine die. Sino alla prossima scadenza, in cui – per l'ennesima volta – Omar Suleiman ritirava fuori dal cassetto il vecchio abbozzo di documento della riconciliazione….


Tutto documentato, questo rinvio sine die, nei documenti di Wikileaks e anche nei Palestine Papers (è già dentro l'aggiornamento del mio libro su Hamas, in progress…). Con date, scadenze, fallimenti: un estenuante andirivieni sul quale ogni tanto qualcuno dei protagonisti palestinesi reagiva sbuffando. "Se ci lasciassero fare a noi, da soli, senza alcuna ingerenza straniera, noi l'accordo lo avremmo già trovato…"


Chissà se era poi vero, perché il rinvio sine die è stata una pratica comune anche dentro la casa palestinese. Contrastata, a onor del vero, solo da un piccolo manipolo di persone di buona volontà che – osteggiate a più non posso – non hanno smesso di tessere una tela fatta di piccole cose e di piccoli passi, costanti, senza mai abbandonare l'idea della riconciliazione. Quel filo tenue è servito a rimettere in piedi l'impianto della riconciliazione quando i tempi sono stati maturi. E i tempi sono arrivati con quello che è ormai definito il Secondo Risveglio Arabo (dopo il primo, d'impronta nazionalista, a cavallo tra fine Ottocento e seconda metà del Novecento). "Il Secondo Risveglio arabo li ha spinti sulla strada della riconciliazione", mi ha scritto un amico palestinese, una di quelle poche persone di buona volontà.  Lo hanno confermato tutti, da Abu Mazen ad Abu Marzouq.  Niente rivoluzioni, nessuna riconciliazione.


Ora comincia la storia difficile. Non tanto e non solo per il governo dei tecnocrati, per i corpi di sicurezza, per i prigionieri politici. Ma soprattutto, e ancora una volta, per la questione della rappresentatività. Oltre l'ANP, perché ormai i tempi sono diversi, totalmente diversi. Riforma dell'OLP, ingresso di Hamas e delle altre fazioni nell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, e soprattutto rinnovo del suo parlamento, il PNC. Lo stanno chiedendo anche i ragazzi ad Al Manara, a Ramallah, che in questa foto stanno approntando la manifestazione.  E in questo articolo di Noura Erekat su Al Jazeera English è chiaramente spiegato il perché.

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Published on May 06, 2011 14:08

April 28, 2011

I frutti delle Rivoluzioni

Accordo raggiunto in fretta e su tutti i punti all'ordine del giorno, quello siglato ieri al Cairo tra Fatah e Hamas. Governo di transizione, intesa sulla sicurezza e sui prigionieri politici, e tre elezioni da tenere entro un anno. Per il nuovo presidente dell'ANP, per il consiglio legislativo di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est, e anche per il parlamento dell'OLP, che rappresenta tutti i palestinesi, rifugiati compresi.


L'accordo – storico – è stato siglato da due protagonisti del lungo ed estenuante processo di riconciliazione palestinese, il numero due del politburo di Hamas, Mussa Abu Marzuq, e uno dei  membri del comitato centrale di Fatah, Azzam al Ahmed. Entro una decina di giorni, tutte le fazioni palestinesi saranno invitate sempre al Cairo per firmare l'intesa, e saranno soprattutto al Cairo Khaled Meshaal, il capo del politburo di Hamas, e il presidente dell'ANP Mahmoud Abbas. I due governi di Ramallah e Gaza City si dovrebbero dimettere per far posto a un esecutivo di transizione, fatto di tecnocrati, ma senza la presenza – sembra – di Salam Fayyad.


Hamas e Fatah hanno così chiuso con un'intesa su tutti i punti all'ordine del giorno uno scontro che durava da cinque anni, da quando Hamas aveva vinto le elezioni parlamentari palestinesi del 2006, e che si era poi cristallizzato quando Hamas aveva compiuto il coup a Gaza, nel giugno del 2007, assumendo il totale controllo della Striscia.


A segnare la svolta, anche per i palestinesi, sono state le rivoluzioni in corso nei paesi arabi. Il regime di Hosni Mubarak, patron storico di Fatah, aveva insabbiato il processo di riconciliazione, ed è invece stato il nuovo ministro degli esteri egiziano, Nabil el Arabi, a spingere Hamas e Fatah  a mettere la parola fine a cinque anni di divisioni, di violenza, e di sangue. La leadership di Hamas a Damasco, poi, ha mitigato le sue posizioni proprio in contemporanea con la rivolta in corso in Siria contro il regime di Bashar el Assad.


L'immagine che illustra questo post è, non a caso, uno dei loghi della protesta del 15 marzo, in Cisgiordania e a Gaza. As Shab yurid, il popolo chiede, anche in questo caso. Stavolta, però, non chiede tanto la fine dei regimi, di Gaza e Ramallah, ma chiede la fine della divisione tra Cisgiordania e Gaza. E a dimostrazione che le rivoluzioni hanno inciso non c'è solo la frase pronunciata da Moussa Abu Marzouq al Cairo ("le rivoluzioni arabe hanno avuto un ruolo"), ma anche la decisione di inserire, tra le elezioni in programma entro un anno, il rinnovo del Parlamento dell'OLP, il Consiglio nazionale palestinese, dopo la riforma dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina e il conseguente ingresso di Hamas. Il rinnovo del PNC era una delle principali richieste dei ragazzi di Ramallah e di Gaza, perché la questione palestinese, secondo loro, non si limita alla questione dell'ANP, ma rimette in gioco tutto, dal ruolo dei rifugiati a quello dei palestinesi del '48, così come vengono chiamati i palestinesi col passaporto israeliano.


Se l'accordo del Cairo è stato un accordo a sorpresa, così non è stato per le trattative, che vanno avanti da settimane. Non le vecchie trattative, insabbiate costantemente da Omar Suleiman, come confermano anche i documenti di Wikileaks e dei Palestine Papers. Ma le nuove trattative, che hanno visto un andirivieni tra i Territori Palestinesi e il nuovo Cairo uscito dalla rivoluzione del 25 gennaio. La vera cesura è stata la presenza di Nabil el Arabi alla testa del ministero degli esteri egiziano, e dunque una diversa prospettiva regionale: l'Egitto infatti, per la prima volta, ha coinvolto la Turchia nel dossier della riconciliazione palestinese, dopo aver escluso volutamente  e pervicacemente Ankara per anni, nonostante le richieste del governo Erdogan.


Hamas, Fatah, il gruppo di personalità palestinesi indipendenti che si sono recati a più riprese al Cairo hanno segnalato sin dall'inizio che l'atmosfera era cambiata. Non solo in Egitto. Ma anche tra i palestinesi. La pressione dei 'ragazzi' palestinesi, che da settimane hanno già indicato il 15 maggio – anniversario della nascita di Israele e della nakba, della catastrofe palestinese – come la giornata. La Data. Come il 25 gennaio per gli egiziani o il 15 marzo per i siriani. E dopo quello che è successo al Cairo e  sta succedendo almeno in metà della regione, la leadership palestinese sa bene quanto una protesta della società civile, del popolo possa incidere sulle scelte politiche…


I 'ragazzi' palestinesi, dunque, hanno già inciso sulla politica palestinese. Così come ha inciso su Hamas la debolezza di Bashar el Assad e la rivolta nelle città siriane. La stessa sede damascena di Hamas rischia di saltare a seconda di quello che succederà al regime degli Assad, e questo la leadership islamista lo comprende molto bene.


La riconciliazione palestinese, dunque, è filiazione diretta delle rivoluzioni arabe. Ulteriore conferma che tutti i nostri parametri interpretativi stanno saltando. E prima ce ne accorgiamo, meglio sarà.

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Published on April 28, 2011 09:57