Paola Caridi's Blog, page 99

January 13, 2012

Dove va Hamas?


Adesso è ufficiale. La Giordania sta cercando un modo per consentire agli esponenti di Hamas di poter risiedere nel regno hashemita. Lo ha detto, in una intervista a Time Magazine, il primo ministro giordano, confermando i rumours delle ultime settimane. Risiedere come singoli, senza spostare formalmente gli uffici del movimento islamista radicale palestinese ad Amman: questa sarebbe la formula scelta dalla Giordania, per non interrompere la politica seguita nei confronti di Hamas soprattutto a partire dal 1997, dal fallito attentato contro Khaled Meshaal. Allora, ma già sin dalla firma dell'accordo di pace tra Israele e Giordania, re Hussein aveva sempre più limitato la libertà di operare di Hamas. Poi, a Hamas fu imposto di andarsene (chi vuole approfondire, può leggersi, in inglese, il testo di Azzam Tamimi su Hamas, che entra nei dettagli) e il movimento aprì l'ufficio a Damasco.


Consentire la residenza ai singoli non vuol dire ospitare di nuovo Khaled Meshaal, come fa comprendere anche il rinvio del viaggio del numero uno di Hamas ad Amman, richiesto dai giordani perché re Abdallah è atteso a Washington per un incontro col presidente Obama (indiscrezioni di Al Jazeera). Tutto spostato, insomma, a dopo la metà di gennaio.


Ora, con la Siria totalmente instabile, Hamas deve di nuovo spostare la sede. Da mesi, almeno da maggio, si parla di questo trasferimento. Prima si era ipotizzata una divisione in tre tronconi, tra Turchia, Qatar ed Egitto. Ora, sempre di più, si lega il trasferimento a un cambiamento sostanziale della forma organizzativa di Hamas. Non più legata, com'è stata storicamente, ai Fratelli Musulmani giordani, ma come organizzazione autonoma. I fratelli musulmani palestinesi sono stati considerati, dopo il 1948 e il dominio giordano sulla Cisgiordania, come una formale emanazione dell'Ikhwan giordano. Emanazione formale, perché la stessa nascita di Hamas nel 1987 è stata decisa contro il parere dei fratelli musulmani di Amman.


La rivoluzione egiziana, la maggioranza relativa conquistata dall'Ikhwan nei tre turni elettorali per la camera bassa in Egitto, la vittoria di Rachid Ghannouchi in Tunisia stanno cambiando – pour cause – la strategia statunitense verso una parte del Nord Africa. E l'influenza si sente anche in Medio Oriente. Dopo aver combattuto l'islam politico per decenni, Washington deve capire come aprire un canale con i fratelli musulmani: lo si vede dai sempre più frequenti abboccamenti con l'Ikhwan egiziano, l'ultimo da parte del numero due del dipartimento di stato, William Burns, che nella sua visita al Cairo ha incontrato Mohammed Morsi, ha incontrato il capo del Partito Libertà e Giustizia, espressione dell'establishment della Fratellanza Musulmana (due consigli di lettura, entrambi del Carnegie Endowment for Peace: Nathan J. Brown e Ashraf el Sherif).


E Hamas? E' ancora troppo presto per parlare di sdoganamento. Allo stesso tempo, però, ci sono segnali che non vanno sottovalutati. Soprattutto le indiscrezioni. Per esempio quella di una pressione da parte dell'Arabia Saudita su Hamas perché si stacchi da Teheran. È una vecchia storia, che ha trovato conferma anche nei documenti diplomatici resi pubblici da Wikileaks, per esempio in un incontro ad altissimo livello tra re Abdullah e l'allora ministro degli esteri iraniano Mottaki nella primavera del 2009, dopo che Israele aveva attaccato Gaza con l'Operazione Piombo Fuso (lo riporto nella versione americana del mio libro, che uscirà in primavera). Anche allora, Riyadh stava cercando di spingere l'Iran a non occuparsi degli affari arabi. Hamas compresa. Ora, certo, potrebbe spingere ancor di più, approfittando delle difficoltà non solo logistiche che Hamas vive, con la repressione operata da Bashar el Assad in Siria.


Quello che si dice, ormai da molte settimane, è che Hamas dovrebbe replicare il modello organizzativo (e non solo) dei Fratelli Musulmani egiziani e del loro partito per poter ottenere lo sdoganamento da parte degli Stati Uniti. Rinunciando, ovviamente, alla violenza. Khaled Meshaal ha ambiguamente confermato una discussione interna sull'argomento "violenza", parlando della necessità di spingere sulla "resistenza popolare" che si esplica ormai da anni nelle piccole realtà della Cisgiordania. Il dibattito interno, però, è tutt'altro dall'essere risolto. Soprattutto perché – a differenza della situazione interna precedente al 2007 e al coup di Gaza – la costituency di Hamas nella Striscia ha ora più peso di prima. E non ha alcuna intenzione di mettersi da parte, come dimostra il tour nella regione di Ismail Haniyeh appena conclusosi. Il primo, dicono a Gaza. Perché un altro viaggio è già in preparazione. Successe anche qualche anno fa, quando sia Meshaal sia Hanieyh furono protagonisti di diversi tour presso le capitali dell'area: non è detto, dunque, che al vertice di Hamas tutti lo pensino allo stesso modo, e che non ci siano ambizioni personali diverse e concorrenti…


Questi giorni, insomma, potrebbero essere importanti per comprendere cosa succederà del movimento islamista palestinese. Se, cioè, cederà alle richieste di Qatar e Giordania (due tra i diversi mediatori in campo), come sembra far comprendere il comportamento di Meshaal e del bureau politico. Oppure se è ancora tutto in forse, come potrebbe significare la discesa in campo (internazionale) di Haniyeh. Da molti anni, almeno dal 1995, Hamas discute sulla creazione di un partito emanazione del movimento. Ci provò con Al Khalas, proprio in quegli anni: esperimento fallito anche prima dello scoppio della seconda intifada. Ora potrebbe essere il momento giusto, dopo una prima, importantissima apertura nel 2005-2006, con la partecipazione alle elezioni municipali e parlamentari, e la contemporanea elaborazione del programma elettorale, vero e proprio documento politico. Vedremo, nei prossimi giorni, settimane e mesi, se le rivoluzioni arabe influiranno anche sulla struttura organizzativa di Hamas.

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Published on January 13, 2012 12:27

January 11, 2012

Tamburi di guerra


"Non prendete in giro voi stessi: la guerra con l'#Iran è già cominciata. La sola domanda è quanto sarà brutta, da ora". Lo abbiamo pensato tutti, quello che Cal Perry, corrispondente di Al Jazeera International da Gerusalemme, ha scritto ieri, facendolo girare su twitter. Un pensierino conchiuso in uno spazio di massimo 120 battute, quante ne concede un messaggino via twitter. Il più importante cambiamento della comunicazione politica e del suo linguaggio di questi ultimi anni.


Lo abbiamo pensato tutti, quando i tamburi di guerra hanno rullato ieri, dopo la notizia dell'assassinio di un altro scienziato nucleare a Teheran, Mostafa Ahmadi Roshan. Una notizia che è arrivata alla fine di giorni particolari, costruiti su un canovaccio già visto tante volte non solo in Medio Oriente, quando nel teatro globale si rappresenta una possibile guerra. Azioni, risposte, reazioni, provocazioni, paure vere e presunte, in un cocktail che – il più delle volte – esplode senza che si attui un tentativo reale per disinnescare il disinnescabile. Da tutte le parti in causa.


Siamo alla vigilia di una guerra contro l'Iran che coinvolgerà tutti? Lo siamo come, tra 2002 e 2003, lo fummo quando i tamburi di guerra rullavano per l'Iraq (l'Iraq tutto, fatto di donne e uomini, e non per l'Iraq simboleggiato da Saddam Hussein)?Allora vivevo al Cairo, ed era chiaro a tutti che l'intervento americano e inglese sarebbe stato dolorosissimo, oltre che ingiusto. Ora vivo a Gerusalemme, ed è altrettanto chiaro che un conflitto con al centro l'Iran avrebbe conseguenze non solo catastrofiche, ma imprevedibili, anche se  non soprattutto per l'Occidente.


Quanto sarà catastrofica una possibile guerra contro l'Iran lo dirà la storia, ma certo ciò che sta succedendo – anche stanotte al Consiglio di Sicurezza dell'Onu – non può non essere considerato come un piccolo tassello del mosaico. Che mostra uno scenario di guerra, non certo quello di una mediazione. Sanzioni dell'Occidente, dimostrazioni provocatorie di forza da parte di Ahmadinejad, portaerei che si muovono nel Risiko solito, sempre dalle parti dello Stretto di Hormuz. E poi gli attentati agli scienziati, appunto. E infine le notizie che si pensa non siano collegate, e che invece hanno comunque qualche aggancio con quello che potrebbe (o non potrebbe) accadere tra Israele e Iran. Compresi, solo per fare l'esempio più eclatante, anche i recenti cambiamenti nel più stretto circolo attorno al presidente Barack Obama, dove il capo di gabinetto William Daley ha lasciato dopo appena un anno, lasciando il posto a Jack Lew. A mettere insieme Casa Bianca e questione iraniana, in questo caso, è la riflessione nei circoli ebraici americani riportata dal Jerusalem Post.


There had been speculation in the organized Jewish community about whether Obama would fill a top spot with someone close to the Jewish community after the departure last month of Dennis Ross, who had been Obama's top Iran policy adviser.


Cosa potrebbe significare, allora, l'arrivo di Lew, ebreo ortodosso, vicino a Obama? Un modo per ricucire con una parte della comunità ebraica americana, certo. Soprattutto, però, le indiscrezioni del Jerusalem Post sembrano indicare che l'amministrazione Obama non aveva la medesima opinione dei modi da usare per contenere il programma nucleare iraniano. Gli americani non sarebbero, insomma, per l'opzione militare, come ha fatto chiaramente intendere, più volte, il segretario alla difesa Leon Panetta.


L'Iran ha indicato per la prima volta in Israele il mandante dell'assassinio dello scienziato nucleare, vittima dell'esplosivo collocato sotto la sua macchina. Una lettura secondo la quale Israele sembra un tutto omogeneo, pronto alla guerra. Così non è, almeno per ora. Perché a occuparsi della crisi iraniana è il governo. Mentre il paese non è solo percorso da un'ondata radicale, religiosa (come dimostra la questione dell'emarginazione delle donne arrivata in superficie nelle scorse settimane) e politica (come mostrano le violenze sempre più diffuse dei coloni ai danni dei palestinesi). Israele sta assistendo anche a cambiamenti politici che non devono essere sottovalutati. Simboleggiati da due uomini molto diversi tra loro, che hanno – però – un importante punto in comune: l'uso della comunicazione. Il primo è Yair Lapid, conosciutissimo volto della televisione israeliana. Si è dimesso dal Canale 2 per buttarsi in politica, ancora una volta in un one man show. Usa Facebook per fare politica, e nessuno ancora capisce quanto sarà importante, in una battaglia elettorale che – a questo punto – si preannuncia ravvicinata. L'altro nome nuovo della politica è, neanche tanto paradossalmente, un nome e un volto che si è imparato a conoscere anche oltre i confusi confini di Israele. Noam Shalit, il padre di Gilad, il soldato israeliano liberato pochi mesi fa nello scambio di prigionieri raggiunto tra Israele e Hamas.


Noam Shalit non è, come ha dimostrato nel suo pluriennale e incredibile sforzo di salvare il proprio figlio, un uomo che corre da solo. Ha percorso Israele a piedi assieme a migliaia di persone, due estati fa, per premere sul governo. Correrà per il partito laburista, in crisi di consenso. Un partito che ha appena affidato a una donna, Shelly Yachimovic, il suo possibile rilancio.


C'è chi, come l'anziano e acuto Shlomo Avineri, è molto critico per l'arrivo sulla scena politica di Lapid e Shalit. Entrambi, però, sembrano espressione di quella discesa in campo dei non-politici che ha segnato il 2011, non solo nei paesi arabi ma anche in Israele. In campo sono scesi anche alcuni dei protagonisti della 'protesta delle tende'. È la politica strutturata, cristallizzata a essere sul banco degli imputati, proprio nel momento in cui la politica strutturata e cristallizzata gestisce la crisi iraniana. Anche in questi nuovi volti della politica israeliana, forse, è possibile rintracciare un legame con quello che sta succedendo tra le varie cancellerie.


Per la playlist, Lucio Battisti cantato (in inglese) da Tanita Tikaram. And I think of you. Preferisco l'originale, ma non è poi così male.

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Published on January 11, 2012 23:10

January 9, 2012

25 gennaio. Ancora


E' più di un mese che, sul web egiziano, ci si prepara al 25 gennaio 2012. Non per celebrare un anniversario, anche se quella data è entrata come un macigno nell'immaginario collettivo di ogni egiziano. Di qualsiasi età. Cesura della storia del paese, qualsiasi cosa succeda in questi giorni e in queste settimane.


Questa immagine, una delle tante che gira in Rete, descrive bene il significato di un appuntamento a cui già hanno aderito molti. Ma non i Fratelli Musulmani, che stanno ottenendo la maggioranza relativa nei tre turni delle elezioni per la camera bassa egiziana. Uno dei motti dell'appuntamento del 25 gennaio 2012 è "proteggere la nostra rivoluzione". E' chiaro, cioè, che la partita si gioca tra chi la rivoluzione l'ha fatta in maniera attiva, da un anno, e chi – la giunta militare – sta guidando la transizione con quello che ormai si può definire un pugno di ferro.


La domanda è, certo,  chi vincerà. Ma anche: a quale prezzo. E soprattutto, ora, la domanda è: cosa vogliono fare coloro che erano a piazza Tahrir un anno  fa perché la rivoluzione si compia.


Nella playlist di oggi: Sally, Fiorella Mannoia.

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Published on January 09, 2012 15:59

January 6, 2012

Il fascino dietro un portale (e un'impalcatura)


Non è difficile immaginare il fascino di una chiesa imponente e malandata dietro una facciata di pietra arenaria, in cima a una scalinata. Basta solamente soffermarsi, e sovrapporre l'immagine delle migliaia di chiese italiane, piene di affreschi, orpelli, panche, candele, altari devozionali, marmi. La stratificazione della storia, sacra e sociale.


Se, però, si tolgono a uno a uno tutti gli addendi, come quando si vuota la casa per un trasloco, quello che rimane è l'essenza. Non solo lo scheletro di un luogo. Ma la vera e propria essenza. È quello che mi è successo entrando nella Chiesa Matrice di Sambuca di Sicilia. Luogo che amo, e dal quale parte il blog dell'anno 2012, l'"anno quarto" di questo diario virtuale.



La Chiesa Matrice, la più importante di un paese che ha visto nel corso di oltre un millennio alti e bassi, fasti e dolori, è in uno stato di abbandono dopo  il terremoto che colpì il Belice il 15 gennaio del 1968. Le impalcature coprono quasi del tutto la vista della cupola, ma non il grande e bell'affresco che sovrasta l'abside. Tubi Innocenti velano gli stucchi azzurri e bianchi che introducono al Santissimo, mentre la pioggerellina che riesce a penetrare dall'alto soffitto crea uno strano effetto vicino agli altari gentilizi in marmo che fanno immaginare la ricchezza del tempio. Solo qualche piastrella di ceramica è rimasta, a far immaginare il pavimento dell'abside, mentre le due file di colonne segnano ancora le tre navate, imponenti. E segnano, ora, il vuoto. Nessuna panca, terriccio e sassolini al posto della pavimentazione. Il vuoto che rende ancor più enorme il volume di una chiesa che doveva essere solenne.



La sensazione prima, però, non è quella di desolazione. Anzi. È, al contrario, una sensazione che premia l'essenza del luogo, e che lascia spazio a una ricostruzione (storica e immaginaria a un tempo) di quello che quella chiesa ha rappresentato. Riti, messe, matrimoni, preghiere e chiacchiericci, ex voto e invocazioni, gioie collettive. La storia di una comunità, nel silenzio di una scatola di pietra arenaria.


E sotto, attorno alla Chiesa Matrice, un'altra storia, precedente. Quella della fortezza dell'emiro Zabut che fondò l'omonimo paese, poi ribattezzato Sambuca. La fortezza araba che dall'827 dopo Cristo dominava la rocca, e controllava territorio e commerci. Quelli dell'asse viario che da Sciacca portava a Palermo. Quella fortezza araba e il casale circostante sono le fondamenta della Chiesa Matrice, costruita quando – nella storia – ai dominatori arabi della "Seconda Andalusia" si sostituirono altri dominatori.


Le tracce sono tutte lì, evidenti, in bella mostra. Andrebbero studiate, restaurate, curate. Le tracce della fortezza e la Chiesa Matrice. Studiate, restaurate, curate. Ci vogliono soldi, ci vuole passione, e ci vuole un occhio più attento a quello che abbiamo di più caro. La nostra storia.


Il brano della playlist: Agnus Dei di Un'Ala di Riserva – Messa Laica per don Torino Bello,  di Michele Lobaccaro. Le voci sono di Franco Battiato e Nabil ben Salameh.


Chi ne vuol sapere di più, può cercare altre informazioni su Google. Di Sambuca. Della Chiesa matrice. Di Zabut.

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Published on January 06, 2012 21:26

December 25, 2011

@alaa libero. Buon Natale


E' andato direttamente dal carcere a piazza Tahrir. E tutto ha un senso. Alaa Abdel Fattah, blogger, dissidente, attivista, protagonista della rivoluzione del 25 gennaio assieme a tanti altri egiziani, è stato liberato oggi dalla prigione in cui era detenuto dalla fine di ottobre, in detenzione preventiva. In questa foto,  @alaa ha in braccio Khaled, il figlio nato pochi giorni fa, mentre il papà – Abu Khaled – era in prigione. Un figlio concepito da @alaa e sua moglie Manal Hassan dopo la rivoluzione del 25 gennaio, e chiamato Khaled in onore di Khaled Said, il ragazzo di Alessandria ucciso dalla polizia egiziana il 6 giugno del 2010.


Capita di Natale. Ed è un bel regalo. Mabrouk, ya Abu Khaled.

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Published on December 25, 2011 15:53

December 24, 2011

Revolutionary… Merry Christmas


Non so perché, ma quest'anno sono un po' allergica a fare gli auguri di buon Natale. Non per il Natale di per sé, che – anzi – diventa un appuntamento sempre più consolante. E' perché il Natale in Medio Oriente è, ogni anno di più, il Natale di Betlemme, del Muro, della cittadina che è diventata, circa duemila anni fa, la culla del cristianesimo e che, da anni, è sempre di più rinchiusa, triste e disperata. Un Natale  a Betlemme è un natale così diverso da rendere fisica la riflessione su due temi centrali: la solidarietà e, al tempo stesso, lo scandalo. La solidarietà che non ci fu, ai tempi, verso Maria e Giuseppe. Lo scandalo rappresentato da un neonato povero, simbolo della fragilità estrema, che sfida il potere.


Quest'anno non sono a Betlemme, come spesso ho fatto negli scorsi anni. Sono in Italia, in un'Italia in crisi, dove lo scandalo di un neonato povero dovrebbe, forse, essere così fisico come lo è ogni anno a Betlemme.


C'è, però, un altro scandalo, quest'anno. Ed è lo scandalo di quei ragazzi arabi che fanno la rivoluzione, e che pretendono non solo rispetto e dignità. Pretendono di essere amministratori del proprio futuro. In nome  di libertà e democrazia. Quanto scandalo, quanta follia…


Il mio Merry Christmas, col cuore, è tutto per loro.


Sono in vacanza. E dunque il blog è sempre nei miei pensieri, ma verrà aggiornato a corrente alternata. Stay tuned.


Playlist? A Nataleè meglio ascoltarsi i soliti, di fronte al camino acceso (c'è, e funziona anche bene…): Tom Waits, Coldplay, Ivano Fossati. Nell'ordine

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Published on December 24, 2011 16:32

December 20, 2011

Il nuovo bersaglio: Mohamed Hashem – update


Anche lui, al Cairo, è diventato un bersaglio. Mohammed Hashem, lo storico fondatore della casa editrice Dar Merit. Il governo appena designato dalla giunta militare avrebbe ordinato il suo arresto, dice Hashem, che ha dato incarico al suo avvocato – a sua volta – di denunciare i generali al potere. L'avvocato è un nome altrettanto noto dell'attivismo egiziano: Ahmed Seif, per cinque anni ospite delle galere egiziane come comunista, avvocato in prima linea per la difesa dei diritti civili, papà di Alaa Abdel Fattah.


E' ormai evidente, attraverso il caso Mohammed Hashem, che la giunta militare stia sferrando l'attacco ai nomi più noti e importanti della rivoluzione. Dopo l'arresto di Alaa Abdel Fattah, e dopo l'uccisione a colpi d'arma da fuoco (per mano ancora ignota) di sheykh Emad Effat, mentre partecipava alla manifestazione contro il governo, a Qasr el Eini. Ora tocca anche a Mohammed Hashem, l'editore che ha pubblicato tutta la nuova letteratura egiziana (compresa la primissima edizione del Palazzo Yacoubian di 'Ala al Aswany), tutti i romanzi e le opere teatrali dei giovanissimi scrittori, le poesie di Ahmed Fouad Negm, il più grande poeta di strada nonché padre di un'altra delle attiviste più note di Tahrir, Nawara Negm.


Il salottino fumoso di Mohammed Hashem, la sede di Dar Merit, ha ospitato tutti noi che siamo andati a curiosare negli scorsi anni, a downtown, tra le nuove tendenze che crescevano all'ombra del regime, contro il regime. Mi ci accompagnò, qualche anno fa, Ahmed Alaidy, uno dei più promettenti giovani scrittori. Il tipico salottino fumoso della dissidenza, divenuto – durante la rivoluzione del 25 gennaio – il rifugio per gli attivisti. Allora, come nelle scorse settimane. Un rifugio che Hashem non solo non rinnega, ma che considera un fiore all'occhiello: rifarebbe tutto ciò che ha fatto, compresa – questa è l'accusa – dare ai manifestanti qualcosa per proteggersi, come i tipici caschi anti-infortunio.


Ad accusarlo è stato niente di meno che un generale della giunta militare, Adel Emara, che in una conferenza stampa tenutasi lunedì ha mostrato dei ragazzini che confessavano di essere stati aiutati da Mohammed Hashem. Ragazzini che si trovavano a Qasr el Eini, dicono. Un altro generale, Abdel Moneim Kato, aveva  detto che i manifestanti dovevano essere messi nei forni, come aveva fatto Hitler… Generale in congedo, consulente della giunta per le pubbliche relazioni.


Si capisce, dunque, perché Mohammed Hashem possa far paura. Come molti altri. E come molte altre. A scendere in piazza, oggi, sono state le donne, per denunciare quello che hanno fatto i soldati, e che per anni ha fatto la polizia egiziana. In mano, le riproduzioni della foto che ha fatto il giro del mondo. La blue bra woman, la ragazza dal reggiseno azzurro, trascinata, pestata e denudata. Erano migliaia. E la speranza è che,  ancora una volta, siano le donne egiziane a proteggere e salvare questa rivoluzione. Le donne che manifestano e quelle come S., che in obitorio vi ha passato ore ed ore, a vedere sfilare i cadaveri della battaglia di Mohammed Mahmoud, per raccogliere prove e poterle usare in un processo contro i responsabili. Lo racconta Mahmoud Salem, e cioè Sandmonkey, nel primo post dopo due mesi. E come sempre, è un racconto lucidissimo di quello che sta succedendo in Egitto. Lucido, triste. E' una di quelle analisi che non si può non leggere.


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Published on December 20, 2011 16:21

December 19, 2011

Da Havel a Tahrir. Il potere dei senza potere


Per chi ha amato l'Europa dell'est che diede vita alla rivoluzione del 1989, Vaclav Havel era l'autore del Potere dei senza potere, il samiszdat che segnò una intera generazione di dissidenti. Da Varsavia a Praga, passando per Budapest. Per chi ha amato la grande cultura dell'opposizione politica euro-orientale, Vaclav Havel non è stato tanto l'ultimo presidente della Cecoslovacchia, ma una delle più alte espressioni di una opposizione individuale che sfida carcere e omologazione. Senza grandi clamori, e senza incensarsi.


Per chi ha amato quella storia, c'è una urgenza che ricorre sempre, e ovunque. L'urgenza di difendere i Vaclav Havel, gli Janos Kis e i Gyorgy Konrad, gli Adam Michnik ovunque si trovino. E qualunque età abbiano. Perché la chiave è sempre quella che Havel aveva descritto magnificamente parlando del suo fruttivendolo e di quel gesto scandaloso, da parte di un semplice commerciante di frutta e verdura: staccare dalla parete uno slogan di regime. Ma come? E' così rivoluzionario togliere uno slogan di regime dalla parete? Certo. Rompe l'omologazione, e così – con questo semplice gesto – rompe il gioco.


The system, through its alienating presence ín people, will punish him for his rebellion. It must do so because the logic of its automatism and self-defense dictate it. The greengrocer has not committed a simple, individual offense, isolated in its own uniqueness, but something incomparably more serious. By breaking the rules of the game, he has disrupted the game as such. He has exposed it as a mere game. He has shattered the world of appearances, the fundamental pillar of the system. He has upset the power structure by tearing apart what holds it together. He has demonstrated that living a lie is living a lie. He has broken through the exalted facade of the system and exposed the real, base foundations of power. He has said that the emperor is naked. And because the emperor is in fact naked, something extremely dangerous has happened: by his action, the greengrocer has addressed the world. He has enabled everyone to peer behind the curtain. He has shown everyone that it is possible to live within the truth. Living within the lie can constitute the system only if it is universal. The principle must embrace and permeate everything. There are no terms whatsoever on which it can co-exist with living within the truth, and therefore everyone who steps out of line denies it in principle and threatens it in its entirety.


Per Havel, vivere nella verità è di per sé il vero atto rivoluzionario (il testo de Il potere dei senza potere si può leggere interamente sul sito di Havel). Lo stesso, identico atto rivoluzionario compiuto anche in questi giorni dagli attivisti di Piazza Tahrir. E' per questo, per questa insistenza sul valore della verità e dei diritti, che ho sempre pensato a un legame ideale tra la dissidenza euro-orientale e i dissidenti-blogger arabi. Per questo penso alla produzione culturale politica dei blogger come fossero dei samiszdat elettronici. Nuovi strumenti tecnologici, nuova agora virtuale, ma la stessa necessità di una rivoluzione morale prima ancora che politica.


any existential revolution should provide hope of a moral reconstitution of society, which means a radical renewal of the relationship of human beings to what I have called the "human order," which no political order can replace. A new experience of being, a renewed rootedness iu the universe, a newly grasped sense of higher responsibility, a newfound inner relationship to other people and to the human community-these factors clearly indicate the direction in which we must go.


Vaclav Havel era un idealista? Alaa Abdel Fattah è un idealista? Non mi è mai piaciuta, questa parola. Sia Havel sia Abdel Fattah non possono fare a meno della verità. Vivere nella verità è ineluttabile, non è idealistico. Ci vuole solo coraggio, e un po' della pazzia dei jongleur.


Nella foto, dei tempi della dissidenza, Vaclav Havel è assieme a Adam Michnik. Se volete saperne di più, cercate su Google.

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Published on December 19, 2011 08:42

December 17, 2011

Chi molesta le donne arabe?


Ai difensori della democrazia, della dignità, dei diritti delle donne che in Occidente si sbracciano le vesti perché hanno paura dell'islam politico montante nel mondo arabo, faccio una sola, semplice domanda: chi è che molesta le donne arabe? Questa foto è stata scattata al Cairo, ieri.

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Published on December 17, 2011 16:44

Ma quali "controrivoluzionari" d'Egitto…


Difficile credere che sheikh Emad Effat fosse un 'controrivoluzionario'. Come, invece, vorrebbe far credere il premier egiziano Ganzouri, l'ultimo designato dalla giunta militare che – ormai con pugno di ferro – sta governando l'Egitto del post-Mubarak. Ganzouri oggi ha detto che chi ieri era sulla via Qasr el Eini, una delle arterie principali del centro del Cairo, era un controrivoluzionario, e non rappresentava affatto i rivoluzionari di Tahrir. Lo ha detto Ganzouri, premier negli anni Novanta, nell'era Mubarak, all'indomani degli scontri di Qasr el Aini, di fronte alla sede del governo e a quella del parlamento. Il bilancio delle vittime degli scontri di ieri è di otto morti, e centinaia di feriti. Morti e feriti dopo la repressione che stavolta non ha visto protagonista la polizia egiziana, bensì i militari. Che, per combattere i manifestanti del sit in pacifico di fronte alla sede del governo hanno usato bastoni, pietre lanciate dai tetti, e – si dice – proiettili.


E' stato un proiettile a uccidere sheikh Emad Effat, ieri. Colpito al cuore, dice la cronaca, perché un colpo è arrivato da sinistra e l'ha preso al petto.


Era a Qasr el Eini, ieri. Ma non era lì per caso, come all'inizio hanno detto le autorità, smentendo che fosse stato ucciso. E invece, ancora una volta, a confermare che sheikh Emad fosse là sono stati gli attivisti di Tahrir, che hanno postato sulla Rete foto e video. Sconcerto, e a consolare i familiari è arrivato anche il mufti Ali Gomaa.



Oggi, il 52 sheikh di Al Azhar è stato seppellito, dopo il funerale che si è tenuto nel cuore della Cairo islamica, e nel più importante centro teologico dell'intera sunna,  di tutto il pianeta sunnita. Sheikh Emad Effat non era uno studioso qualunque, e non solo perché apparteneva ad Al Azhar. Era il segretario generale dell'ufficio delle fatwa, degli editti di carattere religioso. Non solo. Era anche a capo dell'ufficio del mufti d'Egitto, Ali Gomaa, e cioè la più importante autorità religiosa a livello nazionale.


Questo uno dei motivi per cui oggi pomeriggio, ai suoi funerali e alla sua sepoltura, hanno partecipato migliaia di persone. Ma non il solo motivo. Alle esequie c'erano anche attivisti di Tahrir, e non per forza islamisti. Sheikh Emad era ritenuto uno degli sheikh moderati di Al Azhar. Uno che aveva partecipato alla rivoluzione sin dalla prima ora, spogliandosi della veste che in genere portano gli azhariti, proprio per non mettere in imbarazzo l'istituzione perché lui era a Tahrir. Non solo: sheikh Emad, il 23 ottobre scorso, aveva emesso una fatwa vietando di votare alle elezioni per gli esponenti del vecchio partito di Mubarak, lo NDP. Una fatwa che aveva in certo modo reso più debole una decisione presa in sede giudiziaria, per reinserire i membri dello NDP nel gioco elettorale.


Chi ha ucciso sheikh Emad Effat, ed è una mano ancora ignota, non sembra aver colpito nel mucchio. Sheikh Emad era un nome importante. Come importante, per piazza Tahrir, è Alaa Abdel Fattah, che è ancora in galera dopo 45 giorni di detenzione preventiva, mentre tutti gli altri accusati per un presunto coinvolgimento nella strage di Maspero sono stati liberati. Tutti meno Alaa Abdel Fattah.


Il caso di sheikh Emad non è solo lo specchio che quello che ha detto oggi il premier Ganzouri non ha riscontri nella realtà degli scontri di Qasr el Eini. "Mi sembra di stare in una realtà kafkiana", scriveva oggi su twitter uno degli intellettuali della vecchia opposizione, Hani Shukrallah, dopo aver ascoltato le parole del primo ministro. L'uccisione di sheikh Emad dice anche qualcosa di più di quello che sta succedendo in questi ultimi giorni, e in queste ultime ore al Cairo, dove il bagno di sangue sembra una ipotesi – purtroppo – sempre più plausibile. Tahrir è il bersaglio, e questo era apparso sempre più chiaro nelle ultime settimane. Perché Tahrir – come ha scritto recentemente 'Ala al Aswani – mostra che il re è nudo, e che la controrivoluzione è in corso e usa gli stessi vecchi mezzi del regime Mubarak. Come distruggere le attrezzature di Al Jazeera, pestare a sangue i manifestanti, trascinare le ragazze per i capelli.


Dal punto di vista politico, nelle ultime settimane il gioco è stato molto delicato: imporre ai partiti che partecipavano alle elezioni un compromesso sulla costituzione che facesse delle forze armate il controllore, come le forze armate turche avevano fatto da gestori del vero potere prima che arrivasse Erdogan. Il gioco non ha funzionato, al Cairo, perché la storia non si ripete: persino i Fratelli Musulmani si sono trovati a disagio, cercando di coniugare il confronto con la giunta militare e la necessità di andare comunque alle elezioni. Ora la giunta militare si sente sempre più accerchiata, e sa che non potrà gestire fino in fondo la politica estera e di sicurezza del paese, perché tutto rimanga come prima. Le elezioni ci sono state, i partiti islamisti stanno ottenendo una vittoria evidente a tutti, ed è molto improbabile che possano accettare di vivere e operare in una democrazia di facciata, in cui siano i militari ad avere l'ultima parola, non solo sul bilancio della difesa.


E dunque? E dunque si rischia una deriva algerina. Un coup bianco per evitare che di rendere operativo ciò che le urne stanno decretando: l'ascesa al potere dell'islam politico, che non piace a molti in Occidente. Anche se quei molti, in Occidente, spesso non sanno neanche cosa sia l'islam politico, e in quali tanti modi lo si declini in Egitto.  Intanto, a morire, sono quelli che si trovano a Tahrir, a downtown, a Qasr el Eini. E la vulgata dice che la popolazione (quale? Dove? Di quale età? Appartenente a quali ceti? Mah) ormai non sostiene più i ragazzi di Tahrir, perché bisogna tornare al lavoro, la crisi economica incalza. Un gioco ben riuscito, quello di chi ha sostenuto la controrivoluzione: l'instabilità crescente, l'insicurezza, perché la gente si stancasse della rivoluzione. E' l'ultimo regalo del vecchio faraone Mubarak, che in uno dei 3 discorsi pronunciati durante la rivoluzione disse che non se ne poteva andare, non si poteva dimettere, perché senza di lui il paese sarebbe precipitato nel caos…


Colonna sonora: Koeln concert, Keith Jarrett. Nella foto rielaborata, è sheikh Emad Effat. E' passato un anno esatto da quando Mohammed Bouazizi si diede fuoco nel paese tunisino di Sidi Bouzid, innescando simbolicamente rivoluzioni che già covavano da anni nel cuore degli arabi. Oggi però, guardando ciò che succede al Cairo, sull'anniversario dell'anno più importante per gli arabi degli ultimi decenni è calata una coltre di profonda, profondissima tristezza.

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Published on December 17, 2011 16:05