Paola Caridi's Blog, page 100

December 16, 2011

La discussione che non si vede


C'è, ma non si vede poi tanto. C'è, ma arriva – solo un po' – in superficie quando giungono notizie non proprio felici da questo pezzetto di pianeta. E' la discussione in corso, a volte molto dura, all'interno del mondo ebraico, soprattutto negli Stati Uniti, sullo stato in cui versa Israele. E' una discussione a tratti aspra, che coinvolge la variegata comunità ebraica americana (con tutte le divisioni al suo interno) e gli intellettuali israeliani. Non gli uni contro gli altri, non la diaspora contro Israele. Semmai, i fronti sono segnati dalle culture politiche: progressisti ebrei americani assieme alla sinistra (oltre i laburisti) israeliana. Destra americana assieme alla destra israeliana.


Vado oltre, ovviamente, il caso di Newt Gingrich e le sue affermazioni sul popolo palestinese "inventato". Dietro il caso Gingrich c'è molto altro. Il cuore della discussione riguarda i profondi cambiamenti in atto nella legislazione israeliana, gli attacchi sempre più forti alle associazioni per la difesa dei diritti umani e alle Ong progressiste che ricevono finanziamenti da oltre Atlantico. E poi gli attacchi sempre più forti alla magistratura israeliana, accusata – in sostanza – di essere troppo progressista, tanto da aver fatto scendere in campo la stessa Dorit Beinisch, capo della corte suprema, per stigmatizzare gli attacchi fatti ai politici ai giudici. E poi la condizione delle donne israeliane, sempre più pressate dai settori ortodossi. E poi il ruolo della religione nello Stato: una questione che, nella riflessione degli intellettuali israeliani e della diaspora, sta suscitando – questo sì – un vero e proprio vespaio….


Di questa discussione, per nulla sotterranea, si sa poco, in Italia. E allora do qualche consiglio di lettura. A cominciare proprio dall'ultimo punto, che dagli intellettuali ebrei (israeliani e della diaspora) è definito come il timore che Israele si stia trasformando in una teocrazia. Ne parla, per esempio, Eric Alterman su Forward, che sottolinea, in questo caso, la divisione tra diaspora negli USA e Israele.


It is becoming increasingly obvious that a break between Israel and Diaspora Jewry, particularly its American variety, is fast approaching. The reason for this is that Israel is slowly but inexorably turning into a conservative theocracy while the Diaspora is largely dedicated to liberal democracy.



Della crisi della democrazia israeliana, a dire il vero, hanno parlato gli intellettuali più conosciuti, a cominciare dagli scrittori che in Italia vanno per la maggiore. Amos Oz, assieme a un'altra settantina di studiosi e scrittori, ha firmato per esempio una lettera di protesta contro quello che sta succedendo, soprattutto alla Knesset, parlando proprio di legislazione "antidemocratica". Sami Michael, altro grande scrittore, ha avuto parole durissime, nel suo ultimo commento pubblicato su Yediot Ahronot.


The forces of darkness are tricking prominent institutions into eroding democracy's strongholds. They aim to undermine the High Court of Justice and we will stand in their way. They wish to weaken human rights groups and we will stand in their way. They want to dismantle organizations that strive to bring peace and end the occupation. We will stand in their way.



La questione, però, è diventata stringente non tanto sulla questione delle leggi in discussione alla Knesset, quanto sugli ultimi eventi in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Che i coloni attacchi i palestinesi, le loro proprietà, gli oliveti e le moschee, non è cosa nuova. Semmai è cosa poco conosciuta in Italia, ma succede da anni. Il fatto nuovo – dice per esempio Dahlia Scheindlin su 972mag – è che stiamo assistendo a una vera e propria intifada degli ebrei (israeliani). L'analisi della Scheindlin scende nel profondo, è raffinata nella sua disamina delle divisioni e delle inusitate alleanze di questi ultimi giorni nella politica israeliana, e forse è difficilmente comprensibili per coloro che non si occupano di Israele e Palestina tutti i giorni. Vale la pena, però, leggersi il suo articolo, perché dà conto di una situazione della cui complessità poco o nulla ci si occupa, in Italia.


E infine, nei consigli di lettura, una nota di colore. Che poi, di colore, non è così tanto, ma semmai illumina settori sociali che in Israele sono sempre meno minoritari. C'è chi sta pensando all'elettricità kosher, all'elettricità di shabbat. Discussione non di poco conto, di cui si parla – e non a caso – su IsraelNationalNews, l'agenzia di stampa dei coloni.

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Published on December 16, 2011 08:04

La 'lunga marcia'?


La notizia non ha fatto molto scalpore, ma il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte dell'Islanda è molto di più di un passo singolare compiuto da un piccolo paese ai margini del Vecchio Continente. Non foss'altro, dal punto di vista simbolico, perché l'Islanda fu all'avanguardia dei paesi che all'inizio degli anni Novanta decisero di riconoscere gli stati baltici all'indomani della fine dell'Unione Sovietica.


"Siamo passati dalle parole ai fatti". È stato questo il primo commento di Oessur Skarphèdinsson, il ministro degli esteri di Reikiavik, dopo che l'Islanda ha deciso ieri di riconoscere ufficialmente lo Stato di Palestina.


È il primo riconoscimento da parte di un paese dell'Europa occidentale, ed è arrivato all'indomani di una cerimonia altamente simbolica che si è tenuta di fronte alla sede dell'Unesco, a Parigi. La bandiera nera, bianca verde e rossa è stata issata alla presenza del presidente dell'ANP, Mahmoud Abbas, sancendo definitivamente l'ingresso della Palestina nell'organizzazione.


Senza grande clamore, continua dunque il cammino per il riconoscimento dello Stato di Palestina entro la Linea Verde definita prima della guerra del 1967.


Le pressioni finanziarie, soprattutto da parte degli Stati Uniti e di Israele che si oppongono al riconoscimento al di fuori di negoziati bilaterali, non si sono però attenuate. L'Unesco comincia a sentire la mancanza di fondi, dopo la sospensione del contributo da parte degli Stati Uniti. E anche l'Unrwa, l'agenzia dell'Onu che aiuta i rifugiati palestinesi, deve fare i conti con un bilancio più magro. Ad aiutare l'UNRWA, però, è arrivato ieri il Brasile, che ha versato poco meno di un milione di dollari, in una cerimonia tenutasi non casualmente a Gaza, al centro delle preoccupazioni del Brasile per la crisi umanitaria. Il gigante latinoamericano ne ha promessi  7 e mezzo, di milioni di dollari, all'alto commissario dell'UNRWA, Filippo Grandi. E il commento di Grandi non ha fatto altro che sottolineare quello che, nel cono d'ombra della politica internazionale sul Medio Oriente, sta succedendo in questi ultimi mesi.


"I am thrilled that Brazil, a country with growing global influence – a country of the future – has decided on such a sizable contribution in support of UNRWA for one of the most disadvantaged populations in the Middle East – the Palestine refugees. Not only will it provide help directly to the people in need, but it also demonstrates that the refugees remain of global concern and continue to receive support from the entire international community."


Il Brasile, esattamente un anno fa, aveva riconosciuto lo Stato di Palestina, guidando la pattuglia di paesi latino-americani che hanno deciso di sostenere la richiesta dell'ANP. Anche in questo, aprendo o chiudendo i rubinetti delle agenzie dell'Onu, si fa politica estera. E non è detto che siano solo gli Stati Uniti a farla, come dimostra il caso brasiliano.

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Published on December 16, 2011 06:53

December 14, 2011

Razzismo è il suo nome. E noi (giornalisti) siamo complici


L'Italia si è già divisa in due. Tra chi pensa che l'autore della 'caccia al senegalese' e dell'uccisione di Samb Modou, 40 anni, e Diop Mor, 54 anni, sia solo un pazzo, imbevuto di idee neonaziste. E chi, invece, pensa che questo sia solo un segno dell'ordinario razzismo che sta percorrendo la società italiana. Io sto con chi pensa che questo sia un segno, un segno terribile, di quello che cova nel mio paese. Può anche darsi che Gianluca Casseri fosse veramente pazzo, come Anders Behring Breivik, il norvegese (anche lui solo, pazzo e neonazista) che fece strage di ragazzi lo scorso luglio. Questo, però, ci basta, a sanare quel profondo senso di smarrimento che – credo – ha colpito molti italiani? Questo, soprattutto, assolve noi giornalisti dalle colpe che ci dobbiamo, per correttezza morale, assumere?


Francamente, oggi, non mi interessano le colpe dei politici. Non mi interessa Casa Pound, non mi interessano i gruppuscoli neofascisti o neonazi. Non mi interessa neanche la vita privata e il malessere di Gianluca Casseri. Mi interessa quello che ha fatto, non ha fatto, avrebbe potuto fare la professione alla quale ancora appartengo. Quella dei giornalisti.


Ieri su Facebook, subito dopo la notizia della caccia razzista a Firenze, nella Firenze nella quale ho vissuto e studiato per lunghi cinque anni, avevo scritto che non mi sentivo assolta dalla colpa, in quanto giornalista. Un amico, un caro amico, ha replicato che era ora di finirla con il "tutti colpevoli, nessun colpevole". E che i colpevoli hanno nomi e cognomi. Io credo, a mente lucida, che siano vere le entrambe le posizioni. E che il fatto che ci siano precisi responsabili, nella categoria, che hanno rinfocolato il razzismo sulle prime pagine e sulle pagine interne dei quotidiani, così come nelle notizie in tv, non salvi noi tutti, noi tutti, da una corresponsabilità. Da una complicità che è fatta non solo e non tanto di silenzio, ma di sottovalutazione. E, poi, di quel modo di fare – tipico dei giornalisti italiani – per il quale anche noi siamo casta, e anche tra di noi vige la regola che "cane non mangia cane".


Abbiamo vissuto, tutti, all'ombra di una deriva razzista prima strisciante, e oggi diffusa, costruita assieme a una nuova egemonia (sotto)culturale che non abbiamo combattuto. Combattuto in nomi dei valori ai quali io, e non solo io, sono stata educata e formata. E' per queste semplici ragioni che credo fermamente nella nostra complicità. Né penso che sia stata abbastanza quella Carta di Roma, voluta da Laura Boldrini e Roberto Natale contro la stessa categoria dei giornalisti (ricordo ancora le lungaggini, le rimostranze dei cronisti, la tenacia encomiabile di Laura e Roberto), per proteggere i migranti, gli stranieri, i cosiddetti 'diversi' da noi stessi. Da noi giornalisti.


Non basta la Carta di Roma non solo perché è ampiamente disattesa, ma perché è l'ennesima foglia di fico su di una professione che non ha mai fatto un serio esame di coscienza. Su troppi fronti. C'è per caso stata una levata di scudi per i titoli razzisti che sono comparsi – sempre più frequenti – almeno negli ultimi dieci anni sulla stampa italiana, contro i migranti, contro gli stranieri, contro le seconde generazioni, contro i musulmani, contro gli arabi, contro gli africani? Si è per caso levata alta la voce dei giornalisti italiani sul razzismo neanche tanto strisciante che noi, proprio noi, con il nostro vocabolario sciatto, abbiamo contribuito a creare? Abbiamo mai fatto accuse serie all'Ordine dei Giornalisti per i comportamenti di alcuni di noi, per le parole (anche scritte) di alcuni di noi? Abbiamo mai scioperato per la protezione delle persone sulle quali scriviamo?


Questo vuol dire essere casta. E questo vuol dire essere corresponsabili. Salvo poi, in alcuni rari casi, scusarsi il giorno dopo. Io credo fermamente che sia ora di fare un esame di coscienza serio, e di non salvarsi l'anima con le scuse del giorno dopo. Siamo diventati troppo leggeri, come se le parole non fossero più pietre. E io mi vergogno.


Mi vergogno non perché non combatta la mia quotidiana battaglia contro il razzismo. La combatto, e rivendico la mia condizione di Cassandra, condivisa – per fortuna – da altri colleghi. Ho anche la certezza, però, che avrei potuto fare molto, molto di più. Non sul blog, né sugli articoli che pubblico. Ma dentro gli organi della mia categoria. Io, in questa professione così poco seria, non mi ci riconosco più. Ed è ora che non io, ma i razzisti che sono dentro la mia categoria, se ne vadano. A meno che non decidano, una volta per tutte, di rispettare la deontologia per la quale, un giorno, ci siamo guadagnati un agognato libretto rosso.


Il brano di oggi per la mia playlist è – ovviamente – di Ivano Fossati. L'Arcangelo.


La foto è di Luca Rossato, da Flickr, su licenza Creative Commons. Ritrae un migrante senegalese di cui, purtroppo, non so il nome

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Published on December 14, 2011 10:07

December 13, 2011

Il suono oltre il Muro


La notizia: La Knesset , il parlamento israeliano, deve occuparsi di varie proposte di legge. Tra le tante, c'è anche quella che ormai sta passando nel linguaggio giornalistico come "la legge del muezzin" o "la legge delle moschee". L'ha presentata una deputata del partito di  Avigdor Lieberman, il partito di destra più importante degli ultimi anni in Israele. La relatrice, la signora Anastasia Michaeli, ne fa una questione di ecologia dei suoni e non una questione religiosa: vuole che vengano vietati gli altoparlanti che diffondono la chiamata alla preghiera dai minareti. Una legge che però è generale, e dovrebbe toccare – di norma – anche le campane. Il giornale israeliano Haaretz comunica oggi che Benjamin Netanyahu appoggia la legge, chiedendosi – peraltro – perché Israele debba essere più liberale dell'Europa. In effetti, abbiamo fatto scuola, quando è passato il referendum in Svizzera che vietava la costruzione dei minareti…



La chiamata alla preghiera musulmana disturba, insomma. Da abitante di Gerusalemme da oltre otto anni, a poche centinaia di metri dalla moschea di Al Aqsa, mi viene difficile comprendere come mai la adhan disturbi tanto. A me, anzi, fa molto piacere. La adhan non mi ha mai svegliato prima dell'alba. Semmai mi ha cullato, e quando mi è capitato di essere sveglia a quell'ora mi ha anzi accudito.



Mi viene da pensare, dunque, che la chiamata alla preghiera disturbi per altri motivi. Me ne accorsi tanti anni fa, a Mostar, in Erzegovina. La città era tagliata in due, da una parte i cristiani, dall'altra i musulmani. Io ero nella parte cristiana, ma il suono della chiamata alla preghiera superava senza alcun problema quella terribile strada su cui si affacciavano gli scheletri delle case bucate dai colpi di mortaio e che fungeva da linea di separazione. I suoni travalicano i Muri, è banale dirlo. In città come Gerusalemme e in aree di conflitto severo come questo, persino i suoni sono parte integrante della guerra. Perché i suoni possono ricordarci che l'Altro esiste, anche se è stato nascosto dietro a un Muro.


Prima di continuare a leggere, una sosta sonora è d'obbligo. Questa è la chiamata alla preghiera cantata da Yusuf Islam. Ai miei tempi, si chiamava Cat Stevens.


(la foto, a Gerusalemme in Città Vecchia, è stata scattata da Pino Bruno)



Il ritmo (antico) del giorno


Se penso a cosa rimpiangerò, di una città troppo santa (o meglio, santificata) come Gerusalemme, è questo momento. Il sole sta appena tramontando. Il cielo è striato di rosa, e ad annunciare l'evento è questo canto che si innalza all'unisono. Nessun cedimento alla distrazione che ci impongono le nostre cose, i nostri intimi ritmi. È il tramonto, e tutti lo devono sapere. Perché è questione di pochi minuti, e poi tutto scomparirà dietro l'imbrunire.


La chiamata musulmana alla preghiera è un gesto antico, che noi cattolici ci siamo dimenticati. Eppure era parte integrante della nostra giornata: la campana dei vespri ha identico significato, ricorda agli uomini che la giornata di lavoro è finita, ed è ora di tornare a casa.


È questa scansione del tempo che rimpiangerò. Una giornata segnata non solo e non tanto dallo spazio. Ma dal tempo, dal ritmo, dal suono, che irrompono nella vita ricordandoci – appunto – che la vita è tempo, scansione, gesti compiuti, passato che non torna, presente che corre così tanto in fretta. È come se questi canti che segnano le cinque preghiere dell'islam siano qui a ricordare, a me che musulmana non sono, quanto il tempo e l'intervallo siano preziosi. Fadwa el Guindi, grande antropologa egiziana, spiega molto bene questa unità – presente nel mondo musulmano – tra temporalità e spazialità. A unire tutto è il ritmo. "Il ritmo – dice Fadwa el Guindi nel suo By Noon Prayer. The Rhythm of Islam, pubblicato nel 2007dai tipi della Berg – è il concetto che meglio descrive questa unità. […] I musulmani seguono un ritmo in tutte le sfere della loro vita – privata e pubblica, ordinaria e sacra, nel lavoro e nel relax. Il ritmo non è solo una idea unificatrice, ma integra le sfere dell'esperienza della vita e vi introduce i processi mentali e le categorizzazioni del pensiero".


Molto più prosaicamente, il suono della adhan, della chiamata alla preghiera, è il ritmo naturale che viene ricordato a noi singoli, distratti. Ci viene ricordato che è l'alba di un nuovo giorno, che è arrivata la metà della giornata, che è già tramonto, che tra un  po' si va a dormire. Uno scandalo, a pensarci bene. Perché questa divisione antica è percepita, dall'uomo postmoderno, come una semplice costrizione. Costretti in un tempo considerato arcaico, proprio quando la concezione postmoderna considera del tutto crollati i muri che contenevano il tempo. Si può mangiare quando si vuole, svegliarsi tardi, saltare la colazione e inventarsi il brunch, tenersi leggeri a pranzo con un panino veloce e magari cenare tardi la sera per riuscire a vedere gli amici. Si possono saltare i ritmi antichi e inventarsi i propri, di intervalli. Perché mai dover cedere al ricatto di un tempo preordinato, e per giunta imposto da una fede?


Eppure, nonostante il mio tempo singolo sia  dichiaratamente postmoderno, quella chiamata alla preghiera è preziosa. Mi riporta ai tempi veri, per alcuni versi più consoni a una natura che abbiamo violentato con gli anni e i secoli.


L'adhan sveglia Gerusalemme


E' questo ritmo antico che sveglia Gerusalemme prima dell'alba, quando – d'un tratto – un bagliore rosso compare dietro la sagoma del Monte degli Ulivi e del campanile della Chiesa dell'Ascensione. Perché se lo spazio, a Gerusalemme, è dominato dalla presenza politica, dalla gestione dello spazio da parte delle autorità israeliane, il tempo e i suoni della città sono segnati da due fedi – cristianesimo e islam, – che si intersecano come volute nell'aria attorno alla Città Vecchia.


La chiamata alla preghiera sale prima sommessa, per poi organizzarsi come un coro che comprende tutti i minareti della parte orientale di Gerusalemme, guidati – o almeno così sembra a chi, profana, ascolta – dal canto più suadente e rigoroso. Quello dell'imam scelto per chiamare i fedeli a raccolta dalla moschea di Al Aqsa. La più importante di Gerusalemme, la più sacra dopo Mecca e Medina. La moschea "più lontana", come viene definita nel Corano, quella presso la quale il profeta Mohammed fu portato in sella a una cavallo alato, il Buraq, in compagnia dell'arcangelo Gabriele, per poi essere riportato alla Mecca dopo aver visitato il paradiso.


L'imam della moschea più importante di Gerusalemme chiama a raccolta i fedeli per la preghiera del fajr, dell'alba, da un luogo che alle origini dell'islam  era la destinazione stessa della preghiera. Nei primi tempi dell'islam, insomma, si pregava in direzione di Gerusalemme, e non invece in direzione della Mecca, come poi fu statuito.


Ascoltare il coro degli imam che intonano la adhan è una delle poche esperienze realmente mistiche di Gerusalemme. Come se la Città Vecchia, costretta nelle sue possenti Mura, nascesse con quel bagliore rosso che nasce a oriente del Monte degli Ulivi. E a svegliarla, ogni mattina, ci fosse quel canto antico e commovente. Mentre la città ancora dorme, il cielo non si è ancora aperto alla luce, e l'aria è invece ricolma, felicemente piena di un canto collettivo e coordinato.


Cristianesimo e islam si dividono, nei fatti, la Gerusalemme dei suoni. Adhan e campane. Chiamata alla preghiera e rintocchi. L'ebraismo è silenzioso, almeno al di fuori delle sinagoghe. Compare una volta alla settimana, con una sirena che non indica allarme, ma viene usata per segnalare che sta per iniziare lo shabbat. Una sirena che indica un rito dà il segno di quanto la sicurezza segni l'antropologia della fede – o almeno di una fede – a Gerusalemme. Urgenza, emergenza, e quel pericolo che sempre incombe.


Discontinuità necessaria, per la playlist. Time after time, Cyndi Lauper. Ed è passato veramente tanto tempo. Videoclip del 1984.

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Published on December 13, 2011 03:58

December 12, 2011

Quando la vita vale poco


Consigli di lettura, stamattina. Concentrati, come vedrete, sulla morte di Mustafa Tamimi, l'attivista palestinese di 28 anni ucciso da un candelotto lacrimogeno sparato a distanza ravvicinta da un soldato israeliano, dall'interno di una camionetta. La morte di Tamimi è diventato subito un caso, perché è il simbolo – evidente, ma solo a chi è qui – di quello che succede in Cisgiordania. Di quello che l'espansione delle colonie provoca (a proposito, oggi il ministro della difesa Ehud Barak ha dato il via libera alla costruzion di altre 40 unità immobiliari in uno dei blocchi di colonie più imponenti, Gush Etzion, che si estende da Betlemme a Hebron tagliando la Cisgiordania meridionale). Eppure, a guardare la rassegna stampa italiana, questa morte assurda e violenta non ha rilievo.


Non mi stupisco, ovviamente. Ma proprio per questo forse è il caso di dare, a chi legge questo blog, altri consigli di lettura. Per non trovarsi poi, ancora una volta, sguarniti di fronte agli eventi mediorientali. Il primo consiglio viene dalla stampa israeliana. Perché a Mustafa Tamimi Haaretz ha dedicato oggi il suo editoriale, dal titolo chiaro. "In Israele, la vita di un palestinese vale poco", scrive Haaretz, descrivendo non solo come Tamimi è morto, ma anche i casi lo hanno preceduto. Vale la pena leggerlo.


On the day Tamimi was killed, Chaim Levinson published a report in Haaretz that dealt with the failings of the Israel Police's Judea and Samaria District with regard to investigations into harm to Palestinians. Concerning the killing of 10-year-old girl Abir Aramin by the IDF in early 2007, the High Court of Justice ruled that the incident was improperly handled; and to date, no one has been called on to answer for the 2009 killing of demonstrator Bassem Abu Rahme. Will the death of Mustafa Tamimi be added to the statistics that show that in Israel, the life of a Palestinian is cheap?


Negli stessi momenti in cui Mustafa Tamimi veniva ucciso, Newt Gingrich pronunciava il suo verbo. "I palestinesi sono un popolo che non esiste". Un mantra che ho sentito con le mie orecchie pronunciare alla destra israeliana, che chiama i "palestinesi" semplicemente "arabi", senza alcuna connotazione nazionale, e candidamente propone una ricetta semplice: i paesi arabi si potrebbero dunque prendere i palestinesi, così da realizzare il disegno della Grande Israele, fino al Giordano. E' il disegno dei coloni, e Gingrich non ha fatto altro che sdoganarlo e proporlo al suo elettorato. I palestinesi, dal canto loro, si sono un po' indispettiti, per il Gingrich-pensiero… Propongo, allora, la lettura del commento di una giornalista palestinese intelligente, acuta e brillante come Joharah Baker, su Miftah. E' un commento che, non poteva essere altrimenti, mette insieme Mustafa Tamimi e Gingrich. I commenti ulteriori sono superflui.


Se non avete ancora abbastanza, e volete leggere altre notizie che non leggerete sulla stampa mainstream, ecco allora una cronaca di Maannews, agenzia di stampa palestinese, che parla dell'attacco compiuto ieri, domenica, da centinaia di coloni ("erano armati, e indossavano uniformi nere, come se fossero una milizia", dicono i testimoni) contro un villaggio palestinese vicino Nablus. Altra area, quella sì, dove la violenza dei coloni si fa sentire quotidianamente, o quasi. E per le conferme, ci si può affidare al settimanale rapporto dell'OCHA, l'ufficio Onu per le questioni umanitarie.


Ah, non è finita, perché sul sito online di Yediot Ahronot, Ynet, è arrivata agli onori della cronaca la querelle scoppiata su twitter per le frasi – irriverenti – scritte da alcuni ufficiali dell'esercito israeliano sulla morte di Mustafa Tamimi, e riportate dal britannico Telegraph. Anche in questo caso, i commenti sono veramente pleonastici.


E poi Gaza: capitolo che non ha avuto molta risonanza, nonostante nello stesso giorno in cui è stato ucciso Mustafa Tamimi in Cisgiordania, nella Striscia sia invece morto un ragazzino di 12 anni, dopo un bombardamento israeliano su quella che è stata definita una installazione militare di Hamas. La tensione a Gaza e nel sud di Israele è di nuovo salita dopo che l'aviazione israeliano ha fatto il 7 dicembre un bombardamento di tipo preventivo per prevenire – appunto – la possibilità di lanci di razzi contro i soldati di Tsahal. Raid su Gaza City, miliziani della Jihad islamica uccisi, e successivo lancio di razzi contro le cittadine del Negev. Di nuovo bombardamenti israeliani su Gaza, il 9 dicembre, e stavolta il bilancio delle vittime sale: un morto, e 13 membri della sua famiglia feriti, compresi 7 bambini. E' la escalation di rito, per così dire, ma questo cinismo da cronista non rende meno duro il fatto che la gente muoia. Anzi.


La playlist: il brano per oggi è Bloody Sunday. U2 live da Chicago.




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Published on December 12, 2011 11:40

December 11, 2011

Senza paura e prudenza


Oggi in Italia le donne sono di nuovo in piazza. Ancora una volta, perché ci vorrà tempo e tenacia per levare questa patina di squallore che ha segnato la nostra vita – di italiane e di donne – negli anni più recenti. E allora ho pensato di celebrare e festeggiare questa giornata con il bel viso di Tawakkol Karman, una delle tre vincitrici del Premio Nobel per la Pace edizione 2011. Nessuna indulgenza alle cerimonie: quello che vi propongo è il discorso che Tawakkol Karman ha pronunciato ieri, quando ha ricevuto il premio. Se avrete la pazienza di leggerlo (e per chi non sa l'inglese, ci sono dei meravigliosi traduttori online che possono aiutare la comprensione) capirete la caratura dei giovani arabi e delle giovani arabe. Capirete perché le loro rivoluzioni non si sono ancora spente, e perché queste ragazze e questi ragazzi non cedono alle sirene delle nostre (occidentali) parole così ormai vuote di contenuto. Quando parlano di valori, di democrazia, di futuro, di rispetto, di dignità, di non-violenza, lo fanno con cognizione di causa, pretendendo per sé né più né meno di tutto questo. Sono lo specchio della nostra cattiva coscienza. E Tawakkol Karman lo dice chiaro e tondo. "Il mondo democratico, che ci ha detto tanto sulle virtù della democrazia e del buon governo, non deve essere indifferente a quello che sta avvenendo in Yemen e in Siria, e a quello che è successo prima in Tunisia, Egitto e Libia, e che accade in ogni paese arabo e non arabo che aspira alla libertà. Tutto questo non è altro che lavoro duro, quando nasce una democrazia, che richiede sostegno e assistenza. Non paura e prudenza".


E per noi donne, questi ragazzi e queste ragazze sono la speranza, la pervicacia e la forza che per troppo tempo abbiamo tenuta nascosta in un cassetto. Tawakkol e le altre ci hanno mostrato che è tempo di riaprirlo, quel cassetto, e vedere cosa è rimasto.


Buon 11 dicembre. A tutte, e a tutti quelli che saranno con noi.


I accept the award on my behalf and on behalf of the Yemeni and Arab revolutionary youth, who are leading today's peaceful struggle against tyranny and corruption with moral courage and political wisdom.



The revolutions of the Arab spring in Tunisia, Egypt, Libya, Yemen and Syria, and the movement towards revolutions in other Arab countries such as Algeria, Morocco, Bahrain, Sudan and others, in terms of motivation, driving power and objectives, didn't take place on isolated islands cut off from all the rapid and astonishing developments and changes which our world is witnessing. The Arab people have woken up just to see how poor a share of freedom, democracy and dignity they have. And they revolted. This experience is somewhat similar to the spring that swept throughout Eastern Europe after the downfall of the Soviet Union. The birth of democracies in Eastern Europe has been difficult and victory emerged only after bitter struggle against the then existing systems. Similarly, the Arab world is today witnessing the birth of a new world which tyrants and unjust rulers strive to oppose, but in the end, this new world will inevitably emerge.


The Arab people who are revolting in a peaceful and civilized manner have, for so many decades, been oppressed and suppressed by the regimes of authoritarian tyrants who have indulged themselves deeply in corruption and in looting the wealth of their people. They have gone too far in depriving their people of freedom and of the natural right to a dignified life. They have gone too far in depriving them of the right to participate in the management of their personal affairs and the affairs of their communities. These regimes have totally disregarded the Arab people as a people with a legitimate human existence, and have let poverty and unemployment flourish among them in order to secure that the rulers and their family members after them will have full control over the people. Allow me to say that our oppressed people have revolted declaring the emergence of a new dawn, in which the sovereignty of the people, and their invincible will, will prevail. The people have decided to break free and walk in the footsteps of civilized free people of the world.



Our peaceful popular youth revolution has demonstrated that the values and objectives of freedom, democracy, human rights, freedom of expression and press, peace, human coexistence, fight against corruption and organized crime, war on terrorism,  and resistance to violence, extremism and dictatorship, are values, ideals, demands and objectives of common human interest, and are cherished by the whole international community. These are not subject to division, selectivity or cancellation under the pretext of differences in human characteristics or the requirements of sovereignty in any way.



I would like to emphasize that the Arab spring revolutions have emerged with the purpose of meeting the needs of the people of the region for a state of citizenship and the rule of law. They have emerged as an expression of people's dissatisfaction with the state of corruption, nepotism and bribery. These revolutions were ignited by young men and women who are yearning for freedom and dignity. They know that their revolutions pass through four stages which can't be bypassed:


-    Toppling the dictator and his family


-    Toppling his security and military services and his nepotism networks


-    Establishing the institutions of the transitional state.


-    Moving towards constitutional legitimacy and establishing the modern civil and democratic state.

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Published on December 11, 2011 10:31

December 10, 2011

Un arabo invisibile

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Una foto di famiglia, di quelle scattate bene. L'ultimo a sinistra, quel giovane uomo con la camicia bianca, si chiamava Mustafa Tamimi. Si chiamava, al passato, perché stamattina è morto all'ospedale israeliano di Petah Tikva per le ferite riportate durante una manifestazione pacifica di protesta a Nabi Saleh, un paesino di poche centinaia di anime divenuto da anni un simbolo delle proteste nei Territori Occupati Palestinesi non solo contro il Muro, ma – in questo caso – contro l'arrogante espansione delle colonie israeliane su terra palestinese. Le varie testimonianze – confermate a prima vista dalle foto e dai video postati su internet – dicono che Mustafa Tamimi, 28 anni, è stato raggiunto alla testa da un candelotto lacrimogeno sparato dai soldati israeliani, a breve distanza e, sembra, ad altezza d'uomo.


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(su internet, questa viene indicata come la foto che mostra Mustafa Tamimi qualche istante prima di essere colpito.) (Picture credit: Haim Scwarczenberg)


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(dopo essere stato colpito)


Nabi Saleh è veramente un posto piccolo. Piccolo in Cisgiordania. Figuriamoci quando lo si va a cercare nelle immagini via satellite di Google. Il suo essere un paesino di poche centinaia di anime non vuol dire, però, che agli occhi del mondo debba essere invisibile. Anzi, da anni è divenuto una sorta di simbolo, anche fuori dalla Palestina, perché i suoi abitanti vogliono continuare a vivere come hanno sempre vissuto, senza vedersi erodere la terra attorno a loro. Sorgente compresa.


"Ogni venerdì, e spesso anche dopo la fine della scuola, negli altri giorni della settimana, i soldati israeliani sparano lacrimogeni e bombe sonore ai bambini palestinesi quando si avvicinano alla sorgente. Si trova nella valle che separa Nabi Saleh, un villaggio arabo di 500 persone, a mezz'ora di macchina a nord di Gerusalemme, da Halamish, una colonia ebraica religiosa. Durante la gran parte delle notti, le jeep [militari] attraversano il paesino; nello scorso anno e mezzo l'esercito israeliano ha arrestato 32 bambini di Nabi Saleh, alcuni di appena 11 anni. Molti sono stati prelevati dai loro letti, incarcerati in detenzione amministrativa per mesi, e portati in manette in tribunale, dove sono stati poi condannati per lancio di pietre.



Per alcuni dei coloni di Halamish, irritati dai gas lacrimogeni che arrivano nei loro salotti dall'altra parte della collina, questo non è abbastanza duro. "I soldati non rompono abbastanza le ossa ai palestinesi", si lamenta Iran Segal. Un anno e mezzo fa ha messo un cartello battezzando la sorgente col nome di suo padre, alimentando la rabbia tra i palestinesi che hanno visto questa mossa come un furto di terra"


Quello che vi ho tradotto non è il brano di un blog, o di un attivista palestinese. È il brano di un reportage dell'Economist dello scorso luglio. Ed è la descrizione di un'atmosfera di cui Nabi Saleh è solo un simbolo. Il simbolo che rappresenta ciò che succede, ogni giorno, in Cisgiordania, da nord a sud. Da Nablus a Hebron, passando per Gerusalemme est e i dintorni di Ramallah. Questa è la realtà, nascosta ai più. Di certo, nascosta al pubblico più largo dei quotidiani e dei settimanali, che poi si stupiscono quando – d'un tratto – scoppia la violenza. Qui, o altrove.


Mustafa Tamimi non è il primo palestinese ucciso in queste manifestazioni. Basta cercare su internet, e leggersi, i rapporti di associazioni per i diritti umani come l'israeliana Bt'selem. Oppure leggersi i rapporti dell'ufficio umanitario dell'ONU, l'OCHA. Oppure i rapporti delle associazioni palestinesi per la difesa dei diritti umani e civili. Le testimonianze, i rapporti, persino i reportage giornalistici non mancano, su Nabi Saleh, su Bilin, su Biddu, sugli attacchi dei coloni israeliani ai palestinesi e alle loro proprietà. Non arrivano ai giornali, ma chi vuole saperne di più ha oggi strumenti importanti per farsi una opinione propria. Grazie non solo ai giornalisti, ma a quel giornalismo diffuso e di strada che nel mondo arabo ha fatto la differenza, in questi ultimi anni.


La differenza, rispetto a prima, è infatti che il ferimento e la morte di Mustafa Tamimi sono arrivati in tempo reale nell'agorà regionale e mondiale. Almeno sulla Rete, su Twitter, sui social network. In un tam tam virtuale che diventa, poi, reale in Palestina. Quando twitter ha diffuso la notizia del ferimento di Mustafa Tamimi, c'è stato uno scambio di messaggi tra Joseph Dana, giornalista israeliano che da anni segue le manifestazioni pacifiche in Cisgiordania, e la portavoce dell'esercito israeliano, Avital Leibovich, che ha postato un tweet con la foto di una fionda, in risposta a Joseph Dana. Il testo, letterale, era il seguente: "@ibnezra ths is what he was doing".


Si vedrà, nei prossimi giorni, come l'esercito israeliano risponderà – se così oppure in maniera diversa, e semmai più articolata – a una uccisione che, già ora, sta diventando un caso. Per le modalità, per chi è stato ucciso, e persino per la risposta della Rete. Immediata, diffusa, arrabbiata. A poche settimane dalle vittime dei lacrimogeni a piazza Tahrir. E a un giorno dall'anniversario dello scoppio della prima intifada: 24 anni fa, era il 1987, di dicembre. Anche allora, la reazione dei militari (dietro l'input delle autorità politiche) fu molto dura, di fronte a una rivolta in cui si usarono scioperi, disobbedienza civile, e pietre. Pietre come quelle che molto probabilmente Mustafa Tamimi ha tirato ieri, prima che la sua testa fosse colpita da un candelotto lacrimogeno lanciato a distanza ravvicinata.


Non è più il tempo della seconda intifada, in Palestina. Per fortuna, non c'è terrorismo, attentati suicidi, bombe. Ci sono manifestazioni nei paesini della Cisgiordania, disobbedienza civile, boicottaggi, strumenti politici, e pietre. Se il mondo non riesce ancora ad accorgersi di questa differenza, e di quanto sia determinante per il conflitto, allora questo mondo continua a essere cieco di fronte ai cambiamenti della regione che l'hanno già sorpreso una volta, all'inizio di questo 2011.


Sono molto istruttivi, per usare un terribile eufemismo, i commenti pubblicati sotto il testo della notizia della morte di Mustafa Tamimi sul Jerusalem Post. Vi prego di leggerli. Qualsiasi ulteriore riflessione da parte mia è veramente superflua: parlano da soli.


Oggi pomeriggio, a Ramallah, è prevista una veglia funebre, mentre domani mattina alle 10, sempre da Ramallah, partirà il funerale, in direzione Nabi Saleh. Non occorre essere una indovina per prevedere che domani non sarà una giornata semplice.


Il brano della playlist è in linea con il mood del momento, dopo aver seguito questa notizia da ieri sera. In a sentimental mood, di Chet Baker (e grazie, per la segnalazione, a un'amica di FB).

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Published on December 10, 2011 12:20

December 7, 2011

benvenuto al mondo, Khaled


Una nascita dovrebbe essere un evento privato, intimo, familiare. Questa, però, è una nascita troppo particolare per rimanere in una camera d'ospedale e in una famiglia, seppur molto nota al Cairo. Khaled Alaa non è solo un bambino concepito dopo la rivoluzione del 25 gennaio. Non è solo un bambino nato senza la presenza fisica del padre, rinchiuso nel carcere di Tora. Khaled Alaa è il figlio di una coppia politica, di Alaa Abdel Fattah e Manal Hassan. Il figlio di @alaa e @manal, a cui twitter, Facebook, i social network, i blogger della prima e della seconda ora, gli attivisti di Tahrir hanno tributato da ieri pomeriggio una vera e propria ovazione virtuale. Le foto del piccolo Khaled Alaa girano per il web, assieme al video che ritrae nella prima parte il padre, @alaa, nella tuta bianca dei detenuti, dentro l'aula di tribunale che ha decretato altri 15 giorni di detenzione preventiva, e poi – nella seconda parte – il figlio appena nato. Figlio che porta programmaticamente  un nome pesante: Khaled, come Khaled Said, il ragazzo di Alessandria ucciso da due poliziotti il 6 giugno del 2010, in cui intere generazioni di giovani egiziani si sono riconosciuti.


Nascita mediatizzata? Sì, a suo  modo. Nascita attesa, perché col tempo è stata caricata di un significato che va oltre il cambiamento segnato dalla rivoluzione del 25 gennaio. Con l'arresto e la detenzione di Alaa Abdel Fattah, che non ha potuto assistere alla nascita del suo primo figlio, Khaled Alaa è divenuto suo malgrado un altro figlio della dissidenza. Come sua zia, Mona Seif, e cioè @monasosh, altra blogger, attivista e protagonista di Tahrir, anche Khaled Alaa è nato mentre suo padre era in prigione, come detenuto politico. Come suo padre e come suo nonno. Generazioni di oppositori che in Egitto vivono destini simili, nonostante i cambi importanti al potere. Khaled Alaa nasce mentre suo padre è in carcere, sua zia continua a essere un'attivista contro i tribunali militari, e sua nonna fa lo sciopero della fame perché Alaa Abdel Fattah sia liberato.



Khaled Alaa è, dunque, allo stesso tempo figlio della dissidenza storica, della rivoluzione egiziana del 2011, dell'attivismo digitale che è in vita nel paese dal 2005, ma soprattutto è un piccolo simbolo di una speranza dura a morire, tra chi ha vissuto e fatto vivere Tahrir. La richiesta di democrazia, dignità e futuro non finisce qui, né con le elezioni né con i tentativi di calmierare e normalizzare il cambiamento in atto da gennaio. Guardandola con gli occhi di chi ha raggiunto la mezza età, tutta questa euforia e questa speranza che regge all'urto degli eventi sembra ingenua, e senza prospettiva. Cercando, invece, di vedere questa euforia con gli occhi di chi ha meno di trent'anni, questo bambino appena arrivato al mondo è il segno che la sfida continua. Che i ragazzi di Tahrir diventano a sua volta genitori. E che il futuro dell'Egitto non è delle generazioni passate e della gerontocrazia che, anche in questi ultimi giorni, dà risposte vecchie alla maggioranza della popolazione.


La demografia, nel caso egiziano, segna in modo indelebile la politica. Il futuro prossimo, neanche tanto lontano, è dei genitori dei tanti Khaled Alaa che nasceranno dalla rivoluzione. E saranno proprio loro, i nuovi giovani genitori, che lo si voglia o meno, a dare risposte di medio e lungo periodo. Quali? Bisognerebbe chiederlo a loro.


Per inciso, Khaled Alaa è già su twitter, col suo account. Forse il più giovane utente di twitter: @KHalaaa, e oltre 1500 persone che lo seguono… Benvenuto in questo mondo, sperando che sia veramente – per te e per i tuoi genitori – un Nuovo Mondo.


Il brano della playlist è Un Senso di Vasco Rossi. E' vero, c'era – ieri – nell'ultima puntata di Tutti Pazzi per Amore. E non commentate.

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Published on December 07, 2011 11:03

December 6, 2011

Netanyahu spariglia le carte (del Likud)


Colpo di scena nella politica israeliana. Il premier Benjamin Netanyahu convoca a sorpresa le primarie del suo partito, il Likud, per la fine di gennaio. In netto anticipo rispetto a quanto previsto dal regolamento del partito: le primarie vanno fatte sei mesi prima delle elezioni, e le prossime consultazioni, in Israele, non sono in vista. Almeno per ora. Netanyahu lancia il suo ballon d'essai che rompe gli equilibri della politica israeliana. Ed è subito bagarre. Nessuno si aspettava una mossa così, da parte di Netanyahu. Neanche il suo rivale Silvan Shalom, che considera illegale l'anticipo delle primarie di quasi un anno e vuole bloccarle.


Cosa è successo, dunque? Perché Netanyahu convoca le primarie di gran corsa, in un momento così delicato? Il primo ministro deve rispondere in questi giorni ad altre sollecitazioni, e non ai suoi sostenitori del Likud. Deve rispondere alle fortissime pressioni sociali seguite alle proteste della scorsa estate, e deve soprattutto rispondere a quanto deliberato dalla Commissione Trajtenberg sullo situazione sociale del paese. Occorrerebbe una drastica riduzione di alcuni capitoli della spesa pubblica, e specialmente del bilancio della Difesa, a favore degli ammortizzatori sociali. Ma il ministro della difesa Ehud Barak ha già detto no ai tagli. E Netanyahu, negli ultimi due giorni, ha deciso per il rinvio dell'analisi della questione.


E poi c'è il confronto con l'Iran, e i venti di guerra che non si sono placati. Ieri si sono tenute esercitazioni nel sud e nel nord di Israele, che simulavano la reazione a un attacco missilistico e chimico. Mentre dagli Stati Uniti sono arrivate pressioni forti perché Israele non attacchi a sorpresa l'Iran, senza avvertire Washington. Pressioni che non hanno fatto per nulla piacere alla destra di Israele, come dimostra il commento di una delle opinioniste di destra più accreditate, Caroline Glick, sul Jerusalem Post. L'accusa della Glick è pesantissima:


The second possible explanation for the administration's treatment of Israel is that it is permeated by anti-Semitism. The outsized responsibility and culpability placed on Israel by the likes of Obama, Clinton, Panetta and Gutman is certainly of a piece with classical anti-Semitic ehaviour.


Benjamin Netanyahu, intanto, pensa al Likud. Vuole cioè rafforzarsi dal punto di vista interno. Deve, infatti, ancora ottenere un risultato politico dall'accordo per la liberazione di Gilad Shalit, raggiunto a ottobre. E fare le primarie entro due mesi vuol dire non avere rivali forti e consolidare immagine e potere. I laburisti hanno già scelto il loro nuovo leader, una donna, Shelly Yachimovich. Il Likud molto probabilmente confermerà Netanyahu a fine gennaio. E il partito centrista di Kadima? Cosa farà Tzipi Livni? Accelererà i tempi anche lei, e tenterà la rielezione? E quali sono i motivi alle spalle di un rimescolamento così importante della politica interna israeliana? Sono in vista elezioni anticipate, o il paese dovrà forse affrontare decisioni così importanti da richiedere l'unità nazionale?


La foto: scattata da Francesco Fossa alla Tomba dei Patriarchi, a Hebron. Settore ebraico.


Visto che oggi pomeriggio presento il libro di Azzurra Meringolo, I Ragazzi di Tahrir, all'Educational Bookshop a Gerusalemme est, alle 18 e 30, il brano della playlist parla di loro, Ya el Midan, dei Cairokee con Aida el Ayoubi.

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Published on December 06, 2011 08:56

December 5, 2011

Se la strada da Tel Aviv a Teheran passa dal Cairo


Leggere la rassegna stampa israeliana è sempre un esercizio foriero di sorprese. Perché continua a essere sorprendente il modo in cui non solo i politici, ma anche i giornalisti israeliani abbiano armi spuntate nei confronti degli accadimenti regionali. Alla lettura degli eventi, come per esempio i risultati del primo (parziale) turno delle elezioni per il parlamento egiziano, sembra manchino gli strumenti interpretativi che renderebbero molto più chiara la realtà.


Meglio fare un esempio. Domenica, sul più diffuso quotidiano israeliano, Yediot Ahronot, è stato pubblicato un commento di uno degli opinionisti più noti, Alex Fishman. Come molti dei commenti di domenica, era dedicato alla vittoria degli islamisti, Fratelli Musulmani e soprattutto salafiti, al Cairo e ad Alessandria. Paura, timore per la pace tra Israele ed Egitto, sorpresa per una vittoria che, almeno al primo turno, non era prevista. E poi, il ruolo dei militari, che sino ad ora per Tel Aviv hanno rappresentato il vero baluardo (post-Mubarak) perché la pace di Camp David non si tocchi, e con essa la frontiera sud. Dice Fishman: "Se il maresciallo Tantawi [capo del Consiglio Militare Supremo, lo SCAF] non si sbriga ad affrontare la Fratellanza Musulmana e non pretende che l'Ikhwan dia il suo benestare ad assicurare lo status delle forze armate nella costituzione, la situazione in Egitto potrebbe evolvere in un bagno di sangue. Ma uno sviluppo di questo genere, almeno, darebbe una chance a che la politica estera dell'Egitto non cambi in un modo da non spostare nel profondo l'equilibro di potere nel Medio Oriente".


Meglio il bagno di sangue, insomma. Val bene una messa. E' per questo che a leggere le rassegne stampa, da queste parti, non ci si annoia mai… Quello che trovo sconcertante, ancora una volta, è l'incapacità di leggere quello che succede nell'area se non in chiave securitaria. Di sicurezza, ma solo e sempre di sicurezza armata. Mai di sicurezza sociale e politica. Non è solo una questione di buoni sentimenti. È una questione che riguarda lo stesso futuro di Israele. Quello, infatti, che mi ha sempre colpito, negli scorsi sei anni, è che i servizi israeliani abbiano spesso dichiarato – essi stessi – di essere stati sorpresi da una realtà che ha quasi sempre smentito le loro previsioni. Lo hanno detto anche nel fine settimana, ancora una volta ai giornalisti di Yediot Ahronot.


"Questo è persino peggio di quanto avessimo previsto", avrebbe detto un alto funzionario dei servizi, commentando i risultati delle elezioni egiziane. Per l'ennesima volta negli anni più recenti, le previsioni dei servizi israeliani vengono smentite. Era successo, la prima volta, con la vittoria di Hamas alle elezioni politiche del gennaio 2006. E' successo poi con il coup di Hamas a Gaza del giugno 2007. Ma la più inattesa debacle subita dall'intelligence israeliana, nella sua lettura delle questioni regionali, è stata la sorpresa con la quale Tel Aviv ha vissuto le rivoluzioni arabe, soprattutto quella del suo vicino più importante, l'Egitto. Nessuno l'aveva prevista, la rivoluzione. E sin qui, niente di eclatante, perché una rivoluzione è impossibile prevederla. Quello che l'intelligence non ha saputo vedere sono stati il diffuso disagio e la profonda instabilità dell'Egitto, disagio e instabilità che erano chiarissime a tutti gli osservatori. Disagio e instabilità che, non foss'altro, da anni erano state descritte dai più importanti think tank statunitensi ed europei. Bastava leggere i report, insomma, per farsi un'idea di quello che bolliva in pentola in Egitto.


Ora, però, non c'è solo un problema di lettura politica della situazione in Egitto, in ballo. C'è il confronto (militare?) con l'Iran. Israele è ancora decisa a colpire l'Iran, come paventano gli americani? Nelle ultime settimane, Washington ha continuato a chiedere a Tel Aviv di essere consultato, prima di un ipotetico attacco, sentendosi rispondere nettamente di no. Israele è ancora convinto che sul piatto della bilancia, tra i pro e i contro di un attacco militare sui siti nucleari iraniani, i vantaggi sarebbero più pesanti? A quanto sembra di capire, nella ridda delle informazioni che vengono volontariamente filtrate alla stampa, Israele è convinta che si potrebbe fare.


Ma su quale base? Sulla sola conoscenza militare dei siti iraniani da parte dell'intelligence, o su una più vasta conoscenza della realtà della regione? La domanda è legittima, perché quando si pensa a un'azione militare, si dovrebbero anche conoscere a menadito le conseguenze a tutti i livelli. Il dubbio che sorge, dunque, è il seguente: se persino i risultati elettorali, da quelli palestinesi del 2006 a quelli egiziani del 2011, suscitano sorpresa in chi fa le previsioni, siamo sicuri che si sia ben consapevoli di ciò che potrebbe succedere nel caso si desse il via libera a un attacco militare contro l'Iran?


[Pausa musicale: oggi il brano della playlist ha le sonorità del jazz arabo-armeno di Lena Chamarian].


I timori non sono solo quelli di un'analista che vive a Gerusalemme. Sono stati espressi molto chiaramente dal segretario alla difesa americano Leon Panetta, l'ultima volta in ordine di tempo la scorsa settimana all'importante Saban Forum. Panetta vuole che gli israeliani non facciano trovare gli USA impreparati, a subire un attacco a sorpresa israeliano. Panetta vuole che gli israeliani tornino al tavolo delle trattative con i  palestinesi. In una parola, il Pentagono non vuole essere dipendente, nelle sue azioni e reazioni, da quello che i politici israeliani decideranno di fare nei confronti di Teheran. E in più, dal punto di vista dell'immagine dell'Occidente tirato per i capelli in una battaglia contro il fondamentalismo sciita, c'è un problema che riguarda Israele. La legislazione contro le ong, la questione dei diritti delle donne, la deriva estremamente conservatrice e a tratti fondamentalista che stanno vivendo la politica e la società israeliane stanno mettendo a dura prova anche un'aperta sostenitrice di Tel Aviv come la segretario di stato americana Hillary Clinton, che per la prima volta ha usato toni durissimi, su questo argomento. Difficile per gli americani, insomma, difendere quella che – ancora – viene definita l'unica democrazia del Medio Oriente, quando a Gerusalemme c'è una deriva ultraconservatrice.


Tra Tel Aviv e Teheran, però, ci potrebbe essere il Cairo. Perché, a giudicare dalla lettura ex post che gli israeliani stanno dando dei primi risultati elettorali e soprattutto del ruolo dei militari, Tel Aviv non è più così sicura che lo SCAF possa rendere il suo fianco sud così sicuro come lo è stato negli scorsi trent'anni. Pur nella pace fredda gestita da Hosni Mubarak [ho scritto un lungo articolo sull'ultimo numero di Limes sulle varie fasi delle relazioni israelo-egiziane]. E se il fianco sud non è sicuro, anche un attacco militare all'Iran dovrebbe essere rivisto, assieme ai pilastri che negli scorsi trent'anni hanno sostenuto l'intera strategia militare israeliana nella regione.


Non si teme nessuna nuova guerra a Israele da parte dell'Egitto. Questo è evidente a tutti. Si teme, però, che non sia più scontato che da parte del Cairo non vi siano reazioni alle azioni di Israele. Come, per esempio, nel caso di una operazione militare contro Gaza, proprio nella fase in cui i Fratelli Musulmani sono in predicato di essere il governo al Cairo, ed è chiaro che Hamas si stia spostando dall'alleanza con la Siria verso più stretti rapporti non solo col Qatar, la Turchia, l'Egitto, ma anche verso una normalizzazione dei turbolenti rapporti con la Giordania. Se Israele, dunque, continua a sottolineare che tra i paesi del Golfo aumenta l'insofferenza verso l'Iran. Se Tel Aviv pensa, ormai da tempo, che anche l'Arabia Saudita – non a caso la principale oppositrice delle rivoluzioni arabe – non vedrebbe poi così male un attacco all'Iran, dovrebbe anche mettere sul piatto della bilancia che ormai da un anno niente è più come prima. E che forse è giunto il momento di conoscerlo, veramente, questo mondo arabo. Non sono marziani. Sono i vicini di casa.

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Published on December 05, 2011 14:01