Paola Caridi's Blog, page 109

August 25, 2011

Elisabetta e i rischi di un mestiere


La mia amica cara Elisabetta Rosaspina è stata rapita in Libia, ieri. Non è la prima volta che succede, a miei amici (colleghi), di essere rapiti in zone di guerra. Francesco Battistini. E nella stessa occasione, in Iraq, Toni Fontana, uomo coerente e buono, morto proprio un anno fa, troppo presto. Di primo acchito, tutti noi giornalisti (di cose estere) rispondiamo allo stesso modo: con la freddezza di chi  pensa che 'episodi' come questi facciano parte dei rischi del mestiere, e con la razionalità di chi cerca veramente di capire cosa sia successo e cosa potrebbe succedere. Zone di crisi, conflitti, significano abbassamento repentino della soglia di sicurezza, se si vuole realmente vedere ciò che succede, e non farselo raccontare da altri. La freddezza, però, è anche un  gran difesa, una bella corazza: non ci si abitua mai all'idea che il rischio possa colpire. Così. Anche Elisabetta e gli altri colleghi che ieri sono stati fermati, rapinati, rapiti, e hanno probabilmente assistito alla morte dell'autista libico che li stava accompagnando.


Elisabetta è una gran donna, una professionista di calibro, un'ottima penna, e una bella persona. E non è una donna che rischia inutilmente, una scavezzacollo. Sa fare il suo mestiere di inviata nei teatri più particolari – guerre comprese – da anni. Non è una ragazzina, nonostante il suo viso dolce nasconda anni e anni di esperienza di cronista, sempre testardamente umile. È una professionista che gli altri giornalisti temono, in fondo, perché sa dare – come si dice in gergo – dei sonori buchi, sempre con la sua gentilezza innata. Non è una giornalista che sgomita, è in un certo senso una signora di altri tempi, stimata profondamente da tutti.


Ho elencato tutte le doti di Elisabetta non solo per dire che i rischi colpiscono anche coloro che mettono in campo tutte le dovute cautele, quando si trovano in zone di crisi. Ma anche per dire che ci sono (ancora) giornalisti che fanno il proprio mestiere. E il proprio dovere. I rischi fanno parte di quel bagaglio col quale si prende un aereo, e poi una macchina guidata quasi sempre da un autista locale, e si va. A vedere. E a scrivere quello che si vede, a uso e consumo di un pubblico che – in questi ultimi anni – è stato abituato purtroppo anche (se non soprattutto) ad altro tipo di giornalismo. Lo dico con tutta la laicità e la freddezza – appunto – del caso. Senza troppa retorica e senza essere bruciata dal  sacro mito degli inviati di guerra, che non mi tocca. Lo dico, però, per mettere ognuno al proprio posto. Compresi i giornalisti che, per fortuna vostra, continuano a fare il proprio dovere.


Stamattina, mentre pensavo di scrivere queste righe su Elisabetta, ho sfogliato 'virtualmente' Haaretz, e ho letto l'ultimo articolo di Amira Hass. Un'altra giornalista, donna (ma questo non è dirimente) di quelle che vanno e vedono. Pone dubbi sul fatto che palestinesi siano gli autori degli attentati nel Negev nel 18 agosto. Gli stessi dubbi che ho posto a una persona che, ieri, ne parlava dando per assodati modalità e autori di un attentato ancora dai contorni oscuri. Gli ho detto che non si era sicuri, e che dare per scontato che fossero palestinesi, e per giunta di Gaza, era una delle ipotesi. Non una certezza. Amira Hass si pone lo stesso dubbio con una frase che ho trovato perfetta, per capire chi conosce la realtà perché l'ha visto, e chi no.


The absence of mourners' tents reinforces the general sense in the Strip that the perpetrators of the attack were not from Gaza, contrary to Israeli defense establishment claims.



L'assenza di tende per ricordare i defunti rafforza la credenza generale nella Striscia che gli autori dell'attacco non provenissero da Gaza… Può sembrare un dettaglio, ma non lo è, per chi conosce la Striscia. Il lutto, il ricordo dei defunti anche in absentia, il dolore condiviso dei familiari è elemento ineludibile, nella vita palestinese, soprattutto in quella di Gaza. È successo a tutti quelli che sono stati a Gaza di vederlo, quel lutto e quel dolore condiviso, e magari di lasciare quel ricordo lì, nei recessi della mente.  Amira Hass, invece, lo trasforma in uno dei pezzi della sua competenza su Gaza, giustamente, e si chiede: ma siamo proprio sicuri che gli autori siano palestinesi? La domanda consequenziale è: se non erano palestinesi, o se non si era sicuri che lo fossero, perché Israele ha subito scatenato la rappresaglia su Gaza?


Amira Hass ed Elisabetta Rosaspina hanno in comune molto. Vanno, vedono, scrivono. Soprattutto, si pongono laicamente domande. Rischiano. Mai inutilmente, mai per scariche di adrenalina, mai per amore del rischio di per sé.

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Published on August 25, 2011 06:17

August 23, 2011

Salvare Camp David?


Sul pessimo stato di salute degli accordi di pace di Camp David, che hanno protetto per oltre trent'anni il fronte sud di Israele, ho scritto un articolo per il Fatto Online. Così come ho già fatto negli scorsi giorni, sempre sulla questione israelo-palestinese e sull'Egitto.


Nedlla foto tratta da Bikyamasr, Ahmed el Shashat, il flagman egiziano, l'ultimo eroe della rivoluzione del 25 gennaio, divenuto tale dopo aver sostituito in cima al pennone la bandiera israeliana con quella egiziana. La discussione, tra i ragazzi di Tahrir, è sulle modalità di opposizione alla politica israeliana. Non con gesti violenti, ma duramente simbolici.




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Published on August 23, 2011 18:27

August 22, 2011

Spigolature, tra Gaza e Tripoli


Al Jazeera International continua a coprire la caduta di Tripoli in modo estremamente professionale. inviati sul campo, riflessioni di analisti, etc etc. Come la tv italiana, suppergiù. Eppure, la Libia ci dovrebbe interessare, visto il nostro passato mai risolto, mai affrontato, mai smontato e ricostruito. Oggi – lo ammetto – non riesco a essere molto buonista. E allora è meglio che, invece di dire la mia, consigli qualche spunto di riflessione scritto da altri. Multilingue, è vero, ma Google traduttore può aiutare chi ne ha bisogno.


§ La domanda, da ore (ma direi da mesi), è se l'opposizione libica a Gheddafi saprà governare il paese. L'incubo islamista è già stato messo davanti a tutti, dai soliti soloni che per anni, di Gheddafi, del suo regime, dei suoi misfatti, non si sono occupati. Tant'è. Per leggere qualcosa di molto più interessante, basta collegarsi con arabist, e scorrere le domande che si pone Steve Negus (che di Medio Oriente ci capisce molto). Per chi conosce il tedesco, c'è un'analisi del SWP di Berlino, centro studi tra i più qualificati d'Europa, che mette in guardia proprio dal voler influenzare troppo i libici: la transizione dev'essere libera, autonoma, fuori dalle nostre griglie.


§ E' la rivoluzione, bellezza, e non ci puoi far niente. Il Secondo Risveglio Arabo è in atto, e non si può tornare indietro. Non ce lo dice solo quello che sta succedendo a Tripoli (con tutte le profondissime contraddizioni del caso libico e dell'intervento occidentale). Ce lo dice soprattutto la pubblicità, che delle rivoluzioni si è già appropriata, come spiega Yves Gonzales Quijiano nel suo splendido blog. Che il business si fosse accorto della portata epocale del 25 gennaio al Cairo, per esempio, era evidente nella cartellonistica pubblicitaria nell'asse viario che conduce al Nilo e a downtown, dalla periferia. Cartellonistica sostituita in un batterbaleno, tutta rigorosamente in nero, rosso e bianco, il tricolore egiziano…


§ E che le equazioni son cambiate, lo si vede anche da quello che alcuni opinionisti israeliani dicono in queste ore. Anche prima della caduta di Tripoli. Un esempio? Hanoch Daum, opinionista non certo di sinistra di Yediot Ahronot, che oggi sconsiglia caldamente un intervento militare di terra su Gaza, per evitare che gli arabi si compattino proprio sul destino della Striscia.


the last thing Israel needs at this time is to enable the whole Arab world to unite. The last thing Israel needs now is to allow the Arab world to divert the discussion away from Syrian President Bashar Assad's despicable acts against his own countrymen and direct it at IDF troops operating in Gaza.Arab citizens in the region are rising up and seeking freedom, and we should allow this process to continue. A ground operation in Gaza at this time will also infuriate Egypt, bury the remaining chances of securing Gilad Shalit's release and provoke global criticism at a highly sensitive junction – September, ahead of the expected Palestinian declaration of independence and UN vote.


Per essere agosto, il potpourri è fin troppo affollato. E quindi mi fermo.  La foto è dei tempi in cui eravamo noi i colonizzatori in Libia, scattata dal nonno di uno dei miei più cari amici.


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Published on August 22, 2011 16:54

August 21, 2011

Tra Camp David e il Sinai


Ma allora, Camp David è moribonda? E che succede tra Egitto e Israele. Tra il Cairo e Tel Aviv succede che la caduta di Hosni Mubarak ha certamente cambiato le relazioni. Soprattutto, non c'è più un uomo, come il vecchio Mubarak, abile nel tentare di salvare se stesso, indicare suo figlio Gamal come successore e mettere sull'altro piatto della bilancia quella sorta di pace fredda che aveva sostenuto per decenni. Hosni Mubarak non era mai andato a Gerusalemme, come invece aveva fatto il suo predecessore Anwar el Sadat, ma aveva sempre rispettato gli accordi. Con una freddezza sufficiente a salvarlo da attacchi più duri di quelli che già riceveva. Negli ultimi anni, però, la questione della successione aveva reso il suo ruolo e quello del suo capo dei servizi di sicurezza, Omar Suleiman, sempre meno solidi. Perché assieme alla strategia egiziana sul conflitto israelo-palestinese, in gioco era entrata un'altra variabile, molto meno difendibile. La repubblica ereditaria da passare a Gamal Mubarak.


E' vero, l'opinione pubblica egiziana è in gran parte anti-israeliana. Ha spesso accusato il proprio governo di sottomettersi ai voleri dell'amministrazione americana. E dunque, questa era la lettura, ai voleri di Tel Aviv. A rendere ancora più instabile la posizione di Mubarak è arrivata anche quella stretta di mano con l'allora ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni, proprio alla vigilia dell'attacco delle forze armate israeliane contro Gaza. Dicembre 2008. La guerra dei 22 giorni, Piombo Fuso. E poi gli accordi sul gas tra Israele ed Egitto, sui quali pesano da mesi, se non da anni, indiscrezioni pesanti di tangenti che toccano la famiglia Mubarak così come alcuni dei businessman a loro più legati.


Questa lunga premessa è per spiegare come mai l'ultimo eroe egiziano è un uomo che ha tolto la bandiera israeliana dal pennone che la teneva, su in cima al palazzone di Giza, quasi di fronte allo zoo, dove si trova l'ambasciata israeliana al Cairo. Ieri notte si è arrampicato, immortalato dalle foto scattate e subito postate su twitter, dove lo rintracciate cercando il tag #flagman. Oggi ha anche tenuto una conferenza stampa. Al posto della bandiera israeliana ne ha messa una egiziana: la pressione dell'opinione pubblica non può essere ignorata, dal Consiglio Militare Supremo, che ha mostrato una freddezza mai vista sinora. Ma non siamo alla rottura degli accordi di Camp David. Siamo solo a una posizione molto più nazionalista di quella di Mubarak. I militari egiziani uccisi dagli israeliani che avevano sconfinato, il 18 agosto scorso, sono sei, secondo la stampa del Cairo. Sei morti, che si assommano ai soldati morti in questi anni lungo il confine. Ora non sembra che l'opinione pubblica egiziana voglia più accettare, da parte di chi gestisce il potere, di insabbiare alcunché. E' una delle ragioni per le quali non penso che ci sarà un attacco di terra da parte di Israele contro Gaza. Dall'altra parte di Rafah, confine meridionale della Striscia, c'è un altro Egitto.


C'è un bel reportage sul Sinai, su Al Masri al Youm. Firmato da Lina Atallah. Tanto per sottolineare – sempre – che la storia di questi ultimi giorni è molto più complessa, e che semplificare non serve a nessuno. A proposito, è molto probabile che la tensione sarà sempre più alta, nei prossimi giorni e settimane, man mano che si avvicinerà l'appuntamento al Palazzo di Vetro sul riconoscimento dello Stato di Palestina.


La foto è della collezione Matson, conservata nella Library of Congress.

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Published on August 21, 2011 16:52

August 19, 2011

Negev, e altro


In questa strana estate del 2011 ci eravamo abituati a non parlare del conflitto israelo-palestinese. Quando scrivo "noi" non intendo solo gli esperti, ma quella parte di opinione pubblica che getta un occhio fuori dal cortile di casa. L'attentato del Negev di ieri, la rappresaglia israeliana su Gaza, riportano di nuovo la discussione sull'uso del solo strumento militare e/o armato nel conflitto. Mi chiedo, però, se ha senso. Se ha senso descrivere ciò che sta succedendo da ieri come l'ennesimo episodio di uno scontro sempre uguale a se stesso. Il problema è che, nel frattempo, molto, se non tutto, è cambiato. E che è veramente di poco costrutto continuare a raccontare lo scontro nei termini (semplicistici) in cui lo si continua a raccontare. Un attentato, sicuramente è partito da Gaza, e l'unica possibile reazione – da parte di Israele – sono gli omicidi mirati, e cioè le esecuzioni extragiudiziali in corso. Dente per dente. Con le vittime collaterali che ci sono sempre, e che sempre meno spazio hanno nel racconto mediatico.


Mi chiedo ancora una volta: ha senso? La domanda retorica presuppone, per me, un secco no. Non ha senso. Non lo aveva prima e non lo ha tantomeno adesso. Un attentato (che Hamas dice di non avere compiuto, e in effetti non avrebbe avuto nessun interesse a farlo, con la riapertura della trattativa sui prigionieri in corso). Una rappresaglia (che non risolve i problemi di consenso interno che il governo Netanyahu sta sperimentando nelle ultime settimane, con la protesta delle tende). E attorno? Attorno c'è talmente tanto da rimanere senza fiato.


C'è la Siria, con l'isolamento sempre più evidente di Bashar el Assad, con la presa di posizione secca dell'amministrazione Obama, che gli chiede di dimettersi, di fare un passo indietro. C'è il Libano, con l'accusa diretta da parte del Tribunale internazionale  a quattro membri di Hezbollah di essere implicati nell'assassinio di Rafiq Hariri: il rischio impellente di una spaccatura del paese è l'incubo di tutti, e solo noi non ce ne rendiamo conto, anche se in Libano abbiamo i nostri soldati. C'è l'Egitto, con il braccio di ferro tra i ragazzi di Tahrir e il Consiglio Militare Supremo, simboleggiato dal processo (rapidissimo) ad Asma Mahfouz, che col suo video chiamò a raccolta l'opposizione giovane a piazza Tahrir, una settimana prima del 25 gennaio. C'è tutto questo, e basta sintonizzarsi su Al Jazeera International per vedere tutto questo raccolto nei titoli di testa. Ben diversi dalle prime notizie elargite dalla stampa italiana.


E anche se volessimo rimanere nei dintorni del Negev, gli ingredienti di questa estate sono così diversi da mostrare con nettezza che il vocabolario del conflitto è già cambiato. Lo dicono i trecentomila di Tel Aviv, nella manifestazione del 6 agosto contro la frattura sociale, il depauperamento della classe media e del welfare. Lo dice quella macchina diplomatica ormai in corsa che ha già detto che lo Stato di Palestina è in progress. Che sia stato o meno, nei mesi scorsi, un semplice ballon d'essai dell'Autorità Nazionale Palestinese di Ramallah.


Benvenuti nel nuovo Medio Oriente, che ha bisogno – oggi più che mai – di analisi complesse.


Questa è, per esempio, la percezione che si ha in Libano della rappresaglia su Gaza: l'editoriale sul Daily Star.


La colonna sonora di questo post è un brano di Paolo Fresu, Passalento.


La foto è dell'area di Ein Netafim, a circa trenta chilometri dalla cittadina meridionale di Eilat, dov'è avvenuto l'attentato.

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Published on August 19, 2011 18:04

August 17, 2011

Stadi da brivido


Wikimedia riporta diligentemente una foto dello stadio di Latakia. Un'immagine innocente a suo modo innocente, che stride con quel poco che filtra da tre giorni, da una Siria sempre più blindata, su quello stesso campo di calcio. Uno stadio usato come un centro di detenzione, dove sono state raccolte centinaia di persone. Molte – sembra – palestinesi. Sunnite, dunque, in una città come Latakia, che nella storia siriana rappresenta uno dei dentri del potere alawita. In termini attuali, il potere degli Assad. Dopo il cannoneggiamento della città dal mare, i carriarmati per le strade, ora anche lo stadio trasformato in un carcere.


Per la mia generazione, uno stadio-prigione è uno di quei ricordi da brivido. Cile, Pinochet, tortura e morte. Per la Siria, è solo l'ultimo, l'ennesimo atto di un regime che – dal 15 marzo – pensa di poter salvare se stesso solo attraverso una repressione sempre più sanguinosa e tragica. Una cupio dissolvi che può solo risolversi in un modo: la caduta del regime. Impossibile che il regime possa salvare se stesso dopo oltre duemila morti, i carriarmati e i detenuti nello stadio.


Nel frattempo, lo stato maggiore di Hamas è arrivato – da ieri – al Cairo. Si dice perché il dossier sui prigionieri (la liberazione del caporale israeliano Gilad Shalit in cambio della liberazione dalle carceri israeliane di centinaia di detenuti palestinesi) è stato di nuovo riaperto, e le posizioni non sono più così distanti. Può darsi che sia vero: lo confermerebbero le dichiarazioni sia del ministro della difesa israeliano Ehud Barak sia quelle del rappresentante di Hamas in Libano, Osama Hamdan. Lo dimostrerebbe anche la presenza al Cairo di Ahmed Jaabari, il capo dell'ala militare di Hamas a Gaza. Assieme al dossier dei prigionieri, ci sarebbe però in gioco anche il trasferimento della leadership politica di Hamas dalla sempre più instabile Damasco a una sede meno traballante. Uno degli analisti israeliani, Alex Fishman su Yediot Ahronot, interpreta così la presenza al Cairo della delegazione ad altissimo livello guidata da Meshaal. Può darsi che sia vero anche questo, e cioè che il bureau politico di Hamas sia andato a contrattare un rifugio sul Nilo. Io resto però convinta che la leadership potrebbe decidere di non traslocare sic et simpliciter da una capitale araba all'altra, da Damasco al Cairo. Potrebbe, invece, suddividersi in gruppi, e ricollocarsi in diversi paesi, non solo arabi. Egitto, Qatar e Turchia.


Sul dossier dei prigionieri, poi, entrambi le parti in causa sono fragili. Da una parte Hamas. E dall'altra il governo Netanyahu, sottoposto al più potente attacco mai subito da un esecutivo israeliano, almeno nell'ultimo decennio. La pressione sociale è talmente forte che non mi stupirebbe se il governo guidato da Netanyahu decidesse di accettare un compromesso sulla lista dei prigionieri palestinesi da liberare, e diminuisse il numero di coloro che dovrebbero essere esiliati dal territorio palestinese. Riportare a casa Shalit sarebbe un successo importante, per un governo estremamente debole…


Stasera si parla di rivoluzioni arabe a Sambuca di Sicilia. All'incirca alle 21, alla Terrazza Belvedere, in cima ai Vicoli Saraceni. Tra foto, l'excursus della rivoluzione egiziana, i ricordi di Gabriella Nicolosi, che insegna italiano alla scuola italiana del Cairo e che era lì tra gennaio e febbraio.

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Published on August 17, 2011 16:08

August 4, 2011

Mubarak, la tv e la giustizia


Barella, sbarre, gabbia. Sono alcune delle parole chiave del processo a Hosni Muibarak, ai suoi figli, agli uomini a lui più vicini, iniziato ieri al Cairo. Il Faraone in barella, dietro alle sbarre di una gabbia. Un uomo vecchio, umiliato. Sarà pur vero, ma prima di pensare all'umiliazione di Mohammed Hosni el Sayyed Mubarak, accusato di essere il mandante delle almeno ottocento vittime della rivoluzione egiziana, bisogna pensare all'umiliazione subita per decenni dal popolo egiziano. Popolo fatto di individui che sono stati incarcerati molto spesso senza la minima garanzia, torturati nelle stazioni di polizia, processati senza le garanzie di cui gode Mubarak, imputati dietro quelle stesse sbarre su cui si è concentrata la telecamera della tv di Stato. L'unica a cui, ieri, è stato dato il permesso di filmare la prima udienza del processo.


Mi chiedo dove fossero i molti – politici e giornalisti occidentali – che parlano del vecchio Faraone umiliato e tradito, quando singoli individui senza il potere di Mubarak sono stati torturati, malmenati, uccisi. Senza la minima garanzia del diritto. La Rivoluzione poggia su questa umiliazione continua e continuata. Lungi da me sostenere la legge del taglione. Al contrario. Mi aspetto che Mubarak abbia i diritti che lui stesso ha negato ai cittadini egiziani. Mi aspetterei, da molti miei colleghi, la stessa empatia per quegli altri individui – invisibili – di cui ci si è dimenticati per anni. Salvo poi scoprire che potevano fare la rivoluzione, e buttare giù il dittatore. Il Faraone.


L'articolo (mio) qui sotto è stato pubblicato dai giornali locali del Gruppo Espresso-Repubblica.





"Lei è Mohammed Hosni el Sayyed Mubarak?" "Presente, Vostro Onore". Le poche parole pronunciate ieri mattina nell'aula-bunker dell'accademia di polizia al Cairo dall'ex rais egiziano sono già una suoneria per telefonini che i ragazzi egiziani scaricano da internet. La rivoluzione, sulle rive del Nilo, si traduce anche in questi che possono sembrare solo gadget, piccoli simboli, oppure sberleffi verso il potere. Per gli egiziani, invece, sentire Mubarak che risponde a un giudice vuol dire rendere concreto quell'incredibile cambiamento iniziato il 25 gennaio scorso. Se è vero, infatti, che Hosni Mubarak ha lasciato il potere e il Cairo poco meno di sei mesi fa, è altrettanto vero che la fine del regime non è ancora completa. Tutt'altro. Il singolare esilio a Sharm el Sheykh, prima nella sua lussuosa villa e poi in una suite dell'ospedale internazionale, ha sempre rappresentato un vulnus, una fragilità estrema per una rivoluzione popolare, diffusa e senza capi.


L'onnipotente Mubarak, l'ultimo Faraone, ha dovuto invece finalmente rispondere alla giustizia egiziana. Dire "Presente, Vostro Onore." Ascoltare i capi d'accusa assieme ai suoi due figli, odiatissimi nel paese, e al famigerato ministro dell'interno. Accusato di essere il mandante del sangue versato nelle tante Piazze Tahrir d'Egitto, di quei cecchini e di quei poliziotti che hanno ammazzato almeno ottocento persone. Moltissimi appena ragazzi. Sul suo volto, nessuna contrizione. Semmai – questa è la lettura dell'egiziano medio – la solita arroganza, di chi è stato abituato per decenni a controllare il più importante paese arabo con i poteri sostanziali di un dittatore. Nonostante fosse su di una barella, dentro la tipica gabbia dove in Egitto gli imputati seguono i processi penali, Mubarak non ha suscitato profondi sentimenti di pietà. La pietà riservata al rispetto per la vecchiaia, per un ultraottuagenario alla sbarra. Per gli egiziani, è un uomo che ha rubato, defraudato un paese.


E' per questo che il suo processo è un fatto di rilevanza storica. Una cesura non solo nella storia egiziana, ma in quella di tutto il mondo arabo. Una stagione, quella dei regimi sorti dai movimenti indipendentisti, che ha strangolato e oppresso popoli che non devono diventare democratici, ma lo sono già. Paradossalmente, poi, il processo è un punto a favore di Piazza Tahrir, sgomberata appena tre giorni fa dai familiari delle vittime dei cecchini e dei poliziotti che volevano fosse resa giustizia ai loro cari. L'esercito aveva riaperto la piazza-simbolo della rivoluzione al traffico, anche usando le maniere forti. La comparsa di fronte alla giustizia egiziana di Mubarak e di alcuni tra i suoi fedelissimi, rende la fine del suo regime un fatto compiuto, un punto dal quale ripartire per una transizione che – invece – è ancora confusa e soprattutto fragile.


Il dopo-Mubarak, insomma,  è iniziato veramente ieri, con il ritorno del rais al Cairo, come aveva chiesto Piazza Tahrir. E con la sua chiamata in correità, come capo di quel sistema di corruzione e autocrazia che ha umiliato e oppresso gli egiziani negli ultimi tre decenni. I rischi per una rivoluzione giovane – in tutti i sensi – sono però ancora molto alti. A partire dal ruolo del Consiglio Militare Supremo, che ha preso le redini del paese e della transizione. Le sue decisioni sempre più ambigue rendono difficile e complicato il periodo preelettorale. E a confondere le acque c'è il ruolo dell'islam politico – quello espresso dal vertice conservatore della Fratellanza Musulmana e dalla galassia salafita radicale – che venerdì scorso ha occupato Tahrir scalzando i 'ragazzi' che hanno reso la piazza famosa dal 25 gennaio in poi. Dopo Mubarak, dunque, comincia la nuova storia egiziana. Ed è tutta da scrivere.


La foto è una rivisitazione di Guebara, nell'album Support the Revolution.

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Published on August 04, 2011 11:30

August 1, 2011

Ramadan e Rivoluzione


Che strano ramadan, vero? Il più singolare da decenni, nel mondo arabo. Dal Cairo a Ramallah, da Hama a Bengasi. Che strano ramadan, quello che inizia oggi. In mezzo alle rivoluzioni, alle quasi-rivoluzioni, alle contro-rivoluzioni, alle richieste (legittime) di avere uno Stato.


Oggi, primo giorno di ramadan, a piazza Tahrir il sit-in che durava da settimane è stato disperso dall'esercito egiziano, che ha fatto togliere le tende e ha riaperto la piazza alla circolazione. L'intervento delle forze armate, a due giorni dall'apertura del processo (sempre al Cairo, all'accademia di polizia) a Hosni Mubarak e alla sua famiglia, arriva dopo la manifestazione imponente dell'islam politico proprio a Tahrir, nel cuore della rivoluzione del 25 gennaio. Imponente, soprattutto, la presenza salafita, di quei salafiti che – durante tutta l'era Mubarak – se n'erano invece stati zitti a casa, senza contestare chi governava. Senza contestare l'autocrate, perché al gioco di Mubarak erano funzionali, come ben ha descritto Alaa al Aswani. Ora, invece, i salafiti sono intervenuti pesantemente nella Repubblica di Tahrir. E più d'uno pensa che siano, di nuovo, strumento del regime. O della controrivoluzione.


A Hama, in Siria, è intervenuto un altro esercito, e con ben altri strumenti. Per il secondo giorno, ci sono morti, vittime, feriti della repressione sempre più dura da parte del regime di Bashar al Assad che, come scrive l'ultimo rapporto dell'International Crisis Group, sembra proprio stia compiendo un suicidio al rallentatore. Purtroppo, coinvolgendo il popolo e seminando morte.


A Qalandya, ai margini di Ramallah e del Muro di Separazione costruito dagli israeliani, è intervenuto un altro esercito all'alba, quello di Tel Aviv. Due i morti, uccisi durante un raid delle forze armate israeliane nel campo profughi. Uno era uno studente della facoltà di giornalismo dell'Università Araba di Gerusalemme. Scontri anche ai funerali, nel pomeriggio. Appena due giorni fa, almeno 150mila israeliani erano sfilati per le strade di molte città per chiedere welfare, sanità, case ad affitti più contenuti, servizi sociali. Che lo Stato, insomma, si concentri sul popolo, piuttosto che concentrarsi sulla sicurezza. Non sono passate neanche 48 ore. L'esercito israeliano è intervenuto a Qalandya e al confine con il Libano (una scaramuccia con l'esercito libanese, e non si sa chi ha provocato chi…).


Che dire? Che è uno strano ramadan. Il più singolare da decenni. Macchiato di sangue. Ma anche di uno spirito rivoluzionario che difficilmente potrà rientrare nei ranghi, e nei parametri finora usati.


Nella foto, dall'album Flickr di Nora Shalaby, i familiari delle vittime della Rivoluzione del 25 gennaio continuano a chiedere giustizia, dopo che il loro sit-in a Piazza Tahrir è stato disperso dall'esercito, oggi, primo giorno di Ramadan.

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Published on August 01, 2011 18:23

July 28, 2011

In memoria di MOnsignore


Lo chiamavamo così. Monsignore. In famiglia, tra i suoi amici. Monsignore. Monsignor Pietro Sambi, nunzio apostolico a Washington. E' morto ieri sera, in un ospedale di Baltimora, negli Stati Uniti, per le complicazioni di una delicata operazione al polmone.


Era uno dei migliori diplomatici italiani. Non solo vaticani. Un grande diplomatico, un uomo chiamato – nel corso degli anni – a lavorare in situazioni delicate, perché in quelle situazioni c'era bisogno di chi aveva, tra le pieghe del suo sorriso sempre pieno, l'abilità di un ambasciatore di polso. Aveva cominciato, non a caso, a Gerusalemme, con Pio Laghi. Era passato attraverso quella che riteneva un'esperienza fondativa, come la nunziatura apostolica a Cuba. Era stato inviato in Nicaragua a riaprirla, la delegazione apostolica, quando la pista dell'aeroporto di Managua era ancora parzialmente in disuso. Era stato inviato in Burundi, pochi anni prima del cambio di sistema politico, dell'arrivo al potere degli hutu e dello scoppio della guerra civile. Ricordava spesso che colui che fu presidente per pochi mesi, in Burundi, Cyprien Nataryamira, prima di essere ucciso nell'attentato che nel 1994 diede la stura alla guerra civile ruandese e burundese, lo aveva chiamato, quando era stato designato, dicendo a monsignor Sambi "Si ricorda di me? Ero uno studente, quando l'ho conosciuta…".


Era stato in Indonesia, sino al momento della fine del regime di Suharto e della rivoluzione indonesiana. Ricordava di averlo incontrato, e di avergli consigliato un passo indietro, proprio per facilitare la transizione. Era poi ritornato a Gerusalemme, nel 1998. Aveva preparato la difficile e delicata visita di Giovanni Paolo II a Gerusalemme. Visita molto più difficile di quella compiuta, poi, da Benedetto XVI. E di quella visita, amava ricordare quando il Papa, fuori da tutti i protocolli, volle ritornare al Calvario. Era un uomo malato, Giovanni Paolo II, e chi conosce Gerusalemme conosce anche quei gradini che portano al Golgota. Alti e difficili per un giovane. Dopo aver superato tutte le diffidenze della sicurezza israeliana per una visita fuori protocollo, monsignor Sambi accompagnò il pontefice, e disse di averlo visto come circondato da un'aura, mentre saliva quei gradini, con una forza che nessuno avrebbe potuto prevedere.


Era stata una visita difficile, quella. Il pontefice e Yasser Arafat, entrambi affetti dal morbo di Parkinson, assieme, per mano, in un campo profughi di Betlemme. Quei profughi, praticamente tutti musulmani, si recarono, dopo la morte di Giovanni Paolo II, alla Basilica di Natività. Per rendere omaggio al Pontefice. "Lui era venuto da noi. E noi ora andiamo da lui, per rendergli omaggio", dissero a monsignor Sambi. Vide la costruzione del Muro di Separazione, fece quello che poteva per salvare conventi e proprietà da quella ferita di cemento che si stava incuneando sulla terra palestinese. Non aveva paura di essere critico nei confronti di Israele, mantenendo tutta la sua capacità diplomatica. Un uomo che, nella riunione dei consoli europei a Gerusalemme, è mancato moltissimo, quando è stato promosso e inviato a Washington.


Poco prima della sua partenza, ci incontrammo in un luogo che descrive bene la sua conoscenza degli uomini e dei posti in cui viveva. Il barbiere. Un barbiere musulmano, nel cuore di Gerusalemme est. Il 'nostro' barbiere. Gli feci i complimenti, per la sua nomina negli Stati Uniti. Lui mi rispose che "dopo Gerusalemme non c'è promozione, come disse il generale Allenby". Chissà se la citazione è giusta. Ma a me, francamente, non interessa tanto. Quella sua frase descriveva il suo attaccamento a Gerusalemme e alla Terra Santa, così come raccontava del suo lavoro, nascosto, dietro le quinte, che in pochi conoscono e che invece è continuato – a distanza – anche dopo il suo trasferimento a Washington. Il barbiere ha continuato per anni a chiedermi di Abuna Boutros, di Padre Pietro, come lui chiamava Monsignor Sambi. E mi chiedeva sempre di salutarlo, di mandargli il suo saluto affettuoso, a un uomo buono, a un uomo intelligente, a un uomo che stimava.


E' così, dal barbiere, che si fa il dialogo interreligioso e soprattutto si conoscono gli uomini. Monsignor Sambi lo sapeva bene, così come sapeva parlare con chi, invece, il potere ce l'ha. Era un uomo che leggeva, si informava, conosceva la realtà, interpretava la politica, non perdeva mai il contatto anche con la cronaca. Perché, e anche questo amava ricordarlo, era stato un insegnante di storia. E la Storia continuava ad amarla e rispettarla.


Era, soprattutto, un sacerdote e un pastore. Un uomo che capiva gli altri da un gesto, da una semplice parola, da uno sguardo. Un fine psicologo e un prete, che comprendeva e consolava. E' il tratto che più ho amato, in questi anni di conoscenza e di amicizia. Uno dei ricordi più intensi è stata la lavanda dei piedi del giovedì santo, officiata da lui a Gerusalemme, nella cappella del Notre Dame. Non eravamo in tanti, la solita piccola comunità internazionale di Gerusalemme. Lui lavò i piedi degli uomini che erano seduti davanti all'altare con coscienziosità. Li lavò, non fece finta di lavarli. Con serenità e umiltà. La stessa serenità che gli ho visto sul viso un anno fa, nel suo paesino natale, a Sogliano sul Rubicone, luogo che ha amato con tutto il cuore. Officiò la messa nella chiesetta accanto alla sua bella casa, affacciata sulle colline che videro anche la Resistenza al nazifascismo. Era il suo compleanno, il 27 giugno. C'erano i suoi fedeli, i suoi vecchi compagni di scuola, i suoi paesani, e una famigliola che arrivava da Gerusalemme. Perché i legami bisogna conservarli, e Gerusalemme è un posto che segna. Era sereno, era allegro.


La Chiesa perde un uomo raro. E a me dispiace molto avere perso un amico.


La foto lo ritrae a Gerusalemme, nel giardino della Nunziatura Apostolica, sul Monte degli Ulivi.

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Published on July 28, 2011 08:54

July 26, 2011

Mantova numero 15


Oggi è online il programma del Festivaletteratura di Mantova.  L'edizione numero 15 si svolgerà dal 7 all'11 settembre, e come sempre, come nella tradizione, è tanto ricca di appuntamenti da rappresentare – per molti, me compresa – una riserva confortante di idee per tutto l'anno successivo.


Insh'allah, se il ciel mi assiste, come si dice dalle 'mie' parti, ci sarò anch'io, anche quest'anno. Con gioia.  Soprattutto perché è un tema – questo sul quale si concentreranno molti incontri – che a me è molto caro. Gli arabi veri, reali, quelli che sono scesi nelle piazze Tahrir di tutta la regione. Gli invisibili  ora visibili, e che però – vedi quello che alcuni dei miei colleghi (giornalisti) hanno detto, scritto e fatto sugli attentati terroristici di Oslo e  Utoya – hanno ancora tanta strada da fare per riconquistare, presso un'opinione pubblica occidentale non solo impaurita ma anche pavida, molta della dignità che abbiamo loro tolto. Qualche indicazione sugli incontri ai quali sono stata invitata a partecipare: intanto, la presentazione dell'archivio del festival, e cioè i computer in giro per Mantova attraverso i quali sarà possibile srotolare il filo della storia recente degli arabi, attraverso gli scrittori che hanno partecipato al festival nelle scorse, tante edizioni. E poi Alaa al Aswani, che a Mantova presenterà  – freschissimo di stampa – la sua Rivoluzione Egiziana, che ho curato e tradotto per Feltrinelli, raccolta degli articoli che Aswani ha scritto e pubblicato sui giornali egiziani. Articoli, lo scoprirete, spesso visionari, visto quello che è successo il 25 gennaio 2011. Invitati anche due blogger, in rappresentanza di quelle generazioni (giovani) che hanno fatto le rivoluzioni: l'egiziano Ramy Raoof e la bahreini Amira al Husseini. Molto acuti, entrambi. E per legare le rivoluzi0ni arabe a noi, Gad Lerner e Tahar Lamri, due intellettuali le cui origini sono proprio lì, sulle altre rive del Mediterraneo.  Di Libia e non solo parlerà invece Hisham Matar con una delle nostre più importanti arabiste, Elisabetta Bartuli.


Mantova è una di quelle occasioni ormai rare – food for thought – in cui si può riflettere soppesando le parole, di fronte a un pubblico altrettanto raro. Attento. E' un'occasione da non perdere, per chi c'è già stato, e dunque ne conosce il valore. E per chi deve ancora scoprire l'Italia migliore, in buona parte rappresentata dal pubblico dei lettori del Festivaletteratura.

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Published on July 26, 2011 11:28