Paola Caridi's Blog, page 111

July 1, 2011

Luglio caldo

Ci sono un po' di cose che succedono, unite dal filo rosso della nonviolenza. Strano, vero, se si pensa a come il Medio Oriente sia diventato – nei cliché – icona di conflitto, violenza, armi, jet, bombe, morti. Una delle cose che sta succedendo è che a Bil'in deve essere smantellata un pezzo della barriera di sicurezza, dopo il pronunciamento della Corte suprema israeliana. Un successo del Comitato Popolare di Bil'in, villaggio palestinese cisgiordano che da anni è a sua volta simbolo della resistenza nonviolenta contro il Muro di Separazione.


Dalla Cisgiordania a Gaza. Una delle imbarcazioni della Freedom Flotilla, per la precisione quella statunitense, sta cercando di uscire dalle acque greche, e forzare così la mano alle autorità di Atene. E' l'ultimo anello in ordine di tempo, da aggiungere al braccio di ferro in corso da giorni tra Israele e la Freedom Flotilla. Una catena di eventi di cui fanno soprattutto parte i sabotaggi di 3 delle 10 navi che compongono la Flotilla. Sull'imbarcazione canadese c'è anche  Amira Hass, coraggiosa come sempre.


Un piccolo accenno al Marocco, impegnato in un referendum su di una riforma costituzionale che otterrà probabilmente l'imprimatur di coloro che andranno a votare, ma che altrettanto probabilmente vedrà una consistente astensione. Tanto per segnalare che i processi democratici, dovunque essi si svolgano, prevedono altre tappe. In primis, quella di una costituzione non verticistica, ma frutto di un consenso popolare ampio, evidente, profondo. Come quello che vi fu attorno alla nostra, di Costituzione.


E di costituzione si ragiona molto anche in Egitto (l'analisi di Issandr el Amrani è come sempre molto acuta, e va in una direzione che condivido dalla prima all'ultima riga). Certo, si discute di costituzione, in una transizione che si fa ogni giorno di più difficile e delicata, mentre fiammate di violenza segnano i passi determinanti della democratizzazione. Gli oltre mille feriti negli scontri di martedì e mercoledì scorsi sono, per esempio, il segno che ora si sta entrando nel periodo veramente difficile. La dinamica degli scontri non è ancora chiara, ma alcuni messaggi sono invece evidenti. Il primo: le gang pagate dal precedente regime sono ancora in azione, dicono i  testimoni, ed entrano in azione proprio quando si riescono a prendere alcune decisioni, come – in questo caso – la scioglimento dei consigli comunali attraverso la sentenza di un tribunale amministrativo. L'azzeramento dei municipi significa una picconata al potere del vecchio partito dei Mubarak, ancora diffuso in maniera capillare sul territorio. Secondo messaggio: i ragazzi di Tahrir non hanno alcuna intenzione di indietreggiare sulla questione dei diritti umani, civili, individuali. Lo scontro (questa volta, invece e come sempre, nonviolento) con il Consiglio Militare Supremo è proprio su questo punto, cruciale, crucialissimo. E la questione della protezione dei diritti, compreso il diritto alla giustizia, è il motivo per il quale oggi ci sono state manifestazioni in cinque governatorati. Manifestazioni per chiedere che i responsabili degli uccisioni, durante la rivoluzione, di centinaia e centinaia di ragazzi siano portati in tribunale e condannati. Può sembrare,  questa, una questione di minore importanza rispetto alla transizione, alla legge elettorale, alla costituzione, alla crisi economica. E' invece stata la piattaforma della rivoluzione, la spinta ineludibile, e dunque anche l'anima sulla quale la democrazia si può costruire. Non bisogna mai dimenticarlo, quando ci si occupa di rivoluzioni arabe. Così come quando ci si occupa di noi.


E' solo usando questa lente che si può mettere insieme tutto: la Palestina dei comitati popolari e della Freedom Flotilla, il Marocco del movimento 20 febbraio che osteggia il modo in cui re e corte reale hanno  deciso la riforma costituzionale, l'Egitto dei ragazzi che scendono in piazza contro il Consiglio Militare Supremo e il ministro dell'interno.


La foto del poster è quella di Bassem, ucciso da  un candelotto lacrimogeno lanciato dagli israeliani durante una delle manifestazioni nonviolente che per anni si sono succedute a Bil'in.

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Published on July 01, 2011 15:28

June 28, 2011

Di Jule, Flotilla e dintorni


Ieri sera è stato proiettato al Meeting antirazzista dell'Arci in corso a Cecina Arna's Children, che rivisto dopo l'uccisione di Juliano Mer Khamis il 4 aprile scorso fa ancora più impressione. E' una carrellata sui visi dei morti: i bambini del Teatro di Arna, Arna malata che torna a incontrarli, i bambini che diventano ragazzi e poi giovani uomini e poi muoiono. Le madri che rimangono…


E' il più bello e struggente documentario sul conflitto, uno di quelli sui quali non è possibile non versare lacrime, che scendono giù peraltro inavvertite.


Il mio minitour italiano a parlare di rivoluzioni arabe finisce oggi. Urge tornare a scrivere, a documentarsi e pure a riposarsi. Devo dire che è stato un tour estremamente interessante e piacevole. Il desiderio di sapere di più delle rivoluzioni è diffuso, palpabile. Questo pubblico meriterebbe, da parte di noi giornalisti, una informazione più qualificata, e profonda. Vox clamans, lo so… ma sono sempre stata testarda.


L'introduzione triste di questa mattina -  da un Meeting che invece è molto piacevole, allegro e pienissimo di spunti e di incontri – è perché un breve sguardo sulla Palestina oggi ci sta tutto. La questione della Freedom Flotilla sta infatti montando: il governo israeliano ha prima messo in guardia, poi ha minacciato, poi ha fatto la voce durissima, e infine il premier Benjamin Netanyahu ha chiesto alle forze armate israeliane di mostrare "moderazione". Un catalogo delle reazioni che spiega quanto la questione della Freedom Flotilla sia, oggi ancor più di un anno fa, in occasione del convoglio guidato dalla Mavi Marmara, motivo di imbarazzo per Tel Aviv. L'ufficio stampa del governo israeliano ha anche dovuto ritrattare una precedente minaccia, secondo la quale i giornalisti presenti sulle navi della Flotilla diretta a Gaza sarebbe stati banditi da Israele per dieci lunghi anni.


Dalla Corsica è partita la prima delle dieci navi, il convoglio quanto prima si riunirà. Sulla nave canadese c'è anche Amira Hass, grande giornalista, donna coraggiosa, israeliana appartenente a una minoranza coraggiosissima.


Ci sono, però, altre cose che succedono, tra Palestina e Israele, che sembrano lontane dalla Flotilla e dalla destinazione della Flotilla (Gaza) e che invece non lo sono. La prima, per esempio, riguarda gli scontri di ieri a Gerusalemme tra destra israeliana ortodossa (quella più legata ai coloni) e polizia. Motivo: l'arresto di Dov Lior, uno dei rabbini più radicali e razzisti. Centinaia di ortodossi della destra più retriva si sono opposti all'arresto con l'accusa di incitamento di Lior (peraltro rilasciato dopo due ore), con episodi di vera e propria guerriglia urbana.  La vera battaglia per Israele, dice Yigall Walt su Ynet, è quella tra laici e ortodossi, tra le diverse tribù di Israele, i diversi gruppi sociali…


Una battaglia che si combatte, peraltro, proprio mentre in Israele monta sempre di più un altro motivo di imbarazzo. E cioè la decisione della politica palestinese di andare dritta all'Onu a far riconoscere lo Stato di Palestina. La riserva è stata sciolta, e i palestinesi andranno a New York al Palazzo di Vetro, anche se dal punto di vista formale il  riconoscimento fallirà. Dal punto di vista politico, però, la campagna per il ricoscimento ha già messo in posizione di seria debolezza Israele. E lo si vede dai più diversi segnali. Compresi quelli che non dovrebbero riguardare le questioni dei due Stati sulla linea del 1967. Come un ponte, il ponticello che unisce la Plaza di fronte al Muro del Pianto con la Spianata delle Moschee alla porta Mughrabi, l'unica da cui possono entrare i non musulmani, controllatissima dalle autorià israeliane. Bisogna fare un ponticello nuovo, ma – come tutto ciò che succede tra le antiche mura – è motivo  di polemica tra le comunità (e le ragioni per la polemica sono fondatissime, vanno oltre gli incerti confini e coinvolgono  anche la Giordania). La polizia israeliana ha dunque consigliato, dice Haaretz, di cominciare i lavori a settembre. Non prima. Altrimenti, sarebbe impossibile controllare la tensione alle stelle.


Sulla riconciliazione palestinese, intanto, tutto tace. Ancora. La questione dell'incarico di primo ministro non riesce a sciogliersi, ed è la patente dimostrazione che c'è chi rema contro. Spesso fuori dalla politica palestinese. Probabilmente, in più di qualche cancelleria.


Nel fermo immagine, Ala, uno dei bambini di Arna, di fronte alla sua casa distrutta dagli israeliani nel campo profughi di Jenin. Il suo sguardo che tenta di trovare forza spostando gli occhi di qua e di là diventerà poi fermo, da grande, quando sarà il comandante della difesa del campo. Ed è lui, nel documentario, l'ultimo morto, prima della parola fine. Prima di lui, Juliano Mer Khamis (zio Jule, come lo chiamano i ragazzi) mostra i destini terribili di quasi tutti gli altri bambini di Arna. Tra loro, tra quei bambini di Arna immolati al conflitto, c'è anche lui. Ed è per questo che quel documentario, bellissimo, è ora una staffilata.

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Published on June 28, 2011 07:42

June 23, 2011

Hamas e il Secondo Risveglio Arabo


Il 15 marzo del 2011 non è un "giorno della rabbia", come lo è stato in altri paesi della regione, nei mesi del Secondo Risveglio Arabo. La giornata di manifestazioni indetta, anche in questo caso, attraverso il tam tam via internet, ha per i palestinesi un'altra caratura. Unità, fine delle divisioni, riconciliazione. In un concetto: ricostruzione della casa palestinese. La giornata è stata organizzata dai ragazzi palestinesi, né più né meno come le giornate del Cairo, di Tunisi, di Manama. Sono loro – i giovani tra i venti e i trentacinque anni – ad aver stilato documenti su documenti, concentrati non solo sulla richiesta di porre fine alle divisioni (come quella tra Fatah e Hamas), ma soprattutto sul concetto di identità palestinese, per nulla limitata ai confini di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est.


Non sono molti, i ragazzi che partecipano alla manifestazione del 15 marzo, a Ramallah e a Gaza. A piazza al Manara, a Ramallah, riempiono comunque il cuore della città cisgiordana. Attorno a loro, però, ci sono troppe bandiere nuove, portate dai giovani di Fatah, perché all'inizio sia il partito che fu di Yasser Arafat sia l'Autorità Nazionale Palestinese tentano di cavalcare la protesta giovanile per evitare di ricevere troppe pressioni. Anche Hamas, a Gaza, vive lo stesso imbarazzo: la manifestazione molto più consistente, dal punto di vista numerico – a cui partecipa peraltro Vittorio Arrigoni – segnala che i ragazzi della Striscia appartengono in tutto e per tutto a quelle generazioni arabe che hanno acceso la miccia delle rivoluzioni. Usano, peraltro, lo slogan mutuato da quelli usati in tutte le altre piazze: al sha'b yurid, il popolo chiede. Non, però, la "caduta del regime", bensì "la fine della divisione". Il popolo chiede, e dunque pretende di tornare a essere la fonte della legittimità del potere: una richiesta, questa, che le fazioni palestinesi sono costrette ad ascoltare.


La reazione, da parte del movimento islamista palestinese, è immediata. Il primo ministro del governo de facto, Ismail Haniyeh, invita lo stesso giorno in diretta televisiva Mahmoud Abbas a Gaza. "Invito il presidente, il fratello Abu Mazen, e Fatah a incontrarci subito qui a Gaza o in qualsiasi altro posto, per dare il via al dialogo nazionale per raggiungere la riconciliazione", dice Haniyeh, con un ballon d'essai che fa comprendere quanto l'uscita allo scoperto dei ragazzi palestinesi abbia avuto un ruolo importante nell'accordo che Fatah, Hamas e tutte le altre fazioni hanno firmato solennemente il 4 maggio del 2011 al Cairo.


Sia Hamas sia Fatah hanno temuto, il 15 marzo, di essere travolti da un'ondata di rivolta dentro Cisgiordania e Gaza, anche se i numeri sarebbero stati sicuramente diversi, rispetto a quelli delle rivoluzioni in Tunisia o in Egitto. Entrambe le organizzazioni politiche palestinesi, infatti, erano e sono pienamente coscienti del deficit di consenso di cui soffrono, a partire dal colpo di mano di Hamas a Gaza del giugno 2007, che ha portato alle estreme conseguenze il loro scontro, e cristallizzato la divisione tra due entità politico-istituzionali. La riconciliazione, dunque, è il frutto del Secondo Risveglio Arabo, ed è soprattutto Hamas ad aver allo stesso tempo subito le rivoluzioni e, attraverso il pragmatismo che ha sempre contraddistinto la sua storia, compreso la necessità di un aggiustamento importante nella sua linea politica.


Nata e cresciuta all'interno della società palestinese, Hamas è sempre stata incredibilmente sensibile alle reazioni che la "strada" ha avuto rispetto alle sue strategie politiche. È quindi molto probabile che anche durante i primi mesi delle rivoluzioni arabe il movimento islamista abbia registrato e rielaborato dal punto di vista politico, attraverso le  sue molte antenne, le reazioni sia dentro Gaza e la Cisgiordania, sia nel mondo dei rifugiati, sia anche nei paesi coinvolti nel conflitto israelo-palestinese. Dentro la società palestinese, la stanchezza, la frustrazione  e la disaffezione verso le fazioni era evidente già da tempo. Il Secondo Risveglio arabo ha solo dato la spinta necessaria a una richiesta che, se non esaudita, sarebbe potuta esplodere in altro modo, in una nuova intifada contro gli israeliani piuttosto che in una sollevazione contro le èlite al potere in Cisgiordania e a  Gaza.


Il dato più interessante della pressione esercitata dai ragazzi palestinesi riguarda proprio il territorio controllato (seppure solo parzialmente, vista la stretta dell'occupazione israeliana) dall'Autorità Nazionale Palestinese. Le richieste del "15 marzo", infatti, non si limitavano solo alla riconciliazione in senso stretto, ma prendevano in esame la stessa identità palestinese, che ritorna a essere una identità complessiva, senza confini. Un'identità che comprende i palestinesi di Israele, i palestinesi dei campi profughi fuori da Cisgiordania e Gaza, i palestinesi della diaspora, tanto da chiedere (un punto peraltro accettato nell'accordo di riconciliazione del 4 maggio) anche nuove elezioni del Consiglio Nazionale Palestinese, il parlamento dell'OLP. Nel momento in cui Hamas accetta nella sostanza una Palestina sui confini del 1967,  i ragazzi del 15 marzo chiedono allo stesso tempo che si rifletta di nuovo sulla rappresentazione politica dei palestinesi fuori dai confini incerti dell'ANP, di Cisgiordania e Gaza. Una richiesta per nulla semplice.


Accanto alla dimensione interna, poi, bisogna considerare con eguale attenzione anche il ruolo degli sconvolgimenti regionali, che hanno 'costretto' Hamas a rivedere sia la propria tattica verso il conflitto israelo-palestinese, sia il proprio assetto interno. Non sono stati solo i palestinesi, infatti, a indire una "giornata" di manifestazioni, il 15 marzo. Anche in Siria è stato scelto lo stesso giorno, per dare inizio a una rivolta ben più pesante e complessa. E l'instabilità siriana non poteva non scuotere anche la leadership di Hamas, ospitata a Damasco da oltre un decennio. Fedele a una scelta strategica che ha avuto il suo inizio addirittura prima che il movimento fosse formalmente fondato, Hamas non ha mai voluto ingerirsi negli affari interni degli Stati con i quali ha avuto rapporti. Al contrario della linea seguita da Fatah e dalle altre fazioni, che nella guerra civile libanese e nella cacciata dell'OLP da Beirut a opera dell'esercito israeliano ha avuto la sua epifania. Persino la lunga stagione del terrorismo firmato da Hamas non ha mai travalicato i confini israeliani. Anche nel caso della rivolta siriana, dunque, Hamas ha avuto una posizione inizialmente neutrale, nonostante il movimento nazionale dei Fratelli Musulmani sia illegale a Damasco e abbia subito una durissima repressione. La Siria, d'altro canto, ha fatto parte a pieno titolo del processo di riconciliazione che ha prodotto l'accordo del  4 maggio.


Allo stesso tempo, però, l'imbarazzo di Hamas nei confronti del regime di Bashar el Assad comincia a essere sempre più evidente, come dimostrano le voci sempre più frequenti riguardanti un possibile spostamento del quartier generale del bureau politico in altri paesi. Tra le ipotesi più accreditate, c'è quella di una divisione in tre tronconi della leadership all'estero, che si dovrebbe dividere tra Cairo, Doha e Ankara. A prescindere dal possibile spostamento dell'ufficio politico, è comunque la posizione di Hamas rispetto alle rivoluzioni il dato più interessante. Nonostante la gestione del territorio a Gaza dal parte del governo di Ismail Haniyeh, le cui forze di sicurezza hanno più volte impedito le manifestazioni dell'opposizione e delle voci contrarie in genere, Hamas ha subito riconosciuto la potenza delle rivoluzioni arabe. Lo ha fatto Moussa Abu Marzouq, per esempio, considerando sia il movimento dei giovani palestinesi del 15 marzo sia la rivoluzione egiziana come alcune delle cause della riconciliazione palestinese. Lo stesso numero due dell'ufficio politico dello Harakat al Muqawwama al Islamiyya è andato ancora oltre, in un commento pubblicato sul Guardian del 24 maggio, indicando nell'islam politico una delle componenti delle rivoluzioni arabe. "I venti dello storico, pacifico cambiamento che stanno scuotendo il Medio Oriente raggiungeranno, prima o poi, le spiagge dell'Occidente – ha scritto Abu Marzouq -. E i suoi governi non potranno più marginalizzare, screditare o ignorare i movimenti islamisti, popolari e democratici, della regione. Incluso Hamas".  Khaled Meshaal stesso è andato a incontrare i diversi organismi che, dopo i 18 giorni della rivoluzione di Piazza Tahrir, si sono formati per rappresentare la "gioventù rivoluzionaria" egiziana. Riconoscendo, dunque, ai ragazzi il ruolo di nuovi attori del panorama politico regionale.


Hamas, dunque, sembra aver ben compreso il peso della tempesta rivoluzionaria in corso in tutto il Medio Oriente. Lo stesso accordo di riconciliazione, mediato soprattutto dal gruppo delle personalità indipendenti palestinesi che per anni hanno compiuto una nascosta quanto fondamentale spola tra i contendenti di Fatah e Hamas, è un riconoscimento chiaro dei cambiamenti in atto. E, nell'immediato, di una diversa debolezza  di Hamas. Il movimento radicale è,  da un lato, premuto a Gaza dalle richieste sempre più forti dei giovani. È, in sostanza, esso stesso regime, perché detiene il potere e controlla un territorio, seppur sottoposto a embargo. Hamas, dall'altro lato, è anche imbrigliato tra  Damasco e il Cairo dagli stravolgimenti subiti dai regimi siriano ed egiziano. Se l'instabilità di Damasco ha messo a rischio lo stesso rapporto di patronato tra il regime di Bashar el Assad e Hamas, la caduta di Hosni Mubarak ha cambiato di 180 gradi il ruolo dell'Egitto nel conflitto israelo-palestinese. Il Cairo guarda diversamente a Gaza, che pure continua a rappresentare un problema importante sul confine del Sinai. E guarda diversamente anche ai palestinesi, come dimostra il ruolo tutto sommato neutrale assunto dal ministro degli esteri Nabil el Arabi, molto diverso dalla posizione schiacciata su Fatah, sull'ANP, da un lato, e molto vicina ai desiderata israeliani, avuta dal vecchio capo dei servizi di sicurezza del regime Mubarak, Omar Suleiman, per anni il deus ex machina della fallita riconciliazione interpalestinese.


Nella foto, i due negoziatori della riconciliazione, gli unici due che hanno trattato per anni:  Moussa Abu Marzouq, numero due di Hamas e stratega del movimennto islamista, e Azzam el Ahmed per Fatah.

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Published on June 23, 2011 10:11

June 20, 2011

Di re, presidenti e candidati


Certo, sembra che la fase eroica delle rivoluzioni arabe sia finita.  Sembra. Ma è solo un'illusione ottica. E' che è finita l'epica di Piazza Tahrir, ma non le rivoluzioni. Ora, in questi giorni, è in corso la fase del "salviamo il possibile", mentre là dove la rivoluzione è riuscita (almeno la sua prima fase) ci si posiziona per la battaglia sulla rappresentatività.


Andiamo, però, con ordine. La Siria, anzitutto. Perché la Siria è nel pieno della tempesta. Le immagini dei campi profughi in Turchia colpiscono occhi e cuore, e pongono poi un problema serio nella ricomposizione del Levante. Il turco Recep Tayyep Erdogan, che ha vinto e non stravinto alle elezioni, si è già espresso a favore dell'onda del Secondo Risveglio arabo, comprendendo che non si può non assecondare il movimento in corso nella regione. Col mare non ci si scontra, semmai  si prova a navigare.  Come mi disse un giorno un raffinatissimo scrittore libanese, "dormo sull'onda della tempesta". Bashar el Assad ha deciso di parlare al popolo siriano, per la terza volta. E dovrebbe parlare di riforme costituzionali, di fatti, cercando di salvare il salvabile in una situazione in cui, però, ci sono già stati troppi morti, uccisi dalle sue forze di sicurezza. Difficile, insomma, che riesca a salvare se stesso, e forse anche il regime.


La rivoluzione siriana non è chiara com'è stata quella egiziana. La rivoluzione iniziata il 25 gennaio in Egitto era tutta concentrata nel paese, senza nessuna pressione da parte degli egiziani all'estero, dell'esilio. In Siria, invece, il peso degli esuli ricorda quello libico, nel bene e nel male. Col rischio – anche – di una controinformazione che in parte ingigantisce le notizie. Un peso che rischia di oscurare le dinamiche interne al paese, dove il rischio di guerra civile è sempre più alto, a sentire i  veri esperti di Siria (e non gli esperti a tavolino, dentro le cancellerie o nei think tank che provano a spostare l'asse della politica occidentale).


C'è chi prova a salvare se stesso anche nel Maghreb, come il re del Marocco Mohammed VI. La sua riforma costituzionale è stata incensata in Occidente, Italia compresa, come una scelta di democrazia. Mi permetto di dissentire, e non solo perché dissente il Movimento 20 Febbraio, quello che prova a manifestare dal 20 febbraio – appunto – represso dalla polizia. Difficile che a me – italiana – possa piacere una riforma costituzionale verticistica, e dunque senza la legittimità democratica che deriva – per esempio – da una commissione costituzionale che non è stata designata dallo stesso re. E' il re che decide la riforma, è il re che decide chi deve scriverla… Lo accetteremmo, in Italia? Se la risposta è no (la Costituente l'abbiamo eletta, appena usciti da un ventennio fascista, una guerra mondiale e un'occupazione), allora vuol dire che il nostro sguardo verso le rivoluzioni arabe non è viziato del solito orientalismo. Un orientalismo che fa dire: non sono ancora preparati alla democrazia, non hanno una tradizione democratica, devono crescere. Non è vero: l'intellighentsjia araba discetta di democrazia e libertà da decenni, la storia egiziana parla di parlamento e democrazia da oltre un secolo (liberalismo compreso),  e quello che ha bloccato i processi democratici è soprattutto questo colonialismo culturale (ed economico) che ha contrassegnato la strategia occidentale nella regione. La teoria del buon selvaggio non mi convincerà mai, né quando viene applicata agli arabi, né quando viene applicata a noi e al resto del mondo…


Non mi convince per niente, dunque, la democraticità di una riforma costituzionale calata dall'alto. E ovviamente non convince i ragazzi marocchini.


Da ultimo, l'Egitto. Tanto per confermare quella splendida analisi scritta da Oliver Roy sul post-islamismo, i Fratelli Musulmani egiziani hanno confermato di essersi spaccati. Lo si sapeva, ma la recentissima espulsione del più conosciuto leader riformista, Abdel Moneim Abul Futouh (c'è un suo ritratto nel mio Arabi Invisibili), dalla Fratellanza Musulmana rende la spaccatura del tutto evidente. Abul Futouh è uno dei candidati alle presidenziali, e l'Ikhwan non ha gradito la decisione del leader  riformista: dunque, il consiglio della Shura lo ha espulso, mentre lui si trovava in Gran Bretagna, per un giro di incontri con una delle diaspore egiziane più importanti e vivaci.


Abdel Moneim Abul Futouh è tornato al Cairo, accolto all'aeroporto, imitando l'arrivo un anno e mezzo fa di Mohammed el Baradei, che segnò l'inizio della nuova stagione politica egiziana. Nota di colore, che non è tanto una nota di colore: il dottor Abul Futouh si è tagliato la barba. E ha detto che è il candidato di tutti gli egiziani, musulmani e cristiani.


Il post-islamismo è iniziato. Ce ne accorgeremo?


La foto è di Piazza Tahrir. Sul cartello c'è scritto "Il popolo ti chiede di andartene" (riferito a Mubarak). E' usato il termine sha'b, popolo. Leggendo e spiluccando qua e là, tra i commenti sulla riforma costituzionale marocchina, ho scoperto che nella proposta di modifica che sarà sottoposta a referendum, non si è scelto sha'b, bensì umma, che dà più il senso della comunità, ed è termine usato nell'islam per definire la comunità dei fedeli. Chiedo lumi agli esperti. E se è vero che sha'b non è stato scelto, proprio durante le rivoluzioni che ripropongono il popolo come fonte, cuore, sorgente della legittimità del potere, questo dirà pure qualcosa. O no?

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Published on June 20, 2011 10:03

June 17, 2011

Da Bab el Hara alla Primavera


Per anni, il pubblico arabo si è commosso e si è arrabbiato appresso a Bab el Hara, la grande epopea per il piccolo schermo che ha riempito i sei precedenti ramadan. Per trenta giorni, tutte le sere, decine di milioni di uomini donne bambini si sono ritrovati tutti attorno alla tv per seguire la telenovela più amata, la prima in classifica, tutta incentrata sul coraggio dei siriani nazionalisti che lottavano contro l'occupante francese. Armati di poco, di pochissimo, ma forti  della necessità di essere liberi. Epica nazionalistica, tout  court, di quelle che all'inizio non si credeva che avrebbe scalzato il primato dei feuilleton egiziani nelle sere del ramadan.


E invece si vede che gli arabi erano così pronti a sollevarsi contro i propri regimi che persino una fiction per le famiglie poteva diventare – com'è in effetti diventata – un vero e proprio elemento della pop culture degli anni più recenti. Gadget, musica, foto, video, e persino la diffusione dell'accento siriano per ogni dove, tra il pubblico arabo.


E ora? Che succede  in Siria, sul palcoscenico di Bab el Hara, ambientato proprio nella Siria che si ribella alla colonizzazione francese, all'occupante, al regime? Succede che la chiamata in piazza per questo venerdì, che purtroppo si preannuncia come l'ennesimo venerdì di sangue degli ultimi tre mesi (la rivolta siriana è iniziata tre mesi fa, il 15 marzo), è dedicata a un eroe del nazionalismo siriano contro i francesi, sheikh Saleh al Ali. E non stupisce. Non perché ci siano nostalgie  per il nazionalismo di primo Novecento, visto che questo Secondo Risveglio arabo ha tutta una sua cifra. E' che la primavera araba va guardata a tutto tondo, perché si possa comprendere anche la sua pop culture. E di questa pop culture ha fatto parte anche, non c'è che dire, un polpettone televisivo come Bab el Hara, erede a suo modo dei nostri sceneggiati e del loro ruolo nella crescita di un pubblico televisivo.


Tanto è evidente questo rapporto tra tv, pubblico, miti politici e Primavera araba, che se ne occupa anche un finissimo conoscitore della pop culture della regione come Yves Gonzalez-Quijano nel suo sempre sorprendente blog, Culture et politique arabes. Si occupa, appunto, dei teledrammi e della rivoluzione, con una seconda puntata dedicata alla Siria. E alla posizione che il mondo del cinema siriano, volano della nuova presenza del paese nel panorama televisivo panarabo, ha preso (o meglio, spesso non ha preso) nei confronti del movimento del 15 marzo. E cita anche, en passant, un reportage di Al Jazeera concentrato proprio sulla posizione dei protagonisti di Bab el Hara, a poche settimane dall'inizio di un ramadan che si preannuncia difficile non solo perché è ad agosto e digiunare nelle lunghe e calde giornate d'estate non è semplice.


Miti televisivi a parte, una delle novità più importanti nel tragico panorama siriano riguarda altri tipi di comunicazioni. Quelle dei telefonini, per esempio, il che potrebbe sembrare irriguardoso nei confronti di una tragedia che va oltre i confini della Siria, e tocca tutto il Levante. Ma i telefonini, tra Libano e Siria, sono intrecciati indissolubilmente con la politica (ricordo serissimi problemi in Libano poco prima dell'assassinio di Rafiq Hariri…). Rami Makhlouf, il cugino di Bashar el Assad, uno dei bersagli del movimento 15 marzo, avrebbe ceduto i profitti derivati dal suo consistente pacchetto di azioni in Syriatel a una charity. Vuol dire che sarà sacrificato dal regime che tenta di salvare se stesso, visto che Makhlouf è considerato uno dei simboli della corruzione? Comunque vada a finire, per Makhlouf, la mossa del regime sembra ormai proprio tardiva. Il numero dei morti ammazzati dal regime sono troppi: si parla di 1300 vittime, forse più di quelle uccise dal regime di Hosni Mubarak che si opponeva alla rivoluzione egiziana…


Bashar el Assad annuncia un altro discorso, il suo terzo. Modifiche costituzionali? Forse, ma anche per questo è veramente troppo tardi.

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Published on June 17, 2011 07:44

June 14, 2011

Il popolo chiede…


"Ma allora sei una grillina anche tu!" Un mio (giovane) amico mi ha preso in giro così, ieri, quando gli ho detto che i partiti – nella grande giornata di ieri – andavano messi da parte. Non che non abbiano contato. Hanno, semmai, contato in un modo che non è stato visibile sui vecchi e sui nuovi media. Nel lavoro nei piccoli paesi, come quello – siciliano – in cui mi trovo, in cui il PD, erede di una vecchia e continua storia per le strade di Sambuca di Sicilia, è stato l'unica struttura che ha organizzato una manifestazione per parlare dei quesiti referendari. L'unica a fornire ai cittadini informazioni, grazie alla presenza di tecnici che potessero spiegare acqua e nucleare. E per la prima volta dopo tanti anni, la piazza si era riempita, segnalando che qualcosa – anche qui – stava cambiando.


Risultato. Il 72 per cento di questo paese siciliano (seimila abitanti) è andato a votare, compresi i vecchi vestiti con l'abito della festa, i vecchi ormai molto malati che non escono mai. E il 99% ha votato sì. La maggioranza del paese, la stragrande maggioranza del paese, e non solo la quasi totalità del paese, ha detto sì all'acqua pubblica e all'energia finalmente pulita. Ha anche detto sì alla politica nuova. Ed è su questo che bisogna ragionare, senza tema di essere accusata di antipolitica.


Lungi da me, l'antipolitica. Un'allieva di Paolo Spriano (e anche un po' di Alberto Asor Rosa) non può esserlo, per formazione. Ma proprio perché in quella formazione mi riconosco, oggi ancor più di ieri, ho imparato a farmi travolgere dalla realtà, come quando si nuota e non si può lottare contro il movimento delle onde. Semmai comprenderlo e assecondarlo, sfruttarlo. La realtà dice moltissimo. E soprattutto lo dice ai partiti. Dice che il popolo non è né plebe né popolo bue, come si diceva un tempo in maniera offensiva. Dice che il popolo non è solo insofferente, il popolo chiede e pretende. As-shab yurid… ricordate?


Ugo Mattei, uno di coloro che ha elaborato i quesiti sull'acqua (dunque sui beni comuni che devono ritornare tali), ha parlato stamani a Radio3 di "epifania italiana di un fenomeno globale". Perfetta definizione. Io – da mediorientale ormai nell'anima – lo declino a mio modo, e dico che Piazza Tahrir è arrivata in Italia. Sul web, certo. Attraverso l'uso dell'agorà virtuale perché l'agorà catodica pubblica è stata sprangata dall'uso che i partiti ne hanno fatto. Attraverso il tam tam di twitter, per esempio, che  ha usato i metodi sperimentati in tutto il mondo arabo. Ma anche attraverso quello che gli stessi ragazzi di Tahrir hanno sottolineato sempre, in questi mesi: twitter, facebook, i blog funzionano  se c'è anche la piazza, la partecipazione. Altrimenti sono vox clamans.


Ci sarà tempo per mettere insieme tutto ciò che è passato attraverso l'agorà virtuale. Dalle citazioni dei miei tempi (Libertà è partecipazione del vecchio, mai troppo rimpianto Gaber) a quelle mutuate dalle rivoluzioni arabe (ieri su twitter girava uno splendido Uninstalling Silvio…57% done). Il filo rosso è  la ribellione di un popolo che non ce la faceva più a essere costretto nelle gabbie delle manovre di una oligarchia politica autoreferenziale. Totalmente autoreferenziale. Tanto autoreferenziale da non essersi accorta di quello che stava succedendo.


Cito ancora egiziani, oggi, perché hanno letto della loro società quello che noi abbiamo stentato a leggere. Per lo stesso, medesimo senso di frustrazione. Il mio amico Alaa al Aswany dice spesso che il popolo (anche i larghi settori analfabeti o poco istruiti) ha un intuito politico che gli intellettuali non è detto che abbiano. E che gli intellettuali debbono ascoltarlo, questo istinto politico. Dovrebbe farlo anche l'oligarchia politica che una assurda legge elettorale ha autoalimentato, rendendola impermeabile al rapporto con i  cittadini.


E' finito questo tempo. Il voto del 12 e del 13 giugno (e a proposito, ho votato anch'io, da italiana all'estero, e al voto da italiana all'estero ci tengo molto…) ha detto che i cittadini, il popolo, pretendono dalla politica che risponda dei suoi atti pubblici. I partiti (che io considero una fondamentale organizzazione non solo e non tanto del consenso, ma delle richieste e delle riflessioni dei cittadini) possono avere spazio da oggi in poi solo se riflettono su questa precisa indicazione da parte del popolo. Una indicazione che non si può né scippare né sottovalutare. Solo comprendere. E da lì ripartire. Ripartire dal popolo.

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Published on June 14, 2011 09:28

June 12, 2011

#iohovotato


In gergo si chiama trend topic, e fa un po' a botte col fatto che – se il quorum per i quattro quesiti referendari sarà raggiunto (incrocio le dita!!!) – sarà per un esercito di ottuagenari e ultrasettantenni. E però qualche cosa, secondo me, significa, il fatto che #iohovotato sia diventato il primo tag su twitter. Per parlare più semplice, nel piccolo mondo di chi manda i messaggini che tutti possono leggere come se fosse un Facebook di poche parole (twitter, appunto) c'è oggi una parola chiave che sta montando. Appunto, #iohovotato. Una professione di voto, un modo per dire io c'ero, eccome se c'ero. Io ho deciso di contare, anzi, mi sto contando assieme a quelli della (ancora) piccola comunità del twitter italiano.


Siccome io sono notoriamente fissata con il web arabo, è comprensibile che io veda in questo tag la dimostrazione patente che il vento del Cairo sta soffiando, eccome. Non credo neanche di essere troppo ottimista o naive, semmai come sempre appassionata. Indossando di nuovo i grigi vestiti dell'analista, comunque, è un fatto che l'affluenza di tutto rispetto alle 12 di oggi si deve anche – se non soprattutto – al tam tam che la rete ha prodotto in questi ultimi giorni e settimane. E a dimostrazione della sua importanza sempre crescente c'è soprattutto il fatto che la tv è assente, o quasi, o talvolta remo anche parecchio contro. Una tendenza, questa dell'importanza del web, che ancora una volta ha un precedente nel mondo arabo. Di fronte a un'informazione parziale – e di regime, in quel caso …- la reazione è stata di creare un'informazione che andasse per conto suo. E supplisse alla carenza, se non al vuoto. Bene, sta succedendo anche da noi, a quanto sembra. Nel frattempo, al Cairo si sta svolgendo una strana cosa che ho capito solo in parte, e che dovrebbe essere una manifestazione via twitte. Per i patiti, come me, della democrazia partecipativa via web, il tag è #twitternadwa


PS. anche #iohovotato, ma all'estero. Accidenti… E se si superasse di molto il #quorum per il #referendum2011 sarei molto felice. Perché è da stamattina che ho il #Battiquorum per la #Affluenzareferendum




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Published on June 12, 2011 17:22

June 11, 2011

Non solo il proprio dovere….


Sono un'italiana all'estero, e quindi ho già votato. Sono dunque nell'incresciosa condizione di una cittadina che ha fatto il proprio dovere, e che potrebbe vedere annullato il voto. E non solo quello. Spero, quindi, che il quorum venga abbondantemente superato, domani, così che noi italiani all'estero non dobbiamo, ancora una volta, fare l'ago della bilancia, come già facemmo nelle penultime elezioni politiche. Quorum alto, questo spero. E ovviamente non tanto per le mie questioni individuali (che pure riguardano il diritto-dovere di ciascuno all'esercizio del voto). Spero nel quorum alto perché quando il vento comincia a spirare è difficile spegnerlo. Spero nel quorum – lo confesso – non solo per i quesiti referendari. Per l'acqua pubblica, per l'archiviazione definitiva del nucleare, per la legge uguale per tutti. Spero nel quorum, e basta.

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Published on June 11, 2011 17:59

June 6, 2011

Un anno fa. Solo un anno fa


E' passato  un anno. Sarebbe meglio dire, è passato solo un anno. Un anno dall'uccisione, da parte di due poliziotti, di un ragazzo ad Alessandria d'Egitto. Si chiamava Khaled Said, non aveva fatto niente, non aveva commesso nessun reato, era anche di quei ragazzi che non partecipavano alle manifestazioni di protesta. Era andato a passare qualche ora in un internet café. Due poliziotti lo hanno preso, pestato a sangue, sbattendogli la testa contro un tavolino di marmo e poi una cancellata. E' morto per le botte. Esattamente un anno fa.


Per i ragazzi egiziani, la morte assurda di Khaled Said è  considerata l'inizio della rivoluzione. Da quel momento in poi, i ragazzi hanno compreso che non si sarebbero salvati, che nessuno si sarebbe potuto difendere dal regime Mubarak. Che chiunque poteva essere Khaled Said. Il simbolo di quello che possono fare ingiustizia, tracotanza, corruzione. Assenza dello Stato di diritto. In quel momento sono state create le pagine Facebook  "Siamo tutti Khaled Said", che hanno raccolto centinaia di migliaia di giovani egiziani, più o meno impegnati in politica, o non impegnati affatto.


Da allora, ci sono voluti pochi mesi per scatenare una vera e propria rivoluzione, guidata dai giovani, accesa da Khaled Said. Che ancora, però, non riposa in pace. I suoi aguzzini non sono stati ancora condannati. E la rivoluzione è tallonata dalla contro-rivoluzione.


I ragazzi del Cairo e di Alessandria sono, però, ancora "tutti Khaled Said". Non possono e non vogliono tornare indietro, a quando erano bersagli senza alcuna protezi0ne


La fotoè stata rimessa in rete da Wael Ghonim, su twitter. E' la prima protesta per la morte di Khaled Said di fronte al ministero dell'interno egiziano. Le proteste, per sei anni almeno, sono state quasi sempre di questa entità. Poche decine di persone, circondate da cordoni e cordoni di polizia. Poi, d'un tratto le decine di persone sono diventate milioni… Meditate, gente, meditate.

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Published on June 06, 2011 14:06

May 30, 2011

Vento del Cairo


Ma sì, fatemelo dire, e con grande gioia. Un po' del vento bello del Cairo è arrivato a nord. A Puerta del Sol, ma anche a Milano e a Napoli. Perché anche al Cairo è successo che la speranza è tornata, dopo l'esempio di Tunisi… Allora è possibile fare buona politica, allora è possibile fare qualcosa, allora è possibile la responsabilità individuale. Allora… allora… allora è possibile.


Smesso l'aplomb della giornalista, più che la blogger è felice la cittadina italiana. E' felice la storica che vede di nuovo Milano e Napoli tracciare la strada, a nord e a sud. La Milano delle Giornate, la Milano della Resistenza e del 25 aprile. La Napoli delle 4 giornate, ma soprattutto – scusate il confronto ardito – la Napoli di Masaniello. La Napoli, cioè,  del popolo che spariglia le carte, e dà un verdetto rivoluzionario: sceglie un magistrato, simbolo della legalità, nella città considerata la più illegale d'Italia. Che lezione! A una settimana dall'anniversario della strage di Capaci…


Sono ovviamente tutti flash, affastellati, parzialmente emotivi. Eppure descrivono quel colpo di reni che era necessario e augurabile, per rompere questo cerchio di demoralizzazione che, qui in Italia, avverto come pervasivo e soffocante. Ora si può sperare. Ora i ragazzi possono sperare. E non è un caso che sia Pisapia sia De Magistris abbiano continuato a ripetere che le loro campagne elettorali le abbiano fatte i ragazzi, i giovani, i volontari. Era ora!!!


Il vento al Cairo, lungo il Nilo, può essere dolce e irripetibile. Sta arrivando, anche in Italia, ed è altrettanto bello.


BENTORNATA, ITALIA!

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Published on May 30, 2011 17:23