Paola Caridi's Blog, page 102
November 21, 2011
(Quasi) in diretta
Tanto bello, il blog sulla piattaforma wordpress, ma un po' ingessato quando bisogna aggiornarlo velocemebnte. Perché velocemente le cose accadono. E allora, per chi vuole capire cosa stia succedendo a Tahrir e dintorni, Twitter rimane lo strumento più duttile. Consultando, certo, le fonti più attendibili e/o interessanti. Su Twitter, il mio account è @invisiblearabs. Un po' più difficile, oggi, identificare un hashtag che contenga tutti i messaggi che riguardano #tahrir. Alla fine, molti dei blogger più importanti hanno scelto proprio #tahrir… ed è comprensibile il perché.
Se volete seguire la rivoluzione unfolding, se volete sfogliarla, potere seguirmi un po' su twitter. E poi navigare da soli. Ancora per una oretta farò rimbalzare i tweeps più interessanti.
Chiedo scusa a quelli che non comprendono (ancora) il gergo di twitter. Non vi preoccupate, poi diventa intuitivo.
Buona navigazione.
Un piccolo nuovo commento: non è la seconda rivoluzione egiziana. E' sempre la stessa. Come dice @arabawy, "stiamo solo portando a termine la prima". Lo dimostra Ahmed Harara, nella foto. Ha perso un occhio nella battaglia del 28 gennaio scorso, a Tahrir. Ha perso l'altro due giorni fa. Il suo commento: "Meglio essere ciechi e vivere nella dignità, che vedere ed essere umiliati".
Altra musica, doverosa. Beautiful Day degli U2. Oggi vado sui classici. Live da Chicago.
La rivoluzione o il regime
L'alternativa è semplice: il pane o i lacrimogeni. In Egitto, a giudicare da quello che ha deciso di fare il Consiglio Militare Supremo (SCAF) negli ultimi due giorni, tertium non datur. La foto – twittata dal più lucido giornalista occidentale al Cairo, Ben Wedeman della CNN – vale più di decine di analisi politologiche. Non solo per il pane e l'involucro del lacrimogeno tenuto nell'altra mano. Non solo per l'età del ragazzo, a piazza Tahrir come migliaia di altri. Ma, paradossalmente, anche per il suo abbigliamento: un impiegato, un commesso, oppure uno che – con la sua laurea in tasca – magari è riuscito a trovare un posto adatto alla sua preparazione. Un bancario, un consulente, chissà… Quello che sappiamo per certo è che rappresenta appieno la sua generazione, quella che ha fatto la rivoluzione del 25 gennaio.
Prima notizia, dunque. In piazza ci sono gli stessi che c'erano il 25 gennaio. I rivoluzionari, come chiamano se stessi. Gli attivisti, come li chiameremmo noi. Sono quelli che hanno fatto attività politica negli scorsi anni, assieme a quelli che si sono aggregati attraverso i social network. Per averne conferma, basta usare Twitter e cercare i blogger più conosciuti (salvo Alaa Abdel Fattah, ancora in carcere, e non nascondo di essere preoccupata per lui). Alcuni, tra i blogger, sono nella lista dei feriti, come Malek, uno dei cyberattivisti della prima ora. Non ci sono, dunque, provocatori, nella piazza, come invece ha detto sin dal primo momento la tv di Stato egiziana.
Lo scontro, insomma, è chiaro. Rivoluzione vs controrivoluzione, a dieci mesi dal 25 gennaio. Non ci sono, ovviamente, i milioni di persone in piazza, in questi giorni. Né potevamo aspettarcelo, perché il messaggio – rappresentato dal quel pane e dal quel lacrimogeno – è netto. O siete con noi (lo SCAF), e vi daremo la sicurezza per le strade e forse un po' di respiro per uscire dalla profondissima crisi economica. Oppure, contro di noi, non ci sarà né pane né sicurezza. Forse, dicono invece i giovani, ci saranno democrazia, diritti, e un tipo diverso di equità sociale e sviluppo economico. Ci sarà, peraltro, non-violenza. Perché quello che è accaduto in questi due giorni e mezzo parla chiaro: i ragazzi di Tahrir possono tirare al massimo pietre, pezzi divelti di marciapiede, qualche molotov, ma non proiettili. Ed è una differenza netta, rispetto anche ad altre rivoluzioni arabe.
E' questo il motivo per cui le elezioni sono, paradossalmente, la parte meno importante della vicenda. Tabto da far chiedere a molti intellettuali un loro rinvio. Ma come? Ci sono le prime elezioni libere del dopo-Mubarak e non le volete, sembrano dire i commentatori occidentali? Il problema è chi le controlla, sia dentro sia fuori dall'Egitto (sul voto all'estero e sul ruolo delle ambasciate, per esempio, esprimerei almeno qualche dubbio…). Il problema è anche la legittimazione che lo SCAF avrà da questo voto, che premierà non tanto i partiti, quegli stessi militari che all'inizio di novembre hanno blindato il proprio bilancio come esclusivo appannaggio delle forze armate.
La rivoluzione, dunque, è a rischio, come lo è da mesi. I ragazzi di Tahrir, i più politicamente lucidi, lo sapevano talmente bene da aver cominciato, da subito, una battaglia poco mediatizzata come quella contro i tribunali militari che processavano i civili. Confesso che anche a me sembrava una battaglia di retroguardia, o per meglio dire un po' èlitaria, rispetto a tutto il resto che c'era da fare. E invece avevano ragione. Quella era la battaglia, perché lo SCAF – dicevano – rappresentava il vecchio regime.
Tanto è vera questa lettura, che il punto di non ritorno si è 'recitato' in un'aula di tribunale, quando Alaa Abdel Fattah ha rifiutato di essere processato da un tribunale militare, andando in galera. Da quel momento, è cominciata la vera resa dei conti. Che non è una resa dei conti solo tra èlite passata e futura. E' una resa dei conti sociale. Qualche giorno prima di essere arrestato, @alaa aveva spiegato a Lina Atallah, ottima giornalista di Al Masri al Youm, come era cambiata la composizione sociale di piazza Tahrir. E' un passaggio obbligato, per capire cosa stia succedendo in questi giorni, ed è la reificazione di quello che il sociologo Assef Bayat ha condensato dentro Life as Politics, pubblicato lo scorso anno (ne consiglio di nuovo, soprattutto oggi, la lettura).
"The marginalized are always the core". From Christians, to tuk tuk drivers, to gay people, Alaa glorified how they challenge the status quo by denying its existence. "Now if you count the marginalized in all their forms, we are the majority, because it includes women, the poor, those who live in slums, in rural areas … That makes the mainstream a minority." […]He sees the alliance in post-Mubarak Tahrir, where the mainstream men and women – both Christians and Muslims – of the "gentrified square" retreated, ceding the place to street sellers, gangs and what-not. Along with the remaining activists of the square, this alliance stayed on, claiming post-uprising demands at a time when many others went back home seeking "stability." Those who slammed Alaa and his fellow activists for continuing the revolution after February were jealous, he says, because the fluidity of its identity allowed for cross-class solidarity. This keeps the revolution alive.
I ragazzi di Tahrir, insomma, non sono né elitari né pazzi. Sono lucidi, e rispondono ad altre esigenze, rispetto alla mia generazione di mezza età. E questo spiega anche come mai – me compresa – tutti abbiamo pensato che chi ha cercato di tenere la piazza il primo giorno fosse destinato a gestirla come il fortino di Custer. Soli, pochi, abbandonati. Poi, invece, sono arrivati migliaia di giovani (e non solo giovani) a difendere la piazza, rispondendo al tam tam di twitter. Cosa significa? Significa che la questione generazionale non è un orpello. E' un pilastro fondamentale di quello che sta succedendo nella regione. I ragazzi di vent'anni non hanno alcun problema a scendere in piazza, a morire, a cercare di difendere Tahrir. Non solo perché – ahimé – a 20 anni si muore più facilmente, senza il bagaglio di una vita che rende pesante lasciare questa terra. E' che ne va del loro futuro, di una vita bella e dignitosa o comunque possibile. Sono arrivati a piazza Tahrir, se la sono ripresa, chissà se riusciranno a difenderla. Ma non darei per scontato che la cinica politica che abbiamo costruito nei decenni e nei secoli non sia stata messa a dura prova da qualche migliaio di ragazzi. Che una lezione di politica, a tutti noi, ce l'hanno già data ieri. Con oltre venti morti, oltre un migliaio di feriti, e una pietra in mano.
Il brano di oggi per la playlist è obbligato. Il suonatore Jones di Fabrizio de Andrè.
Al shab yurid, again…
E' iniziato il terzo giorno della battaglia di Tahrir. Dopo una pausa notturna, in cui i 'ragazzi di Tahrir' hanno tenuto la piazza, stamattina si rincorrono su twitter le notizie di un possibile nuovo attacco entro breve da parte della polizia. La notte era trascorsa tutto sommato senza grandi sorprese, tra un attacco e un tenativo di mediazione da parte dell'imam della moschea Omar Makram (quella a lato del ministero degli interni). A giudicare dai messaggi su twitter, per i due giorni precedenti il cuore dello scontro per la tenuta della piazza è stato soprattutto a lato della vecchia sede dell'American University (correggetemi se sbaglio, voi che siete al Cairo…).
E' evidente che siamo alla resa dei conti. La questione elettorale, in questo caso, è veramente secondaria. Che ci siano o non ci siano le elezioni tra una settimana, la posta in gioco è altra, e ben più alta. E' in gioco in destino della rivoluzione del 25 gennaio. Ed è per questo che, oramai da mesi, inascoltati, i 'ragazzi di Tahrir' si sono concentrati sul passaggio dei poteri dai militari ai civili. Al shab yurid isqat al mushir, il popolo chiede che se ne vada il capo del Consiglio Militare Supremo, generale Mohammed Hussein al Tantawi, ex ministro della difesa sotto Mubarak, da vent'anni ai vertici delle forze armate, vero gattopardo del regime precedente.
Al shab yurid isqat al mushir, gridano quelli che stanno difendendo Tahrir e la rivoluzione. Chi sono, quelli che sono in piazza? Ve lo dico al prossimo post, tra poco. Intanto, vi anticipo solo che sono gli stessi del 25 gennaio. Nessun provocatore, nessun pazzo. Sono gli stessi che avete applaudito dieci mesi fa.
November 19, 2011
Battaglia a Tahrir
Lo si attendeva, questo scontro. Lo scontro tra i militari e i ragazzi di Tahrir. Lo scontro tra il Consiglio Militare Supremo e l'anima della rivoluzione iniziata il 25 gennaio scorso. Lo scontro tra un tentativo di restaurazione di almeno parti del vecchio regime, e gli attivisti che sono stati il cuore della rivoluzione.
Il giovane uomo che vedete ferito nella foto è la rappresentazione di quello che sta succedendo. Lui è @malek, uno dei blogger della prima ora, di quelli che ha cominciato a bloggare verso il 2005, amico di Alaa Abdel Fattah, uno dei leader della rivoluzione e della blogosfera in carcere dalla fine di ottobre. A piazza Tahrir c'era Malek, oggi, così come buona parte del nucleo più importante degli attivisti egiziani. Contro di lui e di loro, le forze di sicurezza hanno sparano lacrimogeni e, sembra, proiettili ricoperti.
Il significato politico dello scontro di Tahrir è chiaro. Il Consiglio Militare Supremo vuole stringere i tempi e consolidare un potere che ha sempre più il sapore della controrivoluzione e del tentativo di recuperare almeno pezzi del vecchio regime. I 'ragazzi di Tahrir' non cedono al compromesso politico, contestano – con i tribunali militari che stanno processando da mesi migliaia di civili – la stessa legittimità del potere militare.
Piazza Tahrir non è piena come a gennaio e a febbraio, perché la gente è stanca e la crisi economica è pesantissima. Ed è, questo, un dettaglio molto importante. I militari sanno bene che non sarebbe stato possibile, per la massa degli egiziani, continuare la pressione dalla piazza. La gente è stanca. I ragazzi no. Ma i ragazzi, ora, rischiano di essere sempre più isolati, nella tenacia dimostrata sinora per evitare una normalizzazione. Dal twitting (che è il modo più interessante, da fuori Egitto, per seguire quello che sta succedendo) l'impressione è che si stia ripetendo il copione di fine gennaio, quando la massa di manovra della Sicurezza dello Stato attaccò i rivoluzionari. Senza però – da parte dei ragazzi di Tahrir – i numeri che erano riusciti a ottenere allora. Sembra si stia assistendo a una difesa dell'ultima trincea, mentre la pressione politica e securitaria dei militari si sta intensificando.
E' iniziato anche il tam tam mediatico ufficiale. Quelli in piazza non sono rivoluzionari, dicono i funzionari del governo di transizione, ma solo disturbatori. Dai tweeps che seguo, invece, in piazza ci sono gli stessi protagonisti che erano a Tahrir il 25 gennaio. Gli stessi.
Speriamo bene.
November 18, 2011
Brook, Mozart e la crisi
Pensato ben prima di questa travolgente e profonda crisi. Espressione, semmai, del tradizionale minimalismo di Peter Brook. Eppure, questo Flauto Magico di una delle ultime icone del teatro contemporaneo sembra, oggi, lo specchio di un'attualità dura, durissima.
Sarà per la scenografia che dire scarna è un eufemismo. Sarà per i costumi che ricordano i cappottoni degli angeli del Wenders del Cielo sopra Berlino. Sarà per quanto sono giovani gli interpreti di Un Flauto Magico, liberamente tratto dall'opera di Mozart e riletto (bene, benissimo) da Brook. Sarà perché sul palco dell'Argentina di Roma (ieri c'è stata la prima) c'era soltanto un pianoforte. Sarà per tutto questo e ancora altro, ma il grande regista è riuscito in uno strano intento. Mettere in scena uno dei capolavori di Mozart, in modo che risponda a questa necessità di essere sobri, scarni e persino poco costosi.
E' la risposta migliore a un tempo difficile. In una sera romana un po' frizzante, in quello che rimane il salotto buono del teatro della Capitale, le poche canne di bambù in palcoscenico - a simboleggiare di volta in volta un boschetto, una gabbia, un albero, macerie, un tempio pagano – davano erano anche il segno dei tempi. Un segno involontario, certo, ma non per questo meno profondo. Brook aveva reso scarno il palcoscenico per dare spazio totale al sogno musicale di Mozart. E invece è riuscito anche a fare altro. Proprio alla vigilia della fiducia della politica italiana a Mario Monti…
Voto: ovviamente alto, per una vecchia amante del teatro.
Per la playlist, oggi, la scelta è obbligata. Riascoltatevi il Flauto Magico. Ogni tanto fa bene, per esempio per ricordare i classici della poesia.
Ich fühl' es, wie dies Götterbild
Mein Herz mit neuer Regung füllt.
Dies' etwas kann ich zwar nicht nennen,
Doch fühl' ichs hier wie Feuer brennen.
Soll die Empfindung Liebe sein?
Ja, ja, die Liebe ist's allein.
November 17, 2011
Summit all'orizzonte
Summit palestinese all'orizzonte. Palcoscenico, ancora una volta, il Cairo. Chi dice il 23 novembre, chi il 25. Comunque, prima delle elezioni egiziane di fine mese. E qualche significato dovrà pure averlo, la scelta della data. Mahmoud Abbas e Khaled Meshaal, dunque, si incontrano di nuovo, e stavolta non per una cerimonia ufficiale, come fu all'inizio di maggio per l'accordo di riconciliazione tra le fazioni palestinesi.
Abbas e Meshaal dovrebbero finalmente dare il via libera al governo di unità nazionale, traguardo che langue, appunto, dalla scorsa primavera. Salam Fayyad, sinora il candidato di Abu Mazen (e degli occidentali) per l'incarico di premier, ha annunciato di non voler essere ostacolo alla riconciliazione, e di non esserlo mai stato. Un'affermazione che ha fatto più volte, in questi anni. Se veramente stavolta Fayyad avesse deciso di mettersi da parte, l'accordo sarebbe fatto. E dunque, come sempre capita, occorre attendere, e capire se alle parole seguiranno le intese.
Se così fosse, se anche lo scoglio del governo di unità nazionale venisse superato, lo scenario non solo palestinese, ma regionale cambierebbe un po'. Si confermerebbe, infatti, che l'Egitto del dopo-Mubarak ha deciso di incidere con forza sul dossier palestinese: un'influenza che non aveva usato prima, visto che per anni gli egiziani avevano deciso di rinviare sine die sia la riconciliazione sia lo scambio di prigionieri (il fascicolo Shalit). Dopo la rivoluzione del 25 gennaio, quello che era stato impossibile negoziare nei cinque anni precedenti è stato risolto (del tutto o parzialmente) nel giro di pochissimi mesi.
D'altro canto, ci sono state nelle ultime settimane delle novità di rilievo, questa volta in Medio Oriente. Non solo la distanza sempre più evidente tra Hamas e il regime di Bashar el Assad. Ma anche i nuovi contatti tra Hamas e Giordania. Entrambe le novità riguardano una sola questione: se, quando e dove Hamas si sposterà, lasciando una Damasco ormai troppo problematica per la leadership del movimento islamista palestinese.
Occhio, dunque, alla politica palestinese.
November 13, 2011
Senza leader
E' finita un'epoca in Italia (ma sarà poi vero?). Si è dimesso Silvio Berlusconi. Non vedo, però, la scomparsa del berlusconismo e del suo pendant, l'antiberlusconismo. Soprattutto – ed è questo che è ancor più preoccupante – non vedo la fine di quell'egemonia culturale che ha prodotto negli ultimi quasi vent'anni il berlusconismo, e che ha messo in un angolo l'egemonia culturale che l'aveva preceduta, formata sulla generazione della Costituente.
Detto questo, in attesa che si rifletta sulle questioni vere, nel mondo arabo si riflette su qualcosa di più interessante. Che dovrebbe, peraltro, riguardare anche noi italiani ed europei, se non fossimo diventati così tremendamente vecchi e anacronistici. La questione più interessante portata alla luce dalle rivoluzioni, a mio parere, è quella della leadership. Mentre in Italia gioiamo perché un leader si è dimesso (che ci piaccia o meno, per una buona parte degli italiani B. ha incarnato la leadership), i ragazzi arabi ci fanno sapere che le rivoluzioni del 2011 sono state diverse dal passato proprio perché senza leadership. Una riflessione che alcuni sociologi, Asef Bayat in testa, fanno da anni.
Divertente, e capace di far riflettere, questo pezzo di Ganzeer (grazie, arabist).
Demonstrations, strikes, and other forms of protest carry on regardless, because today's revolution, unlike revolutions of the past, is leaderless.
If Muhammad of Mecca had agreed to the proposition offered by the powerful merchants of the time to abandon his preaching in exchange for his admission into their inner circle and an advantageous tribal marriage, that would've been the end of the "Islamic revolution" right then and there.
This revolution -this Global Revolution- unlike those historically helmed by a single leader, is the type of organic manifestation of a shepherdless proletarian revolution that Karl Marx predicted. Stating it would take place upon the development of productive forces that would lead to a superabundance of material wealth.
For such a development to happen, the Industrial Age needed to copulate with the Digital Age. Only the development of sophisticated programming softwares, together with hi-tech manufacturing facilities could produce highly automated production capabilities. Combine that with the Information Age, and you have global "enlightenment," a mass population immune to propaganda, and a society that interacts on a stateless level.
This would mean that machines, Information Technology, and the World-Wide Web… the products of capitalism itself… are to be the very death of capitalism.
How gorgeously mythological.
Graffiti con la faccia di Alaa Abdel Fattah, al centro del Cairo. Da moftasa.
November 11, 2011
Al Cairo inizia la battaglia della legittimità
Era nella natura delle cose. E' cominciata, in Egitto, la battaglia sulla legittimità del Consiglio Militare Supremo (SCAF), che regge le sorti del paese dall'11 febbraio. Dal preciso momento nel quale Hosni Mubarak si è dimesso, e si è rifugiato (almeno nel primo periodo) nella sua lussuosa villa di Sharm el Sheykh.
Quanto è legittimo lo SCAF? Quanto sono legittimi gli atti che ha compiuto in questi mesi? E soprattutto, è legittimo che il Consiglio Militare Supremo si sia potuto permettere, in questi nove mesi, di arrestare, incarcerare e giudicare attraverso tribunali militari migliaia di egiziani (12mila, secondo le ONG che si occupano di diritti umani e civili)? Non sono questioni di poco conto, anche se le abbiamo tutti sottovalutate, quando un pugno di ragazzi di Tahrir – in testa Mona Seif, la sorella minore di Alaa Abdel Fattah – ha cominciato a porre il nodo dei militari tribunali che in questi mesi hanno processato migliaia di civili.
Ora i nodi sono arrivati al pettine. Rivoluzione o controrivoluzione? Che tipo di Egitto si sta preparando? E le alte gerarchie militari che lo hanno governato in questi mesi da che parte della barricata stanno? Per molti, tra quelli che hanno fatto la rivoluzione, la risposta è chiara e netta. Sei tra le più importanti ong che si occupano di diritti umani si rifiutano ormai di incontrare lo SCAF, proprio sulla questione dei tribunali militari.
A rendere più rapido uno scontro che era già nell'aria, è stato indubbiamente l'arresto di Alaa Abdel Fattah, ora rinchiuso nel carcere di Tora. L'arresto di uno dei protagonisti di Piazza Tahrir, il più lucido dal punto di vista politico, è stata considerata non solo una provocazione, ma la conferma che gli attivisti erano diventati il vero bersaglio. E se i rivoluzionari sono il bersaglio, la battaglia sulla loro incolumità e la loro libertà diventa più che simbolica. Diventa la battaglia.
Lo dice chiaro e tondo Alaa al Aswani (a proposito, oggi pomeriggio a Palermo ne parleremo con Lucilla Alcamisi e Stefano Savona, alla Feltrinelli di via Cavour, alle 18). In uno dei suoi commenti settimanali, con il tono della parabola già usato in altri articoli, Aswani descrive le modalità della controrivoluzione. E arresti, carcere e processi ai ragazzi di Piazza Tahrir sono gli strumenti principali di un regime (quello di Mubarak) che prova a salvare se stesso. Senza pudore.
Il caso Alaa Abdel Fattah, d'altro canto, sta montando. Come ci si attendeva. Ha parlato Amnesty International. Ne parlerà il Parlamento Europeo. Sua madre, Layla Soueif, Umm Alaa, ha cominciato domenica scorsa lo sciopero della fame, e altre persone ne hanno seguito l'esempio. Compreso il patron della casa editrice – Dar Merit – che negli anni scorsi è stata l'espressione della letteratura giovane egiziana.
Una descrizione molto bella di Layla Soueif, della battaglia di una attivista che dura ormai da decenni, è stata fatta su Al Shorouk da sua sorella, Ahdaf Soueif. Grande scrittrice, una vita a Londra e un impegno costante per l'Egitto, Ahdaf Soueif era nell'aula del tribunale del Cairo assieme a tutta la famiglia di suo nipote Alaa Abdel Fattah. Famiglia di attivisti, tutti quanti. La descrizione di una vita coerente sin nei piccoli gesti dice molto non solo dell'Egitto, ma di quello che io mi augurerei per il nostro, di Paese. Una intellighentsjia seria, coerente, coraggiosa, molto coraggiosa. Tanto coraggiosa da essere sempre coscienza critica.
Buona lettura.
November 8, 2011
La Rivoluzione Egiziana a Palermo
Lontano dal Medio Oriente, nel pieno della crisi italiana, ecco il calendario delle cose (pubbliche) che farò nei prossimi giorni.
L'11 novembre, a Palermo, alla Feltrinelli di via Cavour, c'è la presentazione de La Rivoluzione Egiziana, il volume che raccoglie gli scritti di 'Ala al Aswani (Feltrinelli 2011). Un modo per capire cause, origini e futuro di una rivoluzione annunciata, con gli occhi di un grande scrittore come Aswani. Il volume l'ho tradotto, curato e introdotto. Assieme a me, ne parlano Lucilla Alcamisi, giornalista della Rai Sicilia, e Stefano Savona, che a Piazza Tahrir ha dedicato un documentario. Parlare di Egitto, ora, significa fare il punto della rivoluzione a due settimane dalle elezioni egiziane, mentre uno dei blogger più importanti d'Egitto – Alaa Abdel Fattah – è in carcere.
Il 14 novembre, a Milano, alla sede dell'ISPI a via Clerici, sempre alle 18, si presenta l'ultimo numero di Limes dedicato a Israele. Ho scritto, per questo numero, un articolo sui rapporti tra Israele ed Egitto dopo la rivoluzione del 25 gennaio. Titolo: "Il Grande Freddo". Assieme a Lucio Caracciolo, Stefania Craxi, Giampaolo Calchi Novati e Ugo Tramballi.
Poi, Roma.
November 7, 2011
Tra le guerre annunciate e le mamme
Dall'Italia, camera con vista sul Medio Oriente e sul Nord Africa.
Partiamo dall'immagine. I graffiti fanno parte della rivoluzione in Egitto. Questo è stato fatto su un muro di Luxor, e chiede la liberazione di Alaa Abdel Fattah, uno delle voci più interessanti di Piazza Tahrir. Sua madre, la professoressa Leyla Soueif, docente di matematica all'università del Cairo e storica attivista egiziana, ha deciso peraltro di iniziare lo sciopero della fame, sino a che suo figlio non sarà liberato.
Nel frattempo, i tamburi di guerra si fanno sempre più rumorosi, in Israele. L'aviazione di Tel Aviv attaccherà o non attaccherà? Barak e Netanyahu riusciranno a convincere gli altri ministri del gabinetto ristretto della sicurezza che l'attacco si può fare? In fondo, anche Shimon Peres, premio Nobel per la Pace, dice che l'Iran è il più grande pericolo per Israele…. E allora? E allora consiglio questo commento comparso sul sito online di Yediot Ahronot.
When Britain was left alone in its war against Nazi Germany, Churchill invested immense efforts and was willing to pay a high price to secure the American military aid England so direly needed. Israeli leaders understood this as well. In 1956, Ben-Gurion made every effort to secure Britain's and France's support before embarking on war with Egypt. On the eve of the Six-Day War, PM Eshkol stood firmly in the face of pressure exerted by IDF generals and Israel's public opinion, which demanded war now, because he realized Israel must not embark on such war without global support.
Netanyahu, on the other hand, blatantly disregards international help. Even the leaders of the United States and Germany, the friendliest countries to Israel, lost their trust in him. For Netanyahu, building a few more housing units in a settlement that will not remain in Israel's hands in any case is more important than securing the support of friendly powers for a risky military move whose chances of failing without such support are very high. The motives for his policy are unclear.
Even if he fears Lieberman and even if he believes in Israel's right to build in the territories, this construction is a relatively minor asset compared to securing support for the moment of truth in a military confrontation with Iran.
Any chess fan knows that one must sacrifice a pawn in order to save the king. Netanyahu proves that he is playing with Israel's future and is failing to understand the basic rules of the game. And if this is the kind of judgment he shows when weighing a fateful military move, which Israel's top defense officials don't support, there is no escaping the conclusion that Netanyahu too lacks judgment and is reckless.


