Paola Caridi's Blog, page 98

January 27, 2012

I Figli della Rivoluzione, su Rai2


Un anno dopo quella che tutti oggi chiamano la Rivoluzione del 25 gennaio, di nuovo il popolo di Tahrir e' in piazza e di nuovo l'Egitto vacilla paurosamente fra speranze e delusione, tra rabbia, voglia di cambiamento e desiderio di stabilita', dice la presentazione del lungo reportage di Marc Innaro dal Cairo. Corrispondente Rai dall'Egitto dall'(ormai lontano) 2003, Marc ha vissuto tutte le fasi della rivoluzione, dal 25 gennaio sino a oggi, sempre dal Cairo, dall'ufficio sulla corniche, a due passi da Piazza Tahrir. Il reportage sarà trasmesso domani, nella puntata del Tg2 Dossier dal titolo "I figli della rivoluzione" in onda alle 23.35 su Rai2.


Ancora dalla presentazione: "I giovani che sono stati i principali protagonisti della primavera egiziana puntano ora il dito contro i generali che dopo la caduta del regime di Mubarak hanno preso le redini del paese e non hanno esitato ad usare il pugno di ferro per reprimere le proteste di piazza. La democrazia, i diritti civili e politici, la giustizia, la liberta' d'espressione sono conquiste ancora da realizzare. Ma intanto gli egiziani sono accorsi in massa ai seggi nelle prime elezioni politiche del dopo Mubarak, percepite dalla gente come l'inizio di una nuova era di liberta' e trasparenza, dopo le elezioni – farsa del regime. Hanno vinto i Fratelli musulmani, giudicati pragmatici e pronti al compromesso dalla maggioranza degli osservatori politici. Diversamente dai salafiti, branca dell'Islam sunnita, movimento fondamentalista e tradizionalista appoggiato dall'Arabia Saudita, diventato la seconda forza politica nel nuovo parlamento egiziano. Ricostruire l'Egitto come Stato moderno e democratico capace di garantire i diritti e la sicurezza di tutti, a cominciare dalle donne e dalle minoranze religiose, non sara' un'impresa facile".


Ogni tanto continuo a chiedermi, e ancora una volta senza trovare risposta, perché mai un reportage così debba essere trasmesso alle 23.35. Mai l'onore del prime time. Sono una inguaribile idealista…


Per la playlist: Just Breathe, Pearljam.

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Published on January 27, 2012 15:46

January 25, 2012

Sorridere a Tahrir


Poi, di politica politicante, ne parliamo un'altra volta. Ora, tocca ai sorrisi. Quelli immortalati a Tahrir, 25 gennaio 2012. A un anno da quel giorno che ha cambiato tutto. Ecco le facce dell'Egitto.



Anche il poliziotto dice: Io c'ero



Mamma (Manal Hassan, @manal), papà (Alaa Abdel Fattah, @alaa) e Khaled, con la bandiera egiziana

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Published on January 25, 2012 17:08

Sabah el Thawra! Buongiorno, rivoluzione


Sabah el Thawra, Buongiorno Rivoluzione, Gooood Morning Revolution. Nonostante le numerose delusioni, i rischi, i pericoli, i morti, la galera, gli attivisti di Piazza Tahrir salutano il 25 gennaio 2012 in questo modo. Su tutte le piattaforme utili, compresi i social network. E' giornata di celebrazioni, a un anno dall'epopea iniziata in una giornata d'inverno. Sorprendente, inimmaginabile, coraggiosa, indimenticabile.


Piazza Tahrir e le strade intorno alla piazza ormai più nota del mondo arabo sono in fermento da ieri. Stamattina alle 10, la piazza della Liberazione era già piena. Complice anche il fatto che i Fratelli Musulmani, stavolta, hanno deciso di partecipare alle celebrazioni. Anzi, alcuni dei 'ragazzi di Tahrir' cominciano ad accusarli di voler monopolizzare il Revolution Day. Che è comunque, a ben vedere, la rappresentazione del loro successo: un successo arrivato senza esserselo cercato, visto che nei primi giorni della Thawra, esattamente un anno fa, i Fratelli Musulmani (la gerarchia del movimento) si guardarono bene dal partecipare alla sollevazione popolare. A Piazza Tahrir c'erano solo, in aperta contrapposizione con i vertici della Fratellanza Musulmana, i ragazzi islamisti.



A un anno di distanza, resta ancora divisione, tra una parte delle giovani generazioni islamiste, da una parte, e, sull'altro fronte, il vertice dei Fratelli Musulmani e il Partito Libertà e Giustizia che dall'Ikhwan è nato. Alcuni dei più interessanti protagonisti (islamisti) della 'rivoluzione del 25 gennaio' continuano a fare storia a sé, e non volere essere cooptati dentro l'islam politico ora al potere. È certo, però, che i Fratelli Musulmani hanno vinto, e non solo perché sono il primo gruppo parlamentare nell'Assemblea del Popolo. Hanno soprattutto vinto lo sdoganamento da parte delle cancellerie occidentali: dato non scontato, visto che sino a pochi mesi fa con i Fratelli Musulmani si continuava a non parlare e a vivere su una vulgata della storia contemporanea araba che strideva con ciò che realmente è successo in questi ultimi anni, in termini di storia dei movimenti politici.


L'Ikhwan ha vinto. Non vuol dire, però, che abbia vinto la rivoluzione. L'islam politico dei Fratelli Musulmani ha vinto le elezioni, ha lo speaker in parlamento, governerà probabilmente piazza Tahrir oggi, ha ancora una capacità di mobilitazione importante. Ma la rivoluzione è altra cosa, e con la rivoluzione tutti – giunta militare e gerarchia dell'islam politico – dovranno fare i conti. Ancora. Lo dicono le proteste dei diversi settori economici. Lo dice la crisi economica. La questione del gas butano. E soprattutto il fatto che non si intravvedano, sinora, ricette sulla richiesta fondamentale del 25 gennaio 2011: non solo la caduta del regime di Hosni Mubarak (che ancora non è caduto, ma prova a resistere), ma l'accoglienza nello sviluppo del paese sia delle generazioni più giovani che rappresentano la maggioranza della popolazione, sia di interi settori che dallo sviluppo sono stati espulsi negli scorsi anni.


La rivoluzione, insomma, è lungi dall'essersi compiuta e conclusa. Come, d'altro canto, è normale, perché le rivoluzioni non si fanno in un giorno.


Il generale Mohammed Hussein Tantawi ha annunciato ieri il parziale ritiro della legislazione d'emergenza. Parziale, e già bollata da Human Rights Watch. Dopo 31 anni senza interruzione, le leggi di emergenza in Egitto vengono tolte, salvo nei casi di "atti criminali". Una definizione vaga, in cui si può far rientrare tutto. Troppo vaga, appunto, anche per Human Rights Watch. La decisione della giunta militare arriva proprio all'indomani dell'insediamento del  nuovo parlamento egiziano, e alla vigilia dell'anniversario del 25 gennaio, ma non basta a placare gli attacchi contro l'esercito. Contro la giunta  si protesta a Tahrir. Contro la giunta si è pronunciato il cartello che riunisce gran parte dell'attivismo in un documento che ne chiede le dimissioni e il passaggio dei poteri all'autorità civile. Contro i militari consiglio di leggere questo commento di Sherif Abdel Kouddous su Al Masri al Youm, che non attacca solo la giunta, ma spiega il potere dei militari in Egitto e, in pillole, quello che è successo in questo anno di rivoluzione-transizione-controrivoluzione.


Nonostante tutto questo, nonostante tutto, oggi è l'anniversario di uno dei giorni più belli ed emozionanti per l'intera regione. Un giorno che ha cambiato tutto, e non solo al Cairo. A loro, a chi era in piazza, ai morti, ai feriti, a chi ci ha creduto veramente e continua a crederci e a pagarne il prezzo, grazie.



Nell'immagine, da Khaled Said a Mina Daniel, dal ragazzo ucciso dai poliziotti il 6 giugno del 2010, nel nome del quale si raccolsero i giovani egiziani, a Mina Daniel, uno dei ragazzi di Piazza Tahrir ucciso il 19 ottobre 2011, da mano ancora ignota. Da un martire all'altro, attraverso la penna di Hassan Fedawy. E attraverso le immagini scattate un anno fa da Eduardo Castaldo, la foto-storia di una rivoluzione, raccolta in un video dedicato a tutti gli egiziani. Grazie, Eduardo!



Per la playlist, continuo con i brani italiani. Giorgia, Gocce di memoria.

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Published on January 25, 2012 09:38

January 23, 2012

Ivano Fossati, il "bel silenzio" e la buona tv


"Io sto qui/ nella terra del vento/ nella terra dei sogni sbiancati/ e dormo con la mia porta aperta".


E' una serata di buona televisione, la serata dell'addio alle scene di Ivano Fossati, in onda su RaiTre. Per alcuni versi, una serata normale, da divano. La buona musica, le giuste parole, magari anche una sigaretta.


Le parole. Quelle che hanno senso, cuore, peso. Come le parole contenute nei versi con cui ho aperto questo blog. Sono i versi di una delle ultime (e delle più belle) canzoni di Fossati, Nella Terra del Vento, contenuta in Decadancing, l'album che segna la  sua decisione di andare in pensione. L'ultima strofa, di questo brano, è l'augurio che ognuno di noi si fa, per il proprio futuro.


Io sto qui

nella terra del vento

nella terra degli uomini

io sto qui

e io ti aspetto qui amore mio

nella casa imbiancata di sale

in questo bel silenzio


In fondo, non ci vorrebbe neanche tanto a fare una serata di buona televisione, o di buona radio, o di buon teatro, o di buona piazza. Solo gli ingredienti sono necessari, di quelli scelti con cura. Come si dovrebbero, non solo nella musica, scegliere le parole.



È una notte in Italia che vedi/ questo taglio di luna/ freddo come una lama qualunque/ e grande come la nostra fortuna/ che è poi la fortuna di chi vive adesso/ questo tempo sbandato/ questa notte che corre/ e il futuro che viene/ a darci fiato.



Per fortuna che c'è ancora chi sa scrivere poesia. E regalare parole che raccontano un paese, un tempo e le sue storture. Mio Fratello che Guardi il Mondo è uno di quei rari gioielli.


Mio fratello che guardi il mondo

e il mondo non somiglia a te

mio fratello che guardi il cielo

e il cielo non ti guarda.


Se c'è una strada sotto il mare

prima o poi ci troverà

se non c'è strada dentro al cuore degli altri

prima o poi si traccerà.



Fossati e la buona televisione non sono un segno di rottura rispetto al Medio Oriente, a Gerusalemme, al Cairo, e a tutto ciò che mi succede intorno. Poi scriverò di quello che accade qui. Il parlamento egiziano che si è riunito oggi, dopo Mubarak ma sotto Tantawi, col primo speaker islamista della storia del paese, le tante facce, le poche donne, il 25 gennaio alle porte. E poi quello che succede dentro e attorno a Hamas (Meshaal forse ad Amman domenica, il raid compiuto  oggi dagli israeliani nel compound della Croce Rossa Internazionale a Gerusalemme per prendere due dirigenti di Hamas, e l'ex speaker del parlamento Aziz Dweik di nuovo arrestato, bendato e ammanettato dagli israeliani, e l'attentato a un attivista per i diritti umani a Gaza senza che Hamas facesse nulla). Come dice Fossati, in questi tempi tecnologici, si scrive spesso la prima cosa che viene in testa. Non è detto sia quella giusta, magari quella giusta sarebbe stata invece la seconda cosa. Certe volte, è meglio un "bel silenzio". Silenzio, e buona musica.

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Published on January 23, 2012 21:59

Non chiudere RaiMed


Questo è l'appello sottoscritto da 40 intellettuali contro la chiusura di RaiMed, l'unico canale italiano e il primo in Europa diffuso anche in arabo. Contro la miopia. Chi vuole aderire all'appello può farlo anche sulla pagina Facebook di TgrMediterraneo Amici


English follows


Le "primavere arabe" rappresentano un punto di non ritorno perché la rivolta dei popoli della sponda sud è nata soprattutto per chiedere diritti e futuro. Se i percorsi elettivi consentiranno la nascita di governi democratici, la nuova frontiera del Mediterraneo sarà lo sbocco naturale del nostro Paese, sia per la cultura che ci accomuna, sia per i processi economici che s'innesteranno. Gli eventi di questi ultimi mesi ci mostrano quanto sia importante, spesso determinante, la comunicazione per la nascita delle nuove democrazie e soprattutto per creare un forte dialogo nord/sud. Per questo la chiusura di Rai Med, l'unico canale italiano e il primo in Europa diffuso anche in arabo, ci appare una decisione irragionevole, un provvedimento più che doloroso, che arriva proprio nel momento in cui sulle sponde del Mediterraneo si sta giocando una partita storica, da un punto di vista politico, economico e culturale. Cancellando la finestra di Rai Med, l'Italia, prima ancora del Servizio Pubblico Radiotelevisivo, si preclude uno strumento essenziale di intervento in un'area strategica, dove il nostro Paese dovrebbe anzi moltiplicare gli sforzi e le occasioni di presenza. Per questi motivi chiediamo alla Rai di ripensare alla chiusura di Rai Med, restituendo alla Sicilia e all'Italia quel ruolo di mediazione che sia la Storia sia la Geografia le hanno sempre riconosciuto. Vittoria ALLIATA –Islamologa, Scrittrice, Presidente PanariaFilm Pietro BARCELLONA – Doc. di Filosofia del Diritto Università (Catania) Gianfranco BETTETINI – Doc. Scienza Comunicazioni Univ. Cattolica (Milano) e già Regista Rai Nino BUTTITTA – Antropologo e Professore Emerito Università (Palermo) Omar CALABRESE – Semiologo e docente universitario (Siena) Matilde CALLARI GALLI – Antropologa, Doc. Università (Bologna) Luciano CANFORA – Filologo e Doc. Università (Bari) Franco CARDINI – Storico e già componente CdA Rai (Firenze) Bruno CARUSO – Pittore Ottavio CAVALCANTI – Direttore Dipartimento BB.CC. Univ. Arcavacata di Rende (Cosenza) Francesca CORRAO – Arabista, Doc. Università Luiss (Roma), Pres. Fondazione Orestiadi (Gibellina) Girolamo CUSIMANO Dir. Dipartimento BB.CC. Università (Palermo) Gabriella D'AGOSTINO – Doc. Università (Palermo) Emma DANTE – Regista Tullio DE MAURO – Linguista, Doc. Università La Sapienza, Presidente Premio Strega (Roma) Paolo FABBRI – Semiologo, Doc. Università (Bologna), Direttore Fondazione Federico Fellini (Rimini) Mario GIACOMARRA – Preside Facoltà Lettere e Filosofia (Palermo) Giuseppe GIARRIZZO – Storico, Professore Emerito Università (Catania) Pier Carlo GRIMALDI – Rettore Università Scienze Gastronomiche (Pollenzo-Bra) Walter HARRISON – Antropologo, Doc. Università (Ferrara) Roberto LAGALLA – Rettore Università (Palermo) Luigi LOMBARDI SATRIANI – Antropologo, Doc. Università Suor Orsola Benincasa (Napoli) Dacia MARAINI – Scrittrice Pedrag MATVEJEVIC – Scrittore (Zagabria), Doc. Università La Sapienza (Roma) Giacomo MULE' – Preside Lettere Università Kore (Enna) Salvatore NIFFOI – Scrittore (Orani) Salvatore Silvano NIGRO – Doc. Letteratura Scuola Normale Superiore (Pisa) e Yale University. Franca PINTO – Preside Facoltà Lettere e Filosofia (Foggia) Vincenzo ROTOLO – Presidente Centro Studi Bizantini e Neo Ellenici (Palermo) Giovanni RUFFINO – Presidente Centro Studi Filologici e Linguistici Siciliani (Palermo) Giovanna SALVIONI – Antropologa, Doc. Università Cattolica (Milano) Ivan SCINARDO – Dir. Centro Sperimentale di Cinematografia (Palermo) Antonio SELLERIO – Editore (Palermo) Tullio SEPPILLI – Dir. Istituto Etnologia e Antropologia culturale Università (Perugia) Amalia SIGNORELLI – Antropologa, Doc. Università Federico II (Napoli) Tommaso STRINATI – Coord. Didattico Centro Sperimentale Cinematografia (Palermo) Giuseppe TORNATORE – Regista, Premio Oscar 1990 Roberta TORRE – Regista Leonardo URBANI – Urbanista, Doc. Università (Palermo) Janne VIBAEK PASQUALINO – Presidente Museo internazionale delle Marionette (Palermo) Emanuele VISCUSO – Presidente Sicilian Film Festival (Miami)



TV: 40 INTELLECTUALS PROTEST AGAINST CLOSING RAI MED

LETTER SENT TO NAPOLITANO AND MONTI

(ANSAmed) – ROME, JANUARY 20 – Forty Italian and foreign intellectuals have protested against the closing of Rai Med (the television channel of Rai television dedicated to the Mediterranean area and also broadcast in Arabic). The addresses of the letter of protest include Italian President Giorgio Napolitano,…… President of the Senate Renato Schifani, Speaker of the House Gianfranco Fini, the President of Rai's Supervisory The document was signed, among others, by Omar Calabrese, Luciano Canfora, Franco Cardini, Tullio De Mauro, Dacia Maraini, Predrag Matvejevic, Antonio Sellerio and Giuseppe Tornatore.


"The events of the past months have shown us how important, often even crucial, it is to have communication for the birth of new democracies, and particularly to create a strong north-south dialogue," the document reads. "Therefore closing Rai Med, the only Italian channel and the first in Europe that is broadcast in Arabic, is an unreasonable decision in our eyes. It is more than painful, particularly at a moment when historic events are unrolling on the Mediterranean shores from a political, economic and cultural viewpoint." "Removing the window of Rai Med" the document adds, "Italy and the public radio and television service lose a crucial tool to intervene in a strategic area, where in fact our country should increase its efforts and opportunities to be present.


Therefore we ask Rai to reconsider the closing of Rai Med, giving back the mediating role to Sicily and Italy which History and Geography have always recognised them." (ANSAmed).

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Published on January 23, 2012 08:51

January 22, 2012

Della hindeh, ovvero cicoria, e di altre erbe


Da Hajj Ali, ieri, c'era l'intero catalogo dell'inverno palestinese. Le arance di Gerico, le franzawi, e cioè le tarocche. E quelle che invece piacciono a me, un po' aspre, da tagliare a fette e condire con sale olio e pepe. C'era la rucola selvatica, il jarjir, gli spinaci (sabaneh) versione palestinese, patate di campagna, mele del Golan. C'era, soprattutto, la hindbeh piccolina, freschissima, a mazzetti dentro una larga cesta di vimini.


Dente di leone, cicoria. Hindbeh, appunto. Un po' più vicina a quello che a Roma è il cicorione. Purtroppo, però, non cresce come il cespo dai cui germogli si fa l'insalata più buona della tradizione romana, le puntar elle. Più chiara rispetto al cicorione, nella versione più tenera sembra quasi quell'erba che, quando ero piccola, mia madre usava chiamare la barba dei frati.


Fatta bollire per cinque minuti, ripassata con olio aglio e peperoncino, è una citazione quasi fedele della cicoria ripassata. Semmai, ha un sapore più raffinato, meno amaro. Nella tradizione culinaria palestinese, la si lava, si taglia piccola piccola e la si mescola con il sale, per levare – appunto – l'amaro di troppo. Si può mangiare, dunque, come una normale insalata, con l'immancabile limone, sale e olio rigorosamente di oliva (il migliore è sempre quello di Beit Jala, diventato ormai carissimo perché gli oliveti, nell'area di Betlemme, sono stati espropriati e sradicati per far posto al Muro di separazione costruito da Israele). La hinbeh, però, si può anche cuocere, con poche differenze rispetto alla ricetta italiana. Bollita, poi ripassata con olio e cipolla, al posto dell'aglio. A parte, fanno soffriggere della cipolla nell'olio sino a che non diventa bruna, e poi mescolano tutto assieme, con un po' di coriandolo e limone.


Per una romana, la hindbeh ha la capacità di moderare la nostalgia del proprio paese. Non è che proprio riesca del tutto a pacificare, soprattutto quando Gerusalemme si incupisce sotto la pioggia costante e a dirotto descritta magistralmente da Amos Oz in Michael mio. Almeno, però, è una delle tante citazioni  possibili in un posto, come Gerusalemme, in cui erbe, verdure e gastronomia riportano a una terra comune. La terra e il mare di mezzo.


La foto fa parte della collezione Matson, conservata presso la Library of Congress. La trovate tutta su internet: un viaggio incredibile in Palestina.


Mi sono accorta di non aver messo nessun brano di Danilo Rea, in questa playlist virtuale. Rimedio subito: Che cosa c'è.

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Published on January 22, 2012 13:19

January 20, 2012

E in Marocco ci si dà fuoco


Se avete meno di quattro minuti di tempo, seguite questo link, e guardatevi questo video. E' vero, è in arabo. Ma non serve sapere l'arabo, e neanche il darija, la versione nazionale dell'arabo in Marocco, per cogliere alcuni elementi di questo video. Intanto, è un bel video, fatto bene, moderno, pieno di appeal, persino troppo professionale. È l'espressione di quello che la cultura dei giovani arabi sa fare. Un bel video, e un video politico, che serve a promuovere la manifestazione del 22 gennaio. La manifestazione di domani per la riforma del Marocco, per  libertà, dignità e democrazia, come dicono gli stessi aderenti al Movimento 20 Febbraio. È il movimento che è sceso nelle piazze marocchine poco meno di un anno fa, e che ancora continua a portare giovani per strada (la foto è stata scattata lo scorso fine settimana a Casablanca).


Sino a pochi giorni fa, nel movimento c'erano tutti, dai laici agli islamisti, sino a che il partito più importante dell'islam politico marocchino fuori dal gioco elettorale non ha deciso di staccarsi dal M20F. Una perdita importante, perché ora nel Movimento 20 Febbraio ci sono solo i laici, e molti di loro appartenenti alla sinistra. Una perdita, dunque, che inficia una coralità di voci che invece, in Egitto, aveva fatto la differenza, a piazza Tahrir.


Nonostante i problemi interni, nonostante la defezioni, il  M20F continua  a esistere, e a segnalare che in Marocco succede qualcosa. Anzi, succede molto di più di quanto riesca a filtrare nei giornali europei. Dove Rabat è tornata d'attualità sono quando è successo qualcosa di eclatante. Qualcosa immortalato nel secondo video che vi propongo


Quest'altro video è molto meno semplice. Mostra ragazzi che si danno fuoco. Sono disoccupati laureati, come si definiscono loro stessi. Cinque di loro si sono dati fuoco per protestare contro la disoccupazione qualificata. Tre sono stati  portati all'ospedale per le ustioni riportate. E' una protesta estrema che influirà sulla presa che il Movimento 20 febbraio può avere sull'opinione pubblica marocchina? Chissà. Una cosa è certa: il Marocco non è né pacificato né  normalizzato. La spinta per la riforma non solo della monarchia, ma del sistema politico, amministrativo, economico nel suo profondo non si è conclusa con le manifestazioni della primavera, con la riforma costituzionale dell'estate e con le elezioni dell'autunno.


Ci sono arresti e ci sono processi, per esempio, che colpiscono proprio il Movimento 20 Febbraio, o quel sostegno che c'è alle richieste del movimento.  Un rapper arrestato, e poi liberato. Un altro ragazzo, Mehdi, arrestato, e poi mandato ai domiciliari per aver mostrato un cartello in cui accusava la polizia. Una cyberattivista di fede repubblicana di cui su twitter si denuncia la sparizione, dopo aver messo in rete le sue idee sulla riforma. Ci sono foto, sempre su twitter, che denunciano le maniere forti della polizia.


E poi ci sono discussioni politiche di tutto rispetto sulla riforma, e sul fatto che quello che è successo finora non è abbastanza, perché tutto venga pacificato.


Occhio al Marocco, dunque. Anche al Marocco. Perché non venga espunto dall'immagine d'insieme del Medio Oriente e del Nord Africa. Proprio ora. E soprattutto, anche in Marocco si conferma che la protesta 'di generazione', quella che pone domande serie alla vecchia politica, ha una cifra diversa là dove la pop culture giovanile ha avuto uno sviluppo brillante e punte d'espressione molto interessanti. E' lì, in questa costruzione di una cultura generazionale diversa, artistica tanto quanto politica, che bisogna guardare il cambiamento reale nel mondo arabo. Non disconoscerlo e non sottovalutarlo.


Discontinuità, nella playlist di oggi. Niente rap arabo, anche se lo amo molto. Ma siamo nel periodo dei Pearl Jam. E dunque: Black.

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Published on January 20, 2012 22:41

January 18, 2012

Gerusalemme come non l'avete mai vista


E' un appuntamento al quale non si può mancare. I capi delegazione europei a Gerusalemme – il gruppo dei consoli, insomma, da non confondere con gli ambasciatori a Tel Aviv – stilano ogni anno un rapporto sullo stato dell'arte a Gerusalemme. E come ogni anno, il rapporto non va solo a Bruxelles e ai rispettivi ministeri degli esteri, ma viene 'filtrato' ai giornali.


E' successo anche quest'anno, e anche quest'anno Haaretz, il Guardian, lo Independent hanno dato spazio al quadro che i consoli europei hanno tracciato. Più pessimista del solito, perché la situazione – anche se non lo leggerete spesso sui giornali italiani – è tutto meno che tranquilla. C'è un motivo evidente, che sta alla base del fatto che il rapporto viene passato ai giornali. Perché non rimanga lettera morta, e diventi di dominio pubblico. Perché, insomma, non rimanga un rapporto destinato solo al piccolo pubblico dei diplomatici e della eurocrazia. Perché, infine, non si possa dire che l'Unione Europea non sapeva nulla di quello che, giorno per giorno, succede a Gerusalemme.


Non succede nulla di eclatante. Non succede nulla che raggiunga le prime pagine dei giornali. Quello che quotidianamente succede, però, mette a repentaglio (o meglio, lo ha già messo, a repentaglio, se non impossibile) la possibilità che si realizzi la soluzione dei due Stati. Una soluzione dei due Stati, Israele e Palestina, di cui fa parte integrante e ineludibile il fatto che Gerusalemme sia capitale dei due Stati. Che Gerusalemme est sia capitale della Palestina. I fatti sul terreno, determinati dalle politiche israeliane, rendono ormai quasi impossibile che questo possa succedere.


A dirlo non sono solo i palestinesi, né solo le ong che si occupano del destino di Gerusalemme. Non sono solo i giornalisti che lo vedono con i loro occhi, qui in città. Lo dicono, ormai da anni, i consoli europei.


La lista dei "fatti sul terreno" è lunghissima. Parla di una parte della città, quella in cui vivono 200mila palestinesi, il 37% della popolazione, a cui va il 10% del bilancio della municipalità (controllata da Israele). Parla della presenza di 197mila coloni israeliani nella parte palestinese di Gerusalemme, di cui 3500 coloni radicali dentro la Città Vecchia e nelle aree più sensibili attorno al cosiddetto Historic Basin, in sostanza i luoghi santi di Gerusalemme. Parla di una politica di divisione dei palestinesi dalla Città Vecchia che Israele attua attraverso la costituzione di parchi archeologici, parchi pubblici, licenze edilizie per i coloni radicali: un anello ormai quasi chiuso attorno alle antiche Mura di Solimano il Grande. Parla dell'emigrazione dei cristiani dovuta in gran parte (a denunciarlo sono le autorità cristiane) non alle pressioni esercitate dai musulmani, bensì alla politica di divisione delle famiglie attuata dalle autorità israeliane attraverso la restrizione ai ricongiungimenti famigliari, e la frattura tra Gerusalemme e Betlemme. Parla di sole 200 licenze edilizie concesse ogni anno ai palestinesi, a fronte di un fabbisogno di 1500, che rende l'abusivismo edilizio a Gerusalemme est una necessità.


Tutto – e moltissimo altro – documentato dentro il rapporto, che è disponibile integralmente su internet.


Il documento fa anche raccomandazioni ben precise sia ai rispettivi paesi sia a Bruxelles. A differenza degli scorsi anni, il rapporto 2011 preme molto sulla tracciabilità dell'economia delle colonie, indicando nel sostanziale boicottaggio di prodotti ed esponenti dei coloni radicali una delle vie. Uno spostamento evidente nella linea indicata dai consoli europei a Gerusalemme, che farà molto discutere dietro le quinte. Le condizioni in cui versa Gerusalemme est, d'altro canto, sono molto peggiorate nell'ultimo anno, e le richieste che provengono dalla diplomazia che qui opera è specchio dell'urgenza, di uno stato di emergenza.


Il rapporto sembra peraltro del tutto in linea con quello che è avvenuto al Palazzo di Vetro di New York a settembre. La necessità di creare lo Stato di Palestina è nei fatti, e Gerusalemme è parte integrante di questo processo.


Il brano della playlist di oggi è, di nuovo, di Fiorella Mannoia. La sua particolare versione di Io che amo solo te. Molto bella.

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Published on January 18, 2012 17:56

January 17, 2012

Meshaal cede il posto?


Khaled Meshaal non intenderebbe ripresentarsi candidato per le elezioni alla guida del politburo di Hamas. Un fulmine a cielo aperto, se l'indiscrezione –  proveniente dal Libano e  arrivata a un giornale comunque bene informato come Al Quds al Arabi – fosse confermata. Khaled Meshaal – numero uno dell'ufficio politico dal 1995, da quando Moussa Abu Marzouq, allora alla guida del bureau, venne arrestato al suo rientro negli Stati Uniti – avrebbe detto di non potersi più ricandidare perché già al secondo mandato, e che è ora di lasciar spazio alla nuova generazione di dirigenti di Hamas.


Accanto alla notizia di un possibile passo indietro di Meshaal, c'è quella – contemporanea – del trasferimento di Moussa Abu Marzouq in Egitto, con la sua famiglia. Il numero due dell'ufficio politico ha dunque lasciato definitivamente la Siria della repressione di Bashar el Assad, una mossa per nulla sorprendente, e che anzi si attendeva da mesi.


Cosa significa tutto questo? Intanto, per comprendere meglio, qualche ulteriore informazione sul rapporto tra Meshaal e Abu Marzouq. Abu Marzouq è considerato l'uomo che ha riorganizzato la struttura di Hamas, e soprattutto la divisione netta tra ala politica e militare nel 1989, quando il movimento islamista subì uno dei colpi più duri da parte di Israele, con una serie di arresti che decimò lo stesso vertice dello Harakat al Muqawwama al Islamiyya. Alla guida del bureau fino al 1995, quando venne arrestato negli USA (salvo poi essere liberato molti mesi dopo e rispedito in Giordania), Abu Marzouq aveva come suo vice proprio Meshaal, che assunse il ruolo di capo del politburo per evitare il vuoto di potere.


Nel 1997, il Mossad tenta di avvelenare Meshaal ad Amman, non ci riesce, e re Hussein negozia il rilascio di due agenti dei servizi segreti israeliani chiedendo in cambio a Netanyahu la liberazione di Sheikh Ahmed Yassin, in carcere per una condanna all'ergastolo. Il prezzo da pagare, per Hamas, sarebbe stato il trasferimento dell'ufficio politico da Amman a Damasco, dove il tandem Meshaal-Abu Marzouq ha funzionato sino ad oggi. Meshaal il numero uno, il più visibile, l'uomo che ha fatto da competitor nei confronti di Mahmoud Abbas. Abu Marzouq dietro le quinte, lo stratega, l'uomo dei negoziati, sia tra le diverse ali del movimento sia con gli egiziani.


E' stato lui a fare la spola, per anni e anni, tra Damasco e il Cairo, capo negoziatore sui diversi dossier: la riconciliazione tra Hamas e Fatah, lo scambio di prigionieri tra Israele e Hamas, le diverse tregue tra Tel Aviv e Gaza.


Sarà dunque lui a succedere a Meshaal e ritornare alla guida del bureau politico? Forse, ma non è detto. A favore di una sua rielezione c'è il consenso (forte) che raccoglie dentro Hamas, soprattutto nella vecchia dirigenza a Gaza. E ci sono poi i suoi buoni rapporti con gli egiziani, anche con i Fratelli Musulmani. Contro la sua rielezione – che significherebbe la conferma del ruolo dei dirigenti di mezza età, quelli che hanno deciso nel 2005 la partecipazione di Hamas alle elezioni e alle istituzioni dell'Autorità Nazionale Palestinese – c'è la pressione dei giovani. Soprattutto dei trentenni. Una parte ancora poco leggibile della dirigenza di Hamas, concentrata in massima parte a Gaza.


Sono di certo meno moderati e meno pragmatici di Abu Marzouq, di Aziz Dweik e della pattuglia di leader della Cisgiordania, di Ghazi Hamad e di Ahmed Youssef a Gaza. Contano, probabilmente, sul sostegno di Ismail Haniyeh, e sul fatto che Gaza è l'unico pezzo di terra in cui Hamas detiene il potere.


La vera domanda è, però, quale peso avrà l'ala militare, e cioè l'ala militare di Gaza. Sino ad alcuni anni fa, l'ala militare era totalmente separata dall'ala politica. Ora, ci sono buone probabilità che nell'elezione del capo dell'ufficio politico l'ala militare dirà la sua. Voterebbe Abu Marzouq? Oppure farebbe una scelta meno pragmatica e più legata alla gestione del territorio? In gioco, con il posto di guida dell'ufficio politico, non ci sono solo le ambizioni personali, in un  movimento di massa come Hamas. Ci sono gli equilibri interni tra le 4 constituency che lo compongono. E ci sono, anche se non determinanti, le spinte ancora confuse da parte dei paesi arabi. Non solo l'Egitto, che è rientrato in gioco da molti mesi nella politica palestinese, da quando è stata firmata, il 4 maggio scorso, la riconciliazione tra Hamas e Fatah al Cairo. Ma tutta la penisola arabica, dal Qatar agli Emirati Arabi Uniti (protagonisti di una mediazione che coinvolge la Giordania e che riguarda la pressione perché Hamas cambia il proprio status in quello di sezione palestinese dei Fratelli Musulmani, svincolandolo formalmente dalla branca giordana). Sino all'Arabia Saudita, che sembra voglia definitivamente staccare Hamas dall'Iran. E il trasferimento di Abu Marzouq da Damasco al Cairo, in questo senso, assumerebbe un significato ancor più pesante.


Ipotesi, dunque, tante, ma senza usare la sfera di cristallo. Wait and see. Aspettiamo. Gli eventi, poi, scioglieranno i nodi.


Per la playlist, uno dei più bei brani dei Pearl Jam, Just Breathe.

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Published on January 17, 2012 08:39

January 14, 2012

Segnatevi il 14/1…


Era il titolo del mio post, qui su invisiblearabs.com, esattamente un anno fa. Segnatevi il 14/1, il 14 gennaio 2011. Zine el Abidine Ben Ali, ZABA, non era ancora caduto. Lo sarebbe stato entro poche ore da quando postai quel messaggio, dando la stura – simbolica – a un domino che nel mondo arabo non si è ancora concluso. Su avenue Bourghiba, dove oggi questi ragazzi manifestavano per aver lavoro, esattamente un anno fa i tunisini superavano la barriera della paura che li aveva costretti per decenni sotto un regime sempre più autocratico. E nel giro di 12 ore avevano buttato giù ZABA e assieme a lui il sistema di corruzione economica dei Trabelsi, il clan della moglie. ZABA, uno dei nostri amici più stretti, amici dell'Occidente.


Nel corso di quest'anno, ho sentito parlare di primavera, autunno, inverno arabo, come se si fosse alle sfilate di moda di Milano o Parigi. Poca competenza, malafede, pressapochismo, vecchie categorie. Ho sentito e letto di tutto, durante l'annus mirabilis 2011. Ho sentito pochissima autocritica, poca fantasia, e soprattutto sono stati pochi – tra i politici e i diplomatici – a spendersi per chi, durante tutto il 2011, è morto, è stato ferito, ha rischiato la vita per dignità, libertà e democrazia.


A un anno di distanza, la Tunisia ha un parlamento, un primo ministro, un presidente. L'Egitto è messo molto peggio, anche perché non ha la libertà dai lacciuoli strategici e diplomatici che la legano a precise strategie regionali e sovraregionali. La rivoluzione del Bahrein è stata soppressa nel sangue, senza che l'Occidente si spendesse per fermare l'intervento saudita a difesa del monarca di Manama. Gheddafi è morto, ucciso alla fine di una rivoluzione trasformatasi poi in altro (grazie anche alla nostra partecipazione militare…). La Siria sta vivendo una tragedia quotidiana, anche grazie a quello che di quel paese non sappiamo, perché non abbiamo curato la conoscenza delle strutture del potere, della burocrazia, delle forze armate: se ne sapessimo di più, sapremmo anche cosa fare, come agire, quali mezzi usare per fermare la repressione del regime di Bashar el Assad. In Arabia Saudita, di tanto in tanto e attraverso twitter, veniamo a conoscenza di piccole manifestazioni, di disagio, dei tentativi di ribellarsi al potere più conservatore dell'area, che è anche l'alleato che ci teniamo ben caro, girandoci dall'altra parte quando i diritti di tutti (donne in prima fila) vengono calpestati.


Conclusione: non è né la primavera né l'inverno. E' il risveglio arabo. Il secondo, dicono gli intellettuali della regione, nella storia contemporanea degli arabi. Declinati diversamente da quello che vorremmo. Compreso spesso in maniera differente da quello che succede nella realtà. I giovani, nell'interpretazione corrente, sono stati già rimessi al loro vecchio posto: di lato, perché alla politica ci devono pensare i "grandi". E loro, i giovani, rischiano semmai di essere più un fenomeno da baraccone che la reale forza propulsiva che ha voluto e fatto le rivoluzioni. Ecco, la sottovalutazione di quello che i giovani hanno fatto, e faranno, porta già alla luce la nostra incapacità di interpretare. Tra un po', forse, ce ne renderemo conto.


Intanto, qualche scrittore arabo prova a descrivere le rivoluzioni sul Guardian.


Per la playlist di oggi (e come poteva essere altrimenti, visto l'argomento…): Lou Reed, Perfect Day.

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Published on January 14, 2012 11:50