Paola Caridi's Blog, page 106

September 30, 2011

Sean Penn a #Tahrir


In tempo reale, twitter rilancia le foto di Sean Penn, che è andato a Tahrir a dare la sua solidarietà a chi è sceso in piazza, oggi, per il passaggio dei poteri dal Consiglio Militare Supremo all'autorità civile. Ah, gli artisti… fanno quello che altri non fanno.


Nonostante i Fratelli Musulmani non abbiano aderito alla manifestazione di oggi a Tahrir, mi sembra che l'affluenza ci sia, a giudicare dal tam tam di twitter e dall'aggiornamento dei giornali online. Non solo al Cairo, peraltro. Ad Alessandria è pure in corso una dimostrazione consistente.


Lo dico da anni, comunque: questo è il tempo degli artisti. Sono loro, e non più noi giornalisti, a farsi travolgere dalla realtà, e a coglierne i segnali importanti…


Per la playlist, un brano facile facile, in tema. U2 & Bruce Springsteen - I still haven't found what I'm looking for. Live.

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Published on September 30, 2011 15:09

Ma un Nobel vale una Primavera?


Il Nobel per la Pace potrebbe essere assegnato, quest'anno, alla Primavera araba. La notizia gira, a pochi giorni dalla decisione, e si discetta sul nome, sui nomi possibili. Chi pensa a una  blogger tunisina, Lina Ben Mhenni. Chi a Israa Abdel Fattah e Ahmed Maher del Movimento 6 aprile, oppure a Wael Ghonim, tutti e tre egiziani. Che la scelta possa cadere su tunisini ed egiziani, è ben chiaro: non solo perché le due rivoluzioni hanno avuto almeno un risultato, l'uscita di scena di Ben Ali e di Mubarak. Ma soprattutto perché chi ha fatto le rivoluzioni ha usato la non violenza, la salmiya, per ottenere un primo risultato.


Ma quel premio Nobel val bene una Primavera araba? La domanda non è peregrina, perché nelle opinioni pubbliche arabe quel Nobel è stato assegnato lo scorso anno – come una sorta di assegno in bianco – al presidente statunitense Barack Obama. E Obama – che pure aveva suscitato molte speranze nella regione – ha perso del tutto lo smalto del 2009, tanto che di lui si ricorda non lo Yes, we can, ma la perdurante presenza americana in Afghanistan e ancora più in Iraq. Così come, oggi, si ricorda di lui il discorso al Palazzo di Vetro, la scorsa settimana, considerato del tutto piegato su Israele e su Benjamin Netanyahu (lettura, peraltro, condivisa anche dalla stampa israeliana). E allora, che significato può avere per i ragazzi delle tante Tahrir, nonviolenti per scelta e auto-educazione, quel premio che molti pensano ormai squalificato, magari piegato a logiche spesso incomprensibili?


Chissà se quel premio andrà mai ai ragazzi delle Primavere arabe. Intanto, i blogger che da anni scrivono e pubblicano sul web arabo si riuniranno a breve a Tunisi, per il Terzo Meeting dei blogger arabi, dopo i precedenti, e soprattutto dopo l'ultimo del 2009 a Beirut. Il mini-gotha dei blogger della regione è atteso a Tunisi – da cui tutto à partito, nel 2011 – dal 3 al 6 ottobre. Non solo per riflettere su quello che hanno fatto, ma soprattutto per capire dove andranno. Il che, a giudicare da quello che sta succedendo tra Cairo, Manama, Damasco, non è proprio semplice.


Al Cairo, oggi, c'è un altro venerdì a Piazza Tahrir. Ci saranno molti dei movimenti che hanno partecipato alla rivoluzione. Non ci saranno i Fratelli Musulmani. E' un venerdì contro il Consiglio Militare Supremo, che avrebbe dovuto lasciare in questi giorni il potere a un'autorità civile. Ed è un venerdì contro la legge d'emergenza. Occhio al Cairo, dunque, che come sempre nella storia contemporanea araba ha indicato la direzione.


Nella playlist di oggi c'è un brano rap. Ibn Thabit, di Tripoli, duetta con MC SWAT di Benghazi. Ne esce un brano molto bello, La Shek.


Il rap è stata la musica della rivoluzione araba, senza dubbio. Alla stregua del rock negli anni Sessanta. Per gli arabi è come se viaggiasse, sulle onde del web, una Woodstock hiphop.

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Published on September 30, 2011 07:24

September 29, 2011

Aspettando Godot: il 2015


Basterebbe questa vignetta, a descrivere quello che succede in Arabia Saudita. Il re ha graziosamente deciso che le donne potranno votare alle elezioni comunali, ma nel 2015. Nel frattempo, però, non possono guidare una macchina, ma farsi accompagnare dal marito, dal tutore [sic!], o dall'autista che il marito ha scelto per loro. Andare a votare, anche nel 2015, potrebbe insomma essere un problema… logistico.


Votare sì. Guidare no. Giammai. Si rischiano le frustate. Le dieci frustate che Shaima Jastanya si sarebbe dovuta sopportare, se lo stesso re saudita non l'avesse graziata, sospendendo l'esecuzione della sentenza. Ce ne sono altre, di donne saudite, che nel frattempo rischiano sentenze simili, se non peggiori. Come Najla Hariri. Il 17 giugno, molte attiviste e molte donne 'normali' avevano sfidato il divieto di guidare, con il women2drive, un giorno di disobbedienza civile in cui non solo guidavano, ma scattavano foto e giravano video per mostrare che stavano guidando. Doppia disobbedienza: mostrare il proprio volto, e sfidare il divieto e i censori. E magari avere – anche per noi, occidentali – un nome e un cognome, una carta d'identità, invece di essere considerate solamente in un gruppo. Le donne saudite.


La morale di tutta questa storia è che in Arabia Saudita la rivoluzione è donna. Ancor di più che da altre parti, nel mondo arabo, dove pure il ruolo delle donne è stato non solo importante. Per alcuni versi è stata la cifra delle rivoluzioni. In Arabia Saudita la rivoluzione è donna, non c'è niente da fare. Ed è una rivoluzione perché non comprende solo le donne, ma attraverso una battaglia che non è solo "di genere" raccoglie tutti, uomini e donne, nel pretendere democrazia. Al shab yurid, il popolo pretende: lo slogan delle rivoluzioni arabe del 2011…


La stessa Arabia Saudita, peraltro, è come se viaggiasse a diverse velocità, a seconda del posto in cui ci si trova. Per strada, nelle case, nelle sedi delle multinazionali, nelle università, sui blog, in twitter, nelle stanze degli studenti e delle studentesse saudite che si prendono lauree e dottorati nelle università americane. Donne col niqab per le strade di Riyadh, e le stesse donne svelate in una qualsiasi delle università delle Ivy League negli States. Donne col niqab per le strade di Riyadh, e donne col potere nella camera di commercio di Jeddah, capitale economica del paese. Lama al Suleiman, per esempio, è la vicepresidente della camera di commercio, eletta nel 2009, votata anche dagli uomini proprio mentre le veniva diagnosticato – a lei madre di 4 figli – un cancro al seno. Una donna di potere, dunque, come donna di potere è Lubna Olayan, a capo del gruppo Olayan, una potenza finanziaria ed economica che travalica di molto i confini sauditi. E lei, una delle donne d'affari più potenti del mondo. E' come se il mondo economico saudita andasse a un'altra velocità, rispetto al resto. E questa frattura, questa contraddizione prima o poi sarà così forte da far scoppiare qualcosa.


Intanto, oggi ci sono le elezioni municipali, per eleggere metà dei consiglieri comunali, mentre gli altri saranno designati dall'autorità, dal re. Possono votare un milione e duecentomila maschi adulti, cittadini sauditi. Mah…


Capisco che la scelta possa sembrare banale, ma di certo appropriata: per la playlist c'è People Have the Power, Patti Smith.


E se volete sentire una chiacchierata su questo argomento, ne ho parlato stamattina alla Radio Svizzera Italiana, secondo canale, nella trasmissione In altre parole. Con Sandra Sain. Buon ascolto.

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Published on September 29, 2011 06:47

September 28, 2011

Unilateralia


Stamattina sono andata a consultare lo Zingarelli, per ricordarmi cosa significa unilaterale. Perché di questi tempi le parole vengono usate come decorazioni. Come un bel rossetto rosso sulle labbra. Lo Zingarelli elenca più significati, per unilaterale. A parte quello del tutto sovrapposto al dato etimologico, "che riguarda un solo lato", "che riguarda o prende in considerazione una sola delle parti", c'è poi il significato figurativo, che non cambia poi di molto.  "Che prende in considerazione un solo lato o aspetto della cosa. Esteso: "eccessivamente personale, soggettivo". In una parola, "arbitrario", "specialmente in quanto non tiene conto della complessità dei dati, degli elementi, della realtà".


Sono andata a consultare lo Zingarelli perché le accuse di unilateralismo, in questi giorni e da queste parti, si sprecano. Benjamin Netanyahu ha accusato Mahmoud Abbas e i palestinesi di aver agito in maniera unilaterale, chiedendo – dopo 63 anni – il riconoscimento dello Stato di Palestina. Abbas, e ieri il premier Salam Fayyad, hanno accusato gli israeliani di unilateralismo costante, con i continui facts on the ground, gli atti – concreti – compiuti realmente sui terreni, in Cisgiordania. L'ultimo, il più recente, il benestare del ministero dell'interno israeliano sulla costruzione di 1100 nuovi appartamenti a Gilo.


Gilo, colonia oltre la Linea Verde. Per gli israeliani quartiere di Gerusalemme. Vero, dal punto di vista formale è un quartiere di Gerusalemme, salvo il fatto che unilateralmente – dopo l'occupazione del 1967 – i confini della municipalità di Gerusalemme sono stati via via ampliati. Unilateralmente. Se ne era accorto anche il  funzionario del consolato americano a Gerusalemme che andò circa due anni fa dalle parti di Gerusalemme sud e di Betlemme, per osservare la situazione,  soprattutto riguardo al piccolo paese di Walaja, ora – con un rush rapido e finale di bulldozer e gru – circondato dal Muro di Separazione.


[image error]Racconta il funzionario nel suo rapporto, disponibile grazie a Wikileaks su internet: "In the mid-1980s, Jerusalem municipality officials executed demolition orders against two homes in the northern half of the village. They did so on the basis that this portion of al-Walaja, comprising 300-320 homes, had, since 1967, been located inside the Jerusalem municipal borders (which were unilaterally expanded by the Government of Israel in 1967)".


Dunque, tutti sanno, che i confini di Gerusalemme sono stati unilateralmente ampliati. Lo sanno anche a Washington… E dunque conoscono bene la situazione di Gilo, e sotto Gilo di quei magnifici terrazzamenti sul pendio sud, vecchi di secoli. Muretti a secco che disegnano scanalature affascinanti sulla collina. Segno tangibile di una maestria (palestinese) nel coltivare la terra che spesso è stata misconosciuta. Muretti a secco, coltivazioni, ulivi giovani o antichi. E dall'altra parte, sulla collina di fronte, le vigne del Cremisan, dove ci sono anche i nostri soldi (italiani) investiti in un progetto di miglioramento del vino e di sostegno ai vitigni autoctoni. Progetto del VIS, ora anche con la partecipazione del wine maker di livello internazionale Roberto Cotarella, che ha portato i vini Cremisan sino al Vinitaly…


Unilaterale, per lo Zingarelli, significa arbitrario. Niente di nuovo. Succede in tutti i conflitti. Mi dispiace, però. Io non riesco a pensare che il cinismo risolva i conflitti. O che almeno li risolva a medio e lungo termine. I conflitti sono carne viva, famiglie, individui, esistenza personale. O si danno risposte, oppure i conflitti si risolvono per un breve periodo, per poi scoppiare di nuovo, ingigantiti. Morale: meglio studiarsi la geografia umana del conflitto, quando si parla di quei 1100 nuovi appartamenti. E farsi un bel giro verso sud, tra Gerusalemme e Betlemme. A Gilo, Walaja, Cremisan, Gerusalemme, Betlemme, Beit Jala, Har Homa, il Muro, il tunnel, il terminal sotto Beit Jala costruito buttando giù un uliveto che ho visto man mano scomparire. Basterebbe già questo piccolo pellegrinaggio nelle strade dimenticate del conflitto per capire molto. E capire anche un bel po' del discorso di Mahmoud Abbas.


Per la playlist, Wish you were here, Pink Floyd. Per il testo, ovvio…


"And did they get you to trade

Your heros for ghosts?

Hot ashes for trees?

Hot air for a cool breeze?

Cold comfort for change?

And did you exchange

A walk on part in the war

For a lead role in a cage?"







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Published on September 28, 2011 07:52

September 27, 2011

Bye Bye Tahrir?


Venerdì ci sarà una nuova manifestazione a piazza Tahrir, al Cairo. Stavolta (anche stavolta) è stata indetta per concludere la lunghissima e triste stagione della legislazione d'emergenza, che è ancora in vigore nel paese, nonostante la rivoluzione del 25 gennaio. Fine delle leggi d'emergenza, stop ai tribunali militari che processano i civili, scadenze certe per la fine della gestione del potere da parte dei militari, e poi concessione del diritto di sciopero. Sono le più importanti tra le richieste di chi ha già aderito alla manifestazione di venerdì prossimo. Soprattutto il Movimento 6 aprile, uno dei protagonisti di Piazza Tahrir.


A prima vista, dunque, sembra che i ragazzi di Piazza Tahrir (nella foto, com'era Tahrir pochi decenni fa) non vogliano staccarsi da un luogo iconico. Mentre in Occidente, Europa compresa, si comincia dire che a questi giovani manca – insomma – la vecchia pratica politica, il cinismo necessario per passare dalla piazza al parlamento. E' vero che i ragazzi da Tahrir non si vogliono staccare. Il tweetnadwa (cercatelo sul mio blog e in Google: è una pratica di discussione politica interessante…) è continuato anche in queste sere, a quanto leggo su twitter. A me, però, non sembra che questo attaccamento a Tahrir sia il lato negativo di tutta la faccenda. Anzi. Quando Wael Abbas, al Festivaletteratura di Mantova, ha chiosato il suo intervento dicendo che "la strada per Tahrir la conoscevano già, e potevano tranquillamente ritornarci, nel caso la controrivoluzione fosse avanzata", ha in pratica descritto una vera e propria strategia politica. Si torna in piazza, perché quella pressione è stata determinante. Può sembrare ingenua, questa strategia. Non lo è.


La domanda, comunque, è sempre la stessa: se stia veramente emergendo una nuova èlite, nata tra le file dei ragazzi di Tahrir. Sembra di sì, a giudicare dalla notizia che il cartello che riunisce chi ha partecipato alla rivoluzione del 25 gennaio (e parlo soprattutto dei giovani) ha deciso di presentarsi alle elezioni parlamentari del 21 novembre con circa 200 candidati. Del cartello fanno parte tutte le culture della mini-Repubblica di Tahrir, dai giovani fratelli musulmani ai laici e post-marxisti, dai liberal ai ragazzi del Movimento 6 aprile. Cosa vogliono? E' ancora tutto da capire, e bisognerà aspettare il programma elettorale, che a giudicare da quanto sono stati fermi e risoluti e strategici su alcuni punti (i diritti, individuali e collettivi, soprattutto) non sarà un programma naif. Se si vuol capire qualcosa di più sul dibattito in corso riguardo alle èlite, si può leggere ad esempio l'ultimo commento di Ibrahim al Houdaiby, uno dei 'giovani, appunto. Su Al Ahram Online parla di èlite rivoluzionaria.


Nella playlist, oggi, c'è Ziad el Ahmadie, Organised Chaos. Appunto…

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Published on September 27, 2011 09:28

September 26, 2011

Una torre, una bandiera e una banca





Vedete quella strana antenna di acciaio, come quelle che in Italia si usano per sostenere i cavi che portano energia elettrica in giro per il paese? Sta scatenando un vero e proprio vespaio al Cairo. Vuoi per il suo significato [sic!] architettonico, vuoi per il posto in cui la stanno innalzando. E vuoi anche per chi ci sta spendendo fior di quattrini.


La storia. A Zamalek, e dunque nel cuore del Cairo, si sta innalzando una torre d'acciaio dalle parti del Gezira Club, a sua volta il cuore della Cairo che conta. Polmone verde nel centro di una delle megalopoli più inquinate del mondo, il Gezira Club non raccoglie solo gli sportivi dell'èlite. Raccoglie l'èlite, che ha avuto anche una sua parte nella rivoluzione del 25 gennaio. Ora, questa torre d'acciaio cresce e cresce. La sua funzione? Deve sostenere una bandiera da Guinness dei primati. Una bandiera egiziana grande, tanto grande da potersi vedere dovunque. A quanto sembra dalle foto della torre in costruzione, per vedersi la torre si vede parecchio. Troppo, cominciano a dire al Cairo. Ed è uno scandalo che va denunciato.


E' partita, dunque, la battaglia contro la torre, che – secondo alcuni – andrebbe proprio tolta. Rovina lo skyline (a dire il vero parecchio incasinato) del Cairo. E poi, che significa questa storia della bandiera? Chi ha avuto una simile idea? Dalle prime notizie di stampa, ad avere l'idea è stata  la Commercial International Bank. La CIB, una potenza della finanza egiziana, l'istituzione che più di tutte le altre gestisce il prestito al settore privato. E i militari alla guida dell'Egitto in transizione avrebbero dato il loro consenso.


Adamisalem, un egiziano-americano che lavora nel mondo finanziario, ha messo su twitter quello che molti pensano:  "The new CIB tower at Gezira area next to 6 October bridge,CIB bank spent 20 Mil to put a flag but not a penny for the revolution". 20 milioni di pound egiziani per una torre d'acciaio che dovrebbe sostenere in cima (spero che gli ingegneri egiziani calcolino bene vento, peso etc) una enorme bandiera da Guinness dei primati. 20 milioni di pound egiziani messi in bilancio per una idea che era venuta allo staff della Commercial International Bank – racconta il quotidiano Al Masri al Youmdue anni fa, dunque prima della rivoluzione, per una torre che – ci si chiede – doveva rappresentare cosa? Quale orgoglio nazionalistico egiziano? Quello che si sfogava negli stadi?


A proposito di stadi, è finalmente cambiato l'allenatore della nazionale egiziana. Un altro punto a favore della rivoluzione del 25 gennaio: il precedente era molto (troppo) legato alla famiglia Mubarak, sia al padre sia ai figli. E la famiglia Mubarak usava la nazionale di calcio anche per cercare di far digerire la successione del figlio Gamal al padre Hosni: Alaa al-Aswani dedica uno splendido articolo a questo uso del calcio per fini politici, nel suo La Rivoluzione Egiziana (avendolo tradotto, quel commento è uno dei più belli, dei più duri e dei più tristi: parla della mala sanità in Egitto).


Per la playlist, un evergreen che non può non far venire qualche brivido, come sempre: Why, Annie Lennox, interpretazione dal vivo, da sola al piano.


La foto è tratta dal gruppo Facebook "Down with the Tower": l'intento del gruppo è chiaro…

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Published on September 26, 2011 07:40

September 24, 2011

Il discorso di una vita


Inatteso. Anche chi conosce (bene) Abu Mazen è  rimasto sorpreso da un discorso che nessuno si sarebbe mai atteso da un uomo mai istrionico. Considerato, semmai, grigio. Sorpresi, anche i palestinesi, dalle parole del presidente dell'ANP, in quello che – senza dubbio – è stato il discorso della sua vita. Di fronte al mondo, all'Onu, a chiedere finalmente, dopo 63 anni, lo Stato di Palestina. "C'è uno Stato che manca all'appello, e che ha bisogno di essere creato immediatamente", ha detto Mahmoud Abbas, con un tono per nulla grigio, semmai fermo e appassionato.


Abbas ha convinto persino chi non lo ama, anche se la discussione dura nell'intellighentsjia palestinese è lungi dall'essere stata sanata dal discorso catartico di Abu Mazen. Soprattutto, ha convinto i palestinesi quelle parole che sono le stesse della strada: Abbas ha costruito il suo discorso raccontando soprattutto la vita quotidiana dei singoli palestinesi, degli studenti, dei bambini, delle loro mamme, degli anziani che dovrebbero poter andare all'ospedale senza subire i passaggi dai checkpoint. E' stata questa scelta di un racconto secco, analitico, costruito tutti sui fatti che ha stupito, i palestinesi in primis, e poi anche il mondo. E' stato l'elenco di quello che i palestinesi vivono quotidianamente a fare premio sulla lingua diplomatica.


Una catarsi, raccolta nell'ovazione che alla fine ha accolto un Abu Mazen fermo, ma comunque intimidito da un consenso che – credo – non si attendesse così largo. Come se avesse espresso quello che molti, all'Assemblea Generale, già pensavano. Da italiana, però, l'immagine (triste) che mi ha più colpito è stato quel mondo spaccato, all'Assemblea Generale dell'Onu. Gli israeliani rigidi, seduti e senza applaudire. Gli americani imbarazzati, il viso severo e stizzito di Susan Rice. E gli altri, gli occidentali che si guardano attorno, rimangono seduti, imbarazzati, per alcuni versi smarriti, mentre il resto del mondo si alza, applaude il vecchio Abu Mazen, in un'ovazione liberatoria, condita da fischi e urla. Non sono solo gli arabi, ad avere ammesso la Palestina tra gli Stati dell'Onu, per consenso. E' un gran pezzo di mondo, mentre l'altro guarda, come in una sorta di battaglia di retroguardia, battaglia messa nero su bianco sull'ultimo documento del Quartetto. Un documento uscito dopo il discorso di Abu Mazen, e quello successivo di Benjamin Netanyahu:  a leggerlo, sembra che non sia successo nulla, né sul podio dell'Assemblea Generale, né in Medio Oriente.  Battaglia di retroguardia, niente di più.  Incapacità di comprendere che nulla, ormai, è più come prima, se anche un uomo del compromesso – come Abu Mazen – si è dichiarato sconfitto nel suo ruolo storico di negoziatore, e ha detto che negoziati non s'hanno da fare, se prima non cambiano i parametri.


Col suo discorso della vita, Mahmoud Abbas ha messo anche i palestinesi sul binario delle rivoluzioni arabe. Con uno scatto di dignità, quello della richiesta dello Stato di Palestina, che conclude la fase di Oslo, e riporta la questione israelo-palestinese nel suo alveo originario: la comunità internazionale


E questo, qui di seguito, è l'articolo che ho scritto ieri sera, per Il Fatto Online:


E' stato il discorso di una vita, quello pronunciato da Abu Mazen di fronte a un'Assemblea Generale quasi al completo. Il discorso di una vita, nel vero senso della parola. Un'esistenza – quella di Abu Mazen – da poco iniziata quando venne anche lui travolto dalla Naqba, nel disastro dei palestinesi cacciati dalla loro terra, costretto all'esilio, a fuggire nel 1948 da Safed, un paese che ora è nel nord di Israele. Una vita che ha trovato un punto di non ritorno di fronte all'Onu, quando ha confermato la richiesta di ammissione dello Stato di Palestina come 194esimo membro delle Nazioni Unite.


E' stato un discorso inatteso, quello di Mahmoud Abbas (Abu Mazen), conosciuto per essere stato – sempre – l'alter ego di Yasser Arafat. Pacato, diplomatico, sornione. Tutto il contrario dell'istrionico Abu Ammar. Eppure ieri, nel suo discorso della vita, Abbas è stato duro, analitico, sferzante, e appassionato. È stato, forse per la prima volta in modo così netto e sorprendente, durissimo nei confronti della politica perseguita da Israele negli scorsi decenni. Ha parlato di "pulizia etnica", di "politica coloniale", di "repressione". Ha citato l'occupazione militare usando termini tipici della sinistra palestinese e dell'attivismo pacifista per le sanzioni e il boicottaggio. Ha parlato di legittima resistenza pacifica popolare contro l'occupazione. Ha citato il "muro razzista di annessione", la politica di "apartheid". E soprattutto si è scagliato con una durezza verbale continuata contro i coloni, la loro aggressività, la loro violenza: "Aggressività e violenza – ha detto Abu Mazen – di cui consideriamo responsabile il governo di Israele. Perché se condanniamo il terrorismo, ha detto, condanniamo tutto il terrorismo, compreso il "terrorismo di Stato".


Abu Mazen ha anche rigettato al mittente l'accusa di unilateralismo, che il governo israeliano ha usato più volte, riferendosi alla richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina decisa dall'OLP. Unilaterali sono le colonie, l'esproprio dei terreni, la costruzione di migliaia di appartamenti sulla terra palestinesi: tutte politiche perseguite da Israele. Ha accusato Tel Aviv, insomma, di non aver rispettato gli impegni presi a Oslo, e di aver provocato la richiesta da parte dei palestinesi di uno Stato all'Onu.


Tornare ai negoziati sarebbe inutile, se non cambiano i parametri, ha detto in sostanza Abu Mazen. "La crisi è troppo profonda", e i fatti sul terreno stanno rendendo impossibile la creazione di uno Stato. Dunque, "è troppo, è troppo, è troppo", ha chiosato Abu Mazen. Con un'espressione che richiama il senso di stanchezza e frustrazione dei popoli arabi in rivolta. E visto che gli arabi stanno avendo la loro primavera, "è arrivato il tempo che anche per i palestinesi vi sia la loro primavera".


"C'è uno Stato che manca all'appello, e che ha bisogno di essere creato immediatamente". Immediatamente su un compromesso, dice Abu Mazen. Perché lo Stato – sui confini del 4 giugno 1967 e con Gerusalemme est sua capitale – lo si chiede sul 22% della cosiddetta "Palestina storica". Si tratta, dice il presidente dell'OLP e dell'ANP, di un "compromesso storico", perché c'è bisogno di una "giustizia relativa". "Una giustizia possibile".


Almeno cinque gli applausi, compreso quello per Yasser Arafat e l'altro per Mahmoud Darwish. E alla fine, buona parte di chi era seduto ad ascoltare il discorso, all'Assemblea Generale, si è alzato in piedi, ha applaudito e festeggiato. Segnando, ancora di più, il discrimine tra due pezzi di mondo. Quello occidentale, imbarazzato alle dure sferzate di Abu Mazen, e l'altro, ben più vasto, che ha già deciso che la Palestina è uno Stato.


La foto è stata scattata ieri sera a Ramallah da Joseph Dana, ibnezra, su twitpic.

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Published on September 24, 2011 05:34

September 23, 2011

"La mela l'avevamo già mangiata"


Per amore della storia di questo conflitto, vorrei condividere con i lettori queste poche righe di una conversazione tra Saeb Erekat e George Mitchell (che qualche mese fa ha gettato la spugna, e ha lasciato la Casa Bianca e il suo ruolo di inviato speciale per il Medio Oriente, mentre – come anche scrive Nahum Barnea oggi su Yediot Ahronot – Dennis Ross è tornato tra coloro che contano attorno al presidente USA). E' una conversazione dell'ottobre 2009, poco meno di due anni fa. Saeb Erekat descrive quello che, in sostanza, l'Autorità Nazionale Palestinese era stata già disposta ad accettare. Praticamente tutto…


SE: I want to point out I am answering in my personal capacity on these questions. 19 years after the start of the process, it is time for decisions. Negotiations have been exhausted. We have thousands of pages of minutes on each issue. The Palestinians know they will be a country with limitations. They won’t be like Egypt or Jordan. They won’t have an army, air force or navy, and will have a third party to monitor … Palestinian will need to know that 5 million refugees will not go back. The number will be agreed as one of the options. Also the number returning to their own state will depend on annual absorption capacity. There will be an international mechanism for resettling in other countries or in host states, and international mechanism for compensation. All these issues I’ve negotiated. They need decisions. The same applies to the percentage. A decision on what percentage. We offered 2%. They said no. So what’s the percentage. You can go back to the document we gave president Obama in May.


GM: You’re saying no direct negotiations at all?


SE: Once you’ve established parameters of the end game, with a timeframe with incremental steps, every single thing will have to be negotiated for implementation. So either you put me in a position to eat the apple from the start – and BN tells me we have a new era and takes me on a ride – or the other way I just described – I already ate the apple. Once you have one or two pages, once you accomplish this, you will be in a position of peacemaking, not a peace process. This will be your hallmark. It has been 19 years and I’ve been in all the meetings.


Il documento è stato pubblicato lo scorso gennaio all'interno dei Palestine Papers, da Al Jazeera. Lo trovate qui.

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Published on September 23, 2011 09:27

Ieri, oggi e domani…


E allora, eccolo, il giorno. Che qui – come si dice in gergo – sul terreno, sembra uguale a un giorno qualsiasi di questi ultimi anni a Gerusalemme. Stamattina, che è venerdì e c'è la grande preghiera sulla Spianata delle Moschee, l'elicottero non volteggia neanche in maniera regolare, come succede sempre, quasi ogni venerdì. In genere, comincia a volteggiare dalla mattina, molto presto. E non c'è neanche il pallone d'osservazione, quella strana mongolfiera bianca che quasi ogni venerdì controlla i movimenti a Gerusalemme est. Cosa significa? Che poi di tensione non ce n'è così tanta, almeno a Gerusalemme est? Oppure che la sicurezza, da parte di Israele, viene gestita in modo diverso dall'usuale? Non lo so.


E' una giornata delicata, è fuor di dubbio. In Cisgiordania, dove dalle sei del pomeriggio – per esempio a Piazza al Manara, a Ramallah – molti palestinesi si riuniranno di fronte a un maxischermo per seguire il discorso di Abu Mazen al Palazzo di Vetro dell'Onu. Ed è una giornata delicata in alcuni dei quartieri più a rischio a Gerusalemme est, i quartieri palestinesi in cui la presenza dei coloni israeliani (più radicali) è aumentata in misura consistente negli anni più recenti. Più di oggi, però, saranno delicati i prossimi giorni, quelli in cui si capirà meglio la reazione sia dei palestinesi, ma soprattutto dei coloni israeliani in Cisgiordania, che da settimane si preparano a quelli che chiamano gli "eventi di settembre". I coloni più radicali, quelli che occupano le colline con qualche caravan negli avamposti illegali, temono di essere attaccati dai palestinesi, e gli esponenti della destra estrema hanno chiesto alle forze armate di proteggerli. I coloni (che sostengono loro stessi di essere armati, anche dentro Gerusalemme est) si preparano a difendersi, dice la stampa israeliana, ma nel frattempo – dicono le agenzie di stampa palestinesi – hanno continuato a bruciare campi e a tagliare olivi, proprio nelle settimane che precedono la raccolta.


Cosa succederà, insomma, da domani in poi? Chi attaccherà e perché? Questa è la domanda che ci si fa, qui a Gerusalemme. E poi, che succederà, dopo quella che i politici israeliani della destra considerano una vera e propria "provocazione" palestinese, e cioè la richiesta di riconoscimento all'Onu? Si procederà con decisioni unilaterali? Si decideranno – da parte israeliana – confini che non sono quelli del 1967 e che, peraltro, rispecchiano sia la realtà sul terreno sia la linea del Muro di Separazione? E i coloni? Continueranno a costruire, senza sosta, come fanno da anni, e come il consolato americano a Gerusalemme diligentemente comunica con estrema precisione al Dipartimento di Stato?


Spazio alla playlist: il Trio Joubran, ancora, ma stavolta suona sulla poesia più…palestinese di Mahmoud Darwish. E' il giorno adatto.


Non ci sono risposte, non ci sono neanche previsioni, per ora. E chi le fa non conosce la situazione sul terreno. Perché i palestinesi sono molto divisi, sulla questione dello Stato. Non solo frustrati e demoralizzati. Non solo per nulla stupiti dalla performance di Barack Obama, che tutti si attendevano. Il nodo di fondo, com'è da oltre sei anni, è la leadership. Chi rappresenta chi. L'Autorità Palestinese di Abu Mazen, così come il governo di Hamas a Gaza, non hanno il consenso della 'strada'. Non si intravvede nessun leader capace di raccogliere un consenso tanto ampio da far da guida, e in una fase nella quale le Rivoluzioni Arabe hanno avuto come bersaglio principale soprattutto il leaderismo, non c'è da stupirsi più di tanto. La richiesta di uno Stato di Palestina sui confini del 1967 e con Gerusalemme capitale stride così tanto con i bantustan in cui è divisa la Cisgiordania che molti palestinesi si chiedono che senso abbia chiedere il riconoscimento di un'"isola che non c'è". E poi la rabbia dei rifugiati, che si ritengono buttati fuori dalla fotografia della Palestina 2011… Le critiche ad Abu Mazen, dunque, arrivano da tutte le parti, dai laici in particolare, più che da Hamas.


Eppure. Eppure, nonostante tutto, la mossa probabilmente poco idealistica e molto diplomatica di Abu Mazen è andata oltre gli stessi giochi politici, fatti – in sostanza – per riaprire i negoziati. La Palestina è di nuovo al centro della discussione, come non lo era mai stata, ha detto per esempio un acuto analista come Mouin Rabbani. Chiude definitivamente il capitolo di Oslo, e riporta la questione nel suo alveo: la comunità internazionale. Lo può essere, certo, se dietro questa mossa si crea un consenso nazionale, dice ancora Rabbani, che invece non è stato costruito nell'ultimo anno. Perché? Per lo stesso nodo irrisolto che ha scatenato le rivoluzioni, oltre i confini di questo posto: per un iato profondissimo tra le diverse società palestinesi e la leadership, le elite dirigenti. Ora, dunque, viene il bello: come le (diverse) società palestinesi, divise tra Gaza, Cisgiordania, Gerusalemme est, rifugiati, palestinesi di Israele, premeranno su elite ormai svilite e stanche…


La foto, storica, è della seconda metà degli anni Trenta. I britannici perquisivano alla Porta di Damasco, a Gerusalemme.

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Published on September 23, 2011 07:32

September 22, 2011

Affari di famiglia, o del mondo?


Lo Stato palestinese lo si deve raggiungere solo attraverso negoziati diretti tra i protagonisti. Israeliani e palestinesi. Non attraverso l'Onu. Non ora, non qui. E senza usare la comunità internazionale come lo strumento per risolvere le beghe che israeliani e palestinesi dovrebbero risolvere tra di loro. Barack Obama è stato tanto netto, alle Nazioni Unite ieri, da dichiarare la sua impotenza nel risolvere la questione israelo-palestinese. Lo scontro se lo devono risolvere tra di loro. L'America, in sostanza, se ne lava le mani. Come Ponzio Pilato, tanto per rimanere in Terra Santa.


Non è vero, e lo sanno tutti. Non è vero che gli Stati Uniti se ne lavano le mani. Anzi, è proprio un'affermazione del genere a dire chiaro e netto che Obama – che aveva infiammato persino il mondo non-occidentale con quel suo soffio vitale nella responsabilità individuale, Yes, we can, dunque, Even me, I can – ha sposato una parte delle due in causa. La parte israeliana. Perdendo del tutto, se pure ne avesse conservata un pochino – l'aura di neutralità tra i due contendenti del conflitto più lungo del Medio Oriente. Il governo israeliano è contento, gli articoli sulla stampa israeliana sono tutti un peana per Obama e un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo: per aver vinto una battaglia all'Onu e fermato il tentativo palestinese di farsi conoscere quello Stato negato sinora. Verrebbe da parafrasare una delle pubblicità più riuscite in Italian negli scorsi mesi: "Ti piace vincere facile?"


Questa vittoria così facile, così a prima vista semplice è, però, reale, una vittoria di media-lunga durata? Continuo a pensare che no, non è una vittoria né a medio termine né bella. E' una vittoria che vorrebbe perpetuare lo status quo, in cui poter ancora giocare sulle parole vacue del processo di pace. Confini, terra, sicurezza… Il diritto negato allo Stato di Palestina non avvicina la pace. Mostra solo che il "re è nudo": che lo Stato di Palestina non lo vogliono gli israeliani, non lo vogliono gli americani e gli europei lo vorrebbero ma non possono. Il resto del mondo sì, invece, lo vuole, come dice il sostegno totale del Sudafrica, potenza più che regionale, continentale. Ma questa è l'altra parte della storia, ed è quella parte della storia che mostra quanto – al contrario di quello che ha detto ieri Obama al Palazzo di Vetro – la questione dello Stato di Palestina è questione che investe le Nazioni Unite.


Investe le Nazioni Unite non solo perché sono state le Nazioni Unite a creare, approvare e sancire lo Stato di Israele. Tutto torna al suo luogo originario, in sostanza. Così come lo Stato di Israele fu approvato dall'Onu, così lo deve essere lo Stato di Palestina. Nel corso degli scorsi sessant'anni, peraltro, l'Onu non si è lavata le mani della questione palestinese. Se ne è occupata con decine di risoluzioni, alcune delle quali sono insormontabili quando si parla – per esempio – di confini. Esiste un solo confine, limes, linea armistiziale, ed è quella precedente alla Guerra dei Sei Giorni. La linea del 1967, che è poi quella approvata nel 1949 come l'armistizio della guerra arabo-israeliana del 1948. Il mondo, insomma, non se ne può lavare le mani, sulla questione dello Stato di Palestina, perché le mani le ha avute in pasta negli scorsi oltre 60 anni. E se la situazione sul terreno è quella che è, è perché il mondo non se ne è lavato le mani, o se le è lavate usando acqua e sapone diversi, come sostiene Marwan Bishara su Al Jazeera parlando del doppio standard.


Nel frattempo, però, molto sta cambiando da questa parte del mondo. E il doppio standard mostra, veramente, una trama sempre più lisa. Non è più semplice come prima far digerire il doppio standard, da questa parte del mondo. E il discorso di Obama, ieri, ha definitivamente segnato la frattura tra questo mondo e quel presidente che aveva creato speranze (e illusioni) al momento della sua elezione. La disfatta di Obama è, da ieri, un dato di fatto: tra gli arabi, e nel Medio Oriente, Obama non è più l'Obama dello Yes, also we Arabs we can. Non è neanche più colui sul quale si addensavano le critiche, quando gli venne assegnato un Premio Nobel per la Pace preventivo. E' il Barack Obama piegato, il presidente che deve mettere il veto per difendere il suo unico vero alleato in Medio Oriente, Israele. Per le opinioni pubbliche arabe – che non sono più solo opinioni pubbliche, sono popolo che riesce anche a fare le rivoluzioni – il discorso di ieri segna il Rubicone nella presidenza Obama. E di Obama non si ricorderanno né il discorso del Cairo del giugno 2009, né quando gettò a mare l'alleanza con Hosni Mubarak e incensò i ragazzi di Tahrir. Si ricorderanno le decisioni prese, all'Onu e fuori dell'Onu.


Ah, mi dimenticavo la playlist. Visto il mood, oggi c'è Tom Waits (grazie, Carmelo), con I want you, e Ivano Fossati (grazie, Francesco, e buon lavoro…), con Passalento, che consiglio anche nella splendida versione di Paolo Fresu.

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Published on September 22, 2011 08:33