Paola Caridi's Blog, page 87
November 27, 2012
Rivoluzione atto Secondo
Perché proprio oggi? Perché non definire Rivoluzione atto Secondo la battaglia di un anno fa a via Mohammed Mahmoud? Oppure la defenestrazione del Consiglio militare supremo da parte del presidente Mohammed Morsy, lo scorso agosto? Perché non scegliere una delle tante manifestazioni a Tahrir che, in differenti momenti in questo oltre anno e mezzo di rivoluzione/transizione, hanno spostato la direzione politica degli eventi, anzi, semmai raddrizzato la barra?
La prima risposta, quella che mi sale in gola, è: d’istinto. Le immagini, le foto, le facce, la compattezza, quella ‘chiamata’ che porta di nuovo in piazza tutti, e non solo una parte. E quando dico tutti, non parlo della ‘massa organizzata’, delle dimostrazioni politicamente targate. Dico: tutti, quel ‘tutto inclusivo’ che ha fatto la Thawra del 2011.
Vorrei, anzi, che i miei amici che in questo momento si trovano al Cairo mi confortassero, o mi smentissero. Con il loro, di istinto. Con la loro lettura degli avvenimenti (Gennaro, che mi dici?).
La seconda risposta, depurata da quella ineludibile passione che le cose egiziane mi provocano, è che una soglia è stata superata. Di quelle soglie che gli egiziani colgono molto prima di noi: la loro pazienza arriva sin dove deve arrivare, poi si capisce che non si può andare oltre. E il decreto costituzionale del presidente Mohammed Morsy è andato oltre. Soprattutto perché ha tentato di blandire la rivoluzione, all’inizio e alla fine di uno stringato decreto in cui i nodi fondamentali erano concentrati nei punti centrali: il presidente egiziano ha in un colpo solo dato il ben servito al procuratore generale (uomo espressione del vecchio regime), ha dato altri due mesi di tempo per approvare la bozza della nuova legge fondamentale all’assemblea costituente, che non potrà essere sciolta, e ha poi ampliato i suoi poteri tanto da renderli inappellabili, almeno “sino all’approvazione della costituzione e all’elezione di una nuova assemblea del popolo”.
Prima e dopo, ha blandito il fronte rivoluzionario, promettendo giustizia per i ‘martiri’, per gli shuhada della rivoluzione, e ha promesso di difenderla, la Thawra.
Non è ovviamente bastato, il prima e il dopo della lettera del decreto, per convincere le opposizioni, che già avevano sperimentato la capacità di Morsy di agire con mosse veloci, e a sorpresa. Come, ad agosto, il benservito alle due figure determinanti dell’apparato militare, i generali Tantawi e Anan. Il decreto costituzionale, insomma, era troppo simile alla mossa politica di agosto: in questo caso, doveva regolare i conti con il sistema giudiziario egiziano, dove – sì – i cascami del vecchio regime sono lì, a ostacolare la rivoluzione. Difficile, però, non vedere che in quello stesso sistema giudiziario ci sono stati, negli anni precedenti alla Thawra, uomini e semi necessari per fecondare l’opposizione a Mubarak. Nell’alveo della magistratura egiziana, insomma, c’era il procuratore generale parte del regime, e il Club dei giudici che al regime si era opposto.
Detto questo, la magistratura egiziana è ancora una volta uno di quei settori centrali perché un regime, al Cairo, si possa formare e sostenere e reggere alla prova del tempo. Lo è stato negli scorsi decenni, in cui la sua indipendenza è stata via via erosa. E lo anche oggi. Niente di nuovo sotto al sole, dunque. Salvo il fatto che oggi – novembre 2012 – c’è un paese che ha già provato quanto la sua compattezza e la sua capacità di ribellione sia determinante per cambiare la sua storia.
Hamdin Sabbahi, il candidato alle presidenziali più forte tra i tre espressi da Piazza Tahrir, ha detto qualche giorno fa che “la rivoluzione non accetterà un nuovo dittatore”. Il senso di quello che in questi ultimi giorni e soprattutto in queste ore sta succedendo al Cairo è, secondo me, tutto racchiuso in questa frase. Non è possibile costruire un nuovo Egitto senza avere dalla propria parte chi ha fatto la rivoluzione, se non si vuole arrivare alla guerra civile.
Non credo che la Fratellanza Musulmana voglia e possa arrivare allo scontro con la rivoluzione egiziana, anche se sta giocando la stessa carta giocata da Hosni Mubarak per decenni: l’appoggio di un’amministrazione americana (in questo caso quella del secondo mandato di Barack Obama) che dell’Egitto non può fare a meno nello scacchiere regionale. Troppo pragmatica. Come ha detto Sandmonkey, blogger di lunga data e una delle figure di Tahrir più interessanti, in uno dei suoi tweet, “stiamo ricominciando a giocare. Ora tocca a te – Morsy – muovere”
Per la playlist, ho scelto uno dei brani dell’ultimo album dei Radiodervish, Human, in uscita presto. In fondo ai tuoi occhi parla anche di Tahrir.
November 24, 2012
Hamas tra muqawwama e sdoganamento
C’è una parola che è tornata in auge nella retorica di Hamas, durante l’ultima guerra di Gaza, ed è muqawwama. Resistenza, muqawwama appunto. Una parola – a dire il vero – mai espunta dal linguaggio usato dai leader e dai militanti di Hamas in tutta la sua esistenza, che nel prossimo dicembre celebra il quarto di secolo. Muqawwama, anzi, è parte costitutiva di un movimento, quello islamista palestinese, che ha inserito il termine nello stesso acronimo che lo definisce: Hamas, movimento di resistenza islamico.
Dov’è, allora, la differenza rispetto al prima? La differenza è tutta negli ultimi cinque anni, dal 2007 a oggi, da quando Hamas non è più solo movimento, ma è anche – e sempre di più – regime. Un regime, una burocrazia, un governo che controlla un territorio con limiti ben precisi, definiti dal confine che chiude – anche con l’embargo – la piccola Striscia di Gaza. Hamas, in sostanza, è anche accusato di non essere più un movimento che fa ‘resistenza’ contro Israele: la fronda a destra dello spettro politico, nel magmatico fronte salafita e jihadista, lo accusa di essersi moderato per mantenere il suo potere e di non fare più nulla per rompere un assedio che comprende ancora non solo i confini con Israele ma anche il valico di Rafah verso l’Egitto. L’opposizione laica, che esprime a sua volta anche fazioni armate, lancia le medesime critiche a Hamas, accusato di essere a questo punto solo regime.
I problemi di consenso interno verso il regime di Hamas si coniugano dunque, a Gaza, proprio con un termine che rimbalza sempre di bocca in bocca, ad ascoltare la strada palestinese, come fosse colla per tenere assieme una popolazione sola e disperata. Muqawwama lo dicono i bambini, i grandi, i laici, gli elettori di Hamas.
La breve guerra di Gaza, costata la vita a circa 170 palestinesi dentro la Striscia, ha ridato a Hamas un consenso che aveva eroso nel giro di pochi anni. A giudicare dalle prime reazioni della strada, infatti, tutti riconoscono a Hamas di essersi riappropriata del confronto armato verso Israele, lasciato negli scorsi anni soprattutto alle altre fazioni armate. Stavolta, nella breve e sanguinosa guerra di Gaza, Hamas ha rivendicato il lancio di razzi e missili, mostrando – anzi – un rafforzamento del proprio ‘arsenale’ militare.
Detto tutto questo, però, il consenso interno successivo alla guerra di Gaza non potrà durare all’infinito, se le porte dei confini della Striscia, a nord verso Israele e a sud verso l’Egitto, non si apriranno. Non solo. Il consenso più allargato e compatto di questi giorni copre, ma solo superficialmente, un confronto tra due ali del vertice di Hamas che sono lungi dall’aver appianato le proprie divergenze.
Poco si sa del confronto tra l’ala maggioritaria a Gaza e l’ufficio politico di Hamas fuori dai Territori palestinesi. Qualcosa è filtrato quando Khaled Meshaal ha fatto sapere di non volersi ricandidare alla guida del politburo, mostrando le ambizioni di Ismail Haniyeh che vanno oltre la Striscia di Gaza e fondano proprio sul suo premierato e sulla territorialità del suo potere. Di certo è che Hamas vive, durante, dopo e a causa del Secondo Risveglio arabo, una fase di transizione importante, sulla quale è piombato anche l’omicidio mirato di Ahmed al Jabari, capo dell’ala militare, figura divenuta via via più importante, travalicando la dimensione militare del suo ruolo e posizionandosi anche all’interno della dimensione politica.
Quanto, dunque, inciderà la scomparsa di Jabari dal vertice? A prima vista, ripercorrendo la storia del movimento islamista palestinese, si dovrebbe rispondere che no, la scomparsa di Ahmed al Jabari non inciderà più di tanto. Hamas è un movimento complesso, strutturato in modo simile a un partito di massa, e dunque le individualità sono importanti tanto quanto è importante l’insieme delle sue constituency. Uno scossone, comunque, ci sarà nel movimento, soprattutto nel vertice, proprio per la fase di transizione che sta vivendo.
È, però, più il contesto regionale a incidere. Perché la transizione da un capitolo all’altro della storia di Hamas coincide con le nuove alleanze che il movimento sta rafforzando. Diminuisce, cioè, il ruolo dell’Iran, nonostante Khaled Meshaal ne abbia ricordato l’appoggio militare nell’ultima conferenza stampa al Cairo. L’alleanza tattica con Teheran sta da tempo cedendo il posto al rafforzamento delle relazioni con Egitto, Qatar e Turchia. Un rafforzamento che posiziona Hamas tutta dentro il Secondo Risveglio arabo, e dentro l’ondata vincente dell’islam politico regionale.
Chi vincerà, dunque, tra Meshaal, Haniyeh, Abu Marzouq? E’ ancora presto per dirlo, perché ora Hamas mostrerà il suo lato compatto, lo stesso che ha mostrato anche in Cisgiordania, con le dichiarazioni dei suoi leader. Il volto pragmatico di Hamas, rappresentato dalla figura più rappresentativa nella West Bank, Mahmoud A-Ramahi, è uscito allo scoperto proprio pochi giorni fa, in una lunga intervista rilasciata ad Amira Hass per Haaretz. Era una intervista tutta politica, rilasciata a un giornale israeliano: la reazione, quasi immediata, è stato il nuovo, ennesimo arresto di Ramahi da parte delle autorità israeliane.
Un po’ di link a interventi audio e video che ho fatto in questi giorni. Intanto, ho partecipato (per via telefonica, ahimè) al lungo incontro pubblico dedicato dall’ISPI a Gaza e Israele, proprio all’indomani della tregua. E’ possibile seguirlo su VIMEO, a questo indirizzo. E poi una lunga intervista a Lorenzo Rendi di Radio Radicale. E infine un intervento a Radio3 Mondo – Rai, in conduzione Emanuele Giordana.
November 21, 2012
El Hamdulillah, la tregua!
Al hamdulillah, grazie al cielo la tregua è stata raggiunta, ed è entrata in vigore alle 20 ora italiana. Tra Israele e Hamas (ma anche la Jihad islamica) dovrebbero cessare le ostilità, se il cessate il fuoco verrà rispettato. Spero che a Gaza, stanotte, oltre un milione e è mezzo di persone possano finalmente dormire senza il terrore per sè, e per i propri cari, sotto l’incubo delle decine e decine di raid, sotto i bombardamenti incessanti che in otto giorni hanno causato circa 150 morti e oltre mille feriti. Circa 150 morti e oltre mille feriti. Un prezzo troppo alto. Un prezzo che grida allo scandalo.
Spero che la popolazione israeliana dorma sonni più tranquilli, nel sud di Israele, fuori dai rifugi. E che rifletta sull’ennesima guerra inutile, dannosa, sanguinosa, e sulla necessità di una risposta politica e non più solo militare. Spero che a Tel Aviv e a Gerusalemme si possa di nuovo prendere un autobus come lo si è preso negli ultimi anni, senza paura.
Spero che i palestinesi di Cisgiordania e Gerusalemme est guadagnino, da questo cessate il fuoco, una tregua alla loro demoralizzazione. E che di loro si ricordi, quando si pensa ai palestinesi, come uomini e donne che sono costretti a una vita non solo difficile, ma piegata dall’ingiustizia della crescita esponenziale delle colonie israeliane dentro la Cisgiordania e dentro Gerusalemme est.
Spero, anche se in Medio Oriente sperare è semplicemente un lusso.
Questo è il testo della tregua, distribuito dalla presidenza dell’Egitto, paese mediatore.
Agreement of Understanding For a Ceasefire in the Gaza Strip
1: (no title given for this section)
A. Israel should stop all hostilities in the Gaza Strip land, sea and air including incursions and targeting of individuals.
B. All Palestinian factions shall stop all hostilities from the Gaza Strip against Israel including rocket attacks and all attacks along the border.
C. Opening the crossings and facilitating the movements of people and transfer of goods and refraining from restricting residents’ free movements and targeting residents in border areas and procedures of implementation shall be dealt with after 24 hours from the start of the ceasefire.
D. Other matters as may be requested shall be addressed.
2: Implementation mechanisms:
A. Setting up the zero hour for the ceasefire understanding to enter into effect.
B. Egypt shall receive assurances from each party that the party commits to what was agreed upon.
C. Each party shall commit itself not to perform any acts that would breach this understanding. In case of any observations Egypt as the sponsor of this understanding shall be informed to follow up.
November 20, 2012
The first Gaza War during the Second Arab Awakening Era
It seemed a new chapter in the long, tragic, bloody story of the Gaza Wars. Israeli air strikes versus rockets originated from the Gaza Strip, after Obama’s (re)election and before another Israeli early election round. It seemed as if the clock turned back to December, 2008, to a well known sequence of events: an Israeli raid deep inside the Gaza Strip, a rocket barrage to the southern Israeli communities, targeted killings against Palestinian militants, and then the war. An ugly war.
It seemed again the same old story, but it’s not. This is the first Gaza War in the era of the Second Arab Awakening. If not, only for the strong message sent by the Arab (new) governments to Israel, the United States and Europe. Ten among the most important Arab countries’ foreign ministers were at Rafah border, on November, 20th, to visit Gaza, pay respect to the dead and the injured, and recognise Hamas’ role in the region. Ten FMs in the rubble of Gaza, together with the Turkish FM.
This is for good a new regional story in the making, and it is meanwhile the most important difference with the past. Hamas cannot be ignored anymore. It is part of the same Islamist ‘green wave’ that gained electoral consensus after the Arab Revolutions.
Reading the last Gaza War through new lenses would mean draw different conclusions from the past. First, Hamas is gaining from the crisis, both in terms of internal consensus and regional (if not, international) recognition. It gains from the crisis, after it experienced in the last years an increasing lack of internal consensus in Gaza, due to its role as a regime Secondly, the Israeli Pillar of Defence Operation put aside Hamas’ internal struggle between the Gaza wing, on one side, and Khaled Meshaal-linked leadership, on the other. Thirdly, the Gaza War marginalized Mahmoud Abbas and the PA, drawing a new role for the Palestinian political actors.
Abbas’ PA, which tried to gain again an international role through the UN bid for the recognition of the State of Palestine, has no part anymore in the crisis. Abbas asked the Arab League to act as a PA proxy, visiting Gaza. Morsy’s Egypt mediated only with Hamas and the Islamic Jihad. And Hamas acted as the only strong Palestinian actor.
As a consequence, we will witness a steadily weakening of the PA role and power, and a likely reshuffle of the PLO, which is the most important goal in Meshaal’s strategy. There was a turning point, in the recent history of Hamas, which was symbolized by its participation to 2006 Palestinian parliamentary elections. In the 2005 Cairo agreement which paved the way to the electoral participation, Hamas asked a reformed PLO to be part of. Hamas is still pursuing the same goal, until now, and the last Gaza War is another step in the same direction. A reformed PLO with Hamas and Islamic Jihad as new member would be the probable protagonist of the new Palestinian story, and the formal death of the already comatose 2-State-solution.
To be continued…
Picture by @Aliskaya on twitter: Turkish FM Ahmed Davutoglu in Gaza, November, 20th, 2012.
November 19, 2012
Val la pena di essere equanimi?
Val la pena di essere equanimi?
Era il titolo di un commento scritto sulla prima fase della guerra dei Balcani da uno dei miei più cari e mai dimenticati amici, Mauro Martini, grande slavista, morto nel 2005. Val la pena di essere equanimi? Val la pena di mettere sullo stesso piano i due contendenti, insomma, e dire che sono uguali, che hanno uguali colpe e uguali ragioni?
Eppure è una domanda cruciale, non solo dal punto di vista meramente politico, ma dal punto di vista etico. Se valga la pena, oggi, di fronte a quello che sta succedendo a Gaza, e sottolineo a Gaza, essere equanimi. Non voglio più fare paragoni. Non voglio più paragonare un razzo sparato da Gaza con un raid aereo su Gaza. Non voglio più sprecare energia a soppesare gli oltre 800 razzi sparati da Gaza con gli oltre 1300 “obiettivi” colpiti dai caccia israeliani dentro la Striscia di Gaza. Non voglio più discutere se la massa della popolazione palestinese di Gaza, sotto assedio da così tanti anni che ce ne siamo dimenticati, sia ostaggio del regime di Hamas, in una striscia di terra di 400 chilometri quadrati in cui si è ostaggio solo della propria disperazione. E della impossibilità di scappare, di scappare in un rifugio (inesistente) o in un campo profughi.
Gaza, dal 1948, è già stata trasformata in un enorme campo profughi, e solo chi non c’è mai stato può pensare a Gaza come a un posto normale, in cui ci sono città, campagna, caserme, sedi di governo, tutte suddivise, tutte distanti, e non invece accatastate, affastellate, mescolate…
Non voglio più essere equanime, se l’equanimità significa ingiustizia. E lo dico dopo aver colloquiato con i miei amici israeliani a Tel Aviv, che le sirene dell’allarme le sentono. Non voglio più essere equanime, se equanimità significa ipocrisia (della comunità internazionale) senza costrutto, mancanza di qualsiasi strategia per il mondo arabo post-rivoluzioni, incapacità di dire al proprio alleato (Israele) che non è permesso fare qualsiasi cosa. Compreso colpire in cinque giorni oltre 1300 obiettivi (e non sono stati tutti obiettivi militari, come dimostra l’ultimo ‘episodio’, il massacro di una intera famiglia, 12 persone, tra le quali 4 bambini), uccidere circa 90 persone di cui buona parte civili, ferirne altre mille, terrorizzare oltre un milione e mezzo di persone con decine e decine e decine di raid ogni notte.
Ho vissuto in Medio Oriente (e soprattutto a Gerusalemme) troppo a lungo perché mi si possa dire che è tutta colpa dei palestinesi e tutta colpa di Hamas. Ho dovuto lottare, nel 2005, perché non si dicesse (come invece si è detto) che Ariel Sharon era un fine stratega, e aveva capito come risolvere il conflitto israelo-palestinese ‘disimpegnando’ Israele da Gaza: ha fatto solo l’ennesimo, l’ultimo danno che poteva fare, tentando ancora una volta di spaccare Gaza dalla Cisgiordania, e dividere la Palestina. Ho dovuto lottare, per tutto il 2006 e il 2007, da Gerusalemme, per far comprendere che non si poteva caldeggiare le elezioni palestinesi, mandare 800 osservatori internazionali, e poi dire che si era sbagliati perché aveva vinto Hamas. Bisognava anzi, pragmaticamente, sfruttare questa occasione per sostenere l’ala pragmatica di Hamas e ‘blindarla’ in una cornice istituzionale.
No, non l’abbiamo fatto. Anzi, per quanto possibile siamo riusciti anche a far emergere l’ala più dura, perché così potevamo continuare a usare le categorie precedenti e bearci di un processo di pace man mano avvizzito, consunto, comatoso. E ora definitivamente morto. Così, abbiamo continuato a leggere la realtà mediorientale secondo una trita visione orientalista che le rivoluzioni del 2011 hanno spazzato via. Ora, parliamo con i Fratelli Musulmani come se niente fosse, dopo averli emarginati per decenni: facciamo affari con loro, chiediamo la loro mediazione (egiziana) su Gaza e siamo diventati più realisti del re. Perché non ci siamo attrezzati prima, siamo stati travolti, e ora facciamo i Realpolitiker di basso cabotaggio.
Non sono equanime, su questa ultima, inutile, vergognosa guerra su Gaza. Ne va della mia dignità, e della mia saldezza morale.
La playlist prevede Child in Time, Deep Purple.
“Sweet child in time, you’ll see the line
Line that’s drawn between the Good and the Bad
See the blind man, he’s shooting at the world
Bullets flying, ooh taking toll”
November 17, 2012
Target Jerusalem?
Chiariamo subito. Il razzo sparato dalle Brigate Ezzedin al Qassam ieri pomeriggio non ha colpito Gerusalemme. Anche se Gerusalemme era, a quanto dichiarato dalla stessa ala militare di Hamas, l’obiettivo di quel razzo. Sono state, infatti, le Brigate al Qassam a rivendicare il lancio con un tweet, in quella che si sta configurando come la prima guerra 2.0 combattuta anche (e purtroppo non solo) nella dimensione virtuale di Twitter. E a spiegare molto, in quel tweet: “Le Brigate Al Qassam hanno lanciato due missili artigianali M75 verso Gerusalemme occupata”.
Non accadeva dal 1970. Gerusalemme non era più nel novero dei bersagli da oltre quarant’anni di un conflitto dal sapore tutto militare. Non solo: tutti ci siamo illusi che Gerusalemme non potesse essere obiettivo, perché la sua santità e la sua stessa dimensione mitica le facevano da scudo. Santa per tutti: ebrei, cristiani, musulmani. Santa in tutti gli immaginari, compreso l’immaginario di chi, a Gaza, non avrebbe mai avuto il permesso dagli israeliani di uscire dalla Striscia e andare a pregare alla Moschea di Al Aqsa: Al Aqsa e la Cupola della Roccia sono in tutte le case, le istituzioni, i ministeri di Gaza.
Gerusalemme era stata per anni il tragico bersaglio degli attentati suicidi compiuti da tutte le fazioni palestinesi, che avevano colpito la città nel settore israeliano, e non a est o nella Città Vecchia. Poi è finita la seconda intifada, si sono fermati gli attacchi suicidi, la città ha ripreso colore, i pellegrini sono tornati in massa, il turismo è fiorente. E nello stesso tempo la tensione è rimasta, in una città divisa anche se formalmente unita sotto Israele, spaccata tra un est e un ovest, tra una identità e l’altra, tra un’appartenenza e l’altra. Cosa è cambiato, dunque, oggi? È che Gerusalemme non ha solamente una dimensione mitica che riguarda la sua santità, ma che riguarda – con eguale rilevanza – il suo significato politico. Soprattutto di identità nazionale. Gerusalemme è anche prosaica, insomma, e questo la rende – di nuovo – un unico bersaglio. Senza differenziazioni al proprio interno. Vi è, anzi, un passo ulteriore, nella rivendicazione delle Brigate al Qassam: come se, in quella rivendicazione, vi fosse anche il riconoscimento di una Gerusalemme bersaglio israeliano, centro della vita politica di Israele.
Il razzo, però, non è per fortuna caduto a Gerusalemme. E’ precipitato sulla Cisgiordania, in campagna, vicino a un villaggio palestinese. È caduto in Cisgiordania, a poca distanza da Gerusalemme. È caduto all’interno del più importante blocco di colonie israeliane tirato su negli anni tra Gerusalemme, Betlemme e Hebron. È caduto – sembra – vicino alla colonia dove risiede il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman. È caduto, insomma, in piena Palestina occupata. E da Ramallah molte poche reazioni si sono sentite.
È come se l’Autorità Nazionale Palestinese sia rimasta annichilita dallo scoppio di questa nuova, ennesima, tragica guerra di Gaza. Come se non riesca a reagire con prontezza e agilità politica a una situazione delicata e difficilissima, che mette ancor più a rischio la stessa tenuta delle istituzioni dell’Anp, già provate da anni di divisione tra Hamas e Fatah. Il pericolo, insomma, non risiede solo nelle decine di morti palestinesi di Gaza che già si contano per i martellanti raid israeliani, e nella tragedia umanitaria in corso nella Striscia.
Il rischio è anche in Cisgiordania, perché il tappo della frustrazione, della crisi economica e sociale, della sofferenza della popolazione provata dalla occupazione israeliana salti del tutto. Ed esondi per le strade di Ramallah, Nablus, Jenin, Betlemme. Sta già succedendo, anche se la notizia non arriva sui giornali. Su twitter però sì, ancora una volta. Con la notizia delle manifestazioni che anche stamattina vi sono state, a fianco dei palestinesi di Gaza, in parte controllate se non represse dalle forze di sicurezza dell’Anp. Quanto potrà durare, questa rabbia che di tanto in tanto esce, come da una pentola a pressione? Per quanto ancora si potrà giocare con una frustrazione e con ambizioni sociali, morali, identitarie che ci sono, soprattutto tra i ragazzi?
La guerra di Gaza versione 2012 sta di nuovo emarginando l’Anp, come già fece l’Operazione Piombo Fuso tra 2008 e 2009. Un’operazione scattata appena due settimane prima di un voto programmato all’Onu per accogliere la Palestina come membro, che avrebbe ottenuto molto probabilmente i consensi necessari all’Assemblea Generale. Ora, il Vaso di Pandora sta per essere aperto con un intervento di terra che ci si immagina come avrà inizio, ma non quali saranno le sue conseguenze, soprattutto perché nessuno di noi può immaginare cosa l’intervento di terra scatenerà in Egitto, dove oggi è arrivato il primo ministro turco Recep Tayyep Erdogan. Mahmoud Abbas, in questa storia, ha già perso, come dimostra il suo appello televisivo alla riconciliazione tra Hamas e Fatah. Ha già perso, e nessuno sa cosa succederà domani, per i palestinesi tutti.
A Gaza è stata l’ennesima notte d’inferno. Martellanti i raid israeliani. Colpita e distrutta anche la sede del governo di Hamas, lo stesso edificio dove ieri era stato ricevuto il premier egiziano Hisham Qandil.
39, sinora, i morti accertati: un numero comunicato dalle autorità sanitarie dell’ospedale di Shifa. Un numero, purtroppo, che rischia di essere solo un bilancio parziale di quello che sta succedendo nella Striscia. Una buona parte di questi morti sono bambini. Bambini…
November 16, 2012
Una guerra su Gaza, ai tempi dell’islam politico
Poco meno delle tre ore programmate, è durata stamattina la visita del premier egiziano Hishm Qandil a Gaza. Il tempo necessario per farsi vedere dentro la Striscia di Gaza. Una notizia, già di per sé, che segna dal punto di vista dell’immaginario la discontinuità con l’era Mubarak. Qandil ha dunque varcato il valico di Rafah, oggetto anche di molte tensioni tra la Gaza di Hamas e l’Egitto a guida islamista. È andato al grande ospedale di Shifa, per visitare i feriti nelle centinaia e centinaia di raid israeliani delle ultime 48 ore su Gaza. Ha fatto un’affollata conferenza stampa circondato da guardie del corpo con giubbotto antiproiettile, accanto al premier di Hamas Ismail Haniyeh, nell’atrio dell’ospedale. E ha detto che gli egiziani sono accanto ai palestinesi, che tutto quello che sta succedendo è inaccettabile, che i palestinesi debbono riconciliarsi al proprio interno.
Questa, in sintesi, la parte visibile della visita di Hisham Qandil. La parte meno visibile la si può solo ipotizzare, tra le pieghe di quello che Qandil ha detto. E cioè che l’Egitto non risparmierà nessuno sforzo per far terminare il bagno di sangue. Il Cairo, come succede da anni e decenni, è di nuovo nel ruolo del mediatore. Anche se, stavolta, non dovrebbe essere da solo. A giudicare dalle notizie di agenzie, la Turchia ha fatto una singolare offerta, viste le frizioni degli ultimi anni tra Ankara e Tel Aviv: ha proposto colloqui bilaterali con Israele, per evitare una ulteriore escalation.
Se non si fosse nel 2012, si potrebbe pensare al solito [sic!] trantran diplomatico. L’Egitto parla con i palestinesi, e la Turchia con Israele. Il problema è che in Medio Oriente molto – se non quasi tutto – è cambiato, dal 2011 in poi. E che dunque lo stesso ruolo che probabilmente Egitto e Turchia assumeranno va reinterpretato usando altri parametri. Intanto, entrambi i paesi hanno una dirigenza islamista: una dirigenza islamista che sembra salda in sella, e che ha tutto l’interesse a farsi considerare indispensabile nei cambiati equilibri e nella ricerca di nuova stabilità nella regione.
E poi entrambi i paesi hanno oggi un rapporto migliore con Hamas, evidente anche nella dimensione mediatica. A osservare Qandil e Haniyeh nella diretta della conferenza stampa su Al Jazeera di stamattina, per esempio, si coglieva il linguaggio comune a chi ha militato nell’Ikhwan. E non è un dettaglio di poco conto, per quello che succederà nei prossimi giorni e nei prossimi mesi. Non è un dettaglio neanche per gli equilibri e gli scenari futuri della regione. Se, infatti, Israele ha tentato di sparigliare le carte con l’Operazione Colonna di Difesa proprio mentre era in corso il tentativo di Mahmoud Abbas di far entrare la Palestina all’Onu come osservatore, la presenza di Egitto e Turchia come possibili mediatori fa rientrare tutto nell’alveo di un Medio Oriente in cui la presenza islamista è forte. E ineludibile. Con la presenza islamista bisogna farci i conti, volenti o nolenti, e Hamas è parte della stessa storia.
Israele sembra, invece, usare una strategia che ha già usato negli scorsi anni. E che è simboleggiata dall’omicidio mirato di Ahmed al Jabari. Se è vero quello che ha detto ieri Gershon Barskin (e che è ancora tutto da confermare), Jabari era all’interno di un negoziato per una tregua di lunga durata. Una hudna, come la definiscono gli esponenti di Hamas. Ebbene, anche nel 2003 uno degli uomini di punta di Hamas, il terzo nella nomenklatura, venne ucciso in un omicidio mirato. Si chiamava Ismail Abu Shanab, Israele usò cinque missili per ucciderlo, in un omicidio mirato a Gaza City, e come se non bastassero già queste similitudini con l’omicidio mirato di Jabari, anche lui era dentro il negoziato per una hudna. Negoziato su cui, in quel modo, venne messo un punto fermo (per chi vuole approfondire l’argomento, ne parlo nel mio libro su Hamas, nel quarto capitolo…).
Basta per oggi. Stay tuned.
Difficile scegliere musica, in questi giorni. Ma Samuel Barber, Adagio per archi, può andar bene.
E’ stata una notte senza sonno, un inferno a Gaza, dicono i testimoni. Centinaia di raid, sospesi solo per le due ore della visita di Qandil, e poi ripresi. Martellanti come lo erano stati nella notte appena trascorsa. Pray for the people of Gaza. La foto ritrae le macerie del ministero dell’interno a Gaza, postata su twitter da Jon Donnison. Intanto, a Tel Aviv è di nuovo suonata la sirena. Aperti i rifugi pubblici. A Gaza non ne esistono.
November 15, 2012
La guerra sui bambini
E’ stata una notte percorsa e illuminata dai raid dei caccia israeliani, quella che si è appena conclusa a Gaza. Incessanti i bombardamenti aerei su quelli che le forze armate israeliane definiscono obiettivi della struttura militare di Hamas. Il bilancio, parziale, parla di 11 morti e di almeno 45 feriti, in differenti azioni in tutta la Striscia, da nord a sud. Altre fonti parlano di almeno cento feriti, tra cui donne e bambini. Tra le vittime, 2 bambini e una donna incinta, dicono le fonti sanitarie palestinesi.
L’operazione Colonna di Difesa, così Israele ha chiamato – con un riferimento biblico – l’intensificazione dei raid contro Gaza, era iniziata ieri pomeriggio con un omicidio mirato eccellente. A essere ucciso da un missile a Gaza city, assieme alla sua guardia del corpo, è stato Ahmed Al Jabari, capo delle Brigate Al Qassam, considerato il numero 1 dell’ala militare di Hamas, l’uomo che un anno fa, aveva anche raggiunto l’accordo con Israele sullo scambio di prigionieri e la liberazione di Gilad Shalit.
La reazione delle fazioni armate palestinesi è stata immediata. Oltre 110 razzi sono stati lanciati sino all’alba verso le città del Negev. Alcuni intercettati dal sistema di difesa israeliano. Ma almeno 11 hanno colpito Beersheva, la città più importante. E stamattina un razzo ha colpito un edificio di Kiryat Malachi. Bilancio tragico: 3 morti, alcuni parlano di 4 vittime, e tra i feriti seri un bimbo di 4 anni.
Al primo giorno di guerra, è già il conflitto dei bambini. Chissà se un giorno si conteranno i piccoli morti e feriti sotto raid, bombardamenti, razzi negli ultimi anni, tra Gaza e Israele. Ma bisogna proprio contarli tutti, da tutte le parti, senza fare sconti e soprattutto senza pensare che vi sono morti di serie A e di serie B. Vecchio, stancante discorso… Così come vecchio e stancante discorso è quello su chi abbia reagito a chi, chi ha tirato prima il razzo e chi ha risposto con un raid aereo. Chi vuole, chi ha tempo, voglia, pazienza e onestà da spendere può leggersi una buona cronologia pubblicata ieri su Jadaliyya (grazie, Gennaro!).
A fra un po’.
November 14, 2012
Bombe, omicidi mirati e geopolitica…
E ora parliamo di Hamas, di Israele, di elezioni, di Egitto e di geopolitica, mentre si susseguono raid e cannoneggiamenti dal mare, tutti verso Gaza. Lo sguardo – quello intimo – è puntato sulle persone, sulle case, sulla lunga spiaggia di Shati, sul popolo che al buio sente le esplosioni, sulla mancanza di un qualsiasi rifugio in un posto che è una lunga e stretta lingua di terra dove le case sono le une sopra le altre. Lo sguardo è sulle persone senza nome, sul pianto dei bambini che sentono i caccia passare sopra le proprie teste, e su quel buio che chi è stato anche soltanto una volta a Gaza conosce bene. Il buio dell’insicurezza, della solitudine, e della prigione.
Parliamo, però, di geopolitica, visto che la politica delle cancellerie non si fa su quelle sofferenze, bensì sulla grande strategia. Bene, cominciamo. E cominciano con il ritiro dell’ambasciatore egiziano da Tel Aviv, per consultazioni. Il presidente Mohammed Morsy non ha aspettato neanche 24 ore per richiamare l’ambasciatore. Se anche la reazione egiziana si limitasse a questo, sarebbe già di per sé un cambio di passo, sia per il gesto, e sia – soprattutto – per il tempismo. Il gesto e il tempismo dicono che non siamo più al 2008, alla fine del 2008, quando Hosni Mubarak stringeva la mano del ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni davanti alle telecamere, alla vigilia dell’Operazione Piombo Fuso.
La reazione dell’Egitto, d’altro canto, non poteva essere di tono minore. Non solo perché presidente, governo e parlamento egiziani sono sotto il controllo della Fratellanza Musulmana, il brodo di coltura dal quale è nato Hamas. Non solo perché al Cairo risiede il numero 2 del politburo di Hamas, Moussa Abu Marzouq, l’uomo dei tavoli negoziali presieduti (anche nei tempi di Mubarak) dall’Egitto, l’uomo che era anche al tavolo negoziale sullo scambio dei prigionieri tra Hamas e Israele a cui partecipò anche Ahmed al Jabari, il capo delle Brigate al Qassam ucciso oggi in un omicidio mirato. Morsy ha richiamato l’ambasciatore anche per il proprio consenso interno, popolare, tanto islamista quanto nazionalista, di sinistra, laico. Dopo la caduta del regime di Mubarak, la questione palestinese è un nodo sempre più sensibile, sul quale Morsy rischia l’impopolarità, o peggio ancora di essere appaiato al presidente che lo ha preceduto. Al regime contro il quale è stata fatta una rivoluzione. e a conferma di questo, sui social network Morsy viene già descritto come troppo morbido verso Israele, una riedizione in salsa islamista di Mubarak.
L’Egitto, in ogni caso, non è più quello di prima. Anche se non è ancora quello futuro. Morsy e il suo governo non potranno fare più di tanto, dal punto di vista politico e militare. La Fratellanza Musulmana egiziana e il Partito Giustizia e Libertà potranno, per esempio, giocare il gioco delle parti con il presidente e il governo: più liberi dal punto di vista delle alleanze internazionali, l’Ikhwan e il partito islamista di maggioranza relativa potranno alzare i toni verso Israele e gli Stati Uniti, consentendo a Morsy un atteggiamento più moderato. Israele, insomma, non si trova più davanti Mubarak, e cioè un presidente che non aveva bisogno di voti e consenso. Si trova davanti una presidenza e un parlamento votati dagli elettori egiziani, e questo fa la differenza.
Il richiamo dell’ambasciatore egiziano, dunque, non è solo un messaggio a Israele. È anche un messaggio agli Stati Uniti, a una seconda amministrazione Obama che – come la prima, tra 2008 e 2009 – si trova a dover affrontare, appena insediata, la questione di Gaza e di Hamas. Obama non potrà non appoggiare Israele, come ha sempre fatto, sostenendo il diritto di Israele di difendere i suoi cittadini del sud, colpiti dai razzi sparati dalle fazioni armate palestinesi di Gaza. E probabilmente non dirà nulla sulla sproporzione tra i raid aerei e i cannoneggiamenti via mare che stanno colpendo la popolazione civile.
Sullo sfondo – è evidente – non c’è solo una necessità preelettorale, per Netanyahu: necessità che sembra aver spinto tutti gli altri oppositori a sostenere il premier nella decisione di assassinare Ahmed al Jabari e partire all’attacco di Gaza. Netanyahu, già considerato vincitore delle prossime elezioni del 22 gennaio, pensa di guadagnare un po’ da un’operazione che, però, deve avere tempi brevi, se non vuole trasformarsi nel boomerang che fece perdere le elezioni a Tzipi Livni e a Kadima, nel 2009. E’ un’operazione militare che avviene, tanto per parlare di tempi e tempistica, all’indomani della rielezione di Obama, un candidato a cui Netanyahu non aveva fatto tema di preferire Mitt Romney. Avviene anche dopo un periodo in cui la frizione tra Israele e Stati Uniti era stata evidente e chiara, sulla questione del nucleare iraniano. Avviene anche proprio negli stessi giorni in cui il sistema dell’intelligence americano è scosso dallo scandalo Petraeus, ed è dunque più fragile. Avviene, infine, in una fase di interregno dell’amministrazione americana, quando nel toto-ministri di Washington si continua a dire che Hillary Clinton sarà sostituita alla segreteria di Stato. E uno dei nomi papabili è quel John Kerry che, nelle sue visite all’estero, era anche stato a Gaza all’indomani dell’Operazione Piombo Fuso. A vedere con i suoi occhi le macerie.
Un ultimo addendum su Netanyahu: l’omicidio mirato di Ahmed al Jabari è nello stile dell’attuale premier israeliano nei confronti di Hamas, così come aveva fatto Ariel Sharon, decapitando, soprattutto nel 2004, il vertice politico del movimento islamista palestinese. Suo, di Netanyahu allora premier, l’ordine di tentare di avvelenare Kahled Meshaal nel 1997. Suo l’ordine di uccidere Mahmoud al Mabhouh a Dubai. Entrambi i casi si rivelarono un boomerang politico. L’uccisione di Jabari, però, pone domande ulteriori. Perché lui e perché ora?
Al prossimo post. Domani.
Raid, morti, feriti. Di nuovo l’inferno a Gaza
Prima di parlare di geopolitica, dell’omicidio mirato di Ahmed al Jaabari, di quello che potrebbe succedere dal punto di vista strategico, di quelle che potrebbe fare (o non fare) l’Egitto guidato dai Fratelli Musulmani, è giusto necessario parlare dei civili di Gaza. Di quelli che stanno morendo ora, adesso. Seppur a distanza, e con le dovute cautele nell’uso delle fonti, alle 19 ora italiana si parla già di 9 morti, di almeno 30 feriti, di cui 10 in un raid contro una casa del quartiere di Tel el Hawa, di una bambina di 7 anni (Rinan Arafat) uccisa e di un bambino di 11 mesi carbonizzato che alcune fonti danno per morto e che Rosa Schiano dava nell’unità di terapia intensiva dell’ospedale di Shifa a Gaza City, dove lei si trova.
Rosa Schiano – molti dei miei lettori già lo sanno – ha sostituito Vittorio Arrigoni in un compito difficile ed estenuante, quello di testimoniare la vita quotidiana a Gaza (la foto è stata scattata proprio da lei, e ritrae la maglietta che indossava Ahmed Abu Daqqa mentre giocava a pallone, prima di essere colpito in un raid israeliano, lo scorso 8 novembre. Era un tifoso del Real Madrid. Aveva 13 anni). Rosa Schiano si trova, appunto, nel più grande ospedale della Striscia di Gaza, e sta informando in diretta sui raid israeliani che sono cominciati in grande stile oggi pomeriggio, dopo l’omicidio mirato della più importante figura delle Brigate al Qassam, il braccio militare di Hamas. Cercate, dunque, i messaggi di Rosa Schiano su Facebook per avere informazioni in diretta, oppure – su twitter – seguite i ragazzi palestinesi che, sempre da Gaza, stanno facendo una sorta di tragica diretta su quello che succede sopra le loro teste e le loro case. Ci sono foto raccapriccianti, che vi prego di usare con prudenza e, per quanto possibile, sicuri delle fonti.
Parlo di civili, dunque, colpiti nei raid aerei israeliani che ora sono in parallelo con i bombardamenti via mare, in un’operazione che [sic!] è già diventata un hashtag, una parola chiave su twitter, per scelta delle forze armate israeliane. si chiama #Pillarofdefence, ha un richiamo biblico, ed è uno dei due hashtag. L’altro, usato dai ragazzi palestinesi, è #Gazaunderattack. Non è una sottolineatura dei dettagli, la mia. Negli hashtag, c’è già una scelta precisa: a voi ragionarci sopra.
Parlo di civili, perché sempre nelle guerre sono i civili a morire, a pagare il prezzo. Com’è successo nell’ultima operazione ‘in grande stile’ delle forze armate israeliane, l’Operazione Piombo Fuso, cominciata esattamente quattro anni fa, subito dopo la prima elezione di Barack Obama. L’ho già ricordato in due post precedenti, e lo ricordo anche in questo: per la seconda volta, Israele decide un’operazione militare su Gaza proprio subito dopo l’elezione di Obama, e alla vigilia delle elezioni anticipate in Israele.
Per questo, il presidente Shimon Peres ha subito telefonato a Obama oggi pomeriggio. Per spiegargli i motivi della decisione dei vertici politici. Ecco, di seguito, il testo del comunicato del portavoce di Peres:
The President of the State of Israel, President Shimon Peres, spoke to the President of the United States of America, President Barack Obama this afternoon. At the start of the conversation President Peres updated President Obama about the situation on Israel’s southern border and said, “The head of the military force of Hamas was killed half an hour ago. He was a most extreme man and was in charge of all the attacks and assassinations from Gaza against Israel. We shall handle it with great care. Our intention is not to raise the flames, but already for days, day and night, they are shooting rockets at Israel. Women cannot fall asleep. I was today there with the children. You know, there are limits. So I want you to know and I wanted to explain our motives.”
Ho sottolineato due frasi del comunicato. La seconda, per una evidente comparazione con quello che sta succedendo a Gaza, a donne e bambini palestinesi, che hanno lo stesso diritto delle donne e dei bambini israeliani di non essere bersaglio. La prima frase che ho sottolineato, invece, è tutta politica. Può dire molto di quello che Israele vuole fare, oggi e nei prossimi giorni a Gaza. Le parole di Peres, infatti, sembrano in contraddizione con quello che le agenzie battevano, nel tardo pomeriggio di oggi, mercoledì. E cioè che i vertici militari hanno deciso di muovere truppe di terra verso sud e di richiamare i riservisti. Peres, invece, dice a Obama che l’”intenzione” di Israele non è quella di “attizzare il fuoco”. Cosa significa? Che l’Operazione Colonna di Difesa si concluderà entro breve e non vedrà un impiego imponente delle truppe di terra?
Ne parlo nel prossimo post. A più tardi.
Ah, il nome dell’operazione militare in corso dovrebbe essere preso da un testo sacro. Dalla Bibbia, dal Libro dell’Esodo (13, 21-22): “Il Signore marciava alla loro testa di giorno con una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere, e di notte con una colonna di fuoco per far loro luce, così che potessero viaggiare giorno e notte. Di giorno la colonna di nube non si ritirava mai dalla vista del popolo, né la colonna di fuoco durante la notte”. Superfluo qualsiasi commento.


