Paola Caridi's Blog, page 115

March 31, 2011

Diario del Cairo – La rivoluzione con gli occhi di Hagg Amin


Il passaggio è veramente stretto. Un metro, poco più, lungo le vetrine un bugigattolo che vende argento. Souvenir e non solo. A destra, si accede al palazzo, uno di quei tipici palazzi del centro del Cairo, affastellamento di vite, lavori, ceti sociali i più diversi tra loro. Nell'androne, il piccolissimo laboratorio di un sarto e un negozio di materiale elettrico che ora sembra serva solo al suo vecchio proprietario come passatempo. Per evitare di stare a casa e continuare a vedere gli amici. Nel secondo androne, appena oltre la prima corte, partono le scale del palazzo. Lungo la parete, i segni di una decadenza che rasenta i danni strutturali. Crepe profonde lungo il muro, in verticale.


Il laboratorio di Hagg Amin è però a sinistra, in uno scantinato. Sono arrivata in automatico. Sono state le gambe a portarmi in un posto che non vedevo da otto anni, e che ho ritrovato senza neanche averlo messo in programma. Nel mio piccolo corso di aggiornamento sulla Rivoluzione egiziana, la visita a Hagg Amin non l'avevo contemplata. La memoria, però, è uno strano oggetto, da maneggiare con cura e che vive di vita propria. La mia memoria del Cairo aveva deciso che non potevo non andare da lui, vero figlio del popolo, per capire cos'era successo, dal 25 gennaio in poi.


Quando sono arrivata alla porta del suo laboratorio, ho avuto paura. E se fosse morto, nel frattempo? Hagg Amin non è giovane, come dice il suo appellativo. Ma non bisogna essere pessimisti, nella vita. Io non lo sono mai stata. E anche stavolta ho avuto ragione. Hagg Amin è sceso dal soppalco dove ha la sua vecchia macchina da cucire. Mi ha visto, ci ha pensato, e poi mi ha indicato una vecchia busta con Titti, il personaggio dei Looney Tunes. "Questa busta me l'hai data tu". Dopo otto anni…


Il Cairo è anche questo. Gli egiziani sono anche questo. Persino in un posto in cui si pensa che non si potrebbe mai incontrare un povero sarto che vive in un quartiere molto popolare, e che poi, a metà giornata, se ne va nel suo piccolo, insalubre laboratorio. A Zamalek. La ricca Zamalek, il rifugio degli expat, a cento metri di distanza dal Marriott costruito attorno a una vecchia residenza reale, a poche decine di metri da una serie infinita di ambasciate, residenze, palazzi d'antan. La grande oasi del Gezira Club è a un tiro di schioppo. E Hagg Amin è la perfetta rappresentazione delle contraddizioni perenni e infinite del Cairo, quelle contraddizioni per le quali molti di noi Cairo-addicted abbiamo amato una megalopoli che, a prima vista, respinge e intimorisce.


In fondo, volevo sapere da Hagg Amin se la rivoluzione aveva toccato anche lui. Sul lavoro, certo. Lui fa i vestiti non solo per la vecchia borghesia di Zamalek, ma soprattutto per gli expat (me compresa), e gli expat, in molti, se ne sono andati, durante la Thawra. Pochi i vestiti appesi, quasi nulla da fare.


Pur essendo una expat come tante altre (e per giunta non più al Cairo), io ho con Hagg Amin un rapporto particolare. Da quando mi cucì malamente un vestito e io dovetti dirgli che mio padre per tutta la vita ha fatto il sarto. Un suo collega, insomma, che aveva macinato ago e filo. Sapevo bene, insomma, non solo come riconoscere gli errori, le cuciture tirate via. Ma anche la fatica di un lavoro che piega la schiena e fa calare la vista. Da allora, il nostro rapporto è cambiato: Hagg Amin cura di più il suo lavoro, e mi fa addirittura la sconto. Da povero sarto. Uno sconto che non posso rifiutare, perché si offenderebbe, ma che mi fa male.


Hagg Amin la rivoluzione l'ha vista in televisione. "Volevo andare a Tahrir, ma sono troppo vecchio". Hagg Amin la rivoluzione l'ha vissuta tornando ogni giorno al suo quartiere. È il comitato di quartiere che gestisce la sicurezza. A lui non chiedono i documenti, ma agli altri sì, da quando la polizia se n'è andata dalle strade. Hagg Amin è contento della rivoluzione. È contento della libertà. Anche se, ora, gli ha portato via i suoi expat e molto del suo lavoro. Ma i suoi occhi sono felici. Il Nuovo Egitto gli piace, gli ha riportato un orgoglio perduto. Ci sono tornata più volte, durante il mio piccolo corso di aggiornamento sulla Rivoluzione. L'ho trovato a volte seduto sulla vecchia poltrona, perché il lavoro non c'è. Gli ho portato lino e modelli da copiare. Li ha fatti di gran corsa, e puntuale (gli egiziani sanno essere puntuali, quando vogliono e quando trovano qualcuno davanti a loro che li rispetta). Abbiamo continuato a parlare, di libertà e timori, di soldi che non ci sono, di gossip italiano. Persino, ahimè, della "nipote di Mubarak". E io gli ho lasciato un'altra busta dove poter mettere stoffe e ritagli. Con la speranza – la prossima volta – di vederla appena all'ingresso, come quella con Titti.


L'epopea del tessile egiziano è finita da molto (ne ho già parlato, sul mio blog, due anni fa). Anche se, come spesso è accaduto nella storia egiziana, è proprio dal tessile, dall'aristocrazia operaia del paese, che parte la spinta delle proteste. E' successo nel 2008 a Mahalla, una protesta tanto forte che oggi, ex post, si può interpretare dal punto di vista storico come il prodromo della rivoluzione del 25 gennaio. E sempre Mahalla, non a caso, è stata sia uno dei centri della Thawra, sia – e non è causale – uno dei centri degli investimenti europei sul tessile, sul cui significato e sulla cui strategia di delocalizzazione dovremo un giorno o l'altro interrogarci.


Analisi storico-politica a parte, Hagg Amin rimane, per me, non solo una persona cara, un uomo del popolo, espressione della strada araba. E', a buon titolo, uno degli uomini per i quali questa rivoluzione è stata fatta.


La foto (il tipico tavolino dei rocchetti dei sarti, identico a quello che aveva mio padre in sartoria a Roma) è stata scattata al Cairo, a downtown, in quello che tutti conosciamo come il palazzo dei sarti. Uno di quei palazzi meravigliosi, decadenti e slabbrati di Talat Harb, divenuto cencioso e sporco, senza manutenzione di sorta, suddiviso in piccolissimi laboratori dove si cuce di tutto. Dai jeans per le grandi marche agli abiti da lavoro, dagli abiti da sera per le expat ai pantaloni per la vecchia borghesia. La foto è stata scattata da Francesco Fossa. Tra il 2002 e il 2003.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on March 31, 2011 10:01

March 30, 2011

Così parlo Bashar al Assad


Condivido l'analisi stringata ma efficace di Shadi Hamid su Twitter: "Le riforme? Forse. La cospirazione straniera? Certo. E le tv via satellite sono cattive". Il discorso di Bashar al Assad di fronte al parlamento siriano non era cominciato nel peggiore dei modi. Anzi. Il giovane presidente (al potere, comunque, da ben dieci anni) non ha ignorato quello che è successo nel mondo arabo. Non ha ignorato le rivoluzioni, le ha anzi chiamate tali, ha parlato della "strada araba", dei bisogni della gente. E ha inserito a pieno titolo la Siria dentro la regione: la Siria è parte integrante del mondo arabo, e dunque non può non essere influenzata da quello che sta succedendo. Analisi perfetta, e diversa da quella fatta dagli altri rais arabi che si sono trovati disarmati di fronte alle rivoluzioni. Il giovane Assad (e qui l'età conta) ha fatto tesoro di quello che è successo. Ne ha fatto tanto tesoro che non solo la sua retorica politica è stata diversa da quella adottata dai suoi omologhi in Tunisia, Egitto, Libia, Yemen. Anche le reazioni della folla pro-Bashar che inneggiava a lui fuori dal parlamento erano mutuate dagli slogan delle rivoluzioni. Al sha'b yurid è arrivato anche a Damasco, usato dai fedeli alla presidenza. Un segnale, questo, che le rivoluzioni hanno già vinto, comunque vada. Che, però, la manipolazione della retorica a uso della presidenza fosse solo un artificio, lo si è capito immediatamente sia dal luogo scelto da Bashar per parlare per la prima volta ai siriani, dopo l'inizio delle proteste. Sia dalle reazioni dell'uditorio. Il luogo è stato il parlamento, e la carrellata dei visi dei deputati, del loro modo di applaudire, delle cantilene per far piacere al presidente, degli slogan abusati ("con l'anima e con il sangue noi ti difenderemo, Bashar"): tutto era talmente stantio da stridere con quello che era successo nelle strade di Daraa e Latakia nei giorni precedenti. Lo stesso discorso di Assad, dopo un inizio diverso dai discorsi dei presidenti travolti dalle rivoluzione, non è riuscito a fare quel salto di qualità indicato dall'analisi della situazione regionale. Il discorso è stato tutto incentrato sulla cospirazione internazionale, con qualche battuta, subito raccolta dall'uditorio, su quanto siano cattive e distorte le informazioni fornite dai canali satellitari. Al Jazeera non è stata mai citata, ma sul banco degli imputati c'era, ancora una volta, proprio il network di Doha. Riforme, questa la parola più citata nel discorso di Assad. Anzi, riforme economiche. Il presidente siriano non è andato oltre questo, dando ancora una volta una lettura solo economistica delle rivoluzioni, senza comprendere il 'tanto' che c'è alle spalle dell'insoddisfazione sociale e che parla di diritti negati e di richiesta di cittadinanza. Un breve accenno alla legislazione d'emergenza (una bozza per cancellarla c'era già prima, ha in sostanza detto Assad), ma nient'altro. Nessun accenno alle libertà, alle riforme politiche, a possibili emendamenti costituzionali. Niente di quanto richiesto dalla 'strada araba'. Anzi, dalla 'strada siriana'. E allora, per capire qualcosa di più, oltre alla raccomandazione di cercare su twitter informazioni mettendo il tag #Syria, ecco il link a un post del sito di Joshua Landis, uno degli esperti di Siria. Raccoglie gli ultimi articoli usciti sulla crisi di Damasco. Non sono esaustivi, ma è un primo passo.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on March 30, 2011 14:00

March 29, 2011

Lo strappo del dottor Abul Futouh


La notizia era nell'aria da giorni, ed è diventata realtà appena son partita dal Cairo. La spaccatura nella dirigenza dei Fratelli Musulmani ha ora un nome e un cognome. Si chiama Abdel Moneim Abul Futouh, quello stesso medico, capo dell'Unione araba dei medici, di cui avevo parlato in un capitolo di Arabi Invisibili. Abdel Moneim Abul Futouh si è staccato dai Fratelli Musulmani, ha rivendicato la sua indipendenza e si accinge a far politica fuori dall'Ikhwan. Un partito, forse la stessa candidatura alla presidenza della Repubblica. E se così fosse, se Abul Futouh si presentasse alle presidenziali, i giochi sarebbero ben più complessi di prima, perché ai candidati più in vista, tra un Mohammed el Baradei in crisi di consenso e Amr Moussa che ha ancora un credito di popolarità, si inserirebbe una figura molto conosciuta, in Egitto. E la nascita di un altro partito di ispirazione islamista, il partito del Rinascimento Egiziano, porterebbe almeno a tre le formazioni politiche nate dalla Fratellanza Musulmana. Oltre al partito ufficiale, Libertà e Giustizia, anche quello centrista dei vecchi fuoriusciti che qualche anno fa avevano dato vita al Wasat.


La notizia è stata smentita da Abul Futouh nel tardo pomeriggio di oggi, dopo che era stata pubblicata anche da Al Dustour. Lo ha comunicato anche Abdelmoneim Mahmoud, blogger e giornalista di area islamista, che però pone dubbi sulla stessa smentita, perché il comunicato dovrebbe essere arrivato da fonti vicine ad Abdel Moneim Abul Futouh [grazie, Mohammed]. La smentita n0n cambia né il ruolo di Abul Futouh né i rapporti incrinati dentro la Fratellanza Musulmana, tra le diverse ali del movimento.


Quello che è certo è che la ruggine che per anni ha diviso l'ala conservatrice e l'ala riformatrice della Fratellanza Musulmana è ora divenuta fatto compiuto. Separazione. Ed è avvenuta ora, la separazione, perché non c'è più il regime, e dunque il nemico che, almeno formalmente, unisce tutti attorno a un obiettivo comune. Quando, con la libertà, è giunto anche il momento di formalizzare la rappresentanza politica dell'Ikhwan, movimento socio-religioso, ecco che le diverse anime della Fratellanza sono venute in superficie.


Che Abdel Moneim Abul Futouh non fosse in buoni rapporti con la nuova dirigenza dell'Ikhwan emersa dall'elezioni di Mohammed Badie, poco più di un anno fa, era apparso subito chiaro. Per anni era stato proprio Abul Futouh il candidato d'eccellenza alla 'guida suprema', ma la sua successione era stata messa da canto con una sorta di strano blitz dal quale l'anima conservatrice era emersa vincente. Abul Futouh era appena uscito dall'ospedale in cui aveva trascorso in pratica tutti i sei mesi di detenzione imposti dal regime di Hosni Mubarak (da giugno a novembre 2010), guardato a vista da una decina di uomini della sicurezza dello Stato, appena al di là della porta della camera di ospedale. Appena uscito, il suo ruolo all'interno dell'Ikhwan era apparso sempre più isolato. Eppure, è proprio Abul Futouh l'unico leader di mezza età che è riuscito negli anni a mantenere legami strettissimi con i giovani islamisti. I giovani islamisti che, assieme ai loro amici e sodali della sinistra  e dell'area laica hanno fatto la rivoluzione a piazza Tahrir.


Era la stessa sua storia personale ad aver decretato questo legame, nel corso degli anni. Lui stesso leader degli studenti islamisti negli anni Settanta, era stato poi il referente dei nuovi giovani. Non solo. È stato Abul Futouh a raccontarmelo in una lunga intervista che gli ho fatto nel suo studio di Qasr el Aini, dopo il referendum costituzionale del 19 marzo, nel quale si era schierato per il sì, ma non perché fedele alla richiesta della dirigenza dell'Ikhwan. "A piazza Tahrir c'erano tre dei miei figli. Uno, Ahmed, considerato tra i 'ragazzi' più in vista". Forse anche per questo contatto famigliare con i giovani di Tahrir, Abul Futouh aveva considerato importante non solo "ascoltarli, ma anche interagire". Lo ha fatto sin dall'inizio, scontrandosi da subito con una dirigenza, quella dell'Ikhwan, che ha prima sottostimato la protesta iniziata il 25 gennaio, per poi cercare un guadagno politico che non ha mai coinvolto del tutto le richieste che venivano dal movimento di Tahrir. Ora Abul Futouh si stacca dal movimento che, ufficialmente, sta dando vita a un altro partito politico, Libertà e Giustizia, espressione dell'Ikhwan, e la decisione del leader riformista avrà sicuramente un effetto all'interno dei giovani islamisti, che stanno causando da settimane un'emorragia di consensi dalla casa madre. Aderiranno al partito di Abu Futouh? Ne formeranno un altro a se stante? Si spaccheranno anche loro tra riformatori e conservatori? Tutto da vedere.


Per ora, Abdel MOneim Abul Futouh scherza sulle semplificazioni giornalistiche. Lo hanno definito l'Erdogan egiziano. E lui mi risponde, in un inglese molto migliorato dall'ultima volta che l'ho visto, "Semmai è Erdogan a essere l'Abul Futouh turco. Io sono più vecchio di lui". Si può interpretare in due modi: che l'ala riformista dell'Ikhwan egiziano ha una sua storia nazionale che vuole essere riconosciuta. E poi: che i modelli come quello turco vanno bene, ma l'Egitto è Egitto.


Lo strappo, dunque, è arrivato alla fine di una lunga storia. E  le smentite di Abu Futouh non intaccano la sostanza della questione. I Fratelli Musulmani si presenteranno divisi, alle elezioni. La vera pressione pericolosa è quella dei salafiti, cresciuti all'ombra del regime. Ma questo è un altro capitolo, ancora più complesso, che bisognerà analizzare con attenzione.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on March 29, 2011 16:41

March 28, 2011

Diario del Cairo – La città rifiutata




"Quando gli capita di girare la testa", e di guardare fuori dal finestrino della sua bella macchina di lusso, Ahmed Ashraf al Mansuri lo fa per "affermare di aver fatto la scelta giusta trasferendosi lontano da quello che ritiene come un mondo retrogrado che rimane un peso per l'Egitto, e che diminuisce e inquina l'immagine del Cairo. Sa di aver di nuovo scelto in quel mondo di far parte del futuro dell'Egitto. In ogni momento, pensa, questa folla si può trasformare in una orda in subbuglio, spinta dall'arringa di chissà quale sheykh manipolatore" di coscienze. Quella folla, è una folla di "contadini stretti in un universo inestricabile di mattoni, rifiuti, casette fai da te e vecchi progetti residenziali del governo".


Il racconto inventato da Eric Denis descrive, in modo perfetto, che cosa è successo al Cairo  a metà dello scorso decennio, quando l'èlite urbana ha abbandonato la megalopoli per rifugiarsi nelle città satellite, chiuse a fortezza e munite di tutto, dalla clinica privata al club, dalla scuola al supermercato. Cairo è rimasta così, nelle mani e nella sofferenza di quella "folla", di quell'umanità molto dolente arrivata dalla campagna, e sbattuta nelle interminabili periferie degradate così come nei quartieri popolari del Cairo. Il saggio di Eric Denis, "Cairo as Neoliberal Capital? From Walled City to Gated Communities", è contenuto in un volume di saggi del 2006, Cairo Cosmopolitan, curato da Paul Amar e Diane Singerman, studiosa molto acuta (AUC Press), ed è uno dei pochissimi libri che ho acquistato al Cairo. Non so come spiegare, ma la rivoluzione ha reso tutto così vecchio e datato, che gli unici libri che ho voluto comprare sono stati Cairo Cosmopolitan e il Cairo di Max Rodenbeck.


Pensavo che l'acquisto fosse dovuto alla profondissima nostalgia per la città che ho amato di più. E invece, poi, ho capito che era stato proprio il Cairo, la sua trama, il suo stato di salute, la sua decadenza, a colpirmi di più, in questo piccolo corso di aggiornamento sulla Rivoluzione. Inconsciamente, ho cominciato a fare paragoni con la città in cui ho vissuto, a cavallo dell'11 settembre, in un periodo altrettanto vuoto di turisti (forse ancor più vuoto di turisti) e importante nella sua storia contemporanea. Il risultato è stato un viaggio malinconico in una città – quella del centro e della immediata periferia, quella della profonda urbanità del Cairo – che vive in un tessuto urbano slabbrato, sempre più decadente, sempre più impolverato. Potrei fare un paragone con Napoli e con Palermo, se i paragoni non fossero comunque solo un segnale, un modo per far comprendere ciò che le parole riescono solo parzialmente ad esprimere.


Persino Garden City, persino la "mia" Doqqi, persino Zamalek sono rimaste ferme. Quartieri in apnea, in cui la vecchia eleganza, la storia importante, il contributo decisivo che hanno dato all'urbanità del Cairo sono sempre più nascoste da un'incuria che – senza dubbio – uno dei segni premonitori della Rivoluzione del 25 gennaio. E' uno sguardo ex post, certo, ma quel lasciare andare la città, quell'uscita delle èlite più legate al regime dal tessuto storico del Cairo, quella frattura tra chi vinceva col regime e chi subiva il regime è evidente negli stessi marciapiedi della città. Esprime, visivamente, la divisione sempre più crescente tra il popolo egiziano e i clientes del regime rinchiusi nei loro compound, nelle loro ville sulla Cairo-Alexandria Road, nelle loro nuove cittadine satellite costruite, guarda caso, proprio dai palazzinari legati ai Mubarak. A Hosni e a suo figlio Gamal.


Fuori dal Cairo, dal Cairo impolverato, inquinato, troppo popolare, troppo mescolato, troppo cocktail sociale. Le èlite si sono trasferite in un mondo ovattato ed elegante, lontano da una società urbana che era, però, specchio costante di quello che stava avvenendo. Della degradazione sociale di un paese. La Rivoluzione è frutto di questo scisma, ed è la rivoluzione di un popolo che si impossessa di nuovo del suo ruolo primario. Fonte del potere democratico, fonte della legittimità, della sovranità. Le èlite hanno visto questa Rivoluzione da lontano, e non l'hanno ancora compresa. Così come molti di loro non sono mai andati ad Ataba, lo Harrod's all'aperto del Cairo, e vi hanno mandato solo i loro camerieri.


Questa è, com'è comprensibile, sono una descrizione parziale, se si vuole emotiva, delle ragioni della rivoluzione. Ma Cairo è anche questo. Città misteriosa che, però, dice molto anche soltanto a girare per i suoi mercatini rionali, per quel commercio (di prodotti in gran cinesi) che è legame diretto e quotidiano col popolo cairota, oppure a parlare (e tanto, continuamente) con tutte le espressioni della sua società. Dai poveri alla media borghesia, dall'intellighentsjia agli artigiani. Cairo è un brodo di coltura dov'è possibile trovare tutto. È la città per eccellenza. Il regime ha rifiutato il Cairo, troppo contaminato. Ha lasciato tutto per essere da solo, disinfettato, incontaminato. E il Cairo l'ha cacciato.


La foto ritrae un bambino che, invece di andare a scuola, lavora. Sullo sfondo, si intuisce quella città di cui parlo, i suoi alberi, il suo taxi, la sua polvere, le sue facciate slabbrate. Non è un bambino fotografato (da Jano Charbel, secondo le regole Creative Commons) dopo la Rivoluzione. Questo era il Cairo, e lo è ancora, perché ci vorranno anni perché la città ritrovi una dignità perduta negli anni del regime.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on March 28, 2011 09:40

March 27, 2011

Cairo on my mind


Il mio piccolo corso di aggiornamento sulla rivoluzione egiziana è finito. Lascio il Cairo dopo aver camminato, ascoltato, visto la città che più amo dopo Piazza Tahrir e nel bel mezzo di una transizione delicata e confusa, come tutte le transizioni che succedono a una rivoluzione così travolgente.


Ascoltare gli uomini e le donne che raccontano cosa facevano il 25 gennaio, e poi il 26 e il 27, il 28, la battaglia dei cammelli, la notte tremenda della difesa di piazza Tahrir, il 10 febbraio e poi finalmente l'11, vuol dire fare un viaggio nelle cesure della Storia. Tutti, al Cairo, si ricorderanno per tutta la vita le singole giornate della Rivoluzione, anche se ora è il tempo dei timori, dei soldi che non ci sono, dell'economia che non riprende e dell'esercito che continua a tenere un comportamento ambiguo.


Cairo è bella e struggente come sempre, graziata da un vento fresco che la rende meno inquinata. Non nasconde, però, i segni di un tempo, quello degli ultimi anni del regime di Mubarak, in cui la città si è degradata, è stata lasciata andare, senza manutenzione, slabbrata, decadente. Al regime e ai suoi  clientes non interessava più di tanto: chiusi nei compouned, nei quartieri attorno alla megalopoli, non avevano grande sentore di come Garden City, Doqqi, Downtown, persino Zamalek, fossero diventati ancor più cadenti. Vecchie signore eleganti, ma con i vestiti lisi.


Se Cairo è diventata così, non è colpa della rivoluzione, ma di ha campato alle spalle dell'Egitto e degli egiziani. Vorrei che anche in Italia ci si rendesse conto di questo, prima di gridare "al lupo, al lupo". Delle sofferenze del Cairo, della povertà e della sporcizia dei quartieri popolari in pochi si sono interessati, in Italia, mentre il cosiddetto moderato Mubarak era al potere, così come non si sono interessati delle molestie sessuali che le donne egiziani hanno subito negli anni del regime, con un regime culturalmente connivente.


Ma'ssalama Qahira, città amata, e arrivederci a tutti gli amici che, come sempre, mi hanno accolto come una di famiglia.  Agli egiziani che ho incontrato auguro di rimanere forti, vivaci, intelligenti, orgogliosi così come li lascio, ancora sostenuti dal quel vento fresco di una rivoluzione inattesa, ma con radici e ragioni profonde.


A proposito di rivoluzione, e di quella visual art  che cresce nascosta nel mondo arabo, l'illustrazione oggi parla di graffiti. Per una ulteriore spiegazione dei personaggi rappresentati, qui, nel blog di Jano Charbel, c'è scritto tutto.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on March 27, 2011 07:20

March 23, 2011

Madri e figli


La festa della mamma, nel mondo arabo, si celebra all'inizio della primavera. Due giorni fa, per la precisione. Nel mio girovagare per il Cairo che si è aperto alla libertà, sono arrivata al Sawi cultural centre di Zamalek proprio mentre cominciava una particolare celebrazione della festa della mamma. Per le madri dei martiri di piazza Tahrir e delle tre settimane della rivoluzione egiziana.


Le madri sono arrivate alla spicciolata, accompagnate da figli, mariti, parenti. Vestite tutte di nero, assieme alla foto incorniciata dei figli che sono morti. Chiamate sul palco, è stato consegnato loro un piccolo pacco, un abbraccio. Alcune di loro hanno trovato la forza di parlare al microfono, con quel dolore sommesso e incolmabile che solo una madre può provare. Altre hanno nascosto la commozione tirandosi su un lembo del velo nero. Al loro posto, hanno parlato mariti, figli, figlie.


Per chi, come me, non è stata a Tahrir durante la rivoluzione, è stato un modo per vedere il catalogo sociale dei ragazzi che hanno fatto la Thawra. Non c'erano solo genitori medio-borghesi, gli intellettuali, i professionisti. C'era la gente povera del Cairo, il popolo umile e dignitoso, che sapeva benissimo perché i propri figli sono morti.


A parlare con  gli egiziani delle più diverse provenienze, i sentimenti ora si mescolano. Esprimono un orgoglio che prima era stato soppresso, nello stesso tempo il timore che il regime provi in qualche modo a resistere, a sopravvivere. Temono una deriva settaria, sanno che – se ci sarà – sarà uno dei tentativi di quella che chiamano controrivoluzione. Parlano pochissimo della Libia, anzi, per nulla. Continuano a parlare della politica interna, perché la ri-costruzione dell'Egitto è una priorità che non ammette distrazioni.


Sono ottimista, nonostante i timori.


La foto è di Ramy Raoof, uno dei ragazzi di Tahrir, 24 anni, informatico, attivista di diritti umani. Da Flickr.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on March 23, 2011 08:20

March 20, 2011

Comincia la fase numero 2


I'm not happy with the result. I'm only human. But I'm proud we had our first democratic vote in Egypt. Congratulations, #Egypt! #jan25


E' un tweet, un messaggino che arriva su internet in tempo reale e con la estrema rapidità del web comunica subito le reazioni a un evento. In questo caso, il tweet è di NadiaE, al secolo Nadia el Awady, blogger egiziana. Parla dei risultati del referendum costituzionale che si è svolto ieri in Egitto. "Sono orgogliosa perché abbiamo avuto il primo voto democratico", dice. E' vero. Non ho ancora incontrato una persona, tra ieri e oggi, che mi abbia detto di non essere andata a votare, e che non mi abbiamo mostrato con orgoglio l'inchiostro rosa fucsia sul dito, e che non mi abbia detto che aveva votato per la prima volta.


I dati ufficiali dicono che a votare è stato solo il 45% degli aventi diritto, 18 milioni di persone. Non mi stupirei se nelle grandi città la percentuale sia stata molto più alta. Comunque, per un paese disabituato al voto perché le elezioni non erano corrette, e in una fase ancora di pesante transizione, mi sembra che la prova di ieri sia stata – e non esagero – magnifica. Gli egiziani sono andati a votare nonostante la paura quotidiana di un paese in cui la polizia non vuole tornare per le strade (perché sanno di essere stati uno dei gangli del regime, perché la gente non li può  vedere, etc etc), in cui il futuro è considerato incerto e il timore dei colpi di coda del regime sono fondati.


Hanno vinto i sì agli emendamenti costituzionali decisi dal comitato ad hoc creato dal consiglio supremo militare e presieduto da Tareq al Bishri. Una vittoria molto netta, 77% rispetto al 23% dei no. La divisione non è stata netta, né si può dire che i sì siano stati la dimostrazione della forza elettorale dei Fratelli Musulmani. La divisione è stata trasversale, ha attraversato le età, le classi sociali, le culture politiche. Persino i ragazzi di Tahrir non erano tutti compatti nel sostenere il No. Neanche i settori laici erano uniti, e neanche gli islamisti. Le interviste che ho fatto ieri per il Cairo, tra votanti sconosciuti e amici cari, mi hanno 'fatto persuasa', come direbbe il commissario Montalbano, che ognuno ha veramente votato con la propria testa. Sorprendendo i pregiudizi.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on March 20, 2011 18:15

Scatti di democrazia


Ho scattato poche foto, dai seggi, e con le foto non sono brava. Ma sono per documentazione. In realtà, le file erano molto molto molto più lunghe, al Cairo, per il referendum costituzionale. E il catalogo degli egiziani che hanno riempito fino all'inverosimile i seggi era il più variegato possibile.  Cercherò anche altre foto, sul web, che diano di più  il senso di quello che è successo in Egitto, proprio mentre – a due passi – si sta consumando l'ennesima brutta pagina della politica mediterranea. La tardività dell'intervento sembra quasi prefigurare che la bella ondata delle rivoluzioni arabe subirà uno stop, a causa della guerra che ci sarà in Libia. Un modo, insomma, per rimandare ancora la democratizzazione dell'area. Spero solo che non ci sia, da parte di qualcuno, anche una strategia studiata a tavolino. Ma tanto io alle dietrologie non credo.



Al Cairo, nel frattempo, andava in onda una delle giornate più belle di questa città.


 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on March 20, 2011 00:21

March 19, 2011

La prima volta


Awal marra. La prima volta. Il suono di queste due parole, ripetuto fino all'ossessione in tutti i seggi elettorali del Cairo, è la colonna sonora del referendum costituzionale che oggi ha sancito l'inizio della Seconda Repubblica egiziana. Comunque vada a finire. Awal marra, la prima volta. La prima volta che vado a votare, la prima volta che – presentando semplicemente la mia carta d'identità – posso mettere una scheda dell'urna pensando di contare qualcosa. Di essere un cittadino. Questo è il pensiero comune del popolo indistinto che da stamattina presto si sta mettendo in fila, in fila per ore e ore, una, due, tre, fino alle cinque ore passate in fila da Wael Ghonim (vi ricordate? Il manager di Google che fu detenuto dalla Sicurezza dello Stato per quasi due settimane).


Ho visto centinaia e centinaia di persone. Di uomini e donne. Di ragazze e ragazzi. Di anziani, molto anziani, un uomo senza una gamba, ciechi, una donna tanto malata da doversi sedere appena arrivata in cima alle scale della scuola di Shubra. Giovani madri con neonati di appena un mese. Madri anziane, claudicanti, accompagnate dalle figlie. Bambini spauriti, di fronte alla folla ai seggi, assieme a genitori orgogliosi di poter mostrare il dito sporco di inchiostro rosa fucsia, simbolo del voto e della cittadinanza. Un modo rapido per non far votare la gente due volte. E il popolo egiziano, oggi, è andato a votare in massa. Awal marra, perché prima le elezioni erano truccate, e ora è diverso, dopo la rivoluzione.


E' stata una giornata piena di flash. Di fermo immagine. La ragazza che, come tanti altri, non porta solo la sua carta d'identità, ma anche una penna. Non si sa mai, avrà pensato, meglio essere previdenti, così son sicura di poter votare. Il vecchio con la tunica bianca, candida, sdentato, che esce e mostra il suo dito sporco di inchiostro: awal marra, anche per lui. Il ragazzo di Tahrir, con la maglia gialla su cui era scritto "Io amo l'Egitto": ha votato no. Anzir, per la precisione, La, taban. No, ovviamente. La signora di una certa età che mi guarda e mi chiede perché non voto; le rispondo che non sono egiziana (e come mi è dispiaciuto non esserlo, oggi…), e lei, senza badarci, mi chiede: sì, ma tu che voteresti allora, sì o no, chiedendomi consiglio su cosa fare. Ho visto un bambino bello, avrà avuto cinque anni, non di più, accompagnare la madre al seggio di una scuola di Doqqi, Cario centro, piccola e media borghesia. Gli ho chiesto, scherzando, se venisse a votare anche lui. La madre, di rimando, mi ha detto: "Deve vedere com'è andare a votare". Tradotto: deve vedere la libertà, per poterla difendere.


A Sayyeda Zeinab, quartiere popoloso, gli egiziani sciamavano nella scuola vicino alla moschea sorridenti, felici, emozionati. Tutti hanno raccontato cosa avevano scelto. Se sì o no. E hanno raccontato anche perché avessero fatto quella scelta. La sensazione è che, nonostante sia ben chiara l'indicazione fornita dai partiti e dai movimenti, in molti, moltissimi abbiano votato di testa loro. Ho visto ragazze chiaramente laiche e beneducate votare Sì, anche se i ragazzi di Tahrir sono per il no. Ho visto islamiste fare il contrario, nonostante i Fratelli Musulmani avessero indicato il Sì. E quando dico ho visto, vuol dire proprio vedere: perché il voto era pubblico, si barrava il Sì o il No di fronte a tutti, Con estremo orgoglio e libertà. Voto veloce, file interminabili, aria di festa. E qualche impreparazione.


Nirvana mi ha avvicinato al seggio aperto in una scuola di Mohandessin. Scuola stracolma, la fila fuori dal cancello, lungo le scale, le balconate. E' una avvocata, e chiedeva di parlare con i giornalisti, perché le schede non avevano il timbro del seggio elettorale. Lei aveva protestato, poi il presidente del seggio le ha promesso che le schede sarebbero state timbrte quando avessero aperto le urne. Un escamotage alla egiziana, dovuto – mi sembra – più alla fretta con la quale il referendum è stato indetto, che non a irregolarità fondate sulla malafede. Il vero elemento interessante è però il comportamento di Nirvana, sportivamente elegante, occhiali alla moda, veletto lilla, bellissima ragazza. Lei era lì non perché era una ragazza di Tahrir, e non perché apparteneva a un movimento 'rivoluzionario', come si chiamano i movimenti dei ragazzi di Tahrir. Solo perché è una egiziana e vuole proteggere la democrazia. Responsabilità individuale, da singola cittadina. "Lo sai?", mi ha detto, "è la prima volta che sento, nel profondo, l'orgoglio di appartenere a questo paese".


Sui visi degli egiziani, oggi, c'era lo stesso orgoglio allegro, forte, di chi sta in piedi e non piega più la schiena. Sì, No, uno accanto all'altro, mentre ancora una volta erano le donne, anche stamattina, le più convinte e decise. Mi sa tanto che le donne egiziane segneranno anche stavolta, come all'inizio del Novecento, il cambiamento di questo paese. Oggi il Nuovo Egitto era bellissimo, lontano dai riflettori. Ha vissuto la sua grande giornata: ha segnato l'inizio di un pezzo di cammino, difficile, ma entusiasmante. Indietro non si torna, nonostante i rischi di una controrivoluzione.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on March 19, 2011 15:27

March 18, 2011

Hyde Park all'egiziana


Di nuovo a piazza Tahrir, per  la seconda puntata del piccolo diario virtuale.


"Domani vado per la prima volta a un seggio elettorale. E certo che sono  emozionata". Veletto a quadretti blu e nero, matita verde acqua che le segna la parte inferiore degli occhi, la studentessa di legge non  mostra alcun timore nei confronti dell'idea di un seggio elettorale. Non ha votato a novembre, per le politiche. Vota invece domani per il referendum sugli emendamenti costituzionali preparati dal comitato ad hoc. Lo farà assieme ai suoi due amici, e colleghi di università. Non sono ragazzi di Tahrir. O almeno, non lo erano all'inizio. Facevano parte di quel settore dei giovani che non parlava di politica per paura, non si esponeva, rimaneva al suo posto, per così dire. "Poi la rivoluzione ha mostrato il livello di corruzione, ci ha fatto vedere le cose, e allora siamo venuti a Tahrir".


Tahrir, dove ancora oggi i tre ragazzi sono, ma per discutere del referendum costituzionale, ha segnato la cesura della loro vita. Prima al futuro non ci si pensava, perché non si riusciva a vederlo. Ora è tutto un fiorire di progetti, nella propria testa. Libertà di sognare cosa si farà da grande, e cioè tra poco, quando prenderanno la laurea. Sono sicuri, vogliono la vita, e domani voteranno No. Contro gli emendamenti costituzionali, e soprattutto per una nuova costituzione. Sono un migliaio circa, nel primo pomeriggio di Tahrir, attorno a piccoli palchi messi sul limitare dei grandi marciapiedi della piazza, tra il vecchio  ministero dell'interno e l'angolo dello stradone che porta verso il Museo Egizio. Ascoltano chi interviene sui palchi, chi spiega perché voteranno no, perché tutto il coté di carretti con tè, caffè, popcorn, koshari, patate dolci dà ristoro nella prima giornata calda, in attesa del vento del qamasin che arriverà a breve.


Hyde Park all'egiziana. Speakers' corners sul limitare di un marciapiede, nel traffico che continua, regolato dai soldati mandati per la prima volta a fare vero ordine pubblico e a fare anche i vigili urbani. Un assaggio di quello che succede ovunque, dentro le pollerie e i fruttivendoli, nei bugigattoli che vendono dalle patatine alle ricariche telefoniche. Si parla di politica. Solo di politica, anche se alla televisione è tornato il calcio, e lo Ahly – una delle due squadre del Cairo – finalmente rigioca. Ma di calcio non si parla, e si parla di costituzione. A non finire. Tra sconosciuti, nei capannelli, al telefono, per le scale. Dal barbiere, ovviamente…


È una carezza, per la mente di noi occidentali che le abbiamo già viste tutte. E  non ci ricordiamo neanche com'è far la politica per la strada. Se Tahrir non è più eroica, c'è una Tahrir più normale, più polverosa, e allo stesso tempo altrettanto importante. Per la prima volta, gli egiziani parlano dei seggi elettorali, dove andranno a votare, e dove non si recavano perché tanto le consultazioni erano truccate. E' un giorno importante, domani. Comunque vada. Gli egiziani tornano a votare.


E i tre studenti della facoltà di legge lo sanno. Sanno –dicono – che il loro compito non è più avere paura. "E che il presidente è uno che viene eletto, non un Faraone". Non avremo più paura. E quando diventerò vecchio, l'immagine che racconterò ai miei nipoti sarà quella dei martiri, dei ragazzi che sono morti a Tahrir, dicono quasi in coro gli studenti. Per i martiri, dicono, hanno il dovere di non aver più paura, e di rimanere sempre all'erta, perché non torni il regime.


E' un buon inizio.


La foto è di Tahrir qualche settimana fa.


Scambio di battute tra due sconosciuti, sempre oggi pomeriggio a Tahrir.


"Io ho votato lo NDP, il partito dei Mubarak, a novembre, perché avevo paura che vincessero i Fratelli Musulmani", dice la donna con i capelli a caschetti, e un paio di occhiali da sole Chanel.


"E io ho fatto il contrario, ho votato i Fratelli Musulmani perché non vincesse lo NDP", dice il suo interlocutore.


Domando: "Ma nel migliore dei mondi possibili, quale partito votereste?". I due, in coro: un partito liberale.


Conclusione. Divide et impera, questo era il motto di Mubarak

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on March 18, 2011 17:34