Paola Caridi's Blog, page 107
September 21, 2011
Quanta fatica (diplomatica) miope…
Mai tanti sforzi diplomatici sono stati concentrati in così poco tempo, e così poche ore. Magari sarebbe stato meglio spendere così tanta energia nell'elaborare una vera strategia sul Medio Oriente, a medio e lungo termine, piuttosto che affrettarsi e affannarsi per spegnere l'ipotesi del riconoscimento dello Stato di Palestina nei corridoi del Palazzo di Vetro. Deve far tanta paura, questo benedetto riconoscimento, se ora – come dice il Guardian oggi – il compromesso raggiunto dal Quartetto è quello di spingere Mahmoud Abbas a presentare la proposta, ma senza farla votare dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu, per evitare lo scontro diretto tra Davide e Golia. Palestina versus Stati Uniti.
Mi sembra tutto una follia. La diplomazia che si affanna. Il lavorio dietro le quinte con i dieci paesi che fanno parte del Consiglio di Sicurezza (i 'temporanei', insomma) per evitare che sostengano il riconoscimento e soprattutto che lo votino. La diplomazia e la politica dovrebbero far altro, e lo dovrebbero fare in tempo. Perché la richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina non è un fulmine a ciel sereno. Le diplomazie se ne occupano da quasi due anni. Da quando – all'indomani della moratoria sulle colonie offerta da Benjamin Netanyahu sotto pressione americana, della durata di 10 mesi e con la patente esclusione di Gerusalemme est – Mahmoud Abbas rigettò l'offerta come del tutto insufficiente e minacciò di andare all'Onu a chiedere il riconoscimento dello Stato. Era la fine di novembre del 2009. Qualche dettaglio in più, tra i documenti diplomatici pubblicati da Wikileaks, c'è qui. E se si vuol sapere qualcosa di più sulla posizione italiana, praticamente appiattita sulle richieste israeliane, basta leggersi questo documento, dell'ambasciata americana a Roma, in cui si descrive la conversazione con uno dei nostri diplomatici. Documento del 4 dicembre del 2009.
Due anni, in termini diplomatici, non sono pochi. Due anni per elaborare una strategia credibile, non sono pochi. Il nodo è proprio qui: l'assenza di una strategia credibile, da parte di tutti. Stati Uniti, Unione Europea, paesi arabi ostaggio dei propri regimi.
Non è stato fatto praticamente nulla. Lo status quo conveniva a tutti. Salvo poi accorgersi che nella regione non c'è più uno status quo. C'è l'inizio di una tempesta che ha già buttato giù qualche regime molto amico dell'Occidente e ha già scardinato tutte le strategie precedenti.
Di certo c'è solo un fatto. Lo Stato di Palestina è come se fosse stato già approvato e riconosciuto. E' sul tavolo, e prima non lo era mai stato. E' uno Stato di Palestina sui territori occupati da Israele nel 1967, e comprende tutta Gerusalemme est (e non, come diceva uno dei nostri diplomatici agli americani, magari un quartiere "come Abu Dis" per farci la capitale palestinese…). Un cambio epocale nella percezione del conflitto israelo-palestinese, non solo da parte delle opinioni pubbliche occidentali. Il paragone con il 1947 e la nascita di Israele, con tutti i distinguo del caso e della Storia, non è peregrino. Anzi. Con o senza voto al Consiglio di Sicurezza, lo Stato di Palestina è divenuto, più che una realtà, una urgenza, una necessità per colmare una ingiustizia.
Breve pausa per la playlist: Keith Jarrett, The Wind, che qui in Medio Oriente, da mesi, è tempesta. (Grazie, Carmelo).
Il vero nodo politico è, invece, tutto palestinese: ancora una volta, quale Stato e per quali cittadini. La questione dei profughi è fondamentale, e c'è già chi ha proposto di emettere cinque milioni di passaporti del nuovo Stato di Palestina da distribuire ai rifugiati che si trovano in Giordania, in Libano, in Siria, dovunque nel mondo, perché si superi lo iato tra l'Autorità Nazionale e l'OLP, tra autorità territoriale e rappresentanza del popolo. E anche perché i rifugiati – non più apolidi – abbiano un diverso status dentro i paesi che li ospitano da oltre sessant'anni.
Hamas, in tutta questa storia, subisce la decisione di Mahmoud Abbas, che ha messo da canto l'ipotesi di un governo di unità nazionale ma ha intascato, il 4 maggio, la riconciliazione tra Fatah e Hamas firmata di fronte al nuovo Egitto senza Hosni Mubarak. Nello stesso tempo, se Stato di Palestina ci sarà, Hamas si troverà quello Stato sui confini del 1967 che aveva ambiguamente accettato sin dal 2006, accanto a Israele che non ha riconosciuto. Accettare lo Stato di Palestina, in sostanza, significa accettare – senza farlo formalmente – l'esistenza dello Stato di Israele.
La domanda, tra i palestinesi della strada e gli intellettuali, non è però se i palestinesi siano o meno pronti ad avere uno Stato (domanda francamente razzista…). La domanda è se abbiano una leadership, che riesca a rappresentare un popolo. È la stessa domanda delle rivoluzioni arabe. Anche in questo caso, al shab yurid, "il popolo chiede". Il popolo chiede elezioni e governo. Le leadership palestinesi, Hamas e Fatah insieme, sono ancora ostaggio di una mancata condivisione del potere. Ed è qui la vera debolezza, che fa chiedere – a chi si occupa di queste parti – cosa farà il popolo, nei prossimi mesi. Chiederà conto alle leadership? E in quale modo? Si ribellerà, le nuove, giovani elite chiederanno un altro tipo di politica? Faranno la loro rivoluzione?
La foto è di Maurizio Scalzi. Il MUro a Betlemme
September 20, 2011
Visibili… in arabo
La notizia me l'ha portata la Rete. O meglio, un amico che mi ha detto mabrouk, auguri, congratulazioni. Con un buon anno e mezzo di ritardo sulla tabella della casa editrice egiziana, l'Istituto Nazionale per la Traduzione, è uscito Arabi Invisibili in arabo. Al Cairo, e con una copertina che a me piace molto. Doveva uscire ben prima che le rivoluzioni arabe sconvolgessero la regione e cominciassero a buttar giù qualche dittatore. Ma tant'è. Son contenta, e molto, lo stesso. Quello che c'era scritto in un libro che è uscito in Italia nel 2007 non può non essere datato. Allo stesso tempo, conferma che alcune cose, alcuni segnali evidenti quando si camminava per le strade, e non nei Palazzi del potere, si potevano vedere già allora, come le hanno viste i ricercatori italiani che da anni lavorano tra il Cairo e i dintorni (vero, Gennaro?), gli insegnanti italiani nelle scuole all'estero, e chi lavora nelle organizzazioni internazionali e mette il naso fuori dall'ufficio.
La playlist di oggi prevede una vera canzone pop araba. Una canzone di Kathem el Saher, voce tra le migliori della regione e uomo tra i più amati dalle donne arabe. Perché per accorgersi delle rivoluzioni bisogna occuparsi soprattutto di pop culture. Canzonette, suonerie, pane e rose.
September 19, 2011
Tra il Palazzo di Vetro e le palme
Nel più singolare dei mondi possibili, e cioè il Medio Oriente, è anche possibile imbattersi in una notizia come questa. Alla vigilia non solo del possibile riconoscimento dello Stato di Palestina all'Onu, ma anche del lungo periodo di festività ebraiche, che si concentrerà tra la fine di settembre e gran parte di ottobre. Tra le festività è compreso Sukkot, la festa delle capanne, che per gli israeliani più credenti significa acquistare lunghe palme per ricoprire – appunto le capanne in cui per giorni consumeranno tutti i pasti. E le palme, ogni anno, sono un vero e proprio rovello commerciale, per Israele. Da chi acquistarle? Prima del disimpegno unilaterale del 2005 da Gaza, le palme arrivavano in buona parte dalla Striscia. Poi, tutto chiuso, soprattutto con l'embargo. La Xinhua, l'agenzia di stampa cinese, attentissima a quello che succede tra i palestinesi, ha ieri pubblicato questa notizia:
GAZA, Sept. 19 (Xinhua) — The Gaza ruler Hamas is ready to study any Israeli request to import palm fronds from the Gaza Strip once the request is officially sent, an official at the Hamas' ministry of agriculture said on Monday.
"We have not received any request" to send palm leaves from Gaza to Israel, said Ibraheem Al-Qedra, deputy minister of agriculture. "We are ready to study the request if we get it."
Israel imports the fronds from the Palestinians, Egypt and Jordan to use it for week-long Jewish holiday of "Succot" in October. It has never imported it from Gaza since the Islamic movement took over the territory in June 2007.
Israel's Ha'aretz newspaper reported that Agriculture Minister Orit Noked licensed the import of the fronds from Gaza, Jordan and Spain, as Egypt, after the downfall of former President Hosni Mubarak, banned this kind of export to Israel.
Dunque, riassumendo: da parte israeliana è filtrata la notizia che potrebbero aprire un canale e importare le palme niente di meno che da Hamas, perché la rivoluzione egiziana ha sconvolto le carte, nella regione. Tanto le ha sconvolte, e non lo sapevo, che ha bloccato le esportazioni di… palme verso Israele. Bisogna capire, invece, se sul gas l'accordo è stato raggiunto, visto che l'Egitto ha deciso di ridiscutere il prezzo che Israele deve pagare per importare il gas naturale, visto che – Mubarak regnante – il prezzo era decisamente molto basso. Grazie a – dicono tutti i giornali egiziani – una megatangente.
La foto di Maurizio Scalzi è stata scattata a Betlemme, al Muro.
Se gli archivi parlano
Prima o poi, bisognerà riscrivere la storia degli ultimi 10, 15 anni del Medio Oriente. E sono certa che nei dipartimenti sul Medio Oriente delle più prestigiose università americane ci sia più di un ricercatore all'opera, per studiare l'incredibile messe di informazioni che esce dai documenti pubblicati in Rete da Wikileaks. Un vero e proprio tesoro, per chi – come me – ha frequentato gli archivi dei ministeri degli esteri di mezza Europa, e i National Archives oltreoceano. E se il numero di documenti (oltre 250mila) può far paura, basta usare un po' di tecnica da topi d'archivio per superare i timori e scorrere gli indici delle ambasciate e delle rappresentanze diplomatiche statunitensi più interessanti.
Già solo a dare una scorsa ai rapporti che escono da Gerusalemme, da Tel Aviv, dal Cairo, si possono vedere i nodi storici dell'ultimo quindicennio e scoprire che i mantra, gli slogan della pubblicistica usati in Occidente per descrivere quello che stava succedendo nel conflitto israelo-palestinese non corrispondevano quasi per nulla non solo alla realtà sul terreno, ma persino alle stesse priorità della diplomazia. Altro che processo di pace, insomma. Altro che soluzione dei due stati. È l'amministrazione del giorno per giorno, è l'assenza di visione e di una strategia politico-diplomatica quello che emerge, sopra a tutte le altre considerazioni. Ed è anche lo scollamento tra la descrizione della realtà sul terreno da parte dei diplomatici, da una parte, e le decisioni prese dal Dipartimento di Stato, dall'altra.
(parentesi per la Playlist: oggi brano classico, Beautiful Day, U2)
Un esempio su tutti, importante anche per quello che succederà nei prossimi giorni, tra il Palazzo di Vetro, le strade della Cisgiordania, Gerusalemme. Le colonie israeliane in Cisgiordania e a Gerusalemme est. L'attenzione del consolato di Gerusalemme sulla questione degli insediamenti è impressionante. Almeno la metà – ma si tratta di un calcolo empirico – dei documenti usciti dal consolato americano a Gerusalemme si occupa delle colonie, non solo in West Bank, ma (dato ancor più interessante) nel cuore di Gerusalemme. Partono dal consolato, in direzione del Dipartimento di Stato di Washington, dispacci continui sulle singole demolizioni decise dal municipio di Gerusalemme nella zona orientale (occupata) della città, notizie su Silwan, Issawyia, Sheykh Jarrah, Beit Hanina. Si rende edotta la diplomazia americana sui piani approvati per aumentare il numero di case sia dentro Gerusalemme est, sia nelle colonie in Cisgiordania. Si descrivono i singoli avamposti, si mandano i resoconti delle conversazioni con le associazioni pacifiste, così come con la lobby dei coloni. E il quadro che emerge è analitico, preciso, raffinato. La topografia delle colonie è aggiornata metro per metro, soprattutto in zone sensibili come la E-1, appena fuori Gerusalemme, e poi Maale Adumim, e poi Ytzhar, e poi Hebron.
A Washington, quando hanno preso decisioni riguardanti la politica israeliana delle colonie, sapevano dunque benissimo com'era la situazione sul terreno, perché la diplomazia aveva fatto il suo dovere. Non potevano non sapere, sia – per esempio – dell'aggressività in aumento da parte di coloni (sono estremisti che non riusciamo a controllare, è stato uno dei commenti del capo dello Yesha Council Danni Dayan, in uno degli incontri con funzionari del consolato americano), sia della politica dei vari governi israeliani di ampliare gli insediamenti.
Sempre Danni Dayan, nel gennaio del 2008, svela al funzionario del consolato dell'accordo con Ehud Barak, sia allora sia oggi ministro della difesa israeliano, sulla questione delle colonie. I coloni avrebbero smantellato volontariamente alcuni (pochi) avamposti, ottenendo in cambio i permessi per ampliare il numero di case dentro i grandi insediamenti esistenti. L'accordo era del 2008, quindi quando ancora Barak era uno dei principali esponenti del Labour, contro Ehud Olmert, allora premier. E questo spiega anche come mai per Netanyahu e per la sua coalizione, sensibilissima alle spinte della lobby dei coloni, sia stato semplice accettare che Barak continuasse a rivestire il ruolo di ministro della difesa.
Yesha Council Chairman Dani DAYAN told PolOff January 16 that a ""limited deal"" was reached several weeks ago with MOD BARAK to remove ""a few outposts,"" but PM Olmert later vetoed it. According to DAYAN, the deal was a
""confidence building measure"" that would allow issuance of construction permits in settlement population centers in exchange for voluntary removal of sparsely populated outposts.
3. (C) Settlement movement founder and Kiryat Arba resident Elyakim Haetzni described the deal as follows: residents of ""outposts on private land"" would voluntarily dismantle and evacuate their outposts and move ""to another nearby hilltop"" on land considered by the GOI to be state land, and the GOI would recognize the new outposts as legal. Haetzni said PM Olmert rejected the deal that would have legalized the new outposts, because ""he committed to the U.S. not to compromise."
Dayan, espressione della leadership dello Yesha Council, dice candidamente, nell'agosto dello stesso anno, che la soluzione dei due Stati è "morta", come recita il titolo del rapporto inviato dal console generale Jake Walles.
Dayan said ""the Gaza experience killed the two-state solution…It's a shame they've taken the land and used it as a launching pad against Israel rather than building a state."" He added, ""Syria, Egypt, and Jordan can all accommodate a Palestinian state on this land but the Palestinians cannot…They'll continue to advocate for all of this land.""
Dayan said he believes the goal for now is ""the status quo,"" rather than a negotiated solution."
"The creation of a Palestinian state now will mean the end of Israel,"" he said.
Sono solo due esempi, di quello che si diceva dietro le quinte, ed è bene saperlo, prima della discussione al Palazzo di Vetro sul riconoscimento dello Stato di Palestina. Non è, però, l'unico elemento che salta subito agli occhi quando si scorrono i documenti del consolato generale americano a Gerusalemme. L'altro aspetto interessante è la conoscenza (o meglio, la conoscenza estremamente carente) della politica palestinese da parte dei funzionari diplomatici statunitensi. Uno dei motivi riguarda gli interlocutori: a spiegare la (complicata) politica palestinese sono i dirigenti dell'ANP, dell'OLP e qualche intellettuale. Punto. A leggere i rapporti, soprattutto nei momenti cruciali come le elezioni del gennaio 2006, il primo governo Hamas, la crisi tra Fatah e Hamas del 2007, si comprende come alla fotografia sociopolitica dei palestinesi manchino molti dettagli. Dettagli determinanti per la storia di questi ultimi anni. E così, dai documenti, si scopre che la vittoria di Hamas non solo non era stata prevista, ma neanche messa in conto. Si scopre che la diplomazia contava sui sondaggi fatti in casa palestinese (rivelatisi completamente sbagliati) sui risultati delle politiche del 2006. Si scopre che di Hamas non sapevano quasi nulla, perché con Hamas non si potevano avere canali aperti, visto l'inserimento nella lista nera delle organizzazioni terroristiche, nello stesso momento nel quale Hamas si presentava alle elezioni parlamentari.
Stessa carente fotografia è quella successiva, frutto in massima parte della descrizione della situazione palestinese da parte di uomini di Fatah, o comunque del Palazzo palestinese. E' Yasser Abed Rabbo a spiegare la situazione agli americani, a consigliare di isolare Hamas, a dire che lo stesso Dialogo Nazionale del 2006 (che agli occhi dell'opinione pubblica doveva servire a ricucire lo strappo in corso tra Fatah e Hamas) aveva al contrario come suo obiettivo primo quello di isolare il movimento islamista. E poi le conversazioni tra il console generale e Salam Fayyad, tutte da leggere per scrivere la vera storia del governo Fayyad negli suoi quattro anni di vita, la cooperazione con gli israeliani e gli americani, la costruzione della sicurezza nelle diverse cittadine della Cisgiordania.
C'è da leggere, e molto. Ed è tutto alla luce del sole (virtuale) di internet. Anche se comprendo le ragioni per le quali i documenti non potevano essere messi in Rete conservando i nomi delle fonti, da vecchio topo d'archivio non posso nascondere che la decisione di wikileaks sia stata, per me, un gran regalo. Posso leggere, e formarmi la mia opinione personale. Posso studiare i documenti, e cercare di capire meglio le dinamiche della diplomazia americana in Medio Oriente. E questo – come dice la pubblicità della Mastercard – non ha prezzo.
La foto, di Francesco Fossa, è stata scattata a Hebron, uno dei nodi della questione delle colonie israeliane nel cuore della Cisgiordania.
September 18, 2011
Quale Stato su quale terra per quali cittadini?
Venerdì scorso Mahmoud Abbas ha fatto un discorso alla tv per comunicare ai palestinesi la decisione sulla richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina all'Onu. Richiesta piena, questo il messaggio di Abu Mazen, rivolto soprattutto a Israele e agli Stati Uniti, che si troveranno abbastanza isolati al Palazzo di Vetro. Costruire uno Stato, poi, sarà tutta un'altra cosa, e gli interrogativi sulla capacità di visione della leadership dell'ANP se li pongono gli stessi palestinesi. Questa è l'analisi che ho scritto per il Fatto online. La foto, da twitpic, ritrae un bambino palestinese che lancia sassi contro i bulldozer e i blindati israeliani nel paesino cisgiordano di Nabi Saleh, vicino Ramallah, teatro di manifestazioni continue da anni contro il controllo della sorgente d'acqua del paese da parte dei coloni israeliani.
Mahmoud Abbas non ha fatto quel passo indietro che da mesi gli chiedono con insistenza gli Stati Uniti. Né quel mezzo passo indietro che fino a ieri gli ha chiesto l'Unione Europea, inviando in Medio Oriente – per tentare di convincerlo – anche Mrs. PESC Catherine Ashton. Il presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), questa volta però nella veste di capo dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), ha confermato oggi in un atteso discorso tenuto a Ramallah che chiederà all'Onu per la Palestina un seggio di "membro a pieno titolo". Niente di meno del riconoscimento pieno di uno Stato sui confini del giugno 1967, prima dell'occupazione da parte di Israele, composto dall'intera Cisgiordania, da Gaza e da Gerusalemme est, la capitale.
La sfida continua, dunque, e la settimana prossima si annuncia di conseguenza una delle più delicate della cronaca mediorientale di questi anni già complessi. E' una sfida singolare, quella della richiesta del riconoscimento dello Stato di Palestina. Nata come un ballon d'essai, nell'entourage dei dirigenti dell'Olp, verso lo scorso autunno. E poi pian piano lievitata sino ad assumere i contorni di una mossa tanto importante, nel confronto ultrasessantennale tra israeliani e palestinesi, da poter cambiare persino le carte sulla tavola dei negoziati. È fuor di dubbio, la richiesta di riconoscimento dello Stato è – dal punto di vista diplomatico – la mossa più importante da parte palestinese, dai tempi dell'apertura di Yasser Arafat che spianò la strada, dopo qualche anno, agli accordi di Oslo. E rimane una mossa importantissima, anche se ai palestinesi manca – in questa infinita transizione post-Arafat – la visione strategica.
C'è chi ha parlato di una mossa alla David Ben Gurion, come fu quella perseguita nel 1947 per il riconoscimento di Israele. Il riconoscimento internazionale di uno Stato e di uno status, per poi arrivare alla sua vera attuazione. Il problema – serissimo – è che la casa palestinese è divisa, e che Fatah e Hamas non hanno sanato la loro frattura pur avendo firmato, lo scorso 4 maggio, la riconciliazione formale. Deboli entrambi, nel consenso interno e nelle definizioni delle rispettive strategie, i due movimenti hanno lasciato il campo all'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, in attesa di giorni migliori e delle conseguenze del dibattito all'Onu. E l'OLP, dal canto suo, dovrà gestire alle Nazioni Unite una sfida imponente, senza aver compiuto quella riforma necessaria che i palestinesi attendono da anni e che ha reso più fragile la stessa istituzione.
Nodi interni irrisolti a parte, a venire in soccorso ai palestinesi sono due evenienze della Storia. La tempesta delle rivoluzioni arabe che, loro sì, hanno rimescolato definitivamente le carte della regione e hanno compattato tutti, dagli arabi alla Turchia neo-ottomano di Recep Tayyip Erdogan. E l'arroccamento di Israele su posizioni dure, quelle condotte dal governo di destra guidato da Benjamin Netanyahu, e sostenuto dalla potente lobby dei coloni, sul piede di guerra in attesa del voto dell'Onu. La chiusura totale di Tel Aviv, ammorbidita nei toni solo nelle ultime ore, ha giocato involontariamente a favore del riconoscimento da parte delle Nazioni unite, compattando attorno alla richiesta dell'Olp i due terzi dei voti in Assemblea generale e isolando, nella sostanza, gli Stati Uniti che porrà il veto in Consiglio di sicurezza.
Comunque vada a finire, la questione del riconoscimento dello Stato di Palestina è un fatto che non potrà più esser messo di nuovo nel cassetto. Né dai palestinesi, che forse ancora non si rendono del tutto conto di quello che dovranno fare dopo, per aderire alle convenzioni internazionali e per diventare uno Stato a tutti gli effetti. Né dagli altri, Israele in primis, che si troverà di fronte un soggetto istituzionale formalmente alla pari. Sembra, in sostanza, la fine della 'condizione speciale', dell'entità istituzionale che non è Stato ma è comunque qualcosa di reale. E pone, allo stesso tempo, anche quella domanda che i palestinesi stessi si sono ancora guardati dal porre: se la Palestina sarà uno Stato, chi saranno i suoi cittadini? Solo gli abitanti di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est, o anche tutti quei palestinesi – in prima fila i rifugiati – sino ad ora rappresentati dall'Olp? La partita che comincerà al Palazzo di vetro, la prossima settimana, è solo la prima di una lunga serie, ma ha già cambiato parte del vocabolario di un processo di pace in coma da anni. E ne cambierà, molto probabilmente, anche gli stessi punti all'ordine del giorno.
September 16, 2011
Gerusalemme, o della sotterranea battaglia della memoria
E' una luce abbacinante quella che filtra dai finestroni. La luce di Gerusalemme che passa immutata dentro il grande edificio del College de La Salle da tanti anni, da quando – nel 1878 – i Frères inaugurarono la loro scuola dentro la Città Vecchia costruita sul terreno del Patriarcato Latino. In quasi un secolo e mezzo di vita, i Frères sono stati al servizio della crescita educativa di Gerusalemme. Fin quando è stato possibile, di tutti gli studenti, abbienti o meno, paganti o meno. Sino al 1948, un buon numero di ragazzi ebrei facevano parte della popolazione scolastica assieme alle altre comunità religiose della città, come indicato con precisione nei diari del piccolo archivio dei Frères.
Se la luce è immutata e immutabile, se Gerusalemme è – per alcuni versi – sempre uguale a se stessa, la Storia ha scorazzato per le pietre lucide della Città Vecchia, impetuosa a volte, silenziosa in altre occasioni. E' comunque un dato di fatto, la Storia, che ognuno racconta a proprio modo. Con i propri occhi. A scuola e altrove.
Perché cito i Frères, a parte il dato oggettivo di averli vicino casa, al di là della Porta Nuova, accanto al Terrasanta, a un'altra delle più importanti scuole private (religiose) di Gerusalemme araba? Perché all'ombra del gran parlare del dossier sul riconoscimento dell'Onu dello Stato di Palestina, si sta combattendo una battaglia per ora silenziosa sui programmi scolastici in adozione nelle scuole palestinesi di Gerusalemme est. Una battaglia silenziosa, ma non meno foriera di conseguenze del riconoscimento dello Stato di Palestina…
Qualche dato: nella Gerusalemme est occupata nel 1967 da Israele, e considerata tale dalle Nazioni Unite, vivono oltre duecentomila persone, compresi (tanti) bambini in età scolare. Hanno seguito – sin dal 1967 – programmi scolastici che non erano gli stessi seguiti nella parte ovest della città. Proprio perché erano sotto occupazione. Prima i programmi scolastici giordani, e poi – dopo gli accordi cosiddetti Oslo II – i programmi dell'appena sorta Autorità Nazionale Palestinese. Nessun programma scolastico israeliano, in virtù di una condizione speciale e di un'occupazione che, ora, ha superato il giro di boa dei 44 anni. Nel frattempo, l'ANP ha creato i propri programmi scolastici, per superare quelli giordani e quelli egiziani, usati tra 1948 e 1967: programmi propri, a cui hanno partecipato tutte le anime culturali e religiose, e che sono stati adottati anche nelle scuole dell'UNRWA.
Negli scorsi mesi, però, qualcosa è cambiato. E anche di questo non avete avuto notizia nei giornali italiani mainstream. Non fa notizia, infatti, che la commissione sull'educazione della Knesset abbia deciso nella primavera scorsa che anche a Gerusalemme est, nelle scuole comunali così come – almeno sino ad ora – nelle scuole private palestinesi, si debbano usare programmi scolastici israeliani. In una lettera inviata al premier Benjamin Netanyahu il 6 giugno scorso, l'associazione israeliana Ir Amin (che della convivenza a Gerusalemme si occupa) descriveva la severa posizione della commissione parlamentare:
On April 12, 2011 the Knesset education committee held a meeting whose title was "Use of unauthorized curricula in the education system in general and in the Arab sector in particular (including East Jerusalem)." The real purpose of the meeting was revealed during the discussion, namely the forceful attempt by the committee and its chairman MK Alex Miller to apply the Israeli curriculum to East Jerusalem. As MK Miller said at the meeting in reference to the students of East Jerusalem: "The whole curriculum should and must be Israeli".
La conclusione di Ir Amin, sulle conseguenze di una strategia educative simile, non erano meno severe:
Attempts to apply the Israeli curriculum, whether all at once or gradually, by exerting pressure on the schools or other professional parties, as was done by the committee and which we know is also happening on the ground, are raising a lot of anxiety among the public in East Jerusalem. It understands these efforts as another unilateral and aggressive act meant to add to the tension of life in the city and further erode their basic rights.
Meanwhile, employment of the Palestinian Authority's curriculum in East Jerusalem is supported not only by the political agreement that was signed but also by international law and the right to education, both as a customary obligation and as recognized in many international conventions Israel signed and ratified. The right of the children of East Jerusalem to an education by their culture and national identity is also consistent with the basic right to education recognized in Israeli law and their right to equality in education, freedom and defense of their identity. Israel is obligated not only to avoid violating those rights but also has the positive obligation to support their realization
I tentativi di cui parla Ir Amin sono già diventati realtà. Decine di migliaia di libri, spediti dal comune di Gerusalemme e dal suo sindaco israeliano Nir Barkat sono arrivati nelle scuole private della zona orientale della città, in cui studiano ventimila studenti. Si tratta di libri – in arabo – in cui sono state cancellate letture della storia di Israele e Palestina che Israele considera un attacco allo Stato. Libri che sono stati spediti alle scuole, senza alcuna riflessione comune sui curricula, sui contenuti, su una lettura della storia contemporanea non imposta dall'alto.
La reazione dei ragazzi è stata immediata: no ai testi israeliani, no all'idea di avere una bandiera israeliana sulla scuola. No alla storia scritta da chi governa la città, tutta la città, anche chi è sotto occupazione. Ci sono stati sit-in, discussioni, scioperi dentro le scuole, si programmano altre manifestazioni, forse una per domani. Una reazione che, da residente da otto anni a Gerusalemme, mi aspettavo. L'idea del cambio dei programmi scolastici, della sostituzione dei libri, della bandiera israeliana dentro Gerusalemme est, non può essere se non benzina sul fuoco negli animi di adolescenti la cui vita, in città, è già di molto peggiorata negli ultimi anni nonostante i comunicati stampa del comune di Gerusalemme, che anche nelle scorse settimane hanno elencato il numero cospicuo di aule costruite o ristrutturate nella zona orientale della città. Aule nelle quali si dovrebbero insegnare programmi scolastici sui quali non vi è stato alcun dibattito pubblico con chi dovrebbe poi metterli in pratica.
Benzina sul fuoco proprio a settembre, e proprio alla vigilia della discussione all'Onu sul riconoscimento dello Stato di Palestina. Altri commenti sono superflui.
La playlist prevede un brano che parli di ragazzi e ai ragazzi: rap arabo, anzi, arabo-israeliano, quello dei Dam Palestine.
Da "Arabi Invisibili" (Feltrinelli 2007)
Le ragazze di ustaz Jibril chiedono continuamente di rispondere alle sollecitazioni dell'insegnante. Il maestro Salama ne sceglie una alla volta, interloquisce con lei, a ritmo serrato. Poi va oltre, passa all'esempio successivo, sempre seguendo lo stesso schema. Le sue studentesse sono preparate. E fin troppo serie, nel loro semplice camice a righe bianche e verdi che arriva sino al ginocchio e fa da uniforme scolastica. Camice sostituito, da alcune di loro, da un rigoroso soprabito blu che arriva sino ai piedi, accompagnato da un velo bianco – un candido hijab, che le più vezzose hanno scelto ricamato – attorno al viso pulito di una quindicenne. Sui banchi della loro aula assolata, attorniata dal verde della campagna e dai profumi d'aprile, c'è il volume numero 10 di lingua araba. Volume numero 10. Decima classe del nuovo corso scolastico palestinese. Il primo fatto in proprio, pensato, elaborato realizzato in appena cinque anni dall'Autorità Nazionale, dal 1995 al 2000. Anno in cui è cominciata la seconda intifada e – contemporaneamente – i nuovi curriculum, i nuovi programmi sono entrati nelle aule di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est. Strana, la storia. L'unico stato non esistente, non formalizzato, un paese dai confini labili e sotto occupazione, uno "stato non stato" è anche l'unico, nel mondo arabo, ad aver inventato dal nulla, di sana pianta, i propri programmi scolastici. Come se dovessero essere uno dei perni di un futuro stato palestinese. L'impianto, dice Omar Abu Humos, il vice del Centro per i Programmi scolastici dell'Anp a Ramallah, poggia certo sulla tradizione contemporanea, che in Palestina è stata solo anglosassone. Per mitigarla, però, gli esperti del Centro hanno chiesto aiuto un po' qua e un po' là. Per esempio al Marocco, in virtù dell'influenza francese che ha segnato le scuole maghrebine. Un pizzico di Francia, insomma, poteva essere utile a smussare gli angoli della tradizione britannica. Per il resto, i palestinesi hanno fatto tutto da soli, dice Abu Humos. Gli europei, che dal 1992 sono stati i più importanti finanziatori dell'Anp, hanno staccato solo gli assegni per la logistica: affitto dei locali, fotocopiatrici, attrezzature. Ma non sono intervenuti sui contenuti dei programmi. Un'astensione che ha avuto una doppia valenza: dare autonomia ai palestinesi e, nello stesso tempo, deresponsabilizzarsi dai contenuti. Soprattutto quando è cominciata la polemica sui programmi scolastici palestinesi che – sosteneva un think tank della destra israeliana, poi smentito da diversi rapporti stilati dall'Unione Europea – avrebbero incitato all'odio. Una vera e propria bolla di sapone, sostengono i palestinesi, che però ha impegnato per molto tempo tutti quanti: israeliani, Anp, europei. I nuovi manuali palestinesi, caso più unico che raro, sono tutti su internet. Li si può tranquillamente consultare, stampare, riprodurre dal computer di casa. Dalla prima elementare all'ultimo anno delle superiori. Che si tratti di matematica, arabo, religione, storia, geografia, scienze. A guardarli, non sembrano molto pericolosi. Né dal punto di vista del conflitto, né quando si osservano con occhi particolari. Come quelli di una donna. I disegni riproducono, anzi, un modello di vita sociale che prova a essere politicamente corretto. Ci sono molte donne a capo scoperto, qualcuna velata, moltissime che lavorano e altre che rispecchiano il modello semplice di una famiglia unita. Bambini e bambine sono chiamati a compiere gli stessi doveri, dal pulire la casa ad aiutare i vecchi, dall'evitare di gettare cartacce per terra a lavarsi per bene i denti. Di odio, a dire il vero, non se ne vede. E a partecipare alla definizione dei programmi non sono stati solo i laici di Fatah, professori, professionisti, insegnanti, tecnici. Ci sono stati anche alti dirigenti di Hamas, in un tempo nel quale il movimento integralista non riconosceva neanche l'Autorità nazionale palestinese. Per il programma di geografia, per esempio, era calato a Ramallah anche uno dei docenti dell'università di Hebron, Aziz Dweik, che nel febbraio 2006 è diventato lo speaker del parlamento palestinese, come deputato di Hamas. Con lui, dice Abu Humos, non c'è mai stato nessun problema. Anzi. "Ho partecipato, per l'esattezza, alla stesura di ben sette volumi dei nuovi programmi scolastici", precisa lo speaker del parlamento. "Ora c'è bisogno di pensare agli aggiornamenti – prosegue -, soprattutto per quanto riguarda le materie scientifiche". Nessun accenno, insomma, a problemi di teologia o di islamizzazione dell'educazione: il geografo Dweik è più interessato a dare ai ragazzi gli strumenti adatti per interpretare il presente. Nonostante le differenze politiche, dunque, la costruzione dei programmi scolastici ha rappresentato sinora un'oasi, un posto particolare, una sorta di laboratorio in cui costruire una nuova identità palestinese. E in cui tutti i frammenti della società e della cultura di un posto così piccolo sono stati rappresentati. "Quel lavoro lo abbiamo fatto gratis. Nessuno ci ha pagato lo straordinario", dice con orgoglio Suleiman Rabadi. È il preside del College de la Salle. Quella scuola che tutti chiamano, a Gerusalemme, i Frères. Tradotto: la più importante scuola privata della parte araba della città, l'istituto da dove escono – da 130 anni – le èlite palestinesi. Musulmane e cristiane. Prima di arrivare a dirigere i Frères, il professor Rabadi insegnava all'università di Bir Zeit, e tra i suoi allievi c'era anche ustaz Jibril. Perché la Palestina è veramente un posto piccolo, e le èlite sono una piccola comunità. Come altri tra i suoi colleghi, anche Suleiman Rabadi è stato chiamato a dire la sua sui programmi scolastici. Per amor di precisione, si è occupato di "questioni contemporanee" per l'undicesima classe, la penultima delle superiori. Di quella esperienza, della costruzione dal nulla di una educazione palestinese, Suleiman Rabadi parla con orgoglio pacato. Come fanno, del resto, tutti i protagonisti. "Orgogliosi, certo, lo siamo stati e lo siamo ancora oggi", spiega Rabadi. "La sensazione – prosegue – è stata quella di poter finalmente controllare il nostro destino".
September 15, 2011
Terra e libertà?
L'ho ritrovata nel mio 'archivio', questa foto, scattata in Cisgiordania, di Eduardo Castaldo. Parla – evidentemente – di libertà. Parla di muri. E parla di quello che non si vede, ma che è sotto e al di là dei muri di cemento: la terra. Nella rassegna stampa che mi son letta in questi giorni, sulla questione del riconoscimento dello Stato di Palestina in programma per la settimana prossima, il 23 settembre, non ho trovato quasi mai la terra. Eppure, in tutta questa storia, la terra è centrale, non solo dalla parte degli israeliani. Escludere la parola terra, che potrebbe sembrare un gesto estremamente moderno, fuori dalle maglie del nazionalismo vecchio stampo o della retorica filopalestinese, è – secondo me – un modo per non affrontare il gran caos che si sta per scatenare su una Terra non così Santa.
Mettiamo pure da parte la questione dell'identità palestinese, così legata alle zolle, alle stagioni, agli ulivi, agli alberi da frutto, alla terra negata, alla terra altrui (dell'esilio). Concentriamoci – cinicamente e razionalmente – sul dato diplomatico. L'Autorità Nazionale Palestinese vuole un pezzo di terra, e vuole che almeno quel pezzo di terra rappresenti simbolicamente la sua identità, attraverso uno Stato. Vuole, magari, consolidare anche il suo piccolo potere a Ramallah e dintorni. E' il riconoscimento del proprio essere nel consesso del mondo, prima ancora del riconoscimento di uno Stato. E' stato, molti mesi fa, un sasso lanciato nello stagno, un ballon d'essai considerato il primo strumento disponibile per rompere – allora – la palude dei negoziati di pace che gli Stati Uniti avevano sponsorizzato senza, però, una strategia precisa sui risultati. Il governo di destra di Netanyahu non poteva, visto il tipo di consenso che lo ha portato al potere, fermare la macchina delle colonie, degli insediamenti, delle gru in Cisgiordania e a Gerusalemme est. L'ANP di Ramallah non poteva, nonostante quanto sia stata incline al compromesso verso gli israeliani, ingoiare anche questo. Perché quel pezzetto di terra che le è rimasto nelle mani (in sostanza, la Cisgiordania delle città e del loro hinterland) si stava e si sta rapidamente erodendo.
Il sasso nello stagno – la richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina – è cresciuto con i mesi. Come una torta ben lievitata. E' diventato una vera e propria proposta politica, anche se alla base non c'è una precisa strategia politica, né ci sarà all'indomani del voto all'Assemblea Generale. Perché quella richiesta è come una macchina in corsa: alla guida non c'è nessuno, ma la macchina – in discesa e in folle – corre lo stesso. E nessuno la potrà fermare, come in fondo è successo nel 1947 con la nascita dello Stato di Israele. Sia perché ci sono i facts on the ground, c'è la realtà, c'è un popolo (palestinese) su una terra sempre più prosciugata, piccola, insufficiente, chiusa dai muri. Sia perché c'è una necessità – terra e identità – che si è inserita dentro le rivoluzioni arabe, in maniera certo distorta, certo contraddittoria, certo tutta politico-diplomatica e poco sociale. Eppure, allo stesso tempo, reale quanto lo sono le richieste di Piazza Tahrir.
I palestinesi sono allo stesso tempo travolti dalla Nahda araba, ne sono ostaggio, ma anche partecipanti a tutti gli effetti. E uno dei nodi del Secondo Risveglio arabo è qui, tra Gerusalemme, Gaza, Ramallah, i campi profughi, le città arabo-israeliane. La richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina è, in modo sotteso ma reale, una delle richieste della Nahda del 2011. Non perché lo abbia ripetuto Recep Tayyep Erdogan in una iconica Piazza Tahrir, ma perché Erdogan è un fine politico che conosce il disagio e la rabbia di chi si sta sollevando nei paesi arabi. Dignità e rispetto, due tra le parole usate nelle piazze arabe, valgono per la dimensione nazionale, e al tempo stesso per quella regionale. I palestinesi, ostaggio per decenni dei regimi arabi foraggiati, molti, dall'occidente, sono al tempo stesso per le opinioni pubbliche arabe simbolo del doppio standard occidentale e del rispetto che i propri regimi non hanno avuto per i cittadini. Lo Stato di Palestina racchiude, dunque, una doppia valenza nell'immaginario arabo.
Diverse, ovviamente, le parole usate nel discorso palestinese. Qui lo Stato di Palestina è riflessione politica tout court. Fuori dalla questione dei finanziamenti occidentali all'ANP, che potrebbero subire una forte diminuzione se vi fosse il riconoscimento. Per i palestinesi la domanda è: questo Stato di Palestina conchiuso entro i confini (virtuali) del 1967, tra Cisgiordania e Gaza, e ancor più virtualmente Gerusalemme est, rappresenta terra, libertà, identità e indipendenza? Chi lascia fuori, e perché lo lascia fuori? Dal punto di vista delle dinamiche strettamente politiche, la presa di distanza di Hamas verso la macchina in corsa del riconoscimento dello Stato di Palestina indica già cosa bolle in pentola. Basata sul consenso dei rifugiati, la forza di Hamas rischia molto sul riconoscimento: rischia che la sua constituency la ritenga responsabile di essere stata eliminata dalla fotografia, dallo stato dell'arte, dalla realtà di un'identità palestinese che va ben oltre i confini del 1967. Espunti i rifugiati, cosa resterebbe? I palestinesi cisgiordani e gazani, neanche tanto quelli gerosolimitani. E men che mai i palestinesi che hanno in mano un passaporto israeliano, quelli di Nazareth e di Haifa, di Umm al Fahm e di San Giovanni d'Acri. Ha senso, dunque, uno Stato di Palestina che nei fatti di tutti i giorni è un bantustan, e nella sua stessa composizione non rappresenta se non una piccola parte dell'identità palestinese?
La discussione interna è tutta qui, su terra e identità, su terra e indipendenza. Lontana anni luce dalle parole della rassegna stampa mainstream: processo di pace, soluzione dei due Stati, sicurezza di Israele, Oslo, pace, pace, pace. Qui la pace è una parola che non ha più, nelle pieghe di quelle poche lettere, un senso. Qui si parla di altro, oltre al vocabolario quotidiano dello stipendio, delle bollette, dei checkpoint, degli autobus, dei muli e delle macchine. Qui si parla del proprio posto nel mondo. E domani, per spiegarvelo meglio, vi parlerò di scuola, di programmi scolastici, di storia, e di benzina sul fuoco.
L'International Crisis Group ha pubblicato il 12 settembre un rapporto estremamente lucido sulla questione. Non lo condivido del tutto, ma lo trovo invece perfetto sia quando descrive le dinamiche interne alla leadership palestinese che hanno portato alla richiesta di riconoscimento, sia quando spiega la mancanza di strategia degli Stati Uniti e l'impossibilità, ora, di ricominciare i negoziati tra israeliani e palestinesi.
Per una prospettiva altra, quella di uno scrittore indiano, dunque non allineato, dunque asiatico, il Guardian ha pubblicato ieri un commento di Pankaj Mishra. E ve lo consiglio caldamente. E' un bignami della storia diplomatica e culturale dell'India sul Medio Oriente. Ogni tanto dovremmo cambiare sguardo, stra-volgerlo, per capire meglio il mondo.
Nella playlist di oggi, e come poteva essere altrimenti, c'è Shadia Mansour, col suo Tribute to Mahmoud Darwish. Non è solo un omaggio al più grande poeta palestinese. Serve a comprendere come mai, per i palestinesi, il nodo del riconoscimento della propria identità è ineludibile. Come per tutti, d'altronde.
Rassegna audio/video
La Feltrinelli ha registrato in video tutta la chiacchierata tra 'Ala al Aswani e me al Festivaletteratura di Mantova. Lo si può trovare sia sul sito della casa editrice sia su YouTube. Potenza della tecnica. Mi piacerebbe risentire anche quello che Wael Abbas ha detto all'aula magna dell'università di Mantova, per sfatare lo stereotipo dei ragazzi di Tahrir senza grande esperienza politica e con idee un po' confuse. Ascoltare uno dei blogger più noti d'Egitto è stata anche per me una scoperta: puntuale, preciso, determinato, e per nulla ingenuo.
Comunque, nel grande, immenso archivio della Rete ci sono anche due interviste che mi hanno fatto – ironia della sorte – i programmi per le comunità italiane all'estero. La radio pubblica australiana, la SBS, che serve tutte le comunità straniere nello Stato-continente. E, ieri, la Westdeutsche Rundfunk, e cioè la radio di Colonia, in Germania, storica emittente. In entrambi i casi, l'argomento non era la primavera araba, bensì la Palestina. Gli occhi sono puntati tutti qui, a Gerusalemme. E i prossimi giorni saranno, certo, delicati. 
Questa foto ritrae l'aula di una scuola palestinese di Gerusalemme est. Sabato è in programma lo sciopero degli studenti palestinesi di Gerusalemme est (occupata dal 1967). Protestano perché le autorità israeliane vogliono cambiare i programmi scolastici, e cioè togliere i programmi scolastici palestinesi. Benzina sul fuoco, in questi giorni. Ma ve lo racconterò meglio domani.
September 14, 2011
Il campanello di Gerusalemme
I cambiamenti possono riconoscersi attraverso un suono. A prima vista, la Gerusalemme che avevo lasciato oltre tre mesi fa, per una estate sabbatica italiana, era ieri sera sempre la stessa. Grande fermento edilizio, dalla parte israeliana. Il traffico di fine pomeriggio, il sole che alle sette locali era già calato, gli ultraortodossi che si affrettavano verso casa. Mi sembrava di non essere mancata per così tanto tempo. Sino a che non ho sentito quel din din. Anzi, din din din. Un suono familiare, per chi è nato a Roma. Il tram avverte del suo arrivo. Il tram, il treno leggero di Gerusalemme, inaugurato recentemente. In funzione, ma col biglietto gratis per invogliare i viaggiatori. Le reazioni, le prime reazioni sia da parte israeliana sia da parte palestinese è che sia lento. Una ventina di stazioni, e un numero quasi simile di semafori sulla linea. Troppo tempo, per andare da una parte all'altra di una città che, in fondo, è una città di medie dimensioni.
Sul significato politico del tram si è già detto. Unisce Gerusalemme, di qua e di là, e dunque rende nei fatti, nella viabilità, nei binari stessi, impossibile la divisione di Gerusalemme in due capitali. Gerusalemme è una e indivisibile, dice la versione israeliana: il tram è la rappresentazione fisica della posizione del governo di Tel Aviv. Se il mondo continua a ragionare su altre categorie – la soluzione dei due Stati – i fatti sono già molto oltre. E a confermarlo c'è un suono. Quel campanello che segnala l'arrivo del tram. Suono antico.
Nella playlist, oggi, c'è il Trio Joubran, Safar.
September 12, 2011
Meno male che c'è Ry Cooder
E meno male che il pubblico di Mantova ha rotto lo stereotipo sugli arabi, che io mi sono riempita le bisacce per tutto l'anno di buona cultura, bella gente e pubblico intelligente… poi sono tornata alla (fittizia) realtà dell'informazione, ho scorso la rassegna stampa degli ultimi due giorni, e ho deciso che ci vuole – per consolarsi – una bella colonna sonora.
Mi è venuto in soccorso il mio amico Francesco, ieri sera, che mi ha segnalato l'uscita dell'ultimo album del grande Ry Cooder (ricordate Buena Vista Social Club?). Pull Up Some Dust And Sit Down (Nonesuch/Perro Verde 2011) dovrebbe essere tutto programmaticamente statunitense. Compresa, in questo "statunitense", la critica feroce alla sindrome della fortezza assediata che si vede in uno dei brani, Quicksand, sull'immigrazione messicana verso nord, il lungo muro, il filo spinato, e quelle improbabili manette rosa inquadrate nel video disponibile su YouTube. Il Tex-Mex di Ry Cooder è la perfetta colonna sonora per scorrere la leggerezza e la superficialità con la quale la primavera araba, il secondo Risveglio, la seconda nahda, le rivoluzioni vengono svilite in questi due giorni. Il fatto è che, per trarre qualche conclusione da quello che è successo al Cairo contro alcuni uffici dell'ambasciata israeliana, bisogna leggerli tutti, i fatti. E non solo alcuni.
Mi sbrigo in fretta. La tensione si alza dopo il 18 agosto, dopo l'attentato nel deserto nel Negev. Le forze di sicurezza israeliane entrano in territorio egiziano alla ricerca dei terroristi, e ammazzano cinque guardie di frontiera egiziane (sul numero delle vittime si è incerti, c'è chi parla di sei). Il Cairo minaccia il ritiro dell'ambasciatore, Tel Aviv si dice dispiaciuta ma non si scusa. In un Egitto che non è più sotto Hosni Mubarak, molto più morbido perché la contropartita che aveva avuto era alta (il benestare americano alla successione di suo figlio Gamal), le mancate scuse sono benzina sulla paglia ben secca, accanto a un fiammifero già pronto. I sentimenti anti-israeliani ci sono eccome, in Egitto, e non solo e non tanto nei settori islamisti. Nel corso degli ultimi anni, a battersi per aprire Rafah, la porta di Gaza, sono state soprattutto le ong laiche e di sinistra. Per gli egiziani il cuore del problema è il doppio standard americano ed europeo, il doppio standard occidentale su israeliani e palestinesi. Il problema è Gaza, è il Muro di separazione costruito dagli israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme, e quello che da più tempo c'è già attorno a Gaza. La reazione, nell'Egitto della rivoluzione, è un gesto: togliere la bandiera israeliana dal palazzone di Giza dov'è l'ambasciata e sostituirla con quella egiziana: l'orgoglio del nuovo Egitto si reifica con i simboli. La controreazione del Consiglio militare supremo usa gli stilemi del regime di Mubarak, di cui l'alta gerarchia militare ha fatto parte integrante: costruire di gran corsa un muro di cemento armato davanti al portone del grigio palazzo di Giza, ben visibile dal ponte, uno dei più importanti ponti sul Nilo. Un muro di cemento a proteggere l'ambasciata israeliana, come il Muro di cemento israeliano in Cisgiordania e Gerusalemme e Gaza. Altra benzina sulla stessa paglia secca… Poi arriva venerdì, e la manifestazione (grande) a piazza Tahrir contro il Consiglio militare supremo che tetragono vuole mantenere i tribunali militari come le corti davanti alle quali si debbono giudicare i civili in questa fase di transizione. La sera, proprio nel venerdì della grande manifestazione contro i tribunali militari, c'è l'assalto all'ambasciata israeliana del Cairo, a poca distanza – secondo i parametri della megalopoli egiziana – da Piazza Tahrir. No comment. Solo cronologia, e tanto basta.
E poi c'è la geopolitica. La Turchia erede della grande ed esperta diplomazia ottomana che non vuol passare sopra l'affaire Mavi Marmara. Erdogan che sa bene di dover sfruttare questo momento per profilarsi come uno dei leader della regione in piena Nahda. L'Egitto (della rivoluzione) che non vuole riprodurre lo stesso rapporto con Israele, filtrato dagli Stati Uniti, come invece sta di nuovo facendo il Consiglio militare supremo. Cosa significa, questo? Che Israele è più isolato? Sì e no. E' isolata la politica estera del duo Netanyahu-Lieberman, considerata arrogante da tutti i vicini di Israele. E' molto meno isolata la società israeliana, che prende a modello le rivoluzioni arabe per segnalare il proprio malessere e premere sul Palazzo.
E allora, dopo Ry Cooder, ci vuole anche altro, in questa colonna sonora del lunedì mattina, in attesa di (ri)presentare con grande piacere 'Ala al Aswani alla Feltrinelli di Roma a via del Corso, alle 6 del pomeriggio. Un'ala di riserva, Messa Laica per don Tonino Bello: il cd, edito dalla Meridiana di Molfetta, contiene testi e musica di Michele Lobaccaro, uno dei fondatori dei Radiodervish. Nel cd, ci sono le voci di Franco Battiato, Michele Salvemini in arte Caparezza, Nabil ben Salameh, Michele Lobaccaro, e via elencando.
Gli ultimi e gli umili sono lì dietro la frontiera. Non è con l'estrema semplificazione che consolida lo stereotipo becero che ci libereremo (sic!) del "problema". "Un tramonto saraceno / porta mille identità / senza vele e senza sogni / non potrai uscire da qui" (La Lampara, in Un'ala di riserva).


