Paola Caridi's Blog, page 97
February 10, 2012
Altri italiani in copertina
Non è solo il nostro presidente del Consiglio ad aver raggiunto le prestigiose pagine di Time. Ci sono stati, negli scorsi mesi, altri italiani che hanno avuto l'onore delle pagine del prestigioso e autorevole settimanale americano. Due nomi, a mo' di esempio. Marco Longari e Alessio Romenzi. Il grande pubblico magari non conosce i loro nomi. Sono fotografi. Il primo, fotografo d'esperienza. Il secondo, un giovane fotografo che ha seguito tutte le rivoluzioni arabe dopo aver girato per la Palestina, Gerusalemme, Gaza.
Perché ne parlo? Perché di loro non si parla mai, salvo quando – per fortuna – arriva il tempo del World Press Photo e allora ci si ricorda delle immagini. Nel tempo in cui le immagini costruiscono la nostra giornata, incessantemente. Allora si scopre che in Italia ci sono grandi fotografi, che però pubblicano fuori d'Italia. Se dovessero campare con i nostri giornali, cambierebbero mestiere. E anche con le testate internazionali, ci vuole comunque grande passione per continuare a fare foto. Quest'anno ce ne sono be 7 di italiani premiati dal World Press Photo, compreso l'autore di questo scatto, a piazza Tahrir, durante le 18 epiche giornate della rivoluzione egiziana. Si chiama Eduardo Castaldo, altro giovane fotografo italiano. Premiato lui, e per fortuna premiata una donna fotografa, Simona Ghizzoni, che grazie al suo splendido scatto ha riportato Gaza agli 'onori' dell'attualità. Perché di quel posto dimenticato da Dio non si parla mai.
Sono contenta che siano stati premiati. E che quelli non premiati siano comunque stati pubblicati da testate come Time e come tante altre. Io non ci sono riuscita, a farli pubblicare in Italia. Ci ho provato. Ho proposto i loro nomi nei giorni caldi delle rivoluzioni. Ho pubblicato i loro scatti sul mio blog, con grande piacere e l'enorme dispiacere di non essere un'azienda editoriale e poterli pagare. Ho scorso i reportage che mi hanno fatto vedere, che mi hanno mandato sperando che io potessi piazzare un servizio sui giornali con i quali collaboro da anni. Ho scorso le foto di Eduardo, di Alessio, di Luca Sola (i suoi ritratti di Gerusalemme, le anime degli uomini e delle donne palestinesi), e dei tanti che mi hanno fatto vedere i loro lavori.Con pesantezza d'animo di chi – come me – non sopporta che a pagare un prezzo alto, in questi ultimi anni, sia stato il giornalismo di qualità. Quello scritto e quello scattato.
Sono felice per i giovani fotografi italiani, ma non posso non nascondere l'amarezza. Avrei voluto vederli pubblicati (anche) in Italia. nemo profeta in patria. Io, però, continuo a ribellarmi a questo che non considero un fato ineluttabile.
Mabrouk a tutti. E un mabrouk speciale a Eduardo, che ci mette molto cuore.
Difficile scegliere un brano per la playlist. Necessita un brano arabo. E dunque, vi dedico Miel et Cendres. Suona il liuto Dhafer Youssef, che ascoltai al Cairo assieme a Paolo Fresu, in un duetto imperdibile.
E' ancora venerdì
E nel mondo arabo del Secondo Risveglio, il venerdì è il giorno. Giorno della protesta, giorno-catalizzatore. Giorno in cui si contano le forze, e si mostrano le forze in campo.
E' di nuovo venerdì, di nuovo giorno di manifestazioni contro la giunta militare, al Cairo. Il "giorno della partenza", ovvero la manifestazione organizzata da 40 tra gruppi e partiti e movimenti, con un solo obiettivo: costringere la giunta militare a mettere nero su bianco la data in cui lascerà il potere, lo passerà a un'autorità civile, e ritornerà in caserma. Gli organizzatori parlano di una marcia di un milione di persone verso il ministero della difesa. Chissà se saranno questi i numeri.
Perché i Fratelli Musulmani, già stamattina, hanno mostrato le loro differenze nei confronti degli attivisti. Su twitter si riferisce di uno scambio di slogan tra sostenitori dei movimenti di Tahrir e i militanti dell'Ikhwan. Il cuore dello scontro è tra chi, gli attivisti, vuole esercitare la più forte pressione possibile, adesso, sulla giunta militare, e – dall'altra parte – la Fratellanza Musulmana che continua ad sostenere una linea gradualista. Lo fa, d'altro canto, dal gennaio del 2011, quando subì la rivoluzione del 25 gennaio, salvo poi entrarvi quando si accorse che la rivoluzione stava vincendo e non c'erano alternative.
Anche stavolta, l'Ikhwan assume lo stesso atteggiamento attendista. Ma gli attivisti non cedono. Da domani parte la campagna per la disobbedienza civile, che continuerà – nelle intenzioni degli organizzatori – sino a quando la giunta militare non lascerà il potere. A partecipare è anche l'AUC, l'American University del Cairo, che appoggia in sostanza la campagna di disobbedienza civile con una serie di incontri proprio sui militari e sulle iniziative politiche contro il Consiglio Supremo.
È venerdì non solo al Cairo. È venerdì in Cisgiordania, dove continuano a svolgersi, come succede ogni fine settimana, le manifestazioni nei paesini della West Bank colpiti dal Muro, dalle chiusure e dai coloni. Lo hashtag da seguire oggi su twitter è #Qaryout. Il confronto tra dimostranti, esercito israeliano e coloni è già iniziato.
È venerdì anche ad Aleppo, a Homs, e in tutte le città martiri siriane. È un venerdì di sangue ad Aleppo, per i due attentati che hanno seminato morte stamattina. Il regime di Bashar el Assad accusa non ben identificati "terroristi". La resistenza siriana respinge le accuse. E il bagno di sangue continua, mentre la diplomazia internazionale è bloccata non solo e non tanto da Russia e Cina. Ma dal fatto che l'empatia per il destino delle persone, del popolo siriano è solo una parte della fotografia. Anzi, solo un dettaglio, nella fotografia. Il resto è ostaggio di quello che le cancellerie pensano sul futuro strategico del Medio Oriente. Cosa succederà alla Siria, di chi sarà alleata senza Bashar el Assad, quanto influirà la rivoluzione siriana sull'atteggiamento di Teheran. Quanto influiranno gli eventi di questi giorni e di queste settimane sul tanto ventilato (e paventato) attacco aereo israeliano ai siti nucleari iraniani. Insomma, del destino dei siriani, della popolazione stremata della città martire di Homs, a chi interessa? Questa analisi di Joshua Landis (il suo Syriacomment fa seguito quotidianamente, per tentare di capire qualcosa) spiega già alcune delle cause della resistenza occidentale a entrare nel conflitto siriano. L'altra ragione è nel chi è dell'opposizione ad Assad, che Landis descrive frammentata, almeno sino a due settimane fa. Storicamente sono stati i Fratelli Musulmani siriani, oltre alle altre opposizioni nazionaliste e laiche. L'Occidente sa che, realisticamente, conviene appoggiare l'Ikhwan, espressione di parte del fronte sunnita. Anche in funzione anti-iraniana. Ma questo vorrebbe dire avere una futura Siria governata dall'islam politico. Lo vuole l'Occidente? E Israele cosa pensa?
La foto che illustra questo post è stata scattata al Cairo, stamattina, da Gigi Ibrahim, una delle attiviste della rivoluzione egiziana.
Per la playlist, ancora Ziad el Ahmadie. Ho visto che è stato molto apprezzato. E allora, sempre dallo stesso album, Organised Chaos. Sonorità molto tradizionali, ma – visto il tema di oggi – è un llamento necessario.
Intanto, a chi interessa, suggerisco il link con le foto per Time di Alessio Romenzi, giovane fotografo italiano, scattate proprio a Homs. Chiariscono molto, sulle vittime di questa tragedia ahimé poco documentata.
February 8, 2012
La guerra, il "quando", la (perduta) diplomazia
E' inutile nasconderselo. A Gerusalemme si parla di guerra. Di un possibile attacco aereo israeliano contro i siti nucleari iraniani. Lo si dà per molto probabile. Possibile. Come se – tanto per rimanere sugli stringenti problemi climatici italiani – quella piccola palla di neve fosse ormai una slavina che non si può più arginare. Molti di noi, anche i più ottimisti, non si chiedono più "se" ci sarà l'attacco, ma cominciano a riflettere sul "quando". In primavera, com'è già successo con l'Iraq. Quanto il meteo favorisce i raid ad alta quota, senza il brutto tempo, i venti, le nuvole che potrebbero rendere ancor più imprecisa la mira. Aprile, maggio, chissà.
Confesso che fa una certa impressione conversare sulla guerra. Non è una cosa che non mi, ci riguarda. Lo si vede dalle parole che escono così, timide, sui "piani di evacuazione", e che oggi sono arrivate anche su Haaretz, con l'indiscrezione che le ambasciate cominciano a pensare ai piani di evacuazione delle famiglie dei diplomatici e dei connazionali. Bisogna programmare, come con la neve e le calamità atmosferiche.
Mi era già successo quando ero al Cairo, nel 2002-2003, e si parlava di un attacco americano all'Iraq di Saddam Hussein. Anche allora, il copione fu simile. Molti articoli sui giornali, indiscrezioni quotidiane, analisi sul "quando" dell'attacco, mentre gli expat cominciavano a chiedersi cosa sarebbe successo nei paesi vicini all'Iraq. Egitto compreso. Che si fa? Si va via? Si fanno le scorte di acqua e cibo, e non ci muove da casa? Qui, semmai, si parla sulla stampa (e non solo) della distribuzione di maschere antigas e dei rifugi da rimettere in funzione. Un esempio, oggi, è Sever Plocker, uno degli opinionisti più seri in Israele, che dell'ineluttabilità della guerra parla su Yediot Ahronot, il più diffuso quotidiano del paese.
Le scuole di pensiero, tra gli analisti da questa parte e dall'altra parte dell'Atlantico, sono di due tipi. Si alza la tensione perché si possa arrivare a un accordo, oppure si inonda di indiscrezioni la stampa locale e internazionale per preparare l'opinione pubblica. Da questa parte, è la seconda scuola di pensiero a farla da padrona. Se ne parla, perché quando poi l'attacco ci sarà, la popolazione sia preparata al peggio. Senza porre molta attenzione al fatto che Israele si trova in Medio Oriente, e che le reazioni potrebbero essere catastrofiche. Tutto sotto controllo, questo è invece il messaggio che deve passare. Possiamo superare le reazioni, perché siamo fortissimi sulla tecnologia, la sicurezza, gli strumenti militari. Di politica regionale, a dire il vero, non si parla quasi per nulla. Le analisi sono (quasi) tutte sull'opzione militare, come se fuori dai confusi confini dell'Israele reale ci fossero i leones. Non popoli, non rivoluzioni, non regimi più o meno instabili.
E allora, se così è, l'unica variabile è oggi la politica dell'amministrazione americana, dove ci sono segnali che non tutti siano d'accordo su di un attacco militare. Lo dimostrano, da mesi, le parole del segretario alla difesa Leon Panetta. E rafforzano questa ipotesi le pressioni, da parte dei think tank di Washington, perché l'amministrazione Obama si prenda in carico un'offensiva diplomatica difficile, ma necessaria.
Perché tutti sanno che un attacco israeliano all'Iran, seppur solitario e senza l'appoggio militare di altri paesi, ci coinvolgerebbe tutti. A cominciare dall'Europa, fragile – ad esempio – nei suoi approvvigionamenti di energia. Dal grande pianeta Russia (e Putin, sulla questione siriana, è deciso a mantenere le sue posizioni…) all'Iran, da cui arrivano segnali molto pericolosi riguardo a un possibile embargo al contrario, con la maggioranza dei parlamentari di Teheran che chiedono uno stop alle esportazioni di petrolio verso l'Unione Europea prima che entrino in funzione le sanzioni. Il risultato è chiaro: non solo un aumento dei prezzi del carburante, ma problemi serissimi per tutti i comparti produttivi. Com'è già evidente, in questi giorni, dopo una 'semplice' calamità atmosferica.
E allora? C'è ancora spazio per il negoziato, per la diplomazia, per la mediazione? A prima vista no. Ma è proprio in momenti come questo che c'è spazio per la mediazione, perché altrimenti la mediazione non avrebbe necessità di esistere. Né i diplomatici, né i negoziatori. Regola aurea, che – però – ho l'impressione sia spesso dimenticata. Soprattutto presso questi lidi.
Due diplomatici d'esperienza, come William H. Luers e Thomas R. Pickering, ricordano sul New York Times del 2 febbraio scorso il presidente Richard Nixon nel suo viaggio in Cina nel 1972, un viaggio mitico e mitizzato per chi – come me – ha cinquant'anni. Eravamo bambini, e quel viaggio fu realmente percepito come una discontinuità, nella politica estera americana. Le domande che si pose Nixon, spiegano i due ambasciatori furono tre: cosa vogliono i cinesi, cosa vogliamo noi americani, e cosa vogliamo entrambi. Qui è il paragone con quello che Obama potrebbe e dovrebbe chiedersi riguardo all'Iran.
In developing a diplomatic strategy toward Iran, President Obama might respond to Nixon's three questions as follows: Iran wants recognition of its revolution; an accepted role in its region; a nuclear program; the departure of the United States from the Middle East; and the lifting of sanctions. The United States wants Iran not to have nuclear weapons; security for Israel; a democratic evolution of Arab countries; the end of terrorism; and world access to the region's oil and gas. Both Iran and the United States want stability in the region — particularly in Iraq and Afghanistan; the end of terrorism from Al Qaeda and the Taliban; the reincorporation of Iran into the international community; and no war.
With those assumptions as a skeleton, the shape of a final agreement with Iran is imaginable. The United States would agree to full recognition and respect for the Islamic Republic, and Iran would agree to regional cooperation with the United States in Afghanistan and Iraq. Both sides would agree to address the full range of bilateral disputes.
Di quello che succederà nei prossimi giorni, sui diversi binari delle possibili mediazioni, lo spiega in parte Mark Hibbs, del Carnegie Endowment for International Peace.
Per la playlist di oggi, ma sì, Giorgia, Gocce di Memoria. Noch mal.
February 7, 2012
Quanto costa la Dichiarazione di Doha?
Era già successo nel febbraio del 2007, quando l'Arabia Saudita era entrata con tutto il suo peso nella frattura politica tra Fatah e Hamas, e aveva 'gentilmente costretto' i due movimenti palestinesi ad accettare il governo di unità nazionale. Governo dalla vita breve, appena tre mesi, sino al colpo di mano di Hamas a Gaza, nel giugno dello stesso anno. Quella veloce mediazione saudita, però, aveva fatto comprendere quanto i palestinesi fossero (e siano) sensibili all'influenza che proviene dalla Penisola Arabica.
I tempi sono cambiati, e anche tanto. A cinque anni esatti da quell'accordo – firmato l'8 febbraio – gli stessi protagonisti si ritrovano a sud della Palestina. Stavolta non alla Mecca, ma a Doha. Sempre Mahmoud Abbas e Khaled Meshaal. Ancora loro, a guidare i rispettivi movimenti, come cinque anni fa, ma in un contesto completamente stravolto dal Secondo Risveglio arabo. Ancora loro, Abbas e Meshaal, ad accordarsi su di un governo di unità nazionale. O, per meglio dire, su un governo del presidente.
Perché? Perché ex abrupto? Stavolta le rispettive debolezze, quelle di Abbas e Meshaal come leader, e di Fatah e Hamas come movimenti, sono due tra gli elementi di questa intesa, ma non sono tutto. Abbas ha cinque anni in più, e una salute che non lo aiuta. Fallito anche l'ultimo tentativo di rimettere sui binari un qualsivoglia negoziato con gli israeliani, Abbas – l'uomo del compromesso in nome di un risultato pratico per i palestinesi – prova dunque di nuovo l'intesa con Hamas. D'altro canto, e lo si dimentica spesso, Abu Mazen è colui che convinse Hamas nel 2003 (per poche settimane) e poi nel 2005 (in maniera definitiva) ad aderire a una tregua unilaterale sugli attentati suicidi dentro le città israeliane. Abbas è colui che Hamas decise di non boicottare, quando si presentò candidato alle presidenziali del 2005.
Non è, dunque, così singolare che Meshaal e l'ufficio politico di Hamas abbiano potuto accettare, a Doha, l'accordo basato su un 'governo del presidente', un esecutivo guidato da Abbas nel suo ruolo di presidente (già scaduto) dell'ANP. A spingere Meshaal verso l'accordo, potrebbe essere stata l'urgenza di avere un risultato, in una fase di estrema debolezza. La ricomposizione degli equilibri interni di Hamas è in corso. La costituency di Gaza conta molto di più, ma si dice che non sia omogenea al proprio interno. E Meshaal (e Abu Marzouq) non possono, allo stesso tempo, perdere l'onda favorevole che sta premiando la Fratellanza Musulmana in tutta la regione, consolidando i rapporti con l'Ikhwan sia egiziano sia giordano.
Occorre far presto, insomma. Lo sanno tutti i protagonisti. Qatar compreso, a cui è toccata una mediazione che dovrebbe – nelle intenzioni – stabilizzare la politica palestinese, proprio nelle stesse settimane in cui l'ipotesi di un attacco israeliano contro l'Iran diventa sempre più concreta. Almeno stando alle indiscrezioni che, guarda caso, si fanno quotidiane, come per preparare le diversi opinioni pubbliche, da quella interna israeliana a quelle occidentali.
Una nuova guerra sembra ineluttabile, magari più tardi in primavera, e se fosse vero bisognerebbe almeno avere qualche fronte chiuso. Per esempio il fronte della politica interna palestinese. Significa, in soldoni, che occorre stabilizzare il rapporto tra Hamas e i paesi dell'islam sunnita, cercando di rompere l'alleanza (tattica, non strategica) con l'Iran. Era già chiaro leggendo i documenti resi pubblici da Wikileaks, che soprattutto l'Arabia Saudita aveva fatto la voce grossa con l'Iran perché non entrasse negli 'affari interni' arabi. Sembra evidente anche nella mediazione del Qatar tra Abbas e Meshaal. Evidente soprattutto in quel terzo impegno preso dal 'governo del presidente', e inserito nella Dichiarazione di Doha: l'esecutivo presieduto da Abbas deve occuparsi delle elezioni legislative, delle elezioni presidenziali, e della ricostruzione di Gaza. Un impegno che si lega alla promessa fatta due giorni prima della Dichiarazione di Doha dallo stesso emiro del Qatar al premier di Gaza Ismail Haniyeh, impegnato nel suo tour regionale.
L'emiro ha promesso a Haniyeh di ricostruire Gaza. E c'è chi, tra gli analisti citati per esempio oggi da Maannews, pensa che i soldi siano stati uno strumento potente nella pressione esercitata da sheykh Hamad al Khalifa al Thani per convincere non solo Abbas e Meshaal, ma probabilmente anche lo stesso Haniyeh. La questione della ricostruzione di Gaza, peraltro, è cruciale in questo momento. Non solo perché se i soldi non arrivassero dalla penisola arabica, potrebbe arrivare (e forse già lo fanno, dicono in molti) dall'Iran. Gaza non può essere lasciata nello stato di prostrazione sociale ed economica in cui si trova, anche per non destabilizzare ulteriormente l'Egitto. E quegli oltre quattro miliardi di dollari promessi nel marzo del 2009 dalla famosa conferenza dei donatori di Sharm el Sheykh non sono mai arrivati tutti quanti nella Striscia. Perché non si è mai risolto il nodo di fondo: a chi dovessero arrivare i finanziamenti, e chi li dovesse gestire. Hamas è nella lista delle organizzazioni terroristiche di USA ed Europa. I soldi non potevano essere mandati formalmente al governo di Gaza, ma Hamas si è sempre opposta a che fosse il governo di Ramallah, guidato da Salam Fayyad, a gestire i fondi della ricostruzione (ne parlo nel capitolo che ho aggiunto alla versione americana del mio libro su Hamas, che esce a New York il mese prossimo, da Seven Stories).
Risultato: il nodo non si è sciolto, ma potrebbe sciogliersi proprio con un governo del presidente. Il governo di Abu Mazen. Staremo a vedere. In Medio Oriente è troppo facile e frequente che gli accordi e le dichiarazioni rimangano carta. Buona per aumentare il numero delle pagine dei volumi che documentano la storia lacerata di questa parte del mondo.
Nella foto, un'altra Gaza. Anno domini 1937.
Nella playlist di oggi, c'è Ziad el Ahmadie, Majnoun Layla. E poi mi direte…
February 6, 2012
Abu Mazen premier. Accordo raggiunto
Definirla una svolta potrebbe essere eccessivo, ma – certo – l'annuncio fatto stamattina in Qatar dell'accordo raggiunto da Mahmoud Abbas e Khaled Meshaal è di quelli che segnano una tappa, in questa storia farraginosa e travagliata della riconciliazione palestinese. La notizia: Mahmoud Abbas guiderà il governo di transizione che deve superare l'impasse di questi ultimi cinque anni. E che deve le elezioni presidenziali e politiche, previste – almeno sulla carta – per il prossimo maggio.
È questa la soluzione trovata dopo tre ore di faccia a faccia sponsorizzato dall'emiro del Qatar, sheykh Hamad Khalifa al Thani. Il presidente dell'ANP Mahmoud Abbas, e Khaled Meshaal, il capo dell'ufficio politico di Hamas si era trovati ieri a Doha, ospiti dell'emiro del Qatar che – dicono le notizie d'agenzia – avrebbe fornito la soluzione politica ai due leader palestinesi. Perché Abbas dovrebbe essere primo ministro, e non altri? Perché un accordo su altri nomi non si è trovato, né negli scorsi cinque anni, né nell'ultimo anno, dopo la firma dell'accordo di riconciliazione nel maggio del 2011, al Cairo.
È vero che Abu Mazen concentrerà sulla sua persona un gran numero di ruoli: non solo quello di presidente dell'ANP, carica scaduta da anni. Ma anche quella di leader eletto di Fatah e di capo dell'OLP. Il suo nome, però, è l'unico possibile per superare due resistenze. Quella di Salam Fayyad, sempre smentita negli scorsi anni, ma resa evidente da una serie consistente di dimissioni annunciate e mai messe in pratica. E anche quella di Ismail Haniyeh, premier del governo di Hamas a Gaza, che sta assumendo un profilo sempre più importante negli equilibri interni del movimento islamista.
Non si può escludere, però, che lo stesso Haniyeh fosse a conoscenza della proposta dell'emiro del Qatar, visto che con sheykh Hamad Khalifa al Thani aveva avuto un incontro il giorno prima del summit tra Abbas e Meshaal. Per la seconda volta nel giro di soli due mesi, Haniyeh è infatti impegnato in un tour regionale che lo ha già portato – appunto – a Doha, in Bahrein, per approdare poi a Teheran.
L'accordo tra Abbas e Meshaal, raggiunto in lunghe ore di negoziato a Doha, ha un altro attore politico: la Giordania. Sia Abbas sia Meshaal provenivano, infatti, da Amman. Un dettaglio importante, perché nelle ultime settimane la Giordania è stata al centro di molti dei colloqui dietro le quinte. Il re Abdallah II ha cercato infatti di far ripartire i negoziati di pace tra israeliani e palestinesi, che sono però – com'era prevedibile – subito falliti. E nel frattempo ha ricevuto Meshaal e l'intero vertice dell'ufficio politico di Hamas, ricucendo ufficialmente i rapporti tra la Giordania e il movimento islamista. Abbas, invece, è passato da Amman nel suo viaggio verso il Qatar, mostrando – con evidenza – che il lavorio diplomatico compiuto in questi mesi dalla Giordania e da alcuni paesi della penisola arabica (Qatar, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita) sta cominciando ad avere i suoi frutti.
La riconciliazione palestinese è da inquadrare nella tensione sempre più alta nella regione, per i tamburi di guerra tra Israele e Iran che hanno iniziato a rullare sempre più forte? Può darsi. Spostare Hamas dall'alleanza (tattica) con l'Iran verso il Golfo non è ininfluente. E Hamas – o almeno la sua leadership all'estero – sembra aver recepito il messaggio. Da movimento pragmatico qual è, Hamas sembra cercare velocemente una nuova collocazione che faccia superare al movimento un'altra delle sue fasi di debolezza, dopo l'uscita da Damasco.
Stay tuned
Per la playlist, Nina Simone canta – da par suo – Just Like a Woman.
February 5, 2012
Gli ultras, la rivoluzione, la politica
Di nuovo via Mohammed Mahmoud. Di nuovo downtown. Di nuovo quell'area del Cairo dove sono riuniti i palazzi del potere e, allo stesso tempo, i simboli della rivoluzione. Il ministero dell'interno e piazza Tahrir. Le sedi dei diversi poteri, parlamento e ministeri, accanto alle strade in cui, per anni, si è riunita la gioventù del Cairo, tutto attorno non solo a piazza Tahrir, ma alla vecchia sede dell'American University, i caffè che si dispiegano sino a Bab el Louq, i negozietti di computer, lo struscio del centro città.
È ancora qui, in questo perimetro, che va in onda lo scontro tra rivoluzione e giunta militare. Stavolta, scatenata dalla tragedia dello stadio di Port Said e dai 73 morti causati dalla caccia al tifoso della squadra cairota dello Ahly scatenata dai fans della squadra di casa, il Masry. Da allora, la violenza è tornata nelle strade del Cairo e di Suez, in particolare. E lo scontro tra forze di polizia e i 'diavoli' dello Ahly diventa parte integrante della rivoluzione egiziana. Basta guardare i protagonisti del twitting egiziano, e si vedrà che sono gli stessi attivisti che in tutto questo anno hanno dato vita all'insurrezione e al suo dispiegarsi. Basta guardare chi c'è in strada, chi è stato ferito, compreso Ahmed Maher, del movimento 6 aprile.
Cosa vuol dire? Che l'attivismo, sin dall'inizio pacifico, ha superato la soglia, e si è spostato sulla violenza? Sarebbe veramente troppo semplicistico descrivere quello che sta succedendo in questo modo. È tutto molto più complicato, anche se – certo – i confini si fanno sempre più labili, man mano che aumenta anche la stretta dall'altra parte. Da parte della giunta militare. È come se quello che sta succedendo in questi giorni dia ragione a chi, da mesi, prevede prima o poi un bagno di sangue in Egitto, perché possa compiersi il cambio di regime. Io non sono ancora del tutto convinta che l'Egitto precipiterà in una deriva in cui la violenza possa essere ben più estesa di quanto sia in questi ultimi giorni, o nelle ultime settimane. Certo, però, la tragedia dello stadio di Port Said sta accelerando i tempi. In primis, i tempi delle elezioni presidenziali, che oramai in pochi prevedono per giugno. Persino Amr Moussa pensa che non si debbano fare dopo aprile, mentre il consiglio consultivo creato dalla stessa giunta militare parla di fine febbraio. Siamo, insomma, alla resa dei conti, in cui la strategia della giunta militare sembra molto più confusa di prima, se nella rete sono cadute anche le ong che ricevono finanziamenti da americani ed europei, che si sono ritrovate sotto indagine.
La tragedia dei 'diavoli' dello Ahly accelera i tempi della politica, dunque. A dimostrazione che sbaglia chi pensa agli ultras egiziani (e non solo, anche tunisini) come un gruppo apolitico, oppure solo temporaneamente politico, oppure sfruttato dalla politica. Devo dire che ho trovato molto interessante, invece, la lettura che ne dà Ashraf el Sherif, che insegna all'American University del Cairo. Nella sua analisi pubblicata da Egypt Independent, Ashraf el Sherif contrappone il vecchio Egitto a tutto ciò che la rivoluzione ha fatto emergere, in primis, e poi ha lasciato libero.
This conflict between two rhythms of life — one so dim it fails to realize its own fragility, stagnation and gradual extinction, and the other so young and full of life that it fails to realize the revolutionary consequences of its actions — is a useful one, and should be allowed to grow.
In fact, the chaos of the ultras, Egypt's hardcore football fans, may play the role of waking up Egypt's middle class, which continues to adhere to the myth of stability.
Dalla battaglia contro la società patriarcale (è per questo che le donne, le ragazze sono state le protagoniste del 25 gennaio) alla disperazione di un pezzo di società (giovane) espunto dallo sviluppo. Un tema, quest'ultimo, che Maria Golia giustamente sottolinea.
These street battles, seen by some as a freedom fight, are displays of sheer desperation, of thwarted male energy, of anger and confusion. The bands of raggedy boys I see marching into battle have no better place to be. They are ready to die because they have been offered no alternatives.
The walls they are trying to dismantle are within themselves, within a society where responsibility is traditionally relinquished to the state and religion. Those life-affirming moments of consensus and caring that characterised last year's Tahrir have faded into memory.
Da ultimo, un consiglio di lettura un po' più consistente dei commenti: il libro di James Montague. When Friday Comes. Football in the War Zone è un testo del 2008, ma c'è già molto, sugli ultras in Medio Oriente. Ivi compreso il Beitar Jerusalem, i cui sostenitori sono noti per il loro razzismo anti-arabo (chi vuole approfondire, lo può fare facilmente, con una semplice ricerca su Google). Ancora una volta, non è solo calcio. E lo stesso Montague lo spiega bene in un suo commento sul sito (in inglese) di Al Jazeera.
Per la playlist, i vecchi Pink Floyd, Us and Them.
La foto che immortala un graffiti dello Ahly è preso dal loro account twitter.
February 2, 2012
Non è solo calcio
Un sedile insanguinato nello stadio di Port Said. Non di solo calcio sono morte oltre settanta persone, e quasi un migliaio ferite o contuse. Lo denunciano gli attivisti di Piazza Tahrir, mentre Alaa al Aswani parla di un complotto per far precipitare l'Egitto nel caos. Non è solo follia degli ultras, insomma. Proprio nei giorni in cui si ricordano le vere e proprie battaglie per difendere Piazza Tahrir dagli attacchi dei teppisti al soldo delle forze di sicurezza del regime, scoppia il "caso ultras". E scoppia proprio contro un preciso gruppo di ultras, quello della squadra cairota dello Ahly, divenuto famoso in questo ultimo anno per avere difeso Piazza Tahrir, la piazza simbolo della rivoluzione del 25 gennaio, tutte le volte che è stata attaccata. Compreso nello scorso novembre. A morire, a Port Said, sono stati molti ultras dello Ahly: un fatto che oggi, al Cairo, sta provocando reazioni politiche a catena. Sul banco degli imputati, per gli attivisti, è la giunta militare al potere dall'11 febbraio, per contrastare la quale – ora – chiedono atti di disobbedienza civile.
Stay tuned. La tragedia dello stadio di Port Said è un bruttissimo segnale. Uno di quei segnali che potrebbe parlare di strategia della tensione. Di violenza tra egiziani.
January 31, 2012
Un uomo di pace diventa vescovo
Faccio una delle infrequenti deroghe al tema principe di questo blog, che è il Medio Oriente, il mondo arabo, il Mediterraneo del sud. Una deroga bella, e che in fondo non si allontana troppo dagli argomenti di cui tratto. La notizia di cronaca recita – cito dal comunicato della Comunità di Sant'Egidio – che "Don Matteo Zuppi, assistente ecclesiastico della Comunità di Sant'Egidio e parroco della parrocchia di Santi Simone e Giuda nel quartiere di Torre Angela a Roma, è stato nominato oggi dal Santo Padre Benedetto XVI vescovo ausiliare della diocesi di Roma, assegnandogli la sede titolare vescovile di Villanova. Nato a Roma nel 1955, ha fatto parte fin da giovane della Comunità di Sant'Egidio, ed è stato parroco di Santa Maria in Trastevere per dieci anni. Il suo nome è legato anche all'impegno per la pace in Africa e in particolare alle trattative che portarono la pace in Mozambico nel 1992, proprio venti anni fa".
Don Matteo Zuppi è stato uno dei protagonisti della pace del Mozambico. Da giornalista direi che è stato il tessitore di quella pace, l'uomo delle infinite mediazioni che – nell'ombra, lontano dai riflettori – è riuscito a far mettere la parola fine alla guerra civile. Così come, in altre forme e in altri ruoli, è stato uno degli uomini della trattativa sulla guerra civile in Burundi. Così come, da anni, cerca di mettere la sua esperienza al servizio di una possibile pace nel Congo-ex Zaire.
L'ho incontrato la prima volta non so più quanti anni fa. Circa vent'anni fa. Perché mi occupavo d'Africa. Come d'Africa si occupava uno dei nostri amici più cari, Toni Fontana, di cui don Matteo ha celebrato il funerale – ahimé – più di un anno fa. E da allora ne ascolto le parole.
Don Matteo è un uomo delle paci possibili. E soprattutto – lo sa chi lo conosce o ha avuto la fortuna di incontrarlo anche solo una volta – un vero uomo della pace. Che sia la pace di un quartiere (ancora) popolare come Trastevere o Torre Angela, all'estrema periferia di Roma. Oppure che sia la pace in un paese africano.
Non c'è nulla di retorico in una frase come questa. Nulla. Perché il lavoro per la pace di Matteo, don Matteo, monsignor Zuppi è quotidiano, per strada, ad ascoltare chiunque abbia da dire e da parlare. Chi soffre, barboni, senzatetto, poveri, immigrati, rom, depressi, soli, quelli messi da parte, i marginalizzati, i suoi anziani di Trastevere, i ragazzi diversamente abili di Primavalle. O anche soltanto chi, in quel preciso momento, ha bisogno di ascolto, così, perché ce n'è bisogno. Uomini, donne, bambini di cui Matteo si ricorda tutto, dal nome ai guai quotidiani, ai rovelli interiori, ai problemi pratici dell'esistenza.
Allo stesso modo, anche chi fa la guerra deve essere ascoltato perché si possa trovare quel cuneo dove poter poggiare una leva e aiutarlo a fare la pace. Anche se chi fa la guerra è cattivo. Cattivo. Mi ricordo la conversazione pubblica al festiva letteratura di Mantova edizione 2009. Ci chiedevamo chi dovesse definire il cattivo e il buono, in una guerra. E quali fossero gli strumenti per definirlo. Se fosse possibile una definizione neutrale, oggettiva…
Tutto questo per dire che sono felice che sia stato nominato vescovo. Non per il titolo in sé, che comunque ha insito il ruolo di pastore, che gli si addice. È perché so che farà bene, come sempre. Che lo farà nel sublime interesse dell'Altro. A qualunque fede l'altro appartenga, da qualunque lido provenga. Mabrouk, Matteo.
La foto ritrae don Matteo Zuppi al festivaletteratura di Mantova, edizione 2009. Parlavamo di "Far la Pace con i cattivi". E' stata, come sempre, una conversazione molto bella, che chi vuole può ascoltare, cercandola nell'archivio di Fahrenheit, la trasmissione culturale di Radio3 Rai.
E per la playlist, dedicato a don Matteo, l'Agnus Dei della Messa Laica per don Tonino Bello di Michele Lobaccaro, con le voci di Franco Battiato e Nabil ben Salameh.
January 30, 2012
L'incontro di Amman. E la trasformazione di Hamas
Se dovessi – per l'ennesima volta – aggiornare il mio libro su Hamas, l'incontro di domenica dell'intero gruppo dirigente all'estero di Hamas con il re giordano Abdallah II meriterebbe qualche riga. E le ragioni sono numerose. Intanto, per un motivo di cronaca: Khaled Meshaal non aveva incontri ufficiali in Giordania da quando era stato espulso dal paese assieme al quartier generale del movimento islamista alla fine degli anni Novanta. Per la Giordania che aveva firmato qualche anno prima la pace con Israele, la presenza di Hamas nel pieno del periodo in cui compiva attacchi terroristici nelle città israeliane era troppo imbarazzante per il regno hashemita. E poi nel 1997 Meshaal era scampato a un attentato del Mossad proprio ad Amman, provocando una vera e proprio crisi tra re Hussein e l'allora premier Benjamin Netanyahu (la racconta, con la solita maestria, Avi Shlaim nella suo biografia del monarca giordano).
Meshaal, dunque, è tornato in Giordania. Vi aveva già messo piede, negli scorsi mesi, per motivi familiari. Il permesso accordato al capo dell'ufficio politico di Hamas per visitare l'anziana madre malata era stato, però, il segnale che qualcosa stava cambiando, nelle relazioni tra gli islamisti palestinesi e il regno hashemita.
Le indiscrezioni su un negoziato in corso per rimettere a posto i rapporti tra Hamas e Giordania sono, infatti, iniziati subito dopo la visita di Meshaal. D'altro canto, la posizione di Hamas in Siria era già compromessa: imbarazzato dalla repressione compiuta dal regime di Bashar el Assad, Hamas aveva chiaramente fatto intendere che non avrebbe appoggiato il presidente siriano e il suo esercito, nel bagno di sangue. Di qui, la necessità di un trasloco (difficile) dell'ufficio politico all'estero, proprio nel pieno dei rivolgimenti determinati dal Secondo Risveglio Arabo.
Il grande mediatore, anche nel caso di Hamas, è il Qatar. Lo è stato negli scorsi mesi, con una presenza parallela degli Emirati Arabi Uniti e dell'Arabia Saudita. E la testimonianza è la presenza, assieme a Meshaal e al gruppo dirigente ricevuto da re Abdallah II, del principe ereditario qatariota, Tamim bin Hamad al Thani. Non è in gioco la presenza del quartier generale ad Amman. I dirigenti si dislocheranno probabilmente in differenti capitali arabe, Qatar ed Egitto compresi. Quello che è in gioco è la trasformazione di Hamas in un movimento indipendente all'interno della Fratellanza Musulmana, con una parte socio religiosa e una parte solo ed esclusivamente politica. Quello che viene ormai chiamato il Palestinian Chapter dei Fratelli Musulmani, formalmente staccato da altre organizzazioni nazionali dell'Ikhwan, sia giordana sia egiziana.
Può sembrare una contraddizione, la trasformazione di Hamas nel 'capitolo palestinese' dell'Ikhwan, visto che già Hamas, nel 1987, è stata fondata come il braccio politico (e anche armato) dei Fratelli Musulmani. La contraddizione finisce laddove, però, si crea un movimento nazionale palestinese staccato dagli altri movimenti. Così si spiega anche la notizia della decisione di Meshaal di non ripresentarsi candidato per la carica di capo dell'ufficio politico. Il suo obiettivo è farsi eleggere murshid al amm, guida suprema dei Fratelli Musulmani palestinesi. Mentre Moussa Abu Marzouq (presente anche lui domenica ad Amman, all'incontro col re) è in pista per ritornare al ruolo che aveva ricoperto sino al 1995, quello – appunto – di capo dell'ufficio politico.
Non è, però, certo che Moussa Abu Marzouq possa farcela. Pesa, sulla trasformazione di Hamas, il ruolo della constituency di Gaza (nella foto, militanti di Hamas sulla spiaggia di Gaza, ritratti da Eduardo Castaldo. Grazie!!). Una parte ormai molto importante dell'organizzazione, perché è l'unico pezzo di terra che Hamas controlla. Che i pourparler siano in corso, e non siano affatto facili, lo conferma il secondo tour del premier di Gaza, Ismail Haniyeh, nella regione. Un tour che prende inizio oggi, all'indomani dell'incontro Meshaal-re Abdallah, e proprio con una sosta di Qatar. Ci sarà, poi, anche la visita in Iran, che tutti giudicano cruciale. Si dice che Haniyeh sia contro la trasformazione di Hamas in capitolo palestinese dei Fratelli Musulmani. E che sia appoggiato, in questo, da Mahmoud A-Zahhar: una lettura che, se fosse vera, significherebbe uno spostamento netto delle posizioni di Zahhar.
Il gruppo dirigente di Hamas, dunque, è diviso sul futuro. Mentre in Cisgiordania, la constituency di Hamas è decimata dagli arresti compiuti dagli israeliani, che hanno messo in carcere l'intera pattuglia considerata pragmatica del movimento islamista: Mahmoud Ramahi, Omar Abdel Razeq e, recentissimamente, Aziz Dweik.
Breve chiosa sul ruolo della Giordania: i nuovi rapporti con Hamas sono da leggersi tenendo presente due elementi. Un elemento interno, e cioè il rapporto della casa reale con i Fratelli Musulmani giordani, in una fase in cui l'islam politico sta riscuotendo la sua più importante vittoria con i risultati elettorali nei paesi in cui c'è stata rivoluzione. E, secondo elemento, il rapporto con i palestinesi: vista la politica seguita dal governo Netanyahu, re Abdallah vuole evitare il pericolo che si riproponga, per l'ennesima volta, l'idea che la Giordania possa essere la Palestina, assorbendo i palestinesi e chiudendo in questo modo la partita della Cisgiordania. Sarebbe un modo, per la destra israeliana e non solo, per realizzare l'Israele dal mare al fiume Giordano. Per questa ragione, è determinante per re Abdallah che si rimetta in moto il processo di pace. E lo sa bene anche Hamas, come dimostrano le affermazioni di Meshaal dopo l'incontro col re giordano. La Palestina è la Palestina, e la Giordania non può essere la Palestina, ha in sostanza detto Meshaal. Un modo per rassicurare Abdallah, a capo di un paese in cui l'equilibrio tra le tribù beduine transgiordane e la componente palestinese (i rifugiati divenuti cittadini giordani) si sta trasformando negli ultimi anni. Soprattutto visto che i palestinesi stanno rasentando la metà della popolazione.
Nella mia playlist virtuale non era ancora mai comparsa Adele. Eccola: Don't You Remember.
January 28, 2012
Da una grotta a una tenda
"I bulldozer e i soldati sono arrivati a notte fonda, il 23 gennaio, e 52 persone, compresi 29 bambini sono stati costretti ad abbandonare le loro case, che sono state completamente distrutte". Il racconto è contenuto in una denuncia resa pubblica il 27 gennaio dal coordinatore dell'Onu per gli affari umanitari nei Territori Palestinesi, Maxwell Gaylard, dopo la distruzione da parte delle autorità israeliane di sette case palestinesi nel villaggio di Anata, a Gerusalemme. A una ventina di chilometri da Betlemme e dalla grotta della Natività.
Le 52 persone, compresi i 29 bambini, hanno dormito sotto le tende. Chi conosce Gerusalemme, sa bene che le temperature di questo periodo sono particolarmente rigide. Soprattutto la notte. Da giorni piove, piove a vento, fa freddo, e dormire sotto una tende, su un terreno inzuppato d'acqua, è particolarmente dura. Le considerazioni climatiche non hanno, però, fermato le ruspe. Le sette abitazioni sono state abbattute, senza se e senza ma.
"Durante il 2011 – prosegue ancora la denuncia di Gaylard e dunque dell'Onu – sono state demolite 622 abitazioni, costringendo circa 1100 persone, di cui la metà bambini, a diventare sfollati". "Un incremento notevole rispetto agli anni precedenti", dice l'alto funzionario delle Nazioni Unite, che ricorda a Israele che "in quanto potenza occupante ha la responsabilità fondamentale di proteggere la popolazione civile palestinese che si trova sotto il suo controllo e di assicurarle dignità e benessere".
Le demolizioni ad Anata sono, purtroppo, ricorrenti. Beit Arabiya, una delle case distrutte, era già stata ricostruita quattro volte dall'ICAHD, la ong guidata da Jeff Halper (israeliano) che lotta da anni contro le demolizioni delle case (palestinesi). Jeff Halper, ora, chiede aiuto per ricostruire per la quinta volta quella stessa casa. (grazie, Lorenzo, per la foto e la sollecitazione a parlare di Anata), in un paese dove vivono migliaia di persone. Un paese, Anata, che è la perfetta rappresentazione di quello che sta succedendo a Gerusalemme, seguendo una strategia che già ora preclude un futuro per la città in linea con la soluzione dei due stati.
Anata è a nord est, e la cartina qui sotto descrive bene perché è importante. Confina con Shu'fat, quartiere e campo profughi, e dall'altro lato è chiusa da una base militare. Dovrebbe essere attraversata da un bypass, una strada separata, riservata agli israeliani. A nord insistono due tra gli insediamenti israeliani più numerosi, soprattutto Nevee Yacov e Pisgat Zeev. E infine a sud-ovest c'è Issawiya, altro quartiere palestinese a rischio dopo la notizia della volontà del municipio (israeliano) di voler costruire un parco che colleghi tra di loro l'anello delle colonie, e separi i quartieri palestinesi di Gerusalemme est dalla Cisgiordania (chi ne vuol sapere di più, può consultare le cartine sul sito dell'OCHA, www.ochaopt.org, oppure su quello del centro studi PASSIA, che col suo Diary pubblica ogni anno il più credibile aggiornamento sulla situazione della Gerusalemme palestinese).
Solo pochi giorni fa il cosiddetto rapporto dei consoli europei, i rappresentanti diplomatici dell'Unione Europea a Gerusalemme, aveva denunciato una situazione sempre più intollerabile, pericolosa e senza ritorno, per i 200mila palestinesi di Gerusalemme e per lo stesso futuro della città. Nemo profeta in patria. Le demolizioni, stigmatizzate nel rapporto assieme alla strategia israeliana per rendere impossibile la divisione della città, sono continuate. Anche ora che fa freddo. In un assordante silenzio, a Bruxelles così come a Washington. Anata è invisibile, come molti altri luoghi di questo mondo arabo incognito. Invisibile e – sembra – irrilevante.
La foto immortala una demolizione nel quartiere residenziale palestinese di Beit Hanina, dove vive da anni la piccola-media borghesia palestinese, a pochi metri dal Muro di separazione che s'incanala sino al checkpoint di Qalandiya.
Playlist: Paolo Fresu, Mio Mehmet…


