Paola Caridi's Blog, page 88

November 12, 2012

Gaza: guerra in vista?

 



Ogni tanto bisogna leggere Alex Fishman, sul più diffuso quotidiano israeliano, Yediot Ahronot. Bisogna leggerselo per capire cosa pensano i dirigenti politici, e soprattutto quelli di sicurezza e forze armate. L’editoriale di oggi fa tremare le vene ai polsi, poiché parla di un vero e proprio intervento militare, oltre i raid che in questi ultimi giorni hanno già provocato morti, feriti, distruzione dentro la Striscia di Gaza. Parla – Alex Fishman – di una “operazione militare limitata, per spingere Hamas in una situazione in cui senta di poter perdere il potere su Gaza”: E poi spiega il perché: “Israele non ha interesse a rimpiazzare Hamas con elementi più estremisti”. Tradotto: meglio Hamas dei salafiti. Meglio detto: mentre in Occidente non bisogna parlare con Hamas, in Israele si pensa ora – dopo anni in cui è stato detto il contrarfio – che è meglio che Hamas controlli Gaza, piuttosto che mettere la Striscia nelle mani di settori ancor più radicali.


La strategia israeliana, secondo la lettura di Fishman, è lineare [sic!]. Le forze armate israeliane non possono far la figura di “una banda di impotenti smidollati, incapaci di difendere la popolazione civile [del sud di Israele] dagli attacchi provenienti da Gaza”. E dunque, l’intervento militare non è solo una ipotesi sul tavolo, ma – in pratica – una realtà. “Se fossi un abitante di Gaza – dice l’editorialista – non manderei a scuola i miei bambini, nei prossimi giorni. Se possibile, sposterei la mia famiglia sulla spiaggia, sino a che tutto sbollisce”.


Peccato che la spiaggia, a Gaza, non è molto lontana dai centri abitati. Anzi. Peccato che esiste un capo profughi – ora quartiere di Gaza City – densamente abitato che si chiama, per l’appunto, Shati, spiaggia. Peccato che in una Striscia di 400 kmq è ben difficile che si possa spostare la famiglia in un posto più sicuro. A Gaza, insomma, non ci sono rifugi.


Se le forze armate non possono dare l’immagine di non proteggere la popolazione civile nel sud di Israele, colpita dai razzi delle fazioni armate palestinesi, è singolare che – per migliorare la propria immagine – debbano colpire l’altra, di popolazione civile…


Andiamo però oltre, oltre il dato umano, sempre meno importante per i contendenti, e parliamo di strategia. Di cinica strategia. Le elezioni israeliane sono previste per la seconda metà di gennaio. E la storia recente insegna che è possibile che una guerra pre-elettorale sia tra le opzioni possibili. Quello che non torna è che il governo israeliano pensi di poter guadagnare, da una guerra. L’ultima volta – era appunto a novembre, novembre 2008, dopo i risultati delle presidenziali americane che videro la prima vittoria di Obama – l’allora premier Ehud Olmert decise l’escalation su Gaza. E alla fine di dicembre partì l’Operazione Piombo Fuso.


Ebbene, Olmert uscì sconfitto dalla guerra pre-elettorale, che fece invece vincere le consultazioni politiche anticipate a Bibi Netanyahu, allora all’opposizione e allora oppositore di una operazione militare su Gaza. Ora, che è saldamente al potere, Netanyahu vuole usare la stessa strategia di Olmert. E, a quanto dicono le schermaglie di questi ultimi due giorni sul Golan occupato, potrebbe addirittura avere due fronti aperti, a sud verso Gaza e a nord verso la Siria. Che senso ha? Ha senso preelettorale? E il governo israeliano vuole ancora una volta mettere in imbarazzo l’appena (ri)eletto Obama coinvolgendolo in un sostegno a Israele sui fusti dei cannoni diretti verso la Striscia? Netanyahu vuol forse far dimenticare a Obama di aver appoggiato, senza neanche tanto nasconderlo, il suo avversario Mitt Romney?


Fishman, nel suo editoriale, dice che gli americani hanno dato luce verde a un limitato intervento militare a Gaza. Ma ne siamo proprio sicuri? Obama, appena rieletto, deve far dimenticare molti errori, al mondo arabo. Ha una guerra civile siriana che è ormai diventata una vera e propria quotidiana carneficina, di cui poco si sa come si riusciva a sapere e vedere poco nella prima fase della guerra nei Balcani. Ha i paesi confinanti con la Siria che risentono profondamente di quello che succede a Damasco e ad Aleppo, compresa quella Giordania su cui gli USA hanno investito nel corso del loro coinvolgimento in Iraq, come investirono sulla Thailandia, retrovia del pantano vietnamita. Washington, poi, deve ricostruire una solida alleanza con l’Egitto guidato dall’islamista Mohammed Morsy.


C’è veramente bisogno, per gli Stati Uniti, di aggiungere una nuova Operazione Piombo Fuso in un carnet – ahimè – già pienissimo?


Detto questo, la cinica analisi delle strategie politico-militari dimentica lutti, cadaveri, bambini e adolescenti ammazzati. Ha senso, tutto ciò?


Mi consolo, ma è consolazione magrissima e senza alcun sollievo, con i Genesis. Cinema Show.


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Published on November 12, 2012 07:51

November 7, 2012

Go, Obama, go…but not too far


Vai Obama, ma non andar troppo lontano, quando ti occuperai di nuovo di Medio Oriente, in questo secondo mandato. Si potrebbe sintetizzare così quello che pensano molti arabi della rielezione di Barack Obama. Tradotto: se la sconfitta di un conservatore come Mitt Romney, simbolo di una politica mediorientale retriva, è uno scampato pericolo, il secondo mandato di Barack Obama, per molti, è però solo il minore dei due mali.


Il presidente americano ha deluso (quasi) tutti, nel corso della sua prima amministrazione. Eppure, i primi passi avevano segnato una discontinuità, rispetto all’era Bush. A cominciare dalla prima telefonata fatta dopo il suo insediamento, il 20 gennaio del 2009. Obama, allora, aveva lanciato un segnale ben preciso a Israele, che appena poche ore prima aveva smesso di bombardare Gaza, colpita per venti giorni da una guerra lampo che ha lasciato ferite ancor oggi non rimarginate. Il presidente americano aveva  chiamato i leader che si erano complimentati con lui per la sua elezione, e la prima chiamata l’aveva fatta a Mahmoud Abbas: un modo per dire che quell’operazione militare gestita dal governo di Ehud Olmert, iniziata poco dopo le elezioni negli States, il 27 dicembre del 2008, non l’aveva per niente gradita.


Poi erano venute le aperture verso il mondo musulmano. La storica visita in Turchia, nell’aprile del 2009, e poi quel discorso pronunciato all’università del Cairo nel giugno successivo, discorso a tratti commovente che era sembrato una pietra tombale sulla strategia delle amministrazioni Bush… Israeliani e palestinesi messi sullo stesso piano, il supposto ‘scontro tra le civiltà’ mandato in soffitta. Ci avevano creduto, gli arabi, che pure nutrivano parecchia diffidenza nei confronti di Obama. Poi, pian piano, gradualmente, la politica estera obamiana si è rimessa in riga, sfrondata la rosa dei consiglieri degli uomini che più avevano segnato i cambiamenti del primo periodo, sino all’abbandono di George Mitchell.


L’ultimo Obama, prima della rielezione, è stato non solo opaco, verso il Medio Oriente e il Nord Africa. Ha dovuto ancora una volta rincorrere gli eventi, dopo quella fase iniziale che, invece, lo aveva messo in sintonia con molti di quelli che, nel 2011, sono stati protagonisti del Secondo Risveglio arabo. Così è successo che Obama, l’Obama dello Yes, We Can, è stato colto di sorpresa dalle rivoluzioni, salvo poi – ma solo parzialmente – rincorrerle quando alla Casa Bianca e nell’amministrazione democratica hanno capito che non si potevano più difendere e sostenere gli alleati di sempre. Hosni Mubarak in testa.


Da allora, la Realpolitik è in auge, a Washington. I partiti nati dal grande grembo dei Fratelli Musulmani – con l’eccezione, almeno per ora, di Hamas – sono stati accettati dalla strategia mediorientale americana perché hanno vinto le elezioni. Dopo anni, se non decenni, di isolamento delle istanze islamiste. E, sull’altro fronte, il rapporto con Israele è stato rafforzato, nonostante le frizioni sulla questione iraniana. E’ stato riposto malamente nel cassetto il processo di pace con i palestinesi, dopo un primo tentativo di costringere Bibi Netanyahu e Mahmoud Abbas l’uno accanto all’altro, almeno di fronte a obiettivi e telecamere. Le critiche verso Tel Aviv sono state talmente deboli come un sussurro: critiche che per nulla hanno scalfito la politica di Netanyahu, Barak e Lieberman, diversa solo nei dettagli, sull’aumento delle colonie israeliane in Cisgiordania. Molto più pesanti, invece, sono state le pressioni esercitate sull’ANP di Ramallah per evitare che quel ballon d’essai diplomatico dello Stato di Palestina, perseguito ma senza grandi entusiasmi anche in questi giorni, non divenisse realtà. Per non dispiacer troppo, ovviamente, Israele.


E poi, last but not least, c’è la questione iraniana… Speriamo che Barack Obama, Nobel per la Pace, non si trovi in mezzo a un’altra avventura militare, stavolta contro Teheran. Speriamo che le frizioni dietro le quinte tra USA e Israele non lascino il passo, tra qualche mese, all’idea che il nucleare iraniano si possa fermare solo con un’operazione militare, e non invece in altro modo. Speriamo che, appunto, Obama non vada troppo lontano, in Medio Oriente.


Ce n’è abbastanza, dunque, perché gli arabi diffidino di Obama, al suo secondo mandato, pur avendo sperato sino all’ultimo che Obama riuscisse a sconfiggere Romney. Il problema è che il Medio Oriente non ha bisogno del ‘male minore’. Ha bisogno, a questo punto, di fantasia, di una strategia di lungo respiro e non del piccolo cabotaggio. Ma questi, si sa, sono discorsi antichi. Triti e ritriti.


 


Ahlan wa Sahlan, Obama. Benvenuto, ancora una volta. Ma non ci deludere di nuovo…


 


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Published on November 07, 2012 13:36

November 6, 2012

Che la Cura di Battiato protegga la Sicilia


E’ ufficiale. Franco Battiato ha accettato di essere l’assessore alla cultura nella giunta regionale che sta componendo il nuovo presidente, Rosario Crocetta. È immediato (e forse banale) il richiamo a quella che è la canzone (d’amore) più bella di Battiato, La Cura, e una delle più profonde e delicate della storia della canzone italiana. Ed è altrettanto immediato sperare che quel sostegno e quella delicatezza che il brano esprime  (“Perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te. Io sì, che avrò cura di te”) sia il motto e il monito di Battiato nel suo nuovo ruolo di amministratore. Non solo e non tanto – paradossalmente – per quello che proporrà in termini di offerta culturale, sulla cui profondità, raffinatezza, apertura al Mediterraneo non c’è dubbio. Quanto, piuttosto, perché crei una necessaria discontinuità rispetto al prima.


E la discontinuità significa curare la Sicilia come se fosse, più che un gioiello, una pianta. Una pianta che vive e produce e cresce con selvaggia bellezza anche senza che gli uomini la potino e la innaffino. E però, cosa diventerebbe la Sicilia se quella forza innata, quel fascino particolare, quel richiamo continuo alla storia, alle radici che scavano nei secoli e nei millenni, fosse curata a tal punto da divenire fonte di sviluppo e allo stesso tempo una teca intoccabile? Cosa diventerebbe, la Sicilia, se la sua bellezza non fosse prostituita, mercanteggiata e oltraggiata con un ritmo quotidiano?


La neofita che è in me è entusiasta, per la scelta su Battiato e di Battiato. La ‘vecchia’ storica teme che la Sicilia della politica d’antan (basta chiamarlo gattopardismo, rischia di essere un bel velo per coprire le responsabilità del Novecento e dell’oggi…) riesca a ingoiare e digerire tutto, anche la discontinuità. La meridionale che è in me (perché tale solo per dna) è convinta che, invece, queste settimane e questi mesi rappresentino una reale discontinuità carsica, di cui vedremo traiettorie e risultati solo tra un po’ di tempo.


E, infine, la mediterranea che è in me sa che Franco Battiato ama questo mare che tutto contiene con tutto se stesso. Che non ci sono mediterranei di serie A e di serie B.


Come diceva Jalaluddin Rumi, il più grande poeta sufi, «Vieni, vieni, chiunque tu sia vieni. /Sei un miscredente, un idolatra, un ateo? Vieni/

Il nostro non è un luogo di disperazione, e anche se hai violato cento volte una promessa… vieni».


La Cura, live, 1997.


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Published on November 06, 2012 05:10

November 5, 2012

Obama, Romney e quello che non sanno

Uh, da quant’è che non aggiorno il blog…. Chiedo venia, cercherò di essere più assidua e puntuale, da ora in poi.

Il gran giorno è arrivato, dunque, Obama vs Romney. E chi sta dall’altra parte dell’Atlantico, vers il Mediterraneo, vicino ai paesi arabi che stanno sperimentando la più importante trasformazione dell’ultimo mezzo secolo, sa bene che la scelta è triste. È la scelta tra un peggio e un meno peggio. Tra un presidente (Obama) in cui molti hanno creduto, tra gli arabi, sfidando l’ormai proverbiale sfiducia verso tutto ciò che sa di America, e uno sfidante (Romney) che ha dimostrato una imbarazzante incultura verso tutto ciò che è fuori dai confini degli States. Forse è per questo che, a sentire un servizio del Gr della Rai, stamattina, gli studenti di Harvard, nel cuore di quel Massachusetts di cui Romney è stato governatore, erano in gran parte per Obama.

Un peggio e un meno peggio, di fronte a una regione in cui sta succedendo veramente tanto… Unica, magrissima, personalissima consolazione. Che il mio libro su Hamas, in versione americana, è andato a finire in una lista molto particolare, al settimo posto di un elenco di libri sulla politica estera che sia Obama sia Romney dovrebbero leggere, per capire quello che c’è e si muove oltre la singolare campagna delle presidenziali negli Stati Uniti. A stilare l’elenco, una rivista che chi si occupa di politica estera conosce bene: il Christian Science Monitor.


A dopo, per un vero e proprio post. Per ora, godetevi questo scorcio di Sicilia, immortalato in una piccola torre di guardia di epoca medievale. E ascoltatevi Anouar Brahem. Magari Al Birwa


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Published on November 05, 2012 23:28

October 29, 2012

Potpourri. Ma un occhio alla #Sicilia!


Inutile dire che tutti gli occhi – i miei compresi – sono sulle elezioni in #Sicilia. Ho votato, per la prima volta, da residente, e dunque faccio parte a pieno titolo di quell’ampia minoranza che ieri ha deciso di andare alle urne e non si è astenuta. Ciò non vuol dire che io non capisca non solo l’insofferenza, ma anche lo scatto di dignità di molti degli elettori che hanno deciso di non votare: solo che io, provenendo da posti dove la richiesta di poter avere elezioni democratiche ha fatto sacrificare la vita a molti giovani, ritengo che in ogni caso votare sia ancora un diritto/dovere. Per molti, nel mondo, è ancora un lusso.


Da oggi in poi, invece, vedremo in azione la politica. E soprattutto, sarà interessante osservare se la politica avrà compreso quanto la frattura tra un’azione autoreferenziale e la realtà quotidiana (locale, prima di tutto) si stia approfondendo. Con molta più rapidità di quanto si pensi. Occorre fantasia, per la politica, più che nuove facce, o giovani perennemente in ascesa, come succede sul piano nazionale. Occorre fantasia, e una proposta che divenga azione politica. A partire dalla dimensione locale, che continuo a pensare sia il primo laboratorio di un cambiamento che deve essere veloce, anche costoso, e serissimo.


Detto questo, è chiaro che occuparsi di Medio Oriente, oggi, è quasi impossibile. Un po’ di consigli per la lettura, comunque, potrebbero sempre risultare utili.


- E allora comincio, appunto, con due libri usciti in italiano, e appena arrivati sulla mia scrivania. Per le recensioni, datemi un po’ di tempo. Il primo volume è quello di Jolanda Guardi e Anna Vanzan, Che genere di islam. Omosessuali, queer e transessuali tra shari’a e nuove interpretazioni (Ediesse 2012). Titolo e sottotitolo dicono già molto, di un volume di cui c’era bisogno. Mabrouk Jolanda e Anna!!


Il libro postumo di Anthony Shadid, Premio Pulitzer e corrispondente dal Medio Oriente del New York Times, è uscito in italiano per i tipi Add. Si intitola La casa di pietra. Un modo per scoprire ancor di più lo sguardo lucido ed empatico di Shadid, morto in Siria all’età di 43 anni. Morto sul lavoro.


- Sul web, invece, è possibile leggersi la denuncia di Human Rights Watch contro la decisione del  ministro della giustizia tunisino di far dimettere 75 giudici. Un colpo all’indipendenza della magistratura, accusa HRW, e un pericoloso precedente che mette in guardia sull’ampia possibilità di manovra del potere esecutivo. La denuncia arriva proprio quando, oggi, si è aperto il dibattito all’Assemblea costituente tunisina sul preambolo della nuova costituzione.


- Non ha fatto molto scalpore sulla stampa italiana, e invece mi sarei aspettata che lo facesse, il risultato del sondaggio in Israele sull’identità, il razzismo, il rapporto con i palestinesi. Lo ha pubblicato Haaretz, lo ha commentato Gideon Levy. E ora Richard Silverstein lo spiega ancor più nei dettagli su Tikun Olam. Il 58% del campione del sondaggio conviene che, sì, c’è l’apartheid in Israele da parte dello Stato verso i palestinesi…


- In Egitto, c’è attesa per il cosiddetto Documento delle Donne  che Al Azhar renderà pubblico, si dice, all’inizio di novembre. Sarà la base per quello che poi si deciderà nel dibattito costituzionale in tema di diritti delle donne. Vedremo… stay tuned.


- In tempi di hajj, di pellegrinaggio nei luoghi santi dell’islam, è più facile che si parli di Arabia Saudita. E di Mecca e Medina, appunto. Stanno aumentando le critiche contro la decisione delle autorità saudite di costruire una moschea che, sic!, potrà ospitare un milione e seicentomila persone (avete letto bene…) a Medina, a spese di alcune delle moschee più antiche del mondo. Ambisce a essere il più grande edificio del mondo, ma consentirà ai bulldozer di spazzar via un pezzo di storia. Sull’Independent.


- E infine, per chi si vuole sollazzare con le proprietà della famiglia Mubarak, componente per componente, e appartamento per appartamento, The National  ha una lista dettagliata qui.


 


Buona lettura, magari da accompagnare con buona musica. Per esempio, Filomena Campus Quartet e Paolo Fresu. Il concerto, raccomandato da TimeOut,, è a Londra il 31 ottobre. Il video, qui, è del concerto dello scorso anno. Mabrouk, stavolta a Filomena e Paolo!


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Published on October 29, 2012 09:16

October 24, 2012

Dopo l’emiro, l’escalation


Solo poche ore è durato il silenzio su Gaza e sul sud di Israele. Le poche ore della visita – ieri – dell’emiro del Qatar sheykh Hamad bin Khalifa al Thani nella Striscia. Poi, il silenzio è stato rotto – come succede da anni – da suoni che fanno paura. L’escalation militare si è fatta più rapida e intensa. Tanto che da entrambe le parti del confine le scuole sono state chiuse. Non solo nelle cittadine del Negev, da parte delle autorità israeliane. Ma anche a Gaza, per volere delle autorità di Hamas, che stamattina hanno fatto evacuare gli istituti scolastici per timore che i raid potessero colpire, com’era successo nel primo giorno di bombardamenti durante l’Operazione Piombo Fuso, dopo il Natale del 2008, gli studenti in entrata o in uscita dalle scuole.


Di nuovo ritorsioni e rappresaglie, dunque, tra raid dell’aviazione israeliana e lanci di razzi delle fazioni armate palestinesi. Il bilancio, a stamattina, è di tre palestinesi uccisi nei raid dell’aviazione israeliana compiuti sin dalla serata di ieri sul nord di Gaza, e di un altro  miliziano ucciso nel sud della Striscia.


 


La risposta delle fazioni armate palestinesi, compresa l’ala  militare di Hamas, non si è fatta attendere. Circa cinquanta tra razzi e colpi di mortaio sono stati sparati sin dall’alba verso le cittadine del Negev. Tre lavoratori stranieri sono stati feriti in modo serio. L’aviazione israeliana ha a sua volta bombardato il sud di Gaza, sia con attacchi aerei sia con i carri armati.


L’intensificazione degli scontri tra Israele e le fazioni armate di Gaza è iniziata due settimane fa, dopo l’uccisione di un leader del fronte salafita della Striscia. In quel raid dell’aviazione israeliana erano stati anche feriti cinque bambini. Da allora, le ritorsioni dall’una e dall’altra parte non si sono fermate. E non si è fermata neanche la guerra di parole, che dopo la visita dell’emiro del Qatar a Gaza si è fatta ancora più aspra.


 


Il presidente israeliano Shimon Peres ha detto che Gaza deve scegliere tra lo sviluppo e il terrorismo. E Hamas, attraverso il portavoce Fawzi Barhoum, considera l’escalation diretta contro l’emiro del Qatar, che ha rotto il blocco politico di Gaza.


 


Cosa sta succedendo? Perché – proprio ora – l’escalation? Difficile, come sempre, comprenderlo fino in fondo. Da un lato, il fatto che anche l’ala militare di Hamas partecipi ai lanci di razzi o di colpi di mortaio, può significare due cose, l’una molto diversa dall’altra. La prima: il timore, da parte di Hamas, che la perdita di consenso sia troppo diffusa, e che quindi ci sia necessità di far vedere che le Brigate al Qassam continuano a far parte della muqawwama, della resistenza contro Israele, alla stregua delle altre fazioni armate. Il messaggio non sembra tanto rivolto alla Jihad Islamica, quanto alle fazioni armate legate ai partiti laici, in primis il gruppo del Fronte Popolare, e poi ai gruppi del fronte salafita e ai Comitati di Resistenza Popolare. Il secondo significato, del tutto diverso, riguarda gli equilibri interni a Hamas: bisogna dunque capire, e non è semplice, se la partecipazione dell’ala militare di Hamas al lancio di razzi verso Israele è legato ai rapporti con gli altri gruppi armati, oppure non è invece un modo per esercitare una pressione dentro Hamas, verso l’ala politica. Se insomma, com’è già successo in altre fasi della storia recente di Hamas, l’ala militare non sia divenuta in tutto e per tutto un soggetto politico dentro il movimento islamista.


Sull’altro versante, sul versante israeliano, l’escalation può avere diverse ragioni. Intanto, una pressione su Hamas, dopo lo sdoganamento politico attuato dall’emiro del Qatar (e dunque anche dall’Egitto) del movimento islamista dentro Gaza. Proprio oggi, e proprio per ragioni di sicurezza – singolare coincidenza – il carburante proveniente dal Qatar non ha potuto fare il suo ingresso a Gaza, perché le forze armate israeliane hanno chiuso il valico di Kerem Shalom.


E poi, potrebbe esserci anche la tentazione di ripetere un’operazione sul tipo di quella del 2008-2009, per evitare il consolidamento del potere di Hamas e sperare che la popolazione di Gaza si rivolti verso il governo de facto. Personalmente, non credo che l’escalation si tramuterà in una guerra, sul tipo di quella del 2008-2009. Ma nel Medio Oriente di nulla si può essere certi, soprattutto quando sono le armi a parlare.


La foto, che ritrae l’emiro del Qatar in macchina con Ismail Haniyeh alla guida, è presa da twitter.


Il brano per la playlist? Phil Collins in un drum solo, a Bercy.


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Published on October 24, 2012 05:06

October 23, 2012

Se l’emiro va a Gaza

Ha già scatenato polemiche e reazioni pesanti, la visita di poche ore che l’emiro del Qatar compirà oggi a Gaza, assieme a sua moglie e a una delegazione di notabili e giornalisti. Il motivo è chiaro: Sheykh Hamad bin Khalifa al Thani è il primo capo di stato a visitare Gaza dal 2007. Da quando, cioè, Hamas ha assunto con un colpo di mano il controllo della Striscia. A dire il vero, non saprei dire l’ultima volta in cui Gaza ha visto la visita di un capo di Stato, anche prima del 2007… Di certo, è raro che un capo di Stato, presidente o emiro che sia, decida di andare a visitare uno dei luoghi più negletti del mondo, anche prima che ad assumere il controllo della Striscia fosse Hamas.

Formalmente, l’emiro del Qatar va a Gaza per inaugurare un progetto di lavori del valore di oltre 250 milioni di dollari, concentrato sulla ricostruzione delle tre principali arterie stradali che collegano il nord al sud della Striscia, dal lungomare verso est, e sulla costruzione di un quartiere che porterà il suo nome. Sheykh Hamad City, per lasciare un segno così come fece il vecchio e rispettato Sheykh Zayed, il presidente degli Emirati Arabi Uniti. Sheykh Zayed bin Sultan al Nahyan fece costruire il grande quartiere di Beit Lahiya che arriva proprio quasi a ridosso del valico di Eretz, a nord della Striscia. Un quartiere che doveva servire a migliorare le condizioni di vita della popolazione palestinese di Gaza, e che invece è un posto dimenticato da Dio e dagli uomini, un quartiere spesso colpito dagli attacchi israeliani.

Strade e case, insomma, pagate dal Qatar, dopo anni in cui la ricostruzione promessa dalla comunità internazionale con la conferenza di Sharm del marzo del 2009 è stata, nella pratica, un insieme di piccoli progetti realizzati in modo da non sdoganare il governo di Hamas e da aggirare i relativi ostacoli formali. È evidente, però, che la visita di Sheykh Hamad significa molto di più di quanto già non significhi portare investimenti di tale livello nella Striscia e far lavorare, nei progetti targati Qatar, circa diecimila persone.

Con la sua presenza a Gaza, l’emiro del Qatar rompe anzitutto l’isolamento di Hamas e del suo governo. Un colpo alla riconciliazione tra Hamas e Fatah, dicono molti esponenti del partito nazionalista palestinese. Un vero e proprio sostegno a Hamas, in una fase di grande crescita dei movimenti islamisti nella regione, sostengono altri analisti. Un segnale chiaro anche all’Iran, per dire ancora una volta, come già era stato detto negli incontri ad altissimo livello in questi ultimi anni, che Gaza è nell’orbita araba, e non è un potenziale proxy di Teheran.

L’ANP non ha per ora criticato la visita. Almeno non lo ha fatto formalmente, ma ieri i consiglieri di Abbas hanno fatto sapere alle agenzie di stampa quanta insoddisfazione girava per le stanze politiche di Ramallah. Ieri Mahmoud Abbas aveva ricevuto una telefonata da sheykh Hamad, con la quale l’emiro gli comunicava la sua intenzione di visitare Gaza. Gli comunicava la visita, ma non chiedeva ad Abbas di accoglierlo al suo ingresso dall’Egitto. La scena, dunque, sarà tutta per il primo ministro del governo de facto di Hamas, Ismail Haniyeh, uno dei candidati a capo dell’ufficio politico del movimento islamista.

La visita avrà dunque il suo peso sugli equilibri interni a Hamas? Perché no? Il Qatar è anche il paese che ospita Khaled Meshaal, dal momento in cui ha lasciato Damasco, assieme all’ufficio politico del movimento islamista. Ed è allo stesso tempo il paese che ha ospitato il faccia a faccia tra lo stesso Meshaal e Mahmoud Abbas, lo scorso febbraio, che ha dato luogo alla dichiarazione di Doha, il documento più importante sulla riconciliazione dall’accordo della Mecca del 2007. È chiaro, insomma, il peso del Qatar, anche se non sono ancora chiari i contorni del quadro che si sta dipingendo, con l’arrivo di Sheykh Hamad.

Se da un lato la presenza dell’emiro del Qatar a Gaza è da inserire negli equilibri al vertice di Hamas, è altrettanto evidente che questo balzo in avanti della diplomazia di Doha va legato alla crisi regionale. Sheykh Hamad sostiene Hamas all’interno del mondo politico palestinese, nel confronto in corso con Mahmoud Abbas, e compie allo stesso tempo altre due operazioni. La prima, quella sperata e attesa da Hamas sin da quando è apparsa evidente, con l’inizio del Secondo Risveglio Arabo, la crescita dei movimenti islamisti originati dalla Fratellanza Musulmana: un’operazione di sdoganamento di Hamas come parte della più vasta ondata islamista nella regione, dopo che Hamas non era riuscita a farsi accettare dalla comunità internazionale con il successo elettorale del 2006 nelle ultime consultazioni politiche palestinesi.

La seconda operazione è più raffinata, ed è legata alla crisi siriana: l’emiro del Qatar si assicura, con la sua visita, che Gaza sia indissolubilmente legata al fronte anti-Assad, con Turchia ed Egitto. Nessuno tra gli attori regionali vuole che Gaza, isolata e negletta, rafforzi i suoi rapporti con Teheran: meglio, dunque, far arrivare investimenti pesanti nella Striscia, provenienti dal Qatar ma col benestare e il coordinamento dell’Egitto, che apre e chiude come un rubinetto il laico di Rafah sul Sinai. Così spiega anche il palcoscenico dato a Meshaal in Turchia, durante il congresso dell’Akp con il quale Erdogan ha disegnato il suo futuro politico e allo stesso tempo indicato le alleanze regionali per affrontare la crisi siriana. Gaza non deve essere una spina nel fianco, per nessuno dei paesi confinanti.

Rafforzare il fronte sud con Hamas significa, per il Qatar e per l’Egitto, tentare anche di diminuire i rischi di radicalizzazione, in una fase nella quale i settori jihadisti (che siano o meno di ispirazione salafita) provano a minare i nuovi equilibri che l’islam politico riformatore sta mettendo su in diversi paesi della regione.

Tutto da chiarire, invece, se e quanto il ruolo del Qatar dispiaccia a Israele. Le prime reazioni alla visita di sheykh Hamad a Gaza sono negative, e questo ci si attendeva. Che a medio termine il ruolo del Qatar dispiaccia, è tutto da vedere: lo spostamento di Gaza del tutto verso sud, verso l’area di influenza egiziana, significa approfondire la divisione tra la Striscia e la Cisgiordania. Una divisione che a Tel Aviv certo non dispiace, vista la politica di crescita degli insediamenti in atto. Ed è dai tempi dell’ultimo Ariel Sharon e del disimpegno da Gaza che Israele prova a ‘liberarsi’ dai suoi doveri di potenza occupante. A quei tempi fu evidente la richiesta al regime di Hosni Mubarak di prendersi carico di Gaza: un ruolo che il Cairo allora rifiutò più volte. E ora, qualcosa è cambiato?


Per la playlist, la scelta oggi è un po’ particolare. Chi, come me, ama la fiction sull’ispettore Coliandro sa che la scelta musicale è uno dei punti forti della serie tratta dai romanzi di Lucarelli. E The Winner dei fratelli De Scalzi è un chiaro segnale… Navigando, però, ho trovato che The winner è liberamente tratto da un altro brano: Across 110th street di Bobby Wockam.


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Published on October 23, 2012 01:02

October 19, 2012

L’Egitto di tutti gli egiziani


E’ l’ennesimo venerdì particolare, questo venerdì. Non solo e non tanto perché oggi, nella Fratellanza Musulmana, è il giorno in cui si definisce la nuova dirigenza del Partito Libertà e Giustizia, la formazione politica nata dal seno dell’Ikhwan dopo la rivoluzione del 25 gennaio 2011. Per la presidenza, si scontreranno – com’era prevedibile – due leader di lunga lena, Essam el Arian e Saad el Katatni. Niente di nuovo, insomma, sul fronte del rinnovamento generazionale dell’islam politico.


Quello di oggi è un venerdì particolare per quello che succederà sull’altro fronte, il fronte delle forze laiche, liberali e di sinistra. Di nuovo in piazza, e ancora una volta in piazza Tahrir, per protestare direttamente contro i Fratelli Musulmani. Sino alla settimana scorsa, il fronte rivoluzionario era diviso sull’attaccare o meno l’Ikhwan, sul fronteggiare apertamente la Fratellanza Musulmana e anche la presidenza di Mohammed Morsy. Dopo gli scontri tra militanti dell’Ikhwan e gli altri manifestanti, esattamente una settimana fa, il fronte si è compattato. O almeno così sembra.


Tutti in piazza, insomma, dietro lo slogan L’Egitto è di tutti gli egiziani, e con un’agenda molto folta: non c’è solo il confronto con l’Ikhwan, ma – direi, soprattutto – c’è in ballo la bozza di costituzione e la performance della presidenza Morsy in termini di rispetto dei diritti civili. Sono i nodi di fondo della transizione, e della discontinuità nei confronti del regime precedente.


Così come segno di discontinuità dev’essere il rapporto tra presidenza e magistratura, ma nel  modo in cui pensava di gestirlo il presidente Morsy. Il tentativo (fallito) di far dimettere il procuratore generale Abdel Meguid Mahmoud segna la prima vera mossa falsa di Morsy, che invece era riuscito a mettere in un canto la vecchia guardia delle forze armate, lo scorso agosto, con una freddezza e una rapidità singolari.


Niente da fare (ancora) con la magistratura, che in Egitto si è in parte allineata con il regime, ma ha allo stesso tempo anche visto personalità di rilievo schierarsi con l’opposizione in tempi non sospetti. A un  tema che non è per nulla ininfluente per la transizione egiziana, Nathan Brown – col solito acume – dedica la sua ultima analisi su Sada.


Vedremo, nel corso della giornata, cosa succederà al Cairo, con i tre cortei verso Tahrir, gli slogan che verranno scanditi, i protagonisti della rivoluzione del 25 gennaio che decideranno di scendere in campo, il seguito che riusciranno a ottenere da parte della popolazione.


Stay tuned.


Playlist con brano serio, oggi: Drumsolo II, Billy Cobham


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Published on October 19, 2012 01:10

October 17, 2012

Vintage Egypt


Non so di preciso cosa possa significare Vintage Egypt. A seconda di chi lo usa, può essere l’Egitto della nostalgia, dei ‘bei tempi andati’ (!!??!!), delle minigonne post-1967, delle donne che non indossavano il velo e che anzi erano ‘moderne’ quanto le occidentali. Per capire di che paese si parla, basta sfogliare un blog che ho scoperto oggi.


Vintage Egypt può essere però, allo stesso tempo, anche il paese in cui la presenza degli europei, tra il Cairo e Alessandria, aveva dato un preciso ‘tono’ alle due città-simbolo. Era l’Egitto decisamente coloniale, meravigliosamente immortalato nelle foto di un libro d’immagini che – infatti – usa proprio Vintage Egypt come titolo, e come evocazione.


Se dovessi descriverlo per la mia esperienza cairota, quel vintage lo ambienterei nello stanzone di un rigattiere di Zamalek. Lo chiamavo l’antro degli orrori, perché dentro c’era tutto un mondo di vecchi telefoni e oggettistica dei ministeri dei tempi di Gamal Abdel Nasser. C’era anche un busto in gesso di Nasser, alto quanto me e per giunta color bronzo. Ho fatto l’errore di non comprarlo, e – tempo una settimana – qualcun altro se l’è accaparrato.


Fare una lunga sosta nell’’antro degli orrori’ di Zamalek era un viaggio pieno di polvere e fascino in uno strano Egitto che sapeva certo di Naguib Mahfouz, ma anche di modelli socioeconomici che cambiavano. Di contratti sociali e di nuova dignità, di una città che perdeva gli europei e diventava più egiziana. Gli egiziani, poi, non ci misero tanto a dimenticare quella parte della loro storia contemporanea: a dirlo sono i mobili di chiara fattura europea che alcuni anni fa era normale e per nulla raro trovare a poco prezzo dai rigattieri di downtown. Il gusto medio degli egiziani era ed è diverso, come diverso è il gusto medio degli italiani, e così il modernariato degli anni Trenta e Quaranta (sino alla grande migrazione degli europei successiva alla rivoluzione del 1952) non faceva  – sino a qualche anno fa – tanta gola. Una pacchia, certo, per gli expat che sciamavano – come me – tra un rigattiere e l’altro, a cercare non solo tavolini e poltrone, ma vecchie riviste, grammofoni, foto di gruppo, sino alle copertine dei 78 e dei 45 giri di Umm Kulthoum.


Un vero e proprio attacco di nostalgia, curato in mezzo all’oggettistica della vita quotidiana dell’Egitto che fu, e che ancora è.


 


Il brano della playlist è di Umm Kulthoum. Più che brano, è uno dei concerti. Un’ora di grande musica egiziana: Al Atlal. Fa parte a pieno titolo del corredo della nostalgia, assieme alle foto, alle vecchie pubblicità degli anni Quaranta, alle statuine di terracotta che oggi immortalano la Stella d’Oriente e i suoi musicisti. Accanto alle poltrone liberty, ai tavolini intarsiati, a tutto ciò che gli europei d’Egitto lasciarono in quella che per molti di loro fu una patria d’adozione.


 


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Published on October 17, 2012 11:42

October 11, 2012

Israele, Hamas, Gaza. Ci risiamo?

Ci risiamo? A guardare i titoli che riguardano israeliani e palestinesi, in questi ultimissimi giorni, sembra di essere tornati – di colpo – all’autunno del 2008. Gaza e il sud di Israele sono di nuovo infuocati. Israele è di nuovo in campagna elettorale, perché di nuovo sono stae indette consultazioni politiche anticipate per il rinnovo della Knesset. E su tutto incombono, di nuovo, le elezioni presidenziali americane.

C’è di che essere preoccupati, perché questi continui “di nuovo” fanno temere una escalation sul fronte sud di Israele, nonostante le ferite provocate dall’Operazione Piombo Fuso a cavallo tra 2008 e 2009 non si siano ancora per nulla rimarginate.

Allora, prima di parlare delle evidenti differenze tra l’autunno del 2008 e questo autunno 2012, parliamo degli elementi comuni.

Il primo. Sale la tensione tra Israele e Hamas su Gaza, tra tentativi di omicidi mirati dell’aviazione israeliana e razzi delle fazioni armate palestinesi sparati contro le cittadine israeliane del Negev. Hamas, anche stavolta restia a reagire contro Israele perché lo status quo è più importante, decide che è ora di mandare qualche segnale (qualche razzo) sia agli israeliani sia alle altre fazioni di Gaza, per mitigare quell’aura di regime che da anni la circonda. A farne le spese – anche stavolta – sono i civili, e soprattutto i civili palestinesi.

Certo, in questo autunno 2012 c’è un protagonista diverso. L’Egitto in transizione presieduto da Mohammed Morsy, che però – rispetto a Gaza e a Hamas – non ha deciso una discontinuità rispetto al ‘regno’ di Hosni Mubarak. Quello che viene ritenuto l’interesse nazionale egiziano ha ancora la prevalenza sulle comuni origini islamiste di chi è al vertice, a Gaza e al Cairo. Nulla di nuovo, verrebbe da dire, vista la storia dei rapporti tra palestinesi ed egiziani negli ultimi decenni…

Se questo è vero, è altrettanto vero che difficilmente Morsy potrebbe superare alcuni steccati, e per esempio comportarsi come Mubarak fece alla vigilia dell’attacco israeliano contro Gaza del 27 dicembre del 2008, quando strinse platealmente la mano all’allora miniera degli Esteri Tzipi Livni. Una stretta di mano che il pubblico egiziano interpretò, ex post, come il benestare del regime di Mubarak al massiccio attacco militare israeliano contro i palestinesi. Morsy non potrà rimanere ‘neutrale’ di fronte a una escalation militare, ed è questo il motivo per cui questa escalation molto probabilmente non ci sarà. E poi la questione siriana limita – per così dire – il confronto militare tra Israele e Hamas all’interno delle regole non scritte di un conflitto a bassissima intensità. Non per questo meno sanguinoso e duro per la popolazione di Gaza, stremata, stanca, dimenticata.

Secondo punto: Israele alle prese con le elezioni anticipate. Alcuni dei protagonisti di allora ci sono anche oggi. Bibi Netanyahu, in primis, che resta l’unico possibile e probabile vincitore delle consultazioni che si terranno tra gennaio e febbraio. I primi sondaggi premiano la sua premiership, nonostante i pesanti problemi socioeconomici che hanno spinto il primo ministro ad andare subito e presto a elezioni anticipate. Netanyahu vince a mani basse nei primi sondaggi. E la coalizione di centro destra pure, per nulla toccata da quello che succede sul terreno, dall’aggressività sempre più alta dei coloni sino alle proteste sociali, dalla mancanza di un qualsiasi canale di dialogo con l’Anp di Mahmoud Abbas e Salam Fayyad, sino alla deriva conservatrice e retriva sempre più presente nella società israeliana.

Forse si ripresenterà alle elezioni Ehud Olmert, i cui scandali avevano causato le elezioni anticipate del 2009. E questo possibile ritorno sulla scena di Olmert la dice lunga sulla stagnazione della politica israeliana, in cui pochissimo s’affaccia di nuovo all’orizzonte.

Da ultimo, le elezioni americane che incombono, e che hanno segnato in modo così prepotente gli ultimi mesi, col rischio altissimo di un attacco israeliano sui siti nucleari iraniani. Tutto rinviato in primavera, sembra. Ma ancora una volta il Medio Oriente entra – per così dire – a gamba tesa nelle presidenziali di oltreoceano.


Di questo e di altro parlo oggi pomeriggio alle ore 18 a Milano all’Ispi a via Clerici. Tema: “I tormenti di Israele”, con Gad Lerner e Tatiana Boutourline de “Il Foglio”. Moderatore: Paolo Magri dell’Ispi.


Nella foto, la scuola per i bambini palestinesi di Umm al Nasser costruita da Vento di Terra, colpita durante un raid israeliano il 10 ottobre scorso. L’ho visitata a giugno. È bellissima. Speriamo resista…


Il brano per la playlist di oggi, in una uggiosa giornata meneghina. Nella terra del vento, l’ultimo Ivano Fossati.


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Published on October 11, 2012 04:14