Paola Caridi's Blog, page 108

September 10, 2011

Flash

Qualche scatto, qualche link, qualche video, e qualche flash su quello che (di bello) è successo a Mantova. Il pubblico? Moltissimi insegnanti, in una sorta di corso d'aggiornamento di altissimo livello, in piazza, all'aperto, per strada. Un modello che dovrebbe essere esportato, non solo all'estero, ma dentro l'Italia. La fame di pensiero è talmente alta che si rimane sempre stupiti non solo e non tanto dal numero di lettori che si riversano a Mantova, ma dalla qualità delle loro domande e della loro curiosità. C'è un'altra Italia, ed è bella.



Dietro Gad Lerner, i lettori che si sono sopportati un'afa dura, alle tre del pomeriggio, per sentire il lessico delle rivoluzioni.



Quasi lo stesso numero, sotto il peso di un'afa simile, hanno ascoltato il dottor Ala al Aswani e il suo eloquio lento e chiaro.



Dietro Aswani e me, c'è Raf Scelsi, l'editor della Feltrinelli che con la sua solita sapienza editoriale ha curato La Rivoluzione Egiziana (e tutti i miei libri).


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Published on September 10, 2011 12:10

Lo stereotipo si è spezzato


Oggi faccio la lettrice, l'utente del Festivaletteratura di Mantova. Ho finito il mio (entusiasmante) lavoro, la moderazione di quattro incontri, con il carico di impegno che tutto ciò significa. Il pubblico non se n'è accorto (credo), ma la moderazione implica una piccola costruzione, come un piatto da preparare in cucina. Occorre che gli ingredienti siano dosati a dovere, per evitare che il gusto non sia troppo dolciastro, o non ci siano degli stridori. Comunque, mi sembra che gli incontri siano andati bene, e che il pubblico sia stato molto contento.


Gad Lerner e Tahar Lamri sono riusciti a raccontare il cuore delle rivoluzioni, sollecitati da un lessico contenuto. Poche parole, ma evocative. Rivoluzione, Popolo, Cultura, Conoscenza, Lezione. Wael Abbas, uno dei più noti blogger egiziani e arabi, ha mostrato ieri il volto sconosciuto della rivoluzione: il volto di chi sa cosa vuole, senza troppi fronzoli e senza essere così naive come vengono descritti i rivoluzionari. Democrazia, rappresentatività reale, informazione seria. E soprattutto, mai dare per scontata la libertà che si ha.



E poi, ieri pomeriggio, gran finale con la chiacchierata con Ala al Aswani, di fronte ad almeno 500 persone riunite nel grande Cortile della Cavallerizza di Palazzo Ducale. Un bel racconto, tra l'emozione dei 18 giorni di Piazza Tahrir alla descrizione degli egiziani che sono scesi per strada per buttare giù il regime. "I personaggi di Palazzo Yacoubian, di Chicago, di tutti i miei racconti sono andati a Piazza Tahrir. Nessuno di loro, ne sono certo, è rimasto tra le pagine dei libri", ha concluso Aswani. Racconto a  parte, Aswani ha spiegato anche la controrivoluzione, la necessità del processo a  Hosni Mubarak, la necessità di un sistema giudiziario indipendente, eccetera eccetera.


La notizia dell'assalto all'ambasciata israeliana al Cairo pone molte domande, e molti dubbi. I protagonisti di Piazza Tahrir hanno stigmatizzato quello che è successo, sanno che verrà usato contro di loro, per dire che la rivoluzione ha una deriva violenta e fondamentalista. Anche questa, dalle mie parti, si chiama controrivoluzione.



Tornando a Mantova, le centinaia e centinaia di persone che hanno affollato gli incontri con gli scrittori, gli intellettuali arabi mi hanno spiegato, con la loro presenza, che lo stereotipo è stato spezzato. Non in gran parte dell'informazione italiana, ancora. Ma nel pubblico il seme della curiosità è entrato. E gli arabi, adesso, non sono più invisibili.


Mi dichiaro soddisfatta.


Le foto sono di Andres Bergamini. Sul sito di Festivaletteratura, ci sono news, approfondimenti, immagini, video.

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Published on September 10, 2011 07:54

September 8, 2011

Profumo di Thawra

Mantova è un bel modo per cominciare l'anno. Un'Italia nascosta nelle pieghe di un paese in crisi, che si sacrifica, si tassa, e viene ad ascoltare chiacchiere di cultura. Sembra impossibile, a pensarci. Eppure, è il miracolo che ogni anno si ripete lungo i laghi, in una città che riesce a tener vivi palazzi aviti e capolavori artistici mettendo assieme quello che di nuovo e/o di interessante c'è in giro per il mondo.


Sono felice, insomma, di essere di nuovo al Festivaletteratura edizione 2011. E di parlare di rivoluzioni arabe, ora che gli arabi – meno invisibili di prima – stanno riacquistando, nell'immaginario europeo e occidentale ancora sconvolto dalla tempesta appena più a sud delle sue coste, una dignità totalmente perduta. Eppure le domande sono sempre, purtroppo, le stesse: ma come mai le rivoluzioni sono scoppiate così a sorpresa? Il sottotesto è: tutto era stabile e tranquillo… Il giornalismo italiano ed europeo è riuscito veramente a far danni, nella lettura che ha dato della regione mediorientale, tanto da convincere i propri lettori che era tutto normale.


Tutto normale non era, e basta ascoltare la ventina di autori arabi che il Festivaletteratura ha ospitato nelle 14 precedenti edizioni. Sono racconti, parole, colloqui che mettono i brividi. Edward Said qui, già molto malato, che parla della morte. Mahmoud Darwish ed Elias Khouri che riescono a stare insieme per qualche giorno, parentesi strappata alle proprie vite, loro, il più grande poeta e il più grande scrittore, con la Palestina  a fare da ombrello. Fatema Mernissi che porta con sè, nel 2004, gli ex detenuti politici marocchini e spiega già allora ciò che sarebbe successo dopo. Ala al Aswani già qui nel 2006, col suo Palazzo Yacoubian, descrizione dolente del malessere egiziano che avrebbe dato luogo alla rivoluzione.


C'era già tutto, ora raccolto nell'archivio digitale del Festivaletteratura di Mantova. E in pochissimi avevano ascoltato. Non è colpa degli arabi. E' colpa nostra.


Comunque, oggi esce in Italia La rivoluzione egiziana, edizioni Feltrinelli.  E' la raccolta di articoli attraverso i quali  'Ala al-Aswani che descrive, narra e spiega le premesse della rivoluzione del 25 gennaio. Li ho tradotti io, ho curato l'edizione e scritto l'introduzione. E l'introduzione – che ho intitolato Profumo di Thawra – comincia così.


La rivoluzione può essere impalpabile. Come la sabbia finissima che il vento impetuoso del qamasin fa entrare a ogni primavera negli interstizi delle finestre di legno del vecchio Cairo. La rivoluzione può essere un soffio persistente, che continua anche dopo giorni, settimane e mesi da quei giorni eroici, in cui  le masse ondeggianti che hanno riempito Piazza Tahrir, gridando  "Irhal, Irhal". Vattene, vattene. Vattene, dittatore. Vattene, Hosni Mubarak. Lasciaci vivere. La rivoluzione può essere la eco sempre più flebile, col passare del tempo, che reitera all'infinito  quell'urlo possente che ha riempito i diciotto giorni della più grande epopea egiziana contemporanea. Una rivoluzione impalpabile, pervasiva, sussurrata per le strade e le piazze riconquistate dal popolo. Popolo, nome antico, nome che torna, dopo essere stato "manomesso" nel suo significato politico e istituzionale, depredato dal regime trentennale di Hosni Mubarak e della sua corte di oligarchi, torturatori e corrotti,, sempre più arrogante.



La rivoluzione si può ancora sentire nell'aria, quando tutto sembra tornato alla caotica e fascinosa normalità del Cairo. Quando Piazza Tahrir – dopo essere stato il cuore della Rivoluzione – torna a essere lo snodo del cuore della città, un'enorme  rotatoria che distribuisce il traffico,di nuovo preda del fiume di  macchine che respinge tutto:  pedoni, assembramenti, incontri, chiacchiere politiche. La rivoluzione si avverte anche quando il Cairo torna al suo impossibile tran tran, come se fosse riuscita persino a digerire l'indigeribile:  il sacrificio dei suoi ragazzi e la cesura della sua Storia. E la megalopoli appare, allora,  come sempre: polverosa, inquinata, slabbrata. Eppure quel soffio di vita, libertà e dignità è lì che rimane negli uomini e nelle donne. Sui loro visi finalmente di nuovo fieri, come lo sono sempre stati nell'immaginario dell'intero mondo arabo.



Sopraffatti dalla felicità, gli egiziani hanno il timore di perderla. Ma hanno anche acquisito una coscienza che prima non avevano: sanno che – nel caso qualcuno volesse farli tornare a forza ai tempi del regime e della sopraffazione – possono riprendersela, questa felicità conquistata con la forza dell'essere nel giusto, e non tanto con la forza della disperazione e della fame. Perché quella paura che aveva trasformato le rughe, la piega della bocca, gli zigomi ormai perennemente contratti, gli occhi segnati da un'umiliazione senza speranza, è una camicia di forza che tutti si sono strappati di dosso. Sia quelli che si sono ripresi con Piazza Tahrir un intero paese, il proprio, di cui sembravano ormai gli affittuari. Sia quelli – e sono stati pochissimi – che non sono mai andati in tutte le Piazze Tahrir dell'Egitto della rivoluzione, coloro che la Thawra l'hanno subita, seguita, sentita raccontare.  La paura non c'è più. Il 25 gennaio del 2011 è stata frantumata la campana di cristallo che ha incatenato per decenni un intero popolo a un destino costruito a tavolino da un sistema affaristico e di potere che ha rasentato la struttura mafiosa. Questa coscienza è l'unico baluardo che gli egiziani hanno per difendersi dalla contro-rivoluzione.


Buona lettura…


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Published on September 08, 2011 07:01

September 6, 2011

Le paure dello Stato di Palestina


La fibrillazione è già iniziata, mi si dice da Israele e Palestina. Il 23 settembre è dietro l'angolo. È già domani. E la questione del riconoscimento dello Stato di Palestina – una questione che sembrava  ed era un ballon d'essai soltanto pochi mesi fa – incombe come il cielo pesante e grigio di un temporale sulla testa di tutti.


Sono anzitutto i timori per la situazione sul terreno a spaventare molti. Cosa succederà nei giorni della discussione all'Onu? Cosa succederà se e quando la votazione in Assemblea Generale innalzerà lo status della  Palestina in modo tale da definirlo stato osservatore? Cosa succederà dopo? Ci saranno fuochi artificiali e balli per strada, nelle città palestinesi, oppure tutto passerà come acqua sull'olio? E i coloni, il cui livello di sicurezza è già stato innalzato e la cui violenza verso i palestinesi è già aumentata, cosa faranno? Si chiuderanno negli insediamenti o invece continueranno con le provocazioni che già mettono in atto da mesi e da anni?


Violenza per le strade della Cisgiordania e di Gerusalemme? Questo ci dobbiamo aspettare? Il timore – evidente – è questo. E a dire il vero, per più di qualcuno, una possibile recrudescenza della violenza in Palestina potrebbe essere lo strumento per non parlare di politica e diplomazia, e per rimettere tutto, di nuovo, nel calderone del mito e dell'alibi della sicurezza.


Il vero nodo, nonostante i timori sull'aumento della violenza siano reali, è cosa significhi lo Stato di Palestina per i palestinesi. Per tutti i palestinesi, fuori e dentro i Territori occupati nel 1967 da Israele. Ho letto oggi un articolo circostanziato, analitico, molto interessante che maannews aveva pubblicato, e le questioni aperte ci sono riportate tutte, elencate da Jalal Abu Khater, che scopro essere un ragazzo di 17 anni della Friends School di Ramallah (a proposito di arabi invisibili e di stereotipi…). Nella percezione italiana, c'è – forse – una Palestina, composta dalla Cisgiordania e probabilmente da Gaza. In pochissimi, in Italia, ci mettono anche Gerusalemme est, in questa idea della Palestina. Per i palestinesi, invece, non solo la Palestina è quella 'storica' pre-1948, prima della nascita dello Stato di Israele. La Palestina sono i palestinesi, quelli sì rappresentati all'Onu attraverso l'OLP. Il riconoscimento dello Stato di Palestina cristallizzerebbe, dunque, non tanto la frontiera definita dall'armistizio del 1949 (la Linea Verde), quanto il modello inventato e consolidato a Oslo. La Palestina è quella dei Territori occupati. Tutto il resto, cioè a dire la Palestina dei rifugiati, è a parte, è riposta in un cassetto che tutti sperano di non aprire, non è rilevante.


Il riconoscimento dello Stato di Palestina all'Onu, al contrario, ha rimesso in moto un processo che a dire il vero si era già mosso con la transizione post-Arafat. E cioè quello della rappresentatività e del rapporto palestinesi-Stato, palestinesi-terra,  palestinesi-istituzioni. C'è molta maretta tra i palestinesi che non sono in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est. Perché lo Stato riconosciuto dall'Onu cristallizza una situazione che sinora, seppur penalizzando di molto i palestinesi, era comunque tanto fluida da poter essere considerata reversibile. Ora non sarà più così, e se da una parte lo Stato di Palestina potrebbe rendere finalmente più facile la transizione politica, il passaggio delle nuove èlite alla gestione del potere palestinese, dall'altra potrebbe definitivamente espellere dal quadro tutto ciò che fuori dagli OPT (Territori palestinesi occupati) si è formato.


È di nuovo al centro la questione dell'identità, nazionale e politica, che le rivoluzioni arabe stanno declinando in maniera diversa rispetto al nazionalismo, al panarabismo, ai movimenti anticoloniali di pochi decenni fa. È una discussione, quella che continua da mesi all'interno dell'èlite palestinese, che non ha ancora raggiunto la maturità e la diffusione necessaria. E che però, già ora, mostra un disagio per nulla irrilevante o superficiale. Ne va del futuro dei palestinesi.


ma questo è solo una prima riflessione, scritta di corsa, in una Venezia nuvolosa e travolta dalla Mostra del cinema, in attesa di parlare di rivoluzioni arabe. Ce ne sono altre di riflessioni che incombono, sulla dimensione diplomatica, bilaterale, regionale. Stay tuned.

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Published on September 06, 2011 06:55

September 5, 2011

Primavere arabe, settembre italiano


Tra crisi, manovra finanziaria, guai etc, c'è ancora spazio per le primavere arabe, in questa coda d'estate italiana. E così, prima di rientrare a Gerusalemme, me ne vado per una settimana  nel nordest a parlare di rivoluzioni.


Si comincia domani, a Vicenza, alle 21, a un pubblico di insegnanti, all'interno di un progetto che continuerà – per fortuna – per tutto l'anno, tra testimonianze, immagini, voci della cultura, del cinema e del teatro.


Ciclo di incontri da settembre 2011 a marzo 2012

PRIMO INCONTRO 6 settembre 2012 – intervengono PAOLA CARIDI, storica, giornalista, corrispondente da Gerusalemme e ELISABETTA BARTULI, arabista, docente dell'Università Ca' Foscari di Venezia


Mercoledì 7, alle 11 e 30, si inaugura invece uno dei master della Ca' Foscari, all'aula Baratto (quella disegnata da Carlo Scarpa).  Di rivoluzioni arabe e altre storie, questo è il titolo scelto. In occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico del Master MIM Mediazione interMediterranea.


Il pomeriggio, a Mantova, con Elisabetta Bartuli presentiamo Voci dal mondo arabo, l'archivio multimediale del Festivaletteratura in cui sono raccolti gli interventi degli autori arabi nelle scorse 14 edizioni.


Non è finita. Giovedì pomeriggio mi tocca l'onore di moderare un incontro con Gad Lerner e Tahar Lamri, lezioni dal Secondo Risveglio Arabo, in cui si parlerà anche della percezione italiana, degli stereotipi, dell'influenza che la costa sud ed est avrà su di noi.


Venerdì, doppio appuntamento egiziano, sempre a Mantova. La mattina, introduco uno dei blogger più bravi e più noti del panorama arabo, Wael Abbas. E il pomeriggio ci sarà una bella chiacchierata, al Cortile della  Cavallerizza di Palazzo Ducale, tra me e Alaa al Aswany, il più famoso scrittore egiziano, di cui Feltrinelli pubblica La Rivoluzione Egiziana, raccolta degli articoli  che ha scritto negli ultimi sei anni. Articoli visionari, chiave di lettura della rivoluzione del 25 gennaio.


Mantova, come sempre, è il modo migliore per cominciare l'anno, e riempire la propria bisaccia di buone cose. A presto










Nella foto, Wael Abbas, uno dei più noti e più attivi blogger arabi. Egiziano, appartiene alla generazione che ha fatto dissidenza attraverso i diario virtuali, per tutta la seconda metà dello scorso decennio, dal 2005 in poi. Sarà al Festivaletteratura di Mantova, giovedì mattina (controllate il programma). Ci faremo una chiacchierata insieme, non solo su  internet, non solo sui giovani.

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Published on September 05, 2011 13:26

September 4, 2011

as-shab yurid, in ebraico


È stata la più imponente protesta di piazza della storia di Israele. Non il milione desiderato dagli organizzatori. Ma ben 400mila sono state le persone che in tutto il paese sono uscite di casa e si sono riversate nelle strade e nelle piazze delle città israeliane. 300mila a Tel Aviv, dove 50 giorni fa tutto è cominciato, con la protesta per il caro-affitti. 40mila a Gerusalemme. Altrettanti a Haifa, dove israeliani ebrei e arabi hanno marciato insieme. 400mila in piazza, in un paese che conta appena circa sette milioni di abitanti, vuol dire una percentuale difficilmente paragonabile a quella di altre latitudini.


Chi si aspettava una fase di stanchezza, nella protesta delle tende in Israele, si è dovuto ricredere. E il richiamo alle rivolte nei paesi arabi è sempre più insistente. A metterle insieme, il protagonismo della società in aperta contrapposizione con la politica. Movimento trasversale, lontano dai partiti, movimento contro la politica vecchio stampo, la protesta delle tende non chiede solo sostegni alle famiglie, lavoro, solidarietà, futuro, welfare, risposte alla povertà crescente e al carovita. Sono in molti, tra gli esponenti della protesta, a chiedere soprattutto un nuovo vocabolario della politica, nuove strategie per costruire lo Stato, e la fine della frattura tra i palazzi del potere e la società. E a guidare questo cambiamento, anche in Israele come nei paesi arabi, sono i giovani.


Chi sono i protagonisti del J14  (così si chiama su twitter la protesta in Israele) lo si sa. Società reale, media e piccola borghesia, nuove povertà, e soprattutto coloro che si sentono espulsi dal futuro, prigionieri di un Palazzo che ritengono non dia più risposte solide per poter affrontare non solo la crisi economica, ma lo stesso domani di Israele dentro il Medio Oriente. Nuove generazioni che non riescono a  interpretare anche la retorica di Israele allo stesso modo, come è successo nei decenni precedenti, dalla questione della sicurezza alla questione sociale.


Questo è il quadro d'insieme. Certo, comunque, le interpretazioni sul J14 sono molto diverse, dentro Israele. E sono trasversali tanto quanto è trasversale la protesta. C'è chi, ancora oggi,  sottovaluta un movimento magmatico, dal basso, senza praticamente leader,  da cui la sinistra dei partiti – storica rappresentante delle istanze sociali, sia politiche sia sindacali – è stata allontanata (anche per una consunzione interna che dura da anni). Il fatto che il Labour non abbia ruolo nella protesta non vuol dire che la protesta non abbia forti tratti di sinistra, soprattutto della sinistra estrema, dell'associazionismo, del fronte pacifista. Ne è conferma anche il fatto che alcuni degli opinionisti più noti, come Gideon Levy, siano degli strenui sostenitori del J14: bellissimo, appassionato e allo stesso tempo razionale il suo commento del 3 settembre.  Pensare, però, che un movimento che è solo cresciuto, in questi 50 giorni, e non si è minimamente consumato possa rappresentare unicamente la sinistra israeliana, vuol dire non comprendere la forza di una protesta che – proprio in questa sua trasversalità – trova il suo punto di congiunzione con le rivolte arabe. È il popolo, fonte della legittimità del potere, che pretende risposte strategiche da un potere che non considera più capace, abile, preparato a disegnare il futuro dei singoli. È dunque, ancora una volta, come da mesi nella regione (e non solo), una protesta che nasce dalle carenze della rappresentanza politica e dalla confusa necessità (non ancora delineata appieno dal punto di vista teorico) di cambiare le modalità della rappresentanza.


È in questa coralità spontanea – "il popolo pretende la giustizia sociale", è lo slogan principale del J14 – che sta il nodo, ancora tutto da analizzare. Perché quel "popolo pretende" non è ancora né di destra né di sinistra. È un popolo che ospita richieste le più diverse, unite dalla mancanza di risposte degli amministratori politici, e dalla comprensione istintiva che molto, della gestione della cosa pubblica e del rapporto  con i rappresentati, vada cambiato.


La questione palestinese deve, paradossalmente, essere separata dal J14, e in questo mi risulta poco comprensibile come mai parte della sinistra israeliana, quella più decisamente pacifista, non si renda conto che la protesta sociale vada vista a se stante. È come se, finalmente, la società israeliana si dovesse occupare di sé, e di se stessa soltanto. Passare il tunnel, curarsi in una sorta di psicoterapia collettiva rimandata da troppi anni, interrogarsi sui propri malanni, e solo dopo dire la sua sull'occupazione dei territori palestinesi. Può sembrare  folle, tutto ciò, perché l'occupazione è parte integrante della malattia israeliana. Ma solo una scannerizzazione totale e senza sconti della propria società potrà dare le giuste risposte sul conflitto con i palestinesi. Risposte senza ipocrisie, senza velli, e senza alibi. Israele non deve parlare di sicurezza, in queste settimane: questo chiedono le centinaia di migliaia di persone scese in piazza sabato sera. Deve parlare di sé, e di se soltanto.


La foto è una delle tante che si possono trovare su Flickr , e le tendine da campeggio sono le stesse che si potevano vedere nelle immagini di piazza Tahrir (a proposito, chi le produce? in questi mesi avrà aumentato di molto le vendite, suppongo). Un solo appunto, ai protagonisti della protesta #J14 in Israele. I ragazzi arabi, molto più usi a utilizzare da anni social network e nuov tecnologie, sannno che parte del loro successo mediatico è stato dovuto all'uso sapiente dei copyright. Hanno tolto i copyright dalle foto delle proteste, consentendo a tutti di diffonderle in giro per il web. Molti israeliani, invece, chiudono col catenaccio del copyright le loro foto. E sbagliano…

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Published on September 04, 2011 11:22

September 2, 2011

Piccola storia edificante


"A mille ce n'è, nel mio cuore di fiabe da narrar".



C'era una volta, all'ombra di un castello di arenaria, un paese colpito da un incantesimo: gli abitanti avevano perso la memoria del "senso di sé", la memoria della propria piccola storia. Ma  un giorno il fantasma dell'Emiro decise che non si poteva andare avanti così. E cominciò a lavorare, nei vecchi Vicoli, perché la vita tornasse a soffiare….


Non riuscirò mai a scrivere favole. Troppo difficile, tramutare la realtà in cibo che possa essere digerito dai bambini (e dagli adulti) senza che faccia male. Ma il "c'era una volta…", in questo caso, ci stava proprio bene. Perché la piccola storia edificante che vi voglio raccontare oggi – seppure non riguardi direttamente il mondo arabo di oggi – affonda le sue radici in una storia araba dimenticata e allo stesso tempo ancora presente.


Il 'teatro' della nostra storia è un paesone della campagna siciliana. Campagna per nulla brulla, secca e difficile. Campagna pettinata (si dovrebbe dire toscana?), fertile, curatissima. Le tracce di fasti antichi sono ancora lì, tutti, a raccontare – per esempio – della sapienza del costruire, della ricchezza di sale e volte, della durezza dello scontro tra nobili e contadini. Palazzi del notabilato, il corso ampio e ricco, il teatro voluto a fine Ottocento da un pugno di intellettuali. Sambuca di Sicilia è un luogo nascosto, appena dentro la costa tra Sciacca e Selinunte. Dimenticato, a favore di altri paesi che hanno saputo sfruttare altre potenzialità. Il ciclo dell'uva, il vino di qualità, che segna ormai da anni le stesse fattezze della campagna tra Menfi e la fondovalle per Palermo.


Eppure, quel luogo non era nascosto oltre mille anni fa, verso l'800 dC, quando venne fondata la rocca. A guardare il territorio attorno a Sambuca (l'antica, araba Zabut, dal nome dell'Emiro forse berbero – "lo Splendido" – che la fondò, nel farsi della conquista della Sicilia), se ne capisce tutta la sua importanza. Il porto di Sciacca, uno dei più importanti per il commercio verso Palermo, è a meno di trenta chilometri. La rocca di Sambuca non è altro che una collina – la prima – che controlla l'ingresso della vecchia strada che portava a Palermo. Il commercio dal mare verso la capitale della "Seconda Andalusia" andava controllato. Con fermezza.


Terremoto


Ora, di quel castello imponente, rimangono le fondamenta e le mura, attorno alla parte più alta del paese. Su quella fortezza, distrutta dall'ira popolare aizzata dai gesuiti, venne costruita una chiesa, la Matrice, malandata e imponente. Un gioiello di arenaria alla cui rinascita dovrebbe, semmai, contribuire l'Unesco. Le tracce arabe, però,  non si limitano al simbolo di una potenza guerriera. Sono tutte intorno alla fortezza e alla Matrice, nei vicoli dell'impianto urbanistico islamico che ancora esiste, nonostante le picconate del terremoto, dell'anodizzato, del piccolo abusivismo. I Vicoli Saraceni ci sono ancora, in tutto sette, e si intersecano l'uno all'altro sino ad arrivare a una chiesetta di fine Cinquecento, la Chiesa del Rosario, diventata nei secoli uno dei centri della vita del paese.


Su questa piccola storia locale, intrecciata con la vita (povera) di contadini e artigiani, con una presenza incredibilmente importante del PCI durata decenni, con l'occupazione delle terre e il riscatto dei contadini, piomba il terremoto. Il terribile terremoto del Belice del 15 gennaio 1968. Sambuca non ne risente come Gibellina, Salaparuta, Santa Margherita, Poggioreale. Ma i Vicoli vengono lo stesso abbandonati. Alle casette piccole dei Vicoli vengono preferite (lo avremmo fatto tutti…) le case nuove della piccola new town costruita a poca distanza. Case con un bagno, e finalmente con un bagno dignitoso. Con cucina e soggiorno. I Vicoli diventano una specie di cassetta di sicurezza. Una casetta da cedere, per averne una più grande, con gli aiuti messi in campo dopo il terremoto.


Storia ormai lontana, ma non del tutto finita. Fatto sta che i Vicoli si sono spopolati, le case sono rimaste da sole, e come si vede nei film, gli scuri delle casette talvolta sbattono col vento forte che soffia sulla rocca, mentre le erbacce crescono nelle rovine. Qualcuno, però, continua a viverci, nei vicoli. Qualcuno si è perfino avventurato a ricostruire. Qualcuno, da fuori, è persino arrivato a comprare, nei Vicoli. E il circolo virtuoso è partito: perché  i circoli virtuosi, nonostante la prostrazione dell'Italia di oggi, possono ancora ripartire. Tra le rovine dei vicoli, si comincia a vedere il bianco latte di nuovi prospetti. Curati, recuperati, ingentiliti. E con un doppio nome, siciliano e arabo, perché la Storia non si dimentichi. La Chiesa del Rosario – intanto – è stata riaperta, grazie a un nuovo parroco e alla buona volontà (parole antiche…) degli abitanti del quartiere saraceno e del paese.


Ramazze e candeggina


Chiesa rimasta chiusa per anni. Per venti anni, all'incirca. E poi, un giorno di gennaio del 2011, le donne dei Vicoli Saraceni, si affrettano attorno al Rosario. Era stata riaperta dal nuovo parroco, don Lillo, e ripulita alla bell'e meglio da un signore rumeno e da sua madre degli escrementi e degli scheletri di piccioni che per anni erano stati gli unici a entrare, dalle finestre rotte dall'usura del tempo e dai ladri che hanno portato via tele e arredi. Le donne, di tutte le età, hanno portato scope, candeggina, stracci. Tutto ciò che serve a pulire la chiesa costruita tra Cinque e Seicento, e tre navate. Eccetto che per il campanile, aggiunto nel secondo dopoguerra, la chiesa conserva intatto tutto il suo fascino di fine Cinquecento. Così come affascinante resta il sagrato, dove ancora resiste il mosaico di acciottolato bianco e nero voluto nel Settecento dai domenicani, che al centro hanno messo il loro stemma, un cane che porta tra le fauci una torcia. Per i sambucesi, la chiesetta del Rosario rappresenta i ricordi cari delle vite singole. I matrimoni, le comunioni, i riti che segnano l'esistenza di molti. E i tanti anni in cui la chiesa è rimasta serrata hanno rappresentato, per buona parte della popolazione, una ferita. Sanata, in un giorno di gennaio, da quella pattuglia di donne che scende a pulire il pavimento di marmo, a tirare giù i lampadari di Murano per lavarli, a portare fuori le vecchie panche.


Da allora, è tutto in discesa. L'estate porta caldo e idee. Il sagrato diventa un piccolo teatro. Sembra fatto apposta per ospitare, e allo stesso tempo per far uscire di casa gli abitanti dei Vicoli. Sagrato-pifferaio. Una sera, un pugno di ragazzi colloca (tante) sedie di plastica sull'acciottolato, sistema il proiettore, prova l'amplificazione, attacca un lenzuolo su un muro, oscura i faretti dell'illuminazione notturna. Parte la proiezione di un film, di quelli impegnati, difficili. Un pubblico impensabile, cento persone, si affolla a seguire una pellicola vecchia, sì, ma un piccolo capolavoro, che parla di Afghanistan, donne e povertà. Il risultato è impensabile.


L'incantesimo che aveva racchiuso come in un bozzolo i Vicoli si è rotto. Con la benedizione del fantasma dell'Emiro al Zabut. Da quel momento, è tutto in discesa. Proiezioni di film (per nulla di cassetta, anzi…), una piccola festa devozionale con pasta e macco di fave, le lasagne con la salsa preparate alla vecchia maniera, Falcone e la lotta alla mafia raccontate a un pubblico di oltre duecento persone, in una notte ventosa di fine agosto. A rompere un incantesimo non ci vuole molto. Buona volontà, allegria, e tante sedie di plastica bianca, comode, a trasformare un'estate, e a renderla  irripetibile.


Welcome to Zabut-estate 2011. Non ha fatto notizia, ma è stata bella. E i Vicoli, gli antichi Vicoli Saraceni, hanno riconquistato il loro posto nel paese. Dai Vicoli tutto era nato.

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Published on September 02, 2011 07:16

August 30, 2011

Eid Mubarak, arabi in risveglio


Il primo Eid al Fitr dei tempi delle rivoluzioni, del Secondo Risveglio arabo, delle rivolte. La prima grande festa che chiude il mese santo del Ramadan con qualche tiranno di meno. In Tunisia, in Egitto, ora anche in Libia, mentre in Siria anche oggi – giorno speciale per i musulmani – si spara sui civili, su chi si oppone a Bashar el Assad.Non è ancora un Eid el Fitr felice. E' semmai una festa di cesura, e di transizione: uno spartiacque in cui la serenità non ha ancora il posto che dovrebbe avere.


Il sangue, la paura, la crisi economica, la povertà in crescita, Tripoli senz'acqua, Deraa sotto attacco, il Cairo nella palude dei tentativi di controrivoluzione e delle spaccatura sempre più profonde tra i settori islamisti. A guardare questo quadro, sembra solo di vedere pennellate impazzite, schizzi sulla tela che non riescono a comporre nulla di comprensibile, a otto mesi dall'inizio delle rivoluzioni. Il fil rouge è evidente, percorre come un filo di lana l'intera regione, sia esso rosso del sangue della repressione, sia esso il filo virtuale che connette i 'ragazzi' che hanno chiesto futuro in questi mesi. Oltre il filo rosso è possibile vedere altri fili della trama? La ricerca della libertà, ricerca per nulla naive e ineludibile, necessaria, per chi è assetato da tempo. In questi giorni, ho ancora sentito il nostro (occidentale) vocabolario, fatto di pregiudizio, mancata conoscenza, approssimazione. "Speriamo che riescano a capire cos'è la democrazia". "Dovranno crescere". "E se facessero emergere i settori jihadisti?". "Non hanno tradizione democratica". "Speriamo bene…". "Pian piano si stanno risvegliando". Difficile, molto difficile spiegare che si erano risvegliati da un pezzo, e noi – invece – pensavamo che ancora dormissero. Ancor più difficile risvegliare noi, far riflettere chi non si è fatto alcuno scrupolo a sostenere tiranni per decenni. Ma sono francamente ormai stanca anche delle recriminazioni.


Il disegno è del caricaturista Mohieddine el Labbad, scomparso recentemente, pubblicato sul blog di Yves Gonzales Quijano, a coté di un post come sempre perfetto sugli eroi arabi. Caldamente raccomandata la lettura, anche perché – come a Gonzales Quijano – anche a me era interessato capire quali archetipi di eroi avessero i ragazzi arabi. Non solo Saladino, ma – ieri e oggi – quegli eroi di carta che riempiono e formano l'immaginario degli adolescenti. Non c'è Tex, nel mondo arabo, e neanche Zagor e gli altri eroi di Bonelli. Ci sono, certo, gli americani: tutti i supereroi che inflazionano come gadget della forza anche le camere dei nostri, di figli. Hanno anche provato a farsi in casa i propri supereroi di carta, come i 99s, con risultati alterni. Forse i ragazzi delle rivoluzioni 2011 hanno superato la dimensione del fumetto, sono dentro altri mondi (i videogiochi, ma non solo…), e cercano di mettere assieme tutti gli archetipi, i modelli, le new entry. Con una capacità di contaminazione e mescolamento che a noi (attempati) è quasi ignota. Agli eroi di carta, su Arabi Invisibili (libro) avevo dedicato un capitolo.


Nel programma del Festival della Letteratura di Mantova, in agenda quest'anno dal 7 all'11, c'è una finestra ampia sulle rivoluzioni arabe. Alaa al Aswany (il suo libro sulla Rivoluzione Egiziana esce proprio in concomitanza con il festival), lo scrittore libico Hisham Matar, il più noto blogger egiziano Wael Abbas. E poi gli interventi di alcuni tra i più grandi scrittori e intellettuali arabi intervenuti alle precedenti edizioni del festival, disponibili per chi verrà a Mantova. Il mio calendario è qui.

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Published on August 30, 2011 09:24

August 29, 2011

Lottare stanca


Il Cairo, nella mia esperienza, è stato il posto più accogliente che io abbia mai trovato fuori d'Italia. Mai sono stata accettata senza far domande, inglobata in un palazzo, in una strada, in un quartiere, in un pezzo di vita di cui conservo gelosamente i volti, i gesti speciali, le cortesie. Le notizie sulla xenofobia in crescita in Egitto, dunque, non possono non colpirmi duro, allo stomaco. Prima ho fatto resistenza, giudicandole notizie eccessive. Poi le ho accettate, come il portato, la conseguenza di una transizione lunga e a singhiozzo. La tipica reazione alla rivoluzione, alla controrivoluzione. Mancava, però, ancora qualcosa, da parte di testimoni diretti credibili. E la risposta è arrivata.


L'analisi scritta da Ursula Lindsey che compare oggi su arabist è la migliore chiave di lettura che io abbia letto sinora. Personale quel tanto che basta a renderla carne e sottile sofferenza nel sentirsi trattare diversamente da come, per anni, una delle giornaliste straniere più calate nella realtà egiziana era stata trattata. Analitica il giusto per spiegare, razionalmente, cosa sta succedendo al Cairo. Un mix di azione e reazione, in cui – a fare i vasi di coccio – sono anche gli stranieri. E' un peccato, perché quel patrimonio di rispetto, calore, affetto che hanno gli egiziani non dovrebbe andare sprecato. Speriamo, ancora una volta, nei corsi e ricorsi della storia. Era successo nell'epoca della nazionalizzazione e del nazionalismo nasseriano. Ora ci sono alcuni tratti comuni, mescolati con l'uso del capro espiatorio, uso tipico di chi non riesce a gestire una situazione che mette in crisi il proprio potere. E lo straniero, come capro espiatorio, è stato usato per primo dal regime Mubarak che stava ricevendo i colpi pesanti della rivoluzione del 25 gennaio. Così come è stato usato dai Gheddafi e dai Bashar el Assad di turno.


D'altronde, la xenofobia l'abbiamo ricominciata a usare per primi noi, in Italia, per nascondere crisi e magagne. E quindi non dovremmo stupirci più di tanto.


In coda, la segnalazione di un articolo di Marc Lynch sulla fase di stanca delle rivoluzioni arabe, e sulla spinta che la vicenda libica sta dando. Almeno in parte. Su Foreign Policy.

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Published on August 29, 2011 13:57

August 25, 2011

Liberati!

Elisabetta Rosaspina, Domenico Quirico, Giuseppe Sarcina e Claudio Monici sono stati liberati. L'ho appena sentito in diretta su RadioRai, attraverso la voce di un'altra inviata, Carmela Giglio, che so essere felice tanto quanto lo siamo noi, per questa notizia. Gli inviati non sono solo delle facce e delle voci, sono in carne e ossa, vivono attimi, giorni, settimane comuni che creano e rinsaldano amicizie.E' per questo che – sempre con il dovuto pudore – la notizia della loro liberazione  mi/ci tocca. Come un profondo sospiro di sollievo.


Nessuno di noi, comunque, ha dimenticato i libici, l'autista ucciso, la Libia, la situazione di Tripoli che gli inviati sul posto raccontano essere durissima. Gli arabi non sono più invisibili. E Carmela Giglio ha riferito il racconto di Elisabetta Rosaspina: sono liberi perché ci sono persone che per loro hanno rischiato la vita. I buoni e i cattivi, il chiaroscuro della guerra, come dappertutto.

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Published on August 25, 2011 10:18