Paola Caridi's Blog, page 94

April 22, 2012

Dei Fuorusciti e dell’Interno


L’argomento è vecchio. Così vecchio che lo studiavamo circa trent’anni fa al corso di Storia dei Partiti Politici, quando Paolo Spriano ci parlava dell’opposizione al fascismo negli anni Trenta. È la vecchia divisione tra i fuorusciti e il centro interno. Tra chi sta fuori e chi sta dentro. Per dirla contestualizzandola all’Italia di oggi, uscita dalla dittatura e ora travolta dalla peggiore crisi economica della sua storia recente, tra i cervelli in fuga e chi, soprattutto in accademia ma non solo, è rimasto nel Belpaese. Tra chi, insomma, ha deciso di emigrare per vedere riconosciuto il talento e chi, pur bravo ma senza il santo in paradiso, ha deciso di mangiare polvere in Italia.


Tra i gruppi, talvolta se non spesso, non corre buon sangue. I primi, i fuorusciti, rimproverano al centro interno di accettare le regole della baronìa accademica e produttiva nostrana, e i relativi compromessi che ledono, spesso, la stessa dignità delle persone, non solo sul piano della remunerazione economica. Il centro interno, a sua volta, rimprovera ai fuorusciti di essersene andati, di aver sguarnito il Paese, e di fare in sostanza la bella vita, comparata a quella dei loro coetanei in Italia.


Le accuse reciproche hanno il loro fondo di verità, ma non spostano di un centimetro il cuore del problema. Me lo ha spiegato, in poche righe, Andrea Teti, amico, cervello in fuga nelle brume di Aberdeen, figlio di un’ottima scuola quale quella dell’Orientale di Napoli che ha disseminato i suoi discepoli per tutto il pianeta, negli ultimi anni. Ieri su Facebook, commentando il post precedente e lo scandalo (anche mediatico) del Bahrein, Andrea mi diceva “io quando penso a queste cose, penso anche alla scelta molto coraggiosa di quelli che, pur potendo andarsene, hanno invece deciso di restare e lottare. Non so come facciano (anche se ovviamente non si tratta certo di una gara a chi ha più coraggio) ma sicuramente senza di loro non ci sarebbe davvero speranza”.


Coraggio e speranza, certo. E in entrambi i casi un gusto amarissimo che rimane in bocca. L’ho provato tardi, a cinquant’anni, negli Stati Uniti, in un viaggio che dovrei ricordare solo per le soddisfazioni inattese, per il modo in cui l’accademia americana mi ha accolto senza pregiudizi, per la libertà di pensiero con cui docenti e specialisti hanno giudicato il mio lavoro su un argomento così delicato come Hamas. Eppure, è un viaggio che mi ha lasciato, nello stomaco, la sensazione amara di aver provato, in America, ciò che l’Italia non mi aveva dato.


Non sono un cervello in fuga, mi sono sempre considerata un’emigrante di lusso. C’è una bella differenza, anche se sono una workalcoholic e non ho mai macinato tanto lavoro quanto in questi undici anni in Medio Oriente e Nord Africa. Ora però, a cinquant’anni, certo che mi sento un cervello in fuga. Mi sento un cervello in fuga scavato da un rovello che chissà mai se si risolverà: volere la libertà, l’aria, i grandi spazi che solo all’estero noi nomadi troviamo, e sentire fin dentro la carne che è ora di tornare e di dare al proprio Paese ciò di cui ha bisogno. Una risposta individuale, costante, quotidiana al regno imperante della mediocrità, dei valori prima ancora che degli uomini e delle donne. Anche per non lasciare da soli tutti coloro che, ogni giorno, questa battaglia piccola, certosina ma continua contro la mediocrità la stanno facendo. In silenzio.


Strano, che questo rovello sia cresciuto in America. A guardar bene, però, così strano non è.  Non perché io non abbia avuto i miei buoni riconoscimenti in Italia. In quel posto così contraddittorio che sono gli Stati Uniti, però, tutto è stato più rapido, più semplice, più giusto: un’oscura giornalista-storica arriva, con in mano il suo libro appena tradotto e pubblicato a New York (anche questo un buon traguardo, visto l’esiguo numero di libri tradotti dall’italiano in inglese, e poi per il pubblico americano…), e viene accolta in alcune tra le migliori università americane, in alcuni tra i migliori e più qualificati centri di studi sul Medio Oriente (ne vogliamo citare qualcuno a caso? Harvard, Georgetown, Columbia, New York University, Chicago…). Niente di più e niente di meno. Ma che nessuno si aspetti che, così semplicemente, senza spinte, senza santi in paradiso, possa succedere in Italia. Così non è, e lo sappiamo tutti, anche se – nel mio caso – l’accoglienza da parte degli arabisti italiani ai miei libri pubblicati con una prestigiosa casa editrice come Feltrinelli è stata grande, inattesa, e – passatemi il termine – generosa.


Negli Stati Uniti, però, ciò che in Italia sta nella fatica nei singoli docenti, ricercatori, uomini e donne, è invece sistema. Ed è questa la differenza, profondissima, fondamentale. È questo il motivo che spinge migliaia di ragazzi a cercare fortuna all’estero, a vincere un dottorato in Norvegia o in Danimarca perché in Italia se lo dovrebbero pagare da soli (i casi non sono ovviamente citati a casaccio, ma sono reali…), a seguire la carriera accademica oltreconfine e a essere riconosciuti specialisti a livello mondiale, con un posto a Cambridge (caso reale, ovviamente) o in qualunque altra parte del mondo. Far fortuna fuori, perché il proprio paese ti impedisce di farla. Usare le proprie gambe per evitare la cooptazione che ti porta, da un giorno all’altro, nel circo mediatico per chissà quale motivo, ma non essenzialmente per il tuo merito.


È possibile cambiare un sistema? È possibile rivoluzionare un incancrenito processo di cooptazione a favore del merito, come in un certo periodo fu anche in Italia, quando – con la Repubblica fondata sulla Costituzione – la scuola fece il suo dovere e istruì interi ceti sociali (compreso il mio) all’idea di un progresso individuale? Io non lo so, ma sono figlia di quella storia e dunque tendo – anche per indole – a pensare che ognuno è artefice del proprio destino. E poi, come diceva mia madre, costretta dalla povertà a fermarsi alla quinta elementare, “se vali, prima o poi ce la fai”. Non ce la faccio, insomma, a pensare al mio destino nelle mani di mediocri. E allo stesso tempo credo, e temo, che non sia solo colpa loro, ma anche nostra, se siamo in queste condizioni. E temo che la colpa più grande, nel mio caso e nel caso dei cervelli in fuga, sia fermarsi alle critiche feroci e senza appello, con la coscienza (errata) che altro non ci sia da fare.


Parole un po’ datate, forse. Le stesse di Una notte in Italia, di Ivano Fossati, in uno dei suoi ultimi concerti, a Catania a dicembre. Ogni tanto, però, il vocabolario va ri-aperto, per ricordarsi il significato di alcune parole fondamentali.


 

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Published on April 22, 2012 21:46

Che faccio, mi indigno?

“In Bahrein l’opposizione sciita manifesta contro la casa reale sunnita, ritenuta filostatunitense”. È la voce impostata di una giornalista italiana, alla radio, che mi comunica questa semplice (ed errata) lettura di quello che sta succedendo in Bahrein durante la Formula1. O per meglio dire: quello di cui i giornalisti in Italia parlano in questi giorni perché c’è la Formula 1. Le leggi del giornalismo nostrano sono ferree, e non è (nemmeno) del tutto colpa dei giornalisti, ma del “sistema”. Dei fatti si parla quando si ritiene che incontrino i gusti e gli interessi di una larga porzione di pubblico. Tutta un’altra storia – ovviamente – è la domanda che il “sistema mediatico” non si fa quasi mai: chi sia a decidere i gusti e gli interessi di una larga porzione di pubblico. Ma tant’è. Qualcuno/a (me compresa) continua a indignarsi, qualcuno ogni tanto si interroga stancamente sul rapporto tra media e pubblico, gli altri eseguono gli ordini perché pensano che tanto non cambia nulla. E a loro, a questi ultimi, cambiare gli equilibri e le regole non scritte non fa poi tanto comodo, per quieto vivere, per ragioni di carriera. O per semplice indifferenza.


E allora che faccio? Continuo a indignarmi? Perché no? Preferisco essere in compagnia di Abdul Hadi al Khawaja, che oggi era al 74mo giorno di sciopero della fame, e a sua figlia Zeinab, che protestava da sola (la foto l’ho trovata su Facebook) nella sera del Bahrein, mentre il circo della Formula 1 cercava di fare come se nulla fosse. Preferisco stare con i medici incarcerati per aver curato – era il febbraio del 2011, e chissà se allora il circo mediatico della F1 se ne occupò – i manifestanti che per giorni occuparono pacificamente la piazza delle Perle, nel centro di Manama, uno dei luoghi iconici della vergogna che la politica estera occidentale dovrebbe provare, soprattutto dopo la repressione dura, violenta e feroce delle dimostrazioni. Perché la rivoluzione perdurante in Bahrein non risponde all’assioma sciiti contro sunniti, come vorrebbe farci credere anche la conduttrice del GR con la voce impostata, perché impostare la voce vuol dire darsi autorevolezza. È sempre stata una rivoluzione di tutti, sciiti e sunniti, per democrazia, rappresentatività, libertà, giustizia.


Ma c’è una cosa che mi indigna ancor di più, ed è il refrain che ho letto più volte da parte del circo della Formula 1. Recitava più o meno così: io sono qui per lo sport, e quindi di questo mi occupo. È esattamente lo stesso atteggiamento di chi, in spiaggia, continua a prendere il sole anche se, accanto, qualcuno ha avuto un malore oppure il cadavere di un migrante ha avuto l’ardire di spiaggiarsi proprio lì, vicino agli ombrelloni. Le mie letture adolescenziali mi spingerebbero a citare banalmente Per chi suona la campana, non tanto per l romanzo, quanto per la guerra civile spagnola.


Preferisco, però, chiedermi qualcosa di più sull’Italia, paese mio in decadenza, senza verve e quasi senza speranza. Leggendo chi, su FB, si indignava come me sullo scandalo del Bahrein, ho notato che molti, me compresa, erano italiani all’estero. Quelli della fuga dei cervelli, pezzo di popolo dimenticato. Fino a pochi mesi fa, non mi consideravo parte di loro a pieno titolo: semmai, una emigrante privilegiata. Oggi, invece, capisco nella carne quello che un cervello in fuga prova. Vergogna, talvolta, nell’essere rappresentata da un personale politico e culturale sciatto e mediocre. Rabbia, nel sapere che c’è dell’altro, di italiano, di cui noi cervelli in fuga siamo l’immagine: quella che fa fare a tutti, anche ai mediocri, una gran bella figura. Amarezza, nel constatare che per cambiare qualcosa non c’è più molto tempo, e che per il mio pezzo di generazione (in fuga) le speranze di far parte del cambiamento sono scarsissime.


Che fare?, diceva un grande, tanto tempo fa. L’unica risposta che mi viene in mente, che nasce dalla grande dignità dimostrata dai ragazzi arabi, è uno scatto di reni, inclusivo, in cui coloro che valgono non rimangano dietro le quinte a vedersi rubare, ancora, il presente e il futuro. Perché c’è una colpa, che i cervelli in fuga si portano sulle spalle: spesso la nostra indignazione ci fa stare alla finestra, a imprecare contro i mediocri.


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Published on April 22, 2012 03:54

April 20, 2012

The Hamas interview (and internal changes)


An exclusive interview to Mussa Abu Marzouq, Hamas politburo’s deputy, is today on the Jewish reviewForward. It is a breaking news, but not only because Abu Marzouq accepted to be interview by a Jewish journalist. It is, probably, not the first time. It is a breaking news also, if not especially, because Forward decided to interview a man who is considered, not only by me, as the Hamas’ strategic mind.


Does it mean that not only the US academic intellighentsjia, but also the American political circles are debating a recognition of the Palestinian political movement? Does it mean that the issue has been discussed inside the European political and diplomatic closed circles? The answer is very simple: yes.


However, it is not very easy to answer the question: where Hamas is possibly going? What are the changes we are nowadays witnessing inside its internal structure? What is the new balance of power between its different wings and constituencies?


In the last months, we witnessed a work in progress, inside and around Hamas. A lot of travels, tours, meetings, summits, contacts, talks. Even a moving, when Hamas leadership abandoned its safe harbour in Damascus for new locations, Qatar and Egypt, the most important ones. All this events show a different political development ongoing: Hamas’s days of near-total isolation in the Middle East are over. Let’s be clear. Nothing has changed, at least in the official foreign policy of the Western governments: Hamas is the list of the terrorist organizations, both in the US and in the European Union.


What has changed is inside the Arab capitals, after and because of the revolutions. The political embargoes have given way to engagement. And we can see it in the quite remarkable number of trips and tours that many among the Hamas leaders are doing in the last months. Ismail Haniyeh, Prime Minister of the Hamas-led Palestinian Authority in Gaza, embarked on a tour of the Mediterranean that included stops in Tunis, Cairo, and Istanbul. He embarked on a second important tour in mid-February, and he was warmly received in Qatar, Bahrain, and Iran, while Khaled Meshaal, the leader of Hamas’s political bureau, embarked on a diplomatic initiative of his own. The first step was Amman, last January, with a sort of small turning point in the history of Hamas. Not only Khaled Meshaal, but the entire leadership abroad were hosted by King Abdullah of Jordan – the first such visit in more than a decade. Few weeks later, Meshaal arrived in Qatar and signed the Doha Declaration together with the PA president and PLO chairman and Fatah leader Mahmoud Abbas. The Declaration commits both Palestinian movements to a transitional government under Abbas’s leadership, and – in this way – threatens what is, in fact, the consolidated political, administrative, bureaucratic power of the Hamas Gaza wing in the Strip.


So, Hamas is not anymore isolated in the Arab world, and this is the result


- of the Arab revolutions,


- of the increasing tension in the area on the Iran issue, especially in the Gulf. There was a pressure, also in the last years (and we have confirmations through the diplomatic documents leaked through wikileaks) that some countries in the Gulf tried to weaken the relation between Hamas and Iran.


- and of what in Italy we can call the green wave, the electoral success of the MB-inspired parties in Tunisia and Egyppt.


If Hamas is not anymore isolated in the Arab region, the question is: will Hamas remain the same kind of movement we knew in the last 25 years? Or will it change? And if Hamas will change, towards which direction?


There is no doubt that Khaled Meshaal is the protagonist of the ongoing change. But I will add one name, Moussa Abu Marzouq, now in Cairo, after years in which he was the mediator, the protagonist – from the Hamas side – of the lengthy negotiations on the reconciliation. He has good chances to become, or to become again, the next head of the political bureau, due to his good relations with the leaders in Gaza and his experience as one of the most important political leaders since the first years of Hamas. He is known in Gaza, for example, as the man who reorganized the movement after the incredible wave of arrests that Israel did in 1989.


But what about Meshaal? Meshaal could become the new Supreme Guide, the murshid al amm. He may reemerge as the head of a newly established Palestinian branch of the Muslim Brotherhood. This will explain why he said some weeks ago, abruptly, that he will not candidate himself again for the chairmanship of the political bureau. But it also explains one of the possible directions towards which the movement will head.


The rumours in the area say that Hamas could transform itself in the Palestinian chapter of the Muslim Brotherhood, i.e. in a formally independent chapter of the Ikhwan. It is necessary to remind that the Palestinian MB was part of the Jordanian one, and that now there is a pressure, on Hamas, to separate itself from any other national branch and to formally create a Palestinian chapter.


The rumours in the area say also that there is a possibility that Hamas will create a new party, an Islamist party, in the direction of al Khalas, the experimental political organization that some Hamas pragmatist leaders tried to create in the late Nineties in Gaza. The model was – then – the Jordanian Islamic Action Front. But now the model is the Turkish way to political Islam, which is gaining consensus not in Gaza, but in the West Bank.


All this elements and rumours lead to the same direction: Hamas wants and needs to reshape itself in order to be part of the Islamist green wave in the Arab region, after the turning point of the Arab revolutions. And the reasons behind this reshaping lie on the need to stabilize its consensus after the deep and ongoing instability in the area, which affected the same movement’s logistics.


The second reason lies on the need to be part of the Islamist wave in order to be accepted by the international community, that already accepted El Nahda and the Egyptian MB and its party, the FJP, whose leaders were in Washington only few days ago. If in 2006 Hamas did not reach to be internationally accepted after it won the Palestinian political elections, it will try to gain recognition through the broader Arab Islamist green wave.


It would be too simplistic, though, to describe what is happening inside Hamas – in a way – as a normal transformation. It affects the movement’s structure and therefore the internal balance of power. I have to remind some technicalities regarding Hamas’ structure, which are probably not so well know.


Apart from the political bureau and the Shura council, I think that the most important part of the Hamas’ structure is what I call the constituencies. Gaza, West Bank, Prisons, Abroad: the four constituencies had their say on all the most important decision Hamas took in the last 25 years, and the movement as a whole had to follow the decisions voted by the majority, in a sort of Islamic democratic centralism.


After the 2006 turning point, represented by Hamas participation to the political elections and its success, and especially after the June 2007 coup, the Gaza constituency gained an ever increasing role and weight inside the structure. The reason is understandable: it controls a territory, it is a government, it is a bureaucracy, it is power. This role is now the reason why an internal discussion, even a confrontation, is still ongoing between the political bureau and some Gaza leaders on the Doha Declaration and the future national unity government with Mahmoud Abbas as the new premier. As an Italian, I would define it as the government of the president. Mahmoud al Zahhar at the forefront, who was in Teheran to meet the Iranian authorities. Gaza wants to preserve power, and so it wants assurances that its power, its bureaucracy, its consensus through – for example – public works ongoing in Gaza, will not be diminished by the reconciliation between Fatah and Hamas.


Not only this: Gaza thinks that the Islamist green wave is confirming that Hamas has to retain its power on Gaza Strip, in order to be part of the broader Arab picture. One of the interpretations, in Gaza, say that what is happening in the Arab world is supporting the choice to retain the power by the Islamist movement in Gaza, as Gaza is the only liberated Palestinian territory.


Meshaal and the politburo seem to think exactly the opposite. In order to be part of the Islamist green wave, Hamas has to be part of the broader Palestinian picture. And therefore, it has to reconcile with Fatah.


But I think that, in terms of change, both internally and in the relations with Fatah, the core issue remains Hamas participation in the PLO, whether through the same organization or through a new Islamist party established by Hamas. Even the Doha Declaration focuses, in its first point, on the need to reform the PLO and to pave the way to the elections for a new PNC. The PLO, again, is the core issue, as it is from 2005 Cairo Declaration till now.


(I discussed some of these issues during my tour in the US to present my book on Hamas, published recently by Seven Stories Press. Many of the scholars and students who attended the book talks would recognise some of the point we discussed… The very good reception of the book confirms me that a thorough and deep discussion is going on not only inside the Middle East expert’s circles. I apologise, of course, for my very poor English).

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Published on April 20, 2012 08:08

April 17, 2012

La grazia è tale se non è cercata


 


Avevo un appuntamento sabato scorso, a Roma, sulla strada del ritorno a Gerusalemme. Era un appuntamento importante, condiviso con migliaia di persone in una delle basiliche romane, San Giovanni. Si ordinava un vescovo, uno dei vescovi ausiliari di Roma. Un amico di tanti anni, Matteo Zuppi, sacerdote e vescovo. Uomo di pace, sacerdote, parroco, pastore.


Un rito, una festa, e un abbraccio vero e non scontato. Il rito dell’ordinazione, la festa per Matteo Zuppi, l’abbraccio di una singolare folla eterogenea, in cui tutti avevano spazio: i parrocchiani di Trastevere e di Torre Angela, i ragazzi disabili di Primavalle, i suoi amici: poveri, artisti, barboni, intellettuali, rom, anziani, famiglie, bambini, sacerdoti, cattolici, agnostici.


Matteo parla di grazia, nel suo discorso, da leggere con attenzione, perché dentro c’è una precisa visione della comunità (da laica immagino sia una comunità fatta non solo di fedeli), del noi, e dei regali che riceviamo dalla vita e dagli altri che compongono quel noi. Ce n’era anche sabato scorso, di grazia, in tutti i fermo-immagine che ognuno di noi ha scattato, e si è portato a casa. E quei fermo-immagine mi hanno fornito la conferma che monsignor Matteo Zuppi troverà il suo specialissimo modo di essere vescovo. Modo, metodo, visione, cuore.


Ecco il discorso. Buona lettura. Testo e foto (molte) si trovano sul sito della Comunità di Sant’Egidio. E nel testo, anche una citazione che parla di Doroteo di Gaza, asceta del VI secolo.


Davvero tutto, tutto, è grazia. Non smetterò mai di comprendere e ricomprendere i tanti doni di amore che hanno accompagnato la mia vita. Farlo mi fa bene, perché scopro quanto sono stato amato, mi libera da orgoglio e presunzione e mi conferma che la gioia più vera è quella che trovo nella gioia degli altri, quella che è donata e che vivo con il prossimo. Non c’è gelosia nell’amore!


Per grazia sono cresciuto in una famiglia ispirata da forti e vissuti valori religiosi, quinto figlio di sei, da due genitori che si amavano, buoni e cristiani; appassionato divulgatore del Vangelo e della chiesa papà, unito alla essenziale fermezza di mamma; con un prozio che preferiva gli oneri agli onori ed una zia che lievemente e con bonomia viveva la sua vocazione religiosa.


Per grazia ho incontrato fin da giovane la Comunità di Sant’Egidio, dove ho vissuto l’adozione a figlio, negli anni del dopo Concilio: speranza e impegno, carità senza confini e preghiera, vangelo legato alla vita, radicale e vera vocazione per tutti; comunità e amore per i poveri; segni dei tempi e profezia; passione per la pace e dialogo, sono elementi che si sono trasformati con gli anni, ma senza perdersi, alla ricerca di una chiesa viva, che continui a dare carne al Vangelo e a guardare con immensa simpatia il mondo. In essa è maturata la mia vocazione sacerdotale che mi ha portato a servire la chiesa di Roma per più di trenta anni, dei quali undici come parroco presso la Basilica Santa Maria in Trastevere. Per grazia, per troppo poco tempo, ho vissuto il servizio nella Parrocchia dei SS. Simone e Giuda Taddeo, una vera zona pastorale, nel grande quartiere di Torre Angela. Ne proverò tanta mancanza. Insomma ho trovato già il cento volte tanto assicurato a Pietro e ho la chiara consapevolezza di avere ricevuto da tanti tantissimo amore, di avere lasciato così poco e delle troppe occasioni e parole sciupate!


Per grazia, e la grazia è tale se non cercata, inizio oggi questo nuovo servizio alla Chiesa e alla chiesa di Roma, avvertendo la personale inadeguatezza e provando timore per un’aspettativa così superiore alle mie qualità, delle quali conosco i limiti e le miserie. Serenamente e liberamente

proprio per questo mi affido alla forza dello Spirito, riversato in un vaso di creta, certo che Lui saprà guidarmi e proteggermi. Ringrazio il nostro Vescovo, il Papa Benedetto e lei, eminenza per la fiducia, unico titolo che mi accompagna. Assicuro la mia obbedienza filiale e sincera e, per quello che potrò, il mio impegno a servire la Chiesa e la città, collaborando con tutta la

franchezza e l’intelligenza del cuore, perché solo con queste si può trafiggere il cuore degli uomini della nostra generazione. Vedo tanti, tanti amici, una folla di persone.


Vi ringrazio tutti, in particolare quanti, e sono tanti, venuti da lontano. Ognuno di voi rappresenta un pezzo importante e unico della mia vita ed insieme viviamo questa gioia, davvero “nostra” perché solo Sua. Tra questi  volti mi sembra di vedere fisicamente anche quelli delle persone che non ci sono più, dei miei cari, dei miei genitori, di mio fratello, e uno per uno dei tanti fratelli e sorelle della comunità che dolorosamente ci hanno preceduto nella pienezza dell’amore, degli anziani che mi hanno amato come un figlio e mi hanno insegnato che è possibile sperare sempre e che affidarsi a Dio è tendere le mani per farci condurre dove la paura non vorrebbe e dove troviamo salvezza.


Infine. Quando sono andato a Torre Angela ho pensato che quello che sembra perduto in realtà si conserva. Lo sento vero anche oggi. Pensai, allora, che il centro è dove sta Gesù, la sua comunità, i suoi fratelli più piccoli, i poveri. Torno, geograficamente al Centro di Roma, attraversato da tutta la città e non solo, perché centro di una città così particolare come la nostra e di una chiesa che presiede nella carità. Come disse Mons. Feroci, Direttore della Caritas di Roma, la Chiesa deve essere “come il fiume, che non ha paura di sporcarsi per attraversare la sua città”. E l’acqua è quella della carità che rende fertile la vita di tutta la città, specialmente quella di chi ha più bisogno di amore.


Scriveva Olivier Clement, raccontando di un certo Doroteo di Gaza: “I raggi sono distinti. Ma al centro si uniscono. Avvicinarsi al centro, che è Dio, è avere la rivelazione del prossimo”. “La natura dell’amore è così: quando ci allontaniamo dal centro del cerchio e non amiamo Dio, altrettanto ci allontaniamo dal prossimo. Ma se amiamo Dio, quanto ci avviciniamo a lui

per amore, altrettanto siamo uniti con amore al prossimo”. Ecco, direi che più andiamo verso il Signore e mettiamo Lui al centro, più ci uniamo tra noi! Questo è il servizio del Centro della città: vivere e testimoniare comunione.  Questo è ciò che vorrei per me, sempre con l’aiuto di Dio: servire la comunione, e lo si può fare, credo, solo con l’umiltà, mettendo sempre da parte l’io per cercare il noi che da senso e valore a ognuno. La chiesa è comunione e questa é indispensabile per tutti; non è solo il fine ma deve essere anche il metodo; ne abbiamo bisogno per sconfiggere i tanti agguerriti nemici, l’individualismo e l’amore per sé, che intiepidiscono, tolgono forza e

fanno sciupare opportunità e i talenti. In realtà ogni uomo è chiamato alla comunione, perché è da questa che viene la vita. Ne ha tanto bisogno l’uomo della nostra città, spesso ridotto a isola, che guarda con forte preoccupazione, se non con angoscia, il suo futuro, soprattutto in questo tempo di crisi. Ne ha bisogno la chiesa, comunione dei santi, che quando ne è priva è più debole e

non riesce più ad essere credibile e perde quella “simpatia” che deve avere e suscitare in tutto il popolo. Se c’è comunione siamo tutti più forti; il Vangelo prende corpo, capiamo e viviamo quello che altrimenti resta virtuale; non ci allontaniamo dalla vita vera; sentiamo la maternità di cui tutti abbiamo bisogno in una vita spesso complicata e dura. Nella comunione capiamo chi

siamo, si rafforza la nostra fede ed impariamo a riconoscere e valorizzare l’altro, senza paura. Sempre con gioia. Perché la gioia del Signore è la nostra forza. E anche, perché no, con buon umore, perché questo protegge dalle tentazioni.

Chiedo per me gli occhi spirituali che sanno vedere quando le messi già biondeggiano. Ed anche alla fine di tutto potere dire solo, come i piccoli: grazie. Sempre con un’abbondante raccomandazione alla misericordia di Dio.


Mons. Matteo Maria Zuppi


Roma, Sabato 14 aprile 2012

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Published on April 17, 2012 14:54

Stay tuned….




Sono sparita, per un po’, per riposarmi dal tour americano. L’entusiasmante  viaggio americano. A breve, comincerò a mettere qualche riflessione su come il pubblico universitario ha recepito l’uscita di un libro su Hamas, proprio mentre – nei giorni recenti – alcuni esponenti dei Fratelli Musulmani egiziani erano a Washington a Georgetown, dove anch’io sono stata ospitata (chi vuol seguire una presentazione tipo, tra le tante che ho fatto, la può seguire in questo video, messo in rete proprio dal centro dell’università di Georgetown fondato da John Esposito).


Per ora, ben tornati sul mio blog. Stay tuned.


La playlist prevede un brano italianissimo. Il bacio sulla bocca  di Ivano Fossati.

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Published on April 17, 2012 05:51

April 2, 2012

Le grandi manovre nell'Ikhwan

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La notizia ha fatto scalpore. Forse solo nel piccolo mondo di chi si occupa di islam politico arabo, ma tanto basta. Khairat al Shater e' il candidato della Fratellanza Musulmana alla presidenza egiziana, nelle elezioni del prossimo 23 maggio. Il numero due dell'Ikhwan, dopo la guida suprema Mohammed Badie. O forse, come dicono tutti gli analisti che conoscono a fondo la Fratellanza Musulmana (da leggere, assolutamente, il ritratto di Amira Howeidy su al Ahram), il reale numero uno, il tycoon islamista, il leader diventato iconico quando venne arrestato nel 2006 dal regime di Mubarak con l'accusa di aver organizzato una formazione paramilitare. La campagna per la sua liberazione e contro il processo di fronte al tribunale militare ha impegnato per anni gli attivisti dell'Ikhwan, sino a che, dopo la rivoluzione del gennaio 2011, Shater e' stato liberato dal carcere.


Il leader nell'ombra, insomma. L'esponente di quella generazione di mezzo che e' rimasta ad attendere per anni il ricambio al vertice dell'Ikhwan, dove gli ottuagenari avevano monopolizzato la carica di guida suprema, il murshid al amm. Sarà lui il futuro presidente egiziano? Gli analisti si arrovellano (altro consiglio di lettura: l'ultimo post scritto da Marc Lynch sul suo blog su Foreign Policy). Perché la candidatura di Shater pone una serie di domande, che per ora non fanno altro che confondere il quadro, invece di chiarirlo.


Anzitutto, la candidatura di Shater contraddice la politica seguita per mesi (per anni, anzi, almeno dal 2005 e dalle elezioni politiche segnate dalla repressione del regime di Mubarak) dalla Fratellanza Musulmana. Tentare di ottenere anche la presidenza vorrebbe dire, per il partito di maggioranza relativa nel parlamento egiziano, monopolizzare le istituzioni. Presidenza, parlamento, e nel frattempo anche la battaglia in corso per sfiduciare il premier Ganzuri, esponente del vecchio regime, espressione della giunta militare, e ottenere la guida del governo. L'Ikhwan ha sempre cercato di non spaventare l'Occidente, e di smentire l'idea di voler monopolizzare tutti i poteri dello Stato egiziano. Cosa sta succedendo, allora? Perché una svolta così sorprendente, proprio in un momento nel quale anche dentro Hamas c'è stato qualcuno che ha consigliato all'Ikhwan di mantenere una linea gradualista?


Diverse le letture: troppi gli islamisti candidati alla presidenza, e nessuno espressione del più importante partito, nato dal più grande movimento islamista arabo, la Fratellanza Musulmana. E poi la paura – montante – che la giunta militare possa, dopo una fase di sostanziale compromesso con l'Ikhwan, cambiare totalmente atteggiamento e tornare alla repressione. Una riproposizione di quello che successe nel 1954, un anno dopo la rivoluzione di Nasser. Tra i giovani ufficiali della rivoluzione nasseriana c'erano anche fratelli musulmani, ma dopo un po' di tempo questa sostanziale alleanza si ruppe. E la repressione nasseriana verso l'Ikhwan fu talmente dura da mettere seriamente in pericolo la stessa organizzazione. La memoria storica non si e' pacificata con la rivoluzione del 2011, vista la politica seguita dalla giunta militare in questo ultimo anno, in cui e' apparso sempre più chiaro chi siano i gattopardi e quanto si tenti di salvare parti del vecchio regime.


Le due letture sono decisamente fondate, e spiegano anche molto di quello che sta succedendo dietro le quinte. Io aggiungerei anche la competizione tra Shater e Abul Futouh. Sostanzialmente coetanei, le due figure più importanti dal punto di vista del consenso islamista, espressione della stessa generazione di mezzo, Shater e Abul Futouh sono avversari da anni. E non e' un caso che Abul Futouh, in predicato per anni di diventare la guida suprema e poi esautorato con un sostanziale colpo di mano dal vertice dell'Ikhwan, sia stato buttato fuori dal movimento quando ha deciso di presentarsi candidato alla presidenziali. Candidato autonomo, indipendente, campione dell'ala riformatrice della Fratellanza, e un buon seguito tra i giovani islamisti che hanno fatto la rivoluzione. Ce n'è abbastanza per mettere in pericolo (reale) il consenso alla Fratellanza alle presidenziali, a meno che non si presenti qualcuno – come Shater – che rimetta a posto le pedine e costringa l'elettorato classico, storico, tradizionale a rinserrare i ranghi. La candidatura di Shater, insomma, e' come se confermasse che le possibilità di Abul Futuh sono cresciute, e sono buone.


E' per questo che la candidatura di Shater e' importante tanto quanto rischiosa. Per tutta quella serie di interpretazioni che circolano in questi ultimi tre giorni. E per la competizione personale tra Shater e Abul Futuh.


La foto e' americana, perché sono ancora dall'altra parte dell'oceano, in una splendida New York baciata dal sole e da nuvole che corrono su Manhattan. Le luci che si vedono sono quelle di Chicago.


Il brano della playlist, invece, e' di un jazzista italiano, Enrico Pieranunzi, che frequenta la Grande Apple. Il suo ultimo album si chiama Permutations.

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Published on April 02, 2012 16:37

Le grandi manovre nell’Ikhwan

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La notizia ha fatto scalpore. Forse solo nel piccolo mondo di chi si occupa di islam politico arabo, ma tanto basta. Khairat al Shater e’ il candidato della Fratellanza Musulmana alla presidenza egiziana, nelle elezioni del prossimo 23 maggio. Il numero due dell’Ikhwan, dopo la guida suprema Mohammed Badie. O forse, come dicono tutti gli analisti che conoscono a fondo la Fratellanza Musulmana (da leggere, assolutamente, il ritratto di Amira Howeidy su al Ahram), il reale numero uno, il tycoon islamista, il leader diventato iconico quando venne arrestato nel 2006 dal regime di Mubarak con l’accusa di aver organizzato una formazione paramilitare. La campagna per la sua liberazione e contro il processo di fronte al tribunale militare ha impegnato per anni gli attivisti dell’Ikhwan, sino a che, dopo la rivoluzione del gennaio 2011, Shater e’ stato liberato dal carcere.


Il leader nell’ombra, insomma. L’esponente di quella generazione di mezzo che e’ rimasta ad attendere per anni il ricambio al vertice dell’Ikhwan, dove gli ottuagenari avevano monopolizzato la carica di guida suprema, il murshid al amm. Sarà lui il futuro presidente egiziano? Gli analisti si arrovellano (altro consiglio di lettura: l’ultimo post scritto da Marc Lynch sul suo blog su Foreign Policy). Perché la candidatura di Shater pone una serie di domande, che per ora non fanno altro che confondere il quadro, invece di chiarirlo.


Anzitutto, la candidatura di Shater contraddice la politica seguita per mesi (per anni, anzi, almeno dal 2005 e dalle elezioni politiche segnate dalla repressione del regime di Mubarak) dalla Fratellanza Musulmana. Tentare di ottenere anche la presidenza vorrebbe dire, per il partito di maggioranza relativa nel parlamento egiziano, monopolizzare le istituzioni. Presidenza, parlamento, e nel frattempo anche la battaglia in corso per sfiduciare il premier Ganzuri, esponente del vecchio regime, espressione della giunta militare, e ottenere la guida del governo. L’Ikhwan ha sempre cercato di non spaventare l’Occidente, e di smentire l’idea di voler monopolizzare tutti i poteri dello Stato egiziano. Cosa sta succedendo, allora? Perché una svolta così sorprendente, proprio in un momento nel quale anche dentro Hamas c’è stato qualcuno che ha consigliato all’Ikhwan di mantenere una linea gradualista?


Diverse le letture: troppi gli islamisti candidati alla presidenza, e nessuno espressione del più importante partito, nato dal più grande movimento islamista arabo, la Fratellanza Musulmana. E poi la paura – montante – che la giunta militare possa, dopo una fase di sostanziale compromesso con l’Ikhwan, cambiare totalmente atteggiamento e tornare alla repressione. Una riproposizione di quello che successe nel 1954, un anno dopo la rivoluzione di Nasser. Tra i giovani ufficiali della rivoluzione nasseriana c’erano anche fratelli musulmani, ma dopo un po’ di tempo questa sostanziale alleanza si ruppe. E la repressione nasseriana verso l’Ikhwan fu talmente dura da mettere seriamente in pericolo la stessa organizzazione. La memoria storica non si e’ pacificata con la rivoluzione del 2011, vista la politica seguita dalla giunta militare in questo ultimo anno, in cui e’ apparso sempre più chiaro chi siano i gattopardi e quanto si tenti di salvare parti del vecchio regime.


Le due letture sono decisamente fondate, e spiegano anche molto di quello che sta succedendo dietro le quinte. Io aggiungerei anche la competizione tra Shater e Abul Futouh. Sostanzialmente coetanei, le due figure più importanti dal punto di vista del consenso islamista, espressione della stessa generazione di mezzo, Shater e Abul Futouh sono avversari da anni. E non e’ un caso che Abul Futouh, in predicato per anni di diventare la guida suprema e poi esautorato con un sostanziale colpo di mano dal vertice dell’Ikhwan, sia stato buttato fuori dal movimento quando ha deciso di presentarsi candidato alla presidenziali. Candidato autonomo, indipendente, campione dell’ala riformatrice della Fratellanza, e un buon seguito tra i giovani islamisti che hanno fatto la rivoluzione. Ce n’è abbastanza per mettere in pericolo (reale) il consenso alla Fratellanza alle presidenziali, a meno che non si presenti qualcuno – come Shater – che rimetta a posto le pedine e costringa l’elettorato classico, storico, tradizionale a rinserrare i ranghi. La candidatura di Shater, insomma, e’ come se confermasse che le possibilità di Abul Futuh sono cresciute, e sono buone.


E’ per questo che la candidatura di Shater e’ importante tanto quanto rischiosa. Per tutta quella serie di interpretazioni che circolano in questi ultimi tre giorni. E per la competizione personale tra Shater e Abul Futuh.


La foto e’ americana, perché sono ancora dall’altra parte dell’oceano, in una splendida New York baciata dal sole e da nuvole che corrono su Manhattan. Le luci che si vedono sono quelle di Chicago.


Il brano della playlist, invece, e’ di un jazzista italiano, Enrico Pieranunzi, che frequenta la Grande Apple. Il suo ultimo album si chiama Permutations.

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Published on April 02, 2012 09:37

March 30, 2012

Diario americano – Campobasso GrandMa

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"Sono di origine italiana, ma mia nonna mi ha insegnato solo qualche parola, quando ero piccola. Veniva da Campobasso". Siamo dappertutto, noi emigranti italiani. Anche all'aeroporto di Dayton, Ohio. America profondissima, anche se a me ricorda – di primo acchito – l'accordo di pace firmato (o meglio, imposto) sulla Bosnia. Era il lontano 1995 e di Dayton sapevamo, noi che seguivamo i Balcani, che era solo una base militare.


Tutto attorno, alla base, all'aeroporto, alla ragazza dell'autonoleggio con la GrandMa</ di Campobasso, e' solo una lunga distesa di campi coltivati. Grandi campi, che non possono non ricordare la pianura padana. Campi coltivati, qualche casa di campagna ipertrofica, un nastro d'asfalto dritto, e una sequenza interminabile di camion americani da far invidia a Duel. Benvenuti in Ohio. Anzi, al limitare dell'Ohio, prima di immettersi nell'Indiana, attraverso la interstatale 70. Niente di diverso, nel paesaggio, salvo un grande arco celeste che sull'autostrada indica il confine.


La breve sosta nell'America profonda la devo all'invito di Greg Mahler, il rettore del college di Earlham, piccolo college nell'Indiana con una fortissima specializzazione negli studi internazionali. College quacchero: un'origine che spiega il forte impegni sui temi della pace. E a confermare il livello alto, sono gli studenti. Preparati, molto preparati, curiosi, intelligenti. Il Medio Oriente lo conoscono perché molti di loro ci sono stati attraverso scambi universitari. E ci vogliono anche tornare… Come ci vorrebbe tornare Hani, di Gaza. Gaza city per la precisione. Non torna a casa da 4 anni. E' in tutto e per tutto uno di quei giovani palestinesi che dovremmo ascoltare, per capire le dinamiche politiche e culturali della società palestinese. Oltre l'Anp e le organizzazioni consolidate come Fatah e Hamas.

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Published on March 30, 2012 14:06

March 28, 2012

Tra arte, politica, … e America

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Erano divisi tra Reagan e la paura dell'Aids. Non avevano ancora compreso appieno la forza travolgente della televisione, ma ci erano vicini. Erano capaci, in compenso, di non prendere sl serio il mondo, e forse neanche se stessi. Facevano arte negli anni Ottanta americani.


Cosa c'entra con questo blog? Niente. Ma ieri sono stata finalmente a vedermi una mostra, al Contemporary Art Musem di Chicago, vicino al Magnificent Mile. Ed era una di quelle mostre per cui vale la pena, come d'altra parte l'esposizione che ho visto al Solomon Guggenheim di New York. Li' – a dire il vero – ci sarei tornata dopo tanti anni anche se il perfetto cono rovesciato di Wright fosse stato vuoto. Solo per il piacere di ammirarlo. Comunque, la mostra delle sculture di John Chamberlain, che e' ancora esposta, e' bellissima.  E siccome la vita, talvolta, e' fatta anche di coincidenze incredibili, Chamberlain era cresciuto a Chicago e a Chicago aveva frequentato la Art Institute. Forse per questo i suoi pezzi di acciaio, le sue carcasse di automobili piegate al suo estro sono un triste inno alla modernità americana.


A Chicago, invece, al Contemporary Art Museum, avevano allestito una collettiva sugli artisti all'opera 30 anni fa. This Will Have Been: Art, Love & Politics in the 1980s, un "com'erano gli americani", com'erano gli artisti quando vinsero Reagan e poi Bush, la tv trasmetteva le soap che arrivavano sino in Italia, i settimanali americani sparavano copertine sull'Aids, e anche fare l'amore era diventato, da allora in poi, qualcosa di diverso. Cominciava a diffondersi seriamente la cultura hip hop, e il tempo delle ideologie stava finendo, anche se non lo sapevamo.

Relativamente vicino al museo di arte contemporanea che mandava in onda quello che anche noi europei eravamo negli anni Ottanta, un uomo di una certa età chiedeva l'elemosina, seduto su una sedia a rotelle. Dall'altra parte della strada, Marilyn Monroe, iconica, sorrideva con labbra rosso fuoco, mostrando le cosce corpose, nella statua più divertente che io abbia mai visto. Accanto all'uomo, attaccato sulla sua sedia a rotelle, un cartello, su cui era stata scritta una sola parola. veterano. Ma di quale delle guerre combattute dagli Stati Uniti oltre confine? O, come amano dire, overseas


E' vero, Chicago e' la vera America. Non solo la vetrina consumistica che compete con New York, ma anche uno di quegli specchi a caleidoscopio, dove intravedi anche il resto, o qualcosa del resto. I poveri, i senzatetto, i veterani, la grande cultura, la sperimentazione, il melting pot, l'avvenuta assimilazione…


Per la playlist, urge un po' di jazz, a Chicago. Ma jazz italiano: Enrico Rava ed Enrico Pieranunzi in Random Walk


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Published on March 28, 2012 14:02

March 27, 2012

Le Willis, i non-luoghi, il Beitar Jerusalem

Anche gli ascensori cambiano, in in quarto di secolo. Tautologia a parte, quando salii su una delle Torri Gemelle (quella che aveva il ristorante all'ultimo piano, dove si mangiava bene) dovetti compensare un bel po'. Sulla Willis Tower di Chicago, nei meritati panni della turista, la delusione e' stata – semmai – quella di non aver provato fastidio alle orecchie, nausea e un po' di vertigini. C'era la piccola folla delle famigliole. iPhone in azione (compreso il mio), a tentare di raccogliere tutta Chicago, il lago Michigan e un pezzo di Illinois.


Come se fossimo su un aereo: una vista magnifica, che riassume tutti i tempi e gli strati della città. Gli stessi che si toccano a pezzetti appena si scende da un non-luogo come la Willis tower (ci vuole Marc Auge', stavolta…) e si passeggia (e stavolta Walter Benjamin). La folla di pendolari che corre verso la Union Station per tornare a casa e i bei negozi di downtown. I mendicanti. Un piccolo presidio per il soldato Bradley Manning. E una manifestazione di un centinaio di persone sul caso montante di Trayvon Martin, il ragazzo di 17 anni, disarmato, ammazzato da un vigilante a Orlando, in Florida. Un caso su cui ha parlato anche il presidente Barack Obama, a conferma che il caso del ragazzo di colore ucciso potrebbe alimentare di nuovo una forte discussione sul razzismo.


I non-luoghi e il razzismo sono stati i protagonisti anche degli ultimi giorni a Gerusalemme, dicono le news che leggo a migliaia e migliaia di chilometri di distanza. Il caso e' quello dei tifosi della squadra di calcio della Gerusalemme israeliana, il Beitar Jerusalem, che hanno fatto un 'piccolo' raid nel mall di Malcha, prendendo di mira i palestinesi che nel mall lavorano o del mall sono clienti. L'argomento – non lo nascondo – mi appassiona da tempo. Gli argomenti, anzi. Il Beitar Jerusalem e il mall di Malcha. Separati, pero', nonostante lo stadio e il mall si trovino esattamente uno di fronte all'altro. Lo stadio, e la sua squadra piu' importante, sono la rappresentazione del razzismo del tifo gerosolimitano, noto in tutta Israele per quella fortissima colorazione anti-araba. Nessun giocatore palestinese, che invece giocano nelle altre squadre, dal Maccabi Haifa al Beit Sakhnin, solo per citare gli esempi più noti.me se qualche giocatore palestinese riesce a penetrare la difesa del Beitar Jerusalem e fare goal, beh, la gioia va ben oltre il risultato.


Il Malcha no, il mall e' esattamente il contrario. Anche se stadio e mall sono proprio alle pendici della collina dove sorgeva il villaggio palestinese di Maliha, che forniva latte e ortaggi a tutta Gerusalemme, prima del 1948. Le tracce di quel villaggio sono in quella moschea trasformata in casa privata, il minareto che svetta, il giardinetto, i fiori… Il mall e' una strana parentesi della storia e della cronaca di Gerusalemme. Un non-luogo, appunto, dove e' in vigore da sempre non solo una tregua, ma un accordo per farne un duty free. Come se si fosse in un aeroporto. Non in una terra di nessuno, perché tutti sanno chi controlla i gate di accesso al mall, chi gestisce i negozi, chi assolda i lavoratori. Eppure, tutti sono assieme, israeliani, palestinesi, ortodossi, laici, mizrahim, la grande periferia di Gerusalemme che sciama per lo shopping, e che vive assieme alcune ore del giorno anche come lavoratore, commesso, cameriere.


E' li', tra i lavoratori, che ci si accorge quanto il mall sia una parentesi, un respiro, una boccata d'aria nel conflitto. Perché la codificazione del comportamento e' diversa: si indossano le divise da cameriere, e si agisce diversamente, ci si ri-conosce e ci si parla, si scherza, si accetta lo scherzo. Poi, smessa la divisa, usciti dai gate, si ritorna nei propri quartieri il più possibile omogenei, monocomunitari. Una oasi, sino a che una banda di hooligans non e' venuta a rompere una strana, singolare, tesa armonia. Ma la storia dei tifosi e' un'altra storia, più complessa, a cominciare da chi e' tifoso del Beitar. In testa, i mizrahim. Ma di quello vi parlo un'altra volta. Ora sono a Chicago, ho in mano una copia del libro del mio amico Alaa al Aswany come guida: un regalo che, per i casi della vita, mi ha fatto un altro 'angelo' incontrato ieri, Farouk Abdel Wahab, il traduttore di Chicago dall'arabo all'inglese, con cui ho conversato in un angolo della Chicago University di rivoluzione, di intellighentsjia, di scrittori, dell'amato Egitto.

Il brano della playlist non e' americano. E' Di Nick Drake, Place to Be. Grazie, veramente grazie, Francesco.


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Published on March 27, 2012 14:17