Paola Caridi's Blog, page 90

September 11, 2012

Intifada della benzina, o altro?


Stamattina la protesta per le strade delle cittadine palestinesi era arrivata a Jenin, al campo profughi. È il tam tam su twitter a fornire le coordinate geografiche di una protesta che non è solo sociale, come tutte le proteste che si sono dispiegate negli ultimi due anni nel mondo arabo. I palestinesi (in gran parte giovani, ma non solo) protestano per il carovita, come in fondo era successo agli israeliani nelle manifestazioni e nei sit-in simboleggiati dal campo di viale Rotschild a Tel Aviv. I palestinesi protestano, però, contro il tipo di struttura economica nella quale sono costretti a vivere sin dai tempi degli accordi di Oslo. Un’economia sotto tutela, definita dai protocolli di Parigi. Un’economia – per questo motivo – bloccata dallo status quo, come spiega benissimo su Haaretz Amira Hass: il processo di pace di Oslo è considerato, da tutti i protagonisti, morto e sepolto, dal punto di vista politico, ma la struttura stessa dell’economia non è stata toccata. La produzione, gli approvvigionamenti, le materie prime sono soggetti all’occupazione israeliana, e Israele – in Cisgiordania – trova anche un mercato per i propri prodotti.



Un esempio tra tutti, proprio quello sul quale si concentrano – ma solo simbolicamente, a mio parere – le proteste in corso in questi giorni: ai palestinesi non è consentito cercare l’approvvigionamento energetico là dove lo possono trovare a un prezzo conveniente. Non possono, in sostanza, importare carburante dall’Egitto, dall’Iraq, da un paese arabo qualsiasi. È solo Israele l’esportatore. Le bollette dell’elettricità le pagano a Israele. La benzina costa(va) leggermente di meno, alla pompa, rispetto a quanto la pagano gli israeliani, motivo per il quale gli israeliani fanno benzina in Cisgiordania (i coloni) o sull’autostrada 443 che corre all’interno dei territori palestinesi occupati. Ma la benzina costa sempre tanto, tantissimo, per il salario medio palestinese, di molto inferiore a quello israeliano.


Normale, dunque, che a scendere in piazza siano stati tassisti e trasportatori, ieri. Il carovita, la crisi economica sempre più stringente sono solo i motivi scatenanti di una protesta che non può essere considerata slegata da quello che è successo e succede negli altri paesi arabi. Persino gli slogan sono gli stessi. Mi raccontavano i miei amici di Betlemme che ieri, in strada, a poca distanza dalla Natività, si udiva irhal, irhal, ya Abbas. ‘Vattene, vattene, Abbas’, usando lo stesso verbo usato nel febbraio del 2011 a piazza Tahrir, il giorno prima delle dimissioni di Hosni Mubarak. A Hebron, nella palestinese Khalil, lo slogan era al shab yurid iskat al nizam, ‘il popolo pretende che cada il regime’, mentre su un poster raffigurante il premier Salam Fayyad venivano lanciate le scarpe, segno di grande offesa.


La reazione dell’ANP è preoccupata, a quanto sembra dalle prime indicazioni. La conferenza stampa di Salam Fayyad, oggi, mirava più a calmare le acque che a risolvere i problemi. Il calo del prezzo dei carburanti non può essere considerata una ricetta economica. Può solo servire a liberare le strade da una protesta che, iconicamente, ricorda le intifada, le rivolte. Il fumo dei copertoni bruciati, i ragazzi (quasi tutti maschi) per le strade, jeans e maglietta… I malanni economici palestinesi, però, sono altri, e non si concentrano sulle pompe di benzina.


 


Lo ha detto, a suo modo, lo stratega di Hamas, Moussa Abu Marzouq, intervistato l’8 settembre da maannews. E le sue dichiarazioni sono di estremo interesse per gli analisti, perché mettono sul piatto sia il rapporto tra l’ANP e Israele in Cisgiordania, sia il futuro delle relazioni tra Hamas e Fatah, le due fazioni più importanti del quadro politico palestinese. Abu Marzouq parlava dal Cairo, dove le ultime indiscrezioni parlano dell’apertura di un ufficio di Hamas in Egitto, e parlava in un momento ben preciso nella storia del movimento islamista, dopo i cambiamenti nel governo di Ismail Haniyeh a Gaza, che indicano quanto il confronto interno alla dirigenza di Hamas sia tuttora in corso.


 


Speaking by telephone late Friday, the deputy chief of Hamas’ politburo said President Mahmoud Abbas “should take a courageous decision before it’s too late. The Palestinian Authority was meant to become an independent entity, but the opposite happened.”


Abu Marzouq expressed concern that “someone could target the president just as what happened with late Palestinian president Abu Ammar (Yasser Arafat) because Israel has recently described him as needless.”


 (…)


Trying to explain the deterioration in the West Bank, Abu Marzouq said when the Israelis addressed peace, they reduced it to “economic peace” while Salam Fayyad was talking about economic development.


“The Palestinian people’s main problem isn’t economic. They are under occupation deprived of sovereignty and freedom. They can’t freely make economic decisions, and neither Fayyad nor any other person can take decisions independently without the intervention of occupation. Thus, the remedy lies basically in how to get rid of occupation.”


“I wish President Abbas would face the problem as a whole. For 20 years, we have been addressing something here and something there, but without addressing the political path we have chosen and now we are reaping its results. The problem lies in Abu Mazen’s political path which needs to be reconsidered in light of Israel’s rejection to all proposals.


 


È – insomma – una protesta politica, questa, figlia di un disagio che dura da molti anni, rispetto alla transizione del post-Arafat. Disagio verso l’Autorità Nazionale Palestinese che non ha saputo fornire risposte adeguate alla necessità di nuove ricette politiche. La stessa frattura tra Cisgiordania e Gaza, tra Fatah e Hamas si riverbera sulle strade della Cisgiordania, con segnali diversi a seconda dei luoghi. A Hebron, roccaforte di Hamas in Cisgiordania, dove ieri si sono contati 80 feriti, molti testimoni parlano – per esempio – della presenza, tra le file dei dimostranti, di uomini dei servizi di sicurezza dell’ANP, provocatori che avrebbero cercato di trasformare la protesta pacifica in protesta violenta, così da scatenare e giustificare la reazione delle forze dell’ordine. Se così fosse, se qualcuno nella sicurezza dell’ANP avesse deciso di usare gli stessi mezzi usati contro i ragazzi di Piazza Tahrir, questo mostrerebbe la fragilità della stessa struttura istituzionale palestinese.


 


Wait and see, aspettiamo di vedere cosa succederà nei giorni prossimi. Se la protesta evolverà in una intifada contro Abbas e Fayyad, in una rivolta contro le costrizioni delle principali fazioni politiche palestinesi, oppure in una terza intifada contro l’occupazione israeliana. A giudicare dai discorsi che ho ascoltato negli ultimi anni e negli ultimi mesi, la rivolta è contro i propri leader perché non danno risposte chiare, nette e attuali contro la situazione interna, e dunque contro l’occupazione. Se Oslo è morta, nella società palestinese e in quella israeliana si sta già pensando ad altro. Le menti più brillanti si stanno già esercitando per trovare soluzioni al conflitto più interessanti di un processo di pace ormai inesistente da anni.


 


C’è una immagine che più di tutte quelle che ho visto immortala una situazione confusa e nuova. È una immagine di bandiere, ancora una vota. E chi ha letto il mio libro su Hamas, soprattutto nelle sue due versioni in inglese, sa che per me le bandiere sono simbolo dell’evoluzione politica palestinese. Ero a Gerusalemme, negli scorsi giorni, per dire arrivederci ai miei amici, alle persone care con cui ho condiviso oltre nove anni di vita quotidiana, prima di iniziare una nuova avventura. A Salaheddin street ho sentito lo strombazzare tipico dei cortei nuziali. Sono uscita dal negozio in cui mi trovavo, e ho visto passare una macchina piena di ragazzi che tenevano nelle mani delle bandiere: di Fatah e di Hamas. Assieme, nella stessa macchina. Anzi, nelle stesse macchine. A chiudere il piccolo corteo, un’altra automobile. Dai finestrini si sporgevano con tutto il loro corpo quattro ragazzi che tenevano saldamente nelle mani una enorme bandiera palestinese, lunga quanto tutto il veicolo. Una enorme bandiera palestinese nel cuore di Gerusalemme est, là dove è proibito issarla, persino in versione minuscola. Una sfida alle autorità israeliane, da un lato. E dall’altro l’affermazione che, almeno tra quei ragazzi, la frattura tra le fazioni è divenuta anacronistica. C’è ben altro in ballo, ora.


La prima foto è stata scattata a Nablus, la seconda a Hebron. Via Twitter.


Il brano della playlist, Riders on the Storm, classico dei Doors, è nella versione di Snoop Dogg. Meglio la versione originale, certo, ma questo mix è divertente.

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Published on September 11, 2012 04:15

September 1, 2012

Il Paradiso è una Città

“La meta del cammino umano non è né un giardino né la campagna, per quanto fertile e attraente, ma la città”, dice il cardinal Martini. Perché “la città ideale, meta del cammino umano, ha in sé il meglio del paradiso originario, il fiume dell’acqua e l’albero della vita: tuttavia è una città, un luogo dove gli uomini vivono in armonia, in un intreccio di relazioni molteplici e costruttive”. Una città in cui “ci vogliono le piazze, le agora in cui la gente si possa ritrovare per capirsi e scambiarsi i doni intellettuali e morali di cui nessuno e privo”[1].


Lo dico e lo penso sempre. Le mie chiavi per entrare a Gerusalemme, nel 2003, sono stati due libri molto diversi l’uno dall’altro. Storia d’amore e di tenebra di Amos Oz, e Verso Gerusalemme del cardinale Carlo Maria Martini. Il primo mi ha fatto capire non solo e non soprattutto la tensione dell’ebraismo verso Gerusalemme. Mi ha fatto comprendere il rovello della parte laica dell’ebraismo e poi della società israeliana verso una città centrale nel pensiero, nella fede, nella costruzione (culturale e politica) di sé. Le riflessioni del cardinal Martini, al contrario, mi hanno fatto capire quanto Gerusalemme fosse l’archetipo per una fede che da Gerusalemme è fuggita per fare delle relazioni tra gli uomini e delle contaminazioni il centro della propria riflessione.


Gerusalemme è il paradiso perché è la città. Perché non è il giardino, non è l’Eden, bensì il luogo della contaminazione e dell’incontro. Con la città – Gerusalemme o Milano non importa – ci si sporca le mani, si inquinano (per fortuna) le proprie certezze, ci si contamina, ci si attacca i virus. Non ha – per fortuna -  la bellezza perfetta o perfettibile di un giardino.



Nel giorno del giusto, meritatissimo omaggio a un cardinale così amato, tanto da rappresentare il meglio della diocesi ambrosiana, vorrei ricordarlo come il cardinale della città. Delle città. Amava Milano e amava Gerusalemme, dov’era stato per anni. Amava le città perché ne amava le persone. Lui biblista, lui fine intellettuale, aveva sentito a un certo punto – molti anni fa – il limite di essere un pensatore, e aveva chiesto ai suoi amici che assistevano i più deboli nella società di poter curare qualcuno. Perché solo la vicinanza alle persone rende un uomo o una donna veramente completi.  Lo fece, e fu quello che è stato.


La playlist, oggi, prevede la Passione Secondo Matteo. Dedicata al cardinal Martini e a mio padre, scomparso da pochi giorni, quasi coetanei. Figli, entrambi, dell’Italia del Novecento.


E’ lo splendido mosaico dell’abside di Santa Maria in Trastevere, a Roma, quello ritratto nella foto. Da qualche parte, c’è la rappresentazione di Gerusalemme, turrita.






[1] Carlo Maria Martini, Verso Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 2002, p.22-23.




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Published on September 01, 2012 07:59

August 22, 2012

I costi della guerra


167 miliardi di shekel tra danni diretti e indiretti all’economia, distribuiti tra i tre e i cinque anni dopo il conflitto. L’equivalente di oltre 40 miliardi di dollari. Un centro autorevole di informazione economica, la BDI Coface, ha fatto i conti in tasca a Israele, nel caso lanciasse un raid preventivo sui siti nucleari iraniani, dando così vita a una guerra di ampie proporzioni. E sono costi pesanti, per un paese che già sente il disagio e la protesta sociale, soprattutto in questa estate in cui la protesta ha avuto i suoi tragici episodi di auto-immolazione.


Il modello recente di riferimento è la guerra lanciata da Israele contro il Libano nell’estate del 2006. Un conflitto durato 33 giorni. Una guerra breve, si potrebbe dire cinicamente, nonostante i costi altissimi per la popolazione libanese, piagata da almeno 1500 morti per i raid dell’aviazione israeliana. Una guerra che è comunque costata anche in termini economici a Israele, che subì allora il lancio dei razzi di Hezbollah sul nord del paese, vittime civili, vittime tra i soldati, e una polemica violentissima per il comportamento delle forze di terra di Tsahal, che mostrarono gravi pecche nella preparazione. In termini economici, quella guerra – dice il rapporto – costò una riduzione della crescita di mezzo punto percentuale. La guerra del Libano, però, colpì solo il nord di Israele. Lo scontro con l’Iran, invece, coinvolgerebbe anche l’area centrale, e cioè il 70% dell’attività produttiva. Risultato, dice il rapporto, oltre 11 miliardi di dollari di perdite dirette, corrispondenti al 5.4 per cento del prodotto interno lordo del 2011.


E che un conflitto con l’Iran possa essere un boccone amaro per l’economia israeliana lo ha in sostanza confermato il governatore della Banca Centrale, anche se nessuno dei funzionari ha voluto entrare nei dettagli o commentare lo studio della BDI-Coface. “Scenari in cui Israele debba affrontare una guerra totale sono molti difficili. Ci stiamo preparando ad affrontare una vera e propria crisi”, è stato il commento di Stanley Fischer.


Il fronte contro la guerra, dunque, si allarga. Dall’intellighentsjia ai militari e all’economia. Non solo gli scrittori minacciano di ricorrere alla Corte Suprema, se Netanyahu non accetta di avere una decisione sull’attacco all’Iran condivisa dall’intera coalizione di governo. Non solo i militari continuano a dare profondi e pubblici segni di disagio, dall’intervista rilasciata dall’ex capo dell’intelligence militare, il generale Uri Sagi, sino ai piani dell’attacco usciti dalle segrete stanze (dell’esercito?) e arrivate sul tavolo di Richard Silverstein, il creatore di Tikun Olam. Ora è anche la comunità economica – sembra – a lanciare segnali molto preoccupati, per quella che, a giudicare dalle cifre del rapporto di BDI-Coface, sarebbe per Israele un’avventura rischiosissima anche in termini di tenuta sociale e produttiva.


La guerra, dunque, non sarebbe neanche un buon affare. Ma intanto i tamburi suonano…


 


 


 


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Published on August 22, 2012 00:02

August 19, 2012

Le etichette della violenza


Una molotov contro un taxi. Una famiglia intera in ospedale. Un ragazzo di 17 in condizioni serie, appena uscito dal coma. Un bambino di 4 anni coperto di bende. Bende per le ustioni. Tutto è successo in Cisgiordania, nel taxi c’era una famiglia palestinese. A lanciare la molotov – sembra – dei coloni israeliani. Il vice premier israeliano Moshe Yaalon dice che un atto come questo è terrorismo. Così come è terrorismo l’attacco compiuto contro tre ragazzi palestinesi nel pieno centro di Gerusalemme, a Jaffa Road (la foto l’ho scattata qualche mese fa). Una dozzina di ragazzi israeliani li ha circondati, pestati a sangue, e uno di loro è in condizioni serie. Una specie di linciaggio, l’ha definito una ragazza israeliana su Facebook, in commenti tristi e duri riportati da Haaretz.


Sono oggettivamente atti di violenza, e il vice premier israeliano li ha definiti atti con il marchio del terrorismo. L’ultimo rapporto sui diritti umani del dipartimento di Stato USA definisce per la prima volta terroristici alcuni atti violenti perpetrati dai coloni israeliani in Cisgiordania.


Ho cercato sui quotidiani italiani la notizia di una famiglia che stava per finire bruciata in un taxi, assieme all’autista, perché qualcuno ha lanciato deliberatamente una molotov. Ho cercato la notizia di un ragazzo quasi linciato. L’ho trovata solo sul Manifesto. Ricerca parziale, la mia? Non ho visto gli articoli che ne parlavano?


 


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Published on August 19, 2012 04:06

August 16, 2012

No Nukes? Dipende…

Erano spillette gialle, con un bel sole tipo gli smile. Nucleare no grazie, c’era scritto, ed era qualche era geologica fa, in Italia. Il No Nuke non si è mai spento, nella cultura ecologista. Ritorna ogni anno in Germania, quando sulla bella rete ferroviaria tedesca corrono i vagoni pieni di scorie nucleari, vecchio bersaglio dei Gruenen. Continua a interessare il dibattito energetico italiano, seppure senza la temperie di qualche decennio fa. Poi arriva la geopolitica, arrivano gli interessi strategici in una regione fondamentale come il Grande Medio Oriente, e il No Nuke assume tutto un altro sapore.


Niente a che vedere con l’ecologia, i rischi del nucleare pacifico, le scorie e lo smaltimento. È tutta un’altra cosa, il no nuke mediorientale. Intanto, bisogna dimostrare che si vuole solamente una centrale nucleare, e che dietro – dietro la facciata – non si nascondano le bombe. E poi, dipende chi, quale paese decida di votarsi al nucleare. L’Iran degli ayatollah insomma, non è credibile per la comunità internazionale. Ma se a volere una centrale nucleare sono gli Emirati Arabi Uniti (Dubai, Abu Dhabi, gli hub di molti degli investimenti occidentali nell’area) perché non aiutarli? Magari in chiave antiiraniana…


E allora, ecco la notiziola. Un gruppo di colossi del settore energetico – dagli Stati Uniti e dal Canada, per esempio – sta investendo molti dollari negli Emirati Arabi per aiutare la costruzione di una centrale nucleare che dovrebbe cominciare a operare tra pochissimo. Tra 5 anni. Sono contratti da 3 miliardi di dollari, dice la società degli UAE, la ENEC. Perché non aiutare i nostri alleati nel Golfo? C’è nucleare e nucleare, buoni e cattivi, sunniti e sciiti, alleati e nemici. Le antinomie che la diplomazia seria, a dire il vero, dovrebbe evitare, per una più complessa lettura della cronaca, della storia, e del futuro.


Comunque, mentre alcuni dei colossi (occidentali) dell’energia nucleare aiutano gli Emirati Arabi, più a nord si suonano i tamburi, i tamburi di guerra, e suonano molto vicini. Lo si intuiva, ma le rivelazioni pubblicate su uno dei blog specializzati (e pacifisti) più seguiti fanno venire i brividi. Tikun Olan spiega i piani delle forze armate israeliane sull’attacco preventivo all’Iran, e la stessa notizia che una fonte interna ai militari abbia fatto uscire indiscrezioni di questo tipo la dice lunga sullo scontro interno ai vertici della sicurezza israeliana. Scontro tra chi vuole l’attacco e chi non lo vuole, per ragioni strategiche e per ragioni tattiche.


Strano che, piegati dal caldo di Caligola, dalla crisi e dal Ferragosto, non facciamo neanche così tanto caso a una guerra molto possibile ormai alle porte. Eppure, se ne sono accorti i vertici del Pentagono, che tentano ora – forse troppo tardi? – di fare la voce grossa per allungare i tempi di uno scontro tra Israele e Stati Uniti, uniti contro l’Iran. Perché c’è nuke e nukes, non dimenticatelo.


Ci vuole Prince, a questo punto. Purple Rain. Ahimè.


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Published on August 16, 2012 01:55

August 9, 2012

Ma di chi è, poi, Gerusalemme?


Hanna è durissima. “Ho scritto che sono nata a Gerusalemme, ma non posso scrivere che Gerusalemme è la mia città”. E’ solo uno dei giudizi inclementi dati dalla protagonista di  Michael Mio sulla città più mitizzata del pianeta. A Gerusalemme Amos Oz, l’autore di Michael Mio, di Storia d’amore e di tenebra, dedica moltissime pagine della sua produzione. Lui, nato a Gerusalemme, lui che Gerusalemme l’ha abbandonata a 15 anni, prima per andare a vivere in un kibbutz e poi, dal 1986, per rimanere ad Arad, la cittadina nel sud di Israele che – a una visitatrice volante come me – appare come l’antitesi della Città tre volte santa. La durezza di Hanna appare subito come il rispecchiamento di Oz, che su Gerusalemme ha sempre espresso giudizi tanto severi quanto dolenti. Gli stessi che si leggono anche nel Monte del Cattivo Consiglio, la raccolta di tre novelle per la quale oggi pomeriggio, a Santa Margherita Belice,  Amos Oz viene premiato con il Premio dedicato a Giuseppe Tomasi di Lampedusa.


Proverò a chiedergli ancora una volta di Gerusalemme, oggi pomeriggio, alla conferenza stampa che devo moderare. E poi vi dirò


Nella foto, la vista dalla residenza dell’alto commissario britannico, la Government House, poi diventata la sede delle Nazioni Unite a Gerusalemme. Sul Monte del Cattivo Consiglio, appunto, individuato in epoca bizantina come il luogo della casa di Caifa, dove si decise l’arresto di Gesù. Immagine conservata presso la LIbrary of Congress, nella collezione Matson.


 


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Published on August 09, 2012 04:57

August 8, 2012

Il Sinai, ostacolo tra Gaza ed Egitto


A quasi quarant’anni di distanza, l’aviazione egiziana compare nei cieli del Sinai. Lontanissima la guerra del 1973, la “vittoria” come la chiamano gli egiziani che la festeggiano ogni 6 di ottobre. Stavolta, l’aviazione (elicotteri? Caccia?) ha solcato i cieli del Sinai per colpire quelli che l’intelligence egiziana ritiene siano i rifugi dei terroristi che hanno ucciso, il 5 agosto scorso, 16 tra soldati e guardie di frontiera. Le notizie che arrivano stamattina parlano di una ventina di vittime. Chi sono? I fiancheggiatori dell’attentato, cellule terroristiche, civili?


Su quell’attacco al posto di confine nel nord del Sinai, peraltro, c’è ancora molto da chiarire. L’unica cosa certa è il numero dei morti, 16. Su quello che è successo durante e dopo l’attacco, ci si affida alle notizie dei testimoni locali raccolte dalle agenzie di stampa. Gli assalitori si sarebbero impossessati di due mezzi, tra cui un blindato, diretti verso il posto di confine di Kerem Shalom, per entrare in Israele. Uno dei veicoli sarebbe stato fatto saltare in aria per riuscire a entrare in territorio israeliano. L’altro – dice l’esercito di Tel Aviv – è stato colpito dall’aviazione prima di attraversare la frontiera.


Sull’identità degli assalitori, regna ancora la massima confusione. Perché la confusione regna nel Sinai da molti anni, da ben prima che Hosni Mubarak fosse costretto a dimettersi per la pressione della Rivoluzione egiziana. Il Sinai era già, da anni, una spina nel fianco del defunto capo dei servizi segreti, Omar Suleyman. Gli attentati nei resort turistici, da Sharm el Sheykh, a Taba, a Dahab, hanno percorso tutto l’ultimo decennio, provocando una reazione – soprattutto contro la popolazione beduina – che non ha fatto altro che esacerbare gli animi, e approfondire la frattura tra il Sinai e il governo centrale.


Poi c’è Gaza, ovviamente. C’è l’economia dei tunnel dove passano i prodotti del mercato nero, che ha creato un settore commerciale proficuo nella Striscia, e in modo simmetrico dall’altra parte del confine. Nella Rafah gazana e nella Rafah egiziana. Un mondo a parte, insomma, con i suoi profitti, le sue regole singolari, il suo tran tran quotidiano. Un mondo a parte in cui, una sera di agosto, è scoppiato il caso più delicato e importante degli ultimi mesi. Un attacco ai militari egiziani (gli stessi che detengono ancora il potere al Cairo, e che non si sono ancora ritirati nelle loro caserme). Un attacco ai militari egiziani per mano ancora ignota: gli israeliani parlano della jihad globale, un’entità indistinta, una sorta di spectre che rischia di essere uno slogan se non si è ancor più precisi.


Estremismo jihadista? Criminalità locale? Altro? Il magma del Sinai è tutto da indagare, e gli investigatori egiziani avranno da lavorare sodo. Nel frattempo, ci sono gli equilibri interni egiziani e i rapporti tra l’Egitto e Gaza che sono stati coinvolti (e in parte travolti) dall’attentato del 5 agosto. Il neo-presidente Mohammed Morsy deve affrontare, subito, il caso Sinai, in un momento in cui la transizione dei poteri è lungi dall’essere risolta e conclusa. Nel braccio di ferro in corso da settimane tra la presidenza (civile) e il Consiglio Supremo (militare) è piombato l’attentato che ha avuto come vittime proprio i militari, i soldati. Al funerale dei 16 soldati non ha partecipato Morsy, ma solo il ministro della difesa e capo del Consiglio Supremo generale Tantawi. E non è solo un dettaglio di cronaca.


Sono, però, le relazioni tra Egitto e Gaza a essere il nodo più importante della questione. Prima di tutto, perché si è detto sin dal primo momento che gli attentatori provenivano in parte dal Sinai e in parte da Gaza, lungo un confine considerato da tutti poroso. È vero? E se è vero, cosa significa? Significa che Hamas è coinvolta, oppure che Hamas è travolta da una situazione decisamente instabile? Il governo di Ismail Haniyeh si è subito dichiarato estraneo all’attentato. Anzi, ci sono notizie che parlano di un rafforzamento della presenza armata lungo il confine, a Gaza, molto probabilmente per evitare episodi di infiltrazione dalla Striscia verso l’Egitto. Allora, la galassia islamista-jihadista dentro Gaza potrebbe essersi rafforzata, tanto da partecipare a un attentato eclatante contro gli egiziani…


 


Cui prodest? Non certo al governo di Ismail Haniyeh. Alla fine di luglio, il governo de facto di Hamas aveva reso noto, e con molta enfasi, che le relazioni tra Gaza ed Egitto erano profondamente cambiate. Haniyeh era andato al Cairo, aveva incontrato il neopresidente Morsy, un islamista come Haniyeh. Ikhwani entrambi. Entrambi ‘fratelli musulmani’. Il risultato pratico di quell’incontro era stata la promessa di aprire Rafah, il posto di frontiera tra Gaza ed Egitto dove passano circa 800 persone al giorno. Niente, rispetto alla richiesta palestinese di poter entrare in Egitto. Haniyeh aveva detto che gli egiziani avevano concesso 1500 ingressi al giorno, e un ammorbidimento delle procedure. Un gran respiro, per la popolazione di Gaza, chiusa ancora, dopo anni e anni, dentro quel recinto di 400 chilometri quadrati. Un gran respiro che si è subito trasformato di nuovo in apnea. Rafah è chiusa, dopo l’attentato del Sinai. E non si sa quando riaprirà, perché nel frattempo è in corso la caccia ai terroristi.


Il cambiamento profondo nelle relazioni tra Gaza ed Egitto, dunque, rischia di essere stato un cambiamento di brevissima durata. Appena una settimana. Anche perché le posizioni su Gaza, all’interno del vertice egiziano, sono decisamente contrastanti. All’apertura in grande stile di Morsy verso il governo di Hamas, fa da contraltare la posizione dei militari egiziani, che rispecchia in tutto e per tutto la posizione del vecchio regime di Hosni Mubarak e del suo numero due, Omar Suleyman. E allora, è evidente che anche Gaza fa a pieno titolo del braccio di ferro in corso tra la presidenza (civile) e il Consiglio Supremo (militare).


Stay tuned. Le prossime puntate di questa che si preannuncia una lunga storia promettono di essere interessanti. Ahimè.


La foto, conservata nella collezione Matson alla LIbrary of Congress, è datata tra 1925 e 1946. Sinai.


 











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Published on August 08, 2012 04:15

August 5, 2012

Giallo limone. E poi verde, e poi rosso… Si cucina


Tanto per esorcizzare i tamburi di guerra che suonano in Medio Oriente, mi consolo con la cucina. Riprendo allora una vecchia abitudine che avevo inaugurato nel blog vecchia maniera. E parlo di limone e non solo. Perché con il succo di limone si fa la limonata alla menta, che mi aveva ispirato l’introduzione di Arabi Invisibili. E perché il giallo del limone e il verde della menta sono i colori che definiscono il mio Mediterraneo. A Gerusalemme così come in Sicilia-


Avevo un po’ di spatola avanzata. Troppa, per il tortino di spatola (al forno) condita con pangrattato e olio, assieme a pinoli, buccia d’arancia, semi di finocchio e prezzemolo. E allora ho fatto una mousse. Emulsione, la chiamano in tv, nella miriade di trasmissioni dedicati all’ultimo mito, quello dei fornelli versione catodica. Ma l’emulsione è un termine francamente un po’ troppo altisonante per la cucina popolare e regionale che è l’unica che so fare.


Ho fatto saltare la spatola con po’ d’olio e aglio, poi ho preso il minipimer, ho aggiunto sale, olio, pepe nero, limone e menta. Ho frullato il tutto. Ricetta pronta. Ho messo la mousse su crostini di pane nero di Castelvetrano, ma si possono anche preparare delle ottime crepes monodose, di quelle piccole fatte in una normale padellina.


La buccia di limone grattato l’ho usata anche nell’impasto della crostata di grano saraceno alla marmellata mista di agrumi. Una crostata che si faceva nella trattoria “Gemma” di Amalfi sino a che, purtroppo, non ha chiuso. Lasciando orfani tutti noi che ne avevamo provato la semplice cucina di mare, assieme alla crostata e ai gelatini. La ricetta base della pastafrolla è semplice: mezzo chilo di farina di grano tenero e altrettanta di farina di grano saraceno (la trovate in farmacia, tra gli alimenti per celiaci). Ci aggiungo mezzo chilo di margarina, 200 grammi di zucchero, un po’ di buccia di limone e di lievito, 4 uova e un pizzico di sale. L’impasto va messo in frigorifero per un’ora. Metto assieme marmellata di limone, di mandarini, di arance, spalmo il composto sulla pastafrolla, aggiungo le indispensabili striscette di pastafrolla (altrimenti, che crostata è) e inforno. A metà cottura, aggiungo i pinoli. Tre quarti d’ora in forno a 180°. Voilà.


Intanto, ci si prepara per una rigorosa, ortodossa salsa di pomodoro, per l’inverno. Bottiglie, pomodori a lavare. E magari anche un po’ di pasta fatta in casa per festeggiare. È un rosso intenso, quello dei pomodori a filiera cortissima, praticamente zero, anzi sotto casa. Rosso pomodoro, per fortuna, perché i tamburi di guerra sembrano molto lontani. Sono solo dall’altra parte del mare, verso oriente.


A proposito di giallo, per la playlist c’è Yellow Ledbetter, Pearljam.


 

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Published on August 05, 2012 06:48

August 2, 2012

Corsa contro il tempo


Il tempo per una soluzione pacifica della controversia sul nucleare iraniano “si sta esaurendo rapidamente”.  Chiaro, chiarissimo il messaggio consegnato ieri sera dal premier israeliano Benjamin Netanyahu a Leon Panetta, a conclusione della difficile visita del segretario alla difesa americano in Israele. La quarta visita di un alto esponente dell’amministrazione Obama in Israele in poche settimane, a conferma della fase delicatissima che vive la regione e del probabile tira e molla tra Washington e Tel Aviv su necessità, tempi, modalità di un possibile intervento armato.


Netanyahu e, sempre ieri, il ministro della difesa Ehud Barak, hanno aumentato la pressione sull’amministrazione Obama per un più chiaro impegno sull’opzione militare contro Teheran. Le sanzioni e la diplomazia non hanno avuto ancora nessun impatto sul programma nucleare iraniano, ha affermato Netanyahu. E Barak non poteva essere più esplicito, nella conferenza stampa tenuta assieme a Panetta a margine della visita all’Iron Dome. La scelta del luogo, peraltro, non poteva essere più densa di significati: Iron Dome, l’imponente sistema di intercettazione antimissile e antirazzo, è la rappresentazione di quanto l’amministrazione Obama (e non solo quella precedente di George W. VBush) si sia impegnata a sostenere la difesa di Israele con aiuti economici molto, molto consistenti. E continui ad aiutare il governo di Tel Aviv, soprattutto nelle ultime settimane, proprio nello stesso periodo in cui Israele diviene uno dei luoghi più importanti per le presidenziali del prossimo novembre.


Leon Panetta è arrivato in Israele dopo Hillary Clinton, e subito dopo la visita del candidato repubblicano alla presidenza americana, Mitt Romney, che al governo Netanyahu ha promesso veramente tanto, dal sostegno all’opzione militare contro l’Iran sino al dichiarato supporto per definire Gerusalemme capitale di Israele. E non invece Gerusalemme capitale di due Stati, Israele e Palestina. Panetta, dunque, ha avuto il suo bel daffare per cercare di essere il più convincente possibile. “Noi non permetteremo all’Iran di avere l’arma nucleare. Punto”, ha reiterato Panetta, per il quale tutte le opzioni sono sul tavolo, anche quella militare. Il segretario alla difesa ha spiegato, secondo gli analisti, la strategia dell’amministrazione Obama. Prima applicare sanzioni più dure verso il regime di Teheran, poi pensare a un possibile intervento armato. E in ogni caso, non prima delle elezioni presidenziali americane di novembre.


I tamburi di guerra suonano, insomma. E la domanda di molti degli analisti israeliani riguarda ancora, come spesso è successo in questi ultimi mesi, i rapporti tra governo e forze armate, tra livello decisionale politico e militari. Perché è ancora e sempre più evidente che una buona parte di coloro che si occupano di sicurezza e strategia militare sono o contro l’intervento militare israeliane, o – nella versione minimalista – contro un intervento militare israeliano unilaterale e non concertato almeno con gli americani. Il punto interrogativo, insomma, riguarda ancora una volta Netanyahu e Barak, come scrive oggi Carlo Strenger su Haaretz. E intanto i tamburi di guerra suonano, in un crescendo in cui la vera domanda è: quando succederà? E quella successiva è: cosa ne sarà del futuro della regione, dei suoi nuovi equilibri? E infine: cosa ne sarà di noi, noi europei, noi mediterranei, noi italiani?


La playlist prevede oggi il vecchio Cat Stevens. Where do the children play? Appunto…


La foto del mercato del grano di Ourmiah, nell’allora Persia, scattata forse all’inizio del Novecento, è conservata presso la Library of Congress, a Washington.

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Published on August 02, 2012 01:28

July 27, 2012

Amos Oz nella terra del Gattopardo


Non avevo messo in conto di incontrare Amos Oz a pochi passi dalla mia Macondo. Valle del Belice, una parte della Sicilia (ancora) poco nota, sicuramente meno frequentata delle isole minori e della costa orientale. Valle del Belice, terra che ancora è noto, almeno a quelli di una certa età, per il disastroso terremoto del 1968. Eppure, nella Valle del Belice c’è altro. Ci sono, per esempio, le tracce (ancora) fresche del Gattopardo e dei gattopardi che son venuti dopo l’inimitabile e immarcescibile personaggio di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. C’è una imprenditoria del vino vivace e in rapidissima ascesa, anche in ambito internazionale. C’è terra, tanta terra, c’è un panorama meraviglioso che racconta della fine del feudo, una campagna pettinata e suddivisa tra i contadini. C’è il giallo e c’è il verde, i miei colori preferiti, quelli con cui iniziavo il mio ‘racconto’ sugli Arabi Invisibili. Il giallo del grano maturo e delle stoppie. Il verde dei filari, degli olivi, degli orti. Il giallo di una sabbia fina e normale. Il verde che diventa turchese vivo, e poi blu solido di un mare che arriva sino alla costa nordafricana. Un mare che quando – turchese e blu – sembra Caraibi significa che è gelido, ghiacciato, impenetrabile.


Non avevo messo in conto che Amos Oz potesse venire da queste parti, e magari scoprire che anche qui c’è un posto silenzioso e singolare, simile alla sua Arad, il paesino del sud di Israele al limitare del deserto, dove si è rifugiato. Lontano da Gerusalemme. Già, lontano (anche lui) da Gerusalemme, la città dove – mi disse una volta in una delle interviste che mi ha concesso in questi anni – sono concentrati i fanatici di tutte le fedi, religiose o politiche che siano….


Ci ha pensato il premio Tomasi di Lampedusa, quest’anno, a portare uno dei miei autori preferiti qui, a due passi dalla mia Macondo. Lo scrittore che con il suo Storia di Amore e di Tenebra mi ha involontariamente iniziato a Gerusalemme, nove anni fa, quando vi arrivai per la prima volta. Ha vinto il premio edizione 2012, e questa è la motivazione ufficiale.


“La giuria del “Premio Letterario Giuseppe Tomasi di Lampedusa” composta da Gioacchino Lanza Tomasi,  Salvatore Silvano Nigro, Giorgio Ficara e Mercedes Monmany Molina de La Torre ha assegnato Il Premio ad Amos Oz per la sua opera Il monte del cattivo consiglio.


La giuria del Premio ha riscontrato nella sua prestigiosa produzione narrativa un altissimo valore culturale che fonda la sua identità in una forte passione di impegno civile.

Un riconoscimento alla Sua magnifica capacità letteraria che coniuga rigore narrativo e ideali umani di Pace.


La giuria, infatti, si è posta da sempre l’obiettivo di assegnare il Premio a quelle personalità della letteratura internazionale che nella loro produzione letteraria si fanno promotrici della cultura della pace e della convivenza umana, anche in presenza di differenti identità culturali e geografiche.


La premiazione si terrà il 9 agosto a Palazzo Filangeri di Cutò a Santa Margherita di Belice, in provincia di Agrigento”.


Ospite d’eccezione, oltre ad Amos Oz, sarà anche Luca Zingaretti. In una terra, il Belice, in cui il cognome Montalbano è uno dei più diffusi…


Benvenuto, Amos Oz.


Per la playlist, ancora i Radiodervish. Tancredi e Clorinda, liberamente tratto dalla Gerusalemme Liberata, la grande storia d’amore, l’incontro-scontro tra le due sponde.


 

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Published on July 27, 2012 05:30