Paola Caridi's Blog, page 113
April 20, 2011
Ogni Mattina a Jenin
Sono passate due settimane dall'uccisione di Juliano Mer Khamis, l'attore al cento per cento ebreo e al cento per cento palestinese che aveva riaperto il Teatro di Arna. Il teatro dei bambini e dei ragazzi del campo profughi di Jenin. Un luogo nascosto, ai più. Non certo un luogo raccontato, come le città palcoscenico della narrativa. Perché ambientare una storia a Jenin, luogo dimenticato, per nulla affascinante…
Eppure, Jenin, il campo profughi, conserva la stessa dignità di altri luoghi. A Jenin si può fare non solo teatro. Anche letteratura.
Forse è per questo che Mornings in Jenin, il romanzo di Susan Abulhawa, ha avuto tanto successo, nel mondo. Tanto che quel paragone con il Cacciatore di Aquiloni, un "cacciatore di aquiloni in versione palestinese", non è per nulla posticcio. Un successo dovuto soprattutto al passaparola, al responso dei lettori piuttosto che all'influenza della critica.
Il romanzo di Susan Abulhawa è un'immersione totale, dolorosa nella storia palestinese degli ultimi sessantatre anni. E' un bagno nel dolore, nella sofferenza, nelle facce impietrite delle donne, nelle madri a cui è stata staccata la carne dei figli. Dalla Jenin che accolse i profughi del 1948 alla Jenin del 2002. Dai profughi alla diaspora.La umanizzazione di un popolo, coperto – come molti arabi, negli ultimi anni – da un grande stereotipo che ne annulla persino i tratti somatici. Le rughe dei volti.
Questo racconto corposo, ambizioso, a tratti molto commovente è ora anche in italiano Da oggi, per la precisione. Ogni Mattina a Jenin, edizioni Feltrinelli. E Susan sarà in Italia, a breve.
Stay tuned, anche in questo caso.
Questa è l'intervista che ho fatto a Susan Abuhawa, pubblicata su Saturno, l'inserto culturale del Fatto, con un titolo molto bello, Mia madre si chiama Palestina.
Occhi neri, allungati, penetranti come lame. Di quelli che, in Palestina, si vedono spesso. Sono gli occhi di una bambina con una mano nella tasca del giubbotto, e l'altra stretta alla sua maestra. Una piccola studentessa in uniforme blu, immortalata in una vecchia fotografia dell'inizio degli anni Ottanta, sulle scale del Dar el Tifl. E' la Casa dei Bambini, il più famoso orfanotrofio di Gerusalemme est. Quell'orfanotrofio reso celebre, recentemente, da Miral, il film di Julian Schnabel tratto dal libro di Rula Jebreal.
Non hanno perso profondità, quegli occhi, nel viso di Susan Abulhawa, l'autrice del romanzo palestinese da anni più diffuso nel mondo, tra pochi giorni anche sugli scaffali delle librerie italiane, col titolo Ogni mattina a Jenin (Feltrinelli). Lo hanno paragonato al Cacciatore di Aquiloni versione palestinese: un ponderoso viaggio famigliare nella storia dura e dolorosa di un intero popolo, diviso tra terra, rifugio, esilio "C'è una parola araba che esprime il senso di una vita così lontana dalla propria terra. Ghorba, una parola che ha in sé il significato di straniero. Quando penso all'esilio penso che ciò che rimane del legame con la propria terra è contenuto tutto dentro al cuore, rafforzando ciò che si è. Quello che manca sono le piccole cose fisiche". La lingua, o il caffè, per esempio. Susan Abulhawa mostra la mug di caffè americano, sul tavolo della sua casa americana: immagine sgranata, via skype. Non è caffè arabo, di quelli ristretti, neri, saada, come si usano fare in Palestina. E il profumo di cardamomo non arriva al di là dell'Atlantico.
La generazione alla quale appartiene Susan Abulhawa è diversa da quella di Edward Said e di Mahmoud Darwish, icone dell'esilio palestinese. Cantori di un legame con la propria terra che si è interrotto di netto a un certo punto della vita. L'autrice di Ogni Mattina a Jenin è nata in Kuwait, nella cosiddetta Piccola Palestina, quando già c'era stato il secondo strappo, la Guerra dei Sei Giorni. Nata da profughi della guerra del 1967, la Abulhawa ha cominciato il suo peregrinare negli Stati Uniti, per poi tornare a Gerusalemme, frequentare il Dar el Tifl, e poi varcare di nuovo l'Atlantico. Eppure, il senso di "appartenenza" alla Palestina è profondissimo. Inscindibile. È quello che, nel romanzo, viene descritto da Hassan Abulheja, il padre della protagonista, Amal. Profugo del 1948, costretto a fuggire da un paese agricolo vicino a Haifa, e rifugiarsi appena oltre la Linea Verde, a Jenin. "Veniamo dalla terra, le diamo il nostro amore e il nostro lavoro, e lei in cambio ci nutre. Quando moriamo, torniamo alla terra. In un
certo senso, le apparteniamo. La Palestina ci possiede e noi apparteniamo a lei."
"E' così", dice Susan Abulhawa. "E' un senso di appartenenza che è molto nella sfera della emotività. Ed è un senso che con l'andare degli anni diventa sempre più intenso. Soprattutto dopo essere divenuta madre". È l'umanità a venire prima di qualsiasi dimensione politica. "Palestina significa mia nonna, i proverbi, le canzoni tradizionali, la terra. Gli alberi".
Certo, però, è altrettanto impossibile separare l'appartenenza all'identità palestinese dalla dimensione politica. "La Palestina è la mia memoria, e assieme ad essa la Palestina sono i diritti, le violazioni, la dignità umana calpestata, la storia cancellata". Un intreccio, quello tra terra, storie individuali e memoria collettiva, che costituisce – peraltro – proprio la trama di un romanzo che si dispiega lungo tutte le tappe della contemporaneità palestinese, dalla Nakba del 1948, la catastrofe per i palestinesi e la nascita dello Stato, per gli israeliani, sino alla seconda intifada, passando per l'occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est, per le violenze, per l'esilio, per il terrorismo. Tutto visto con gli occhi palestinesi, riappropriandosi di una narrativa spesso invisibile e misconosciuta.
Soprattutto se poi, a raccontare le ferite di un popolo e di un esilio, sono gli occhi delle madri, e delle figlie divenute a loro volta madri. Non è un caso. Per Susan Abulhawa (la scrittrice) "la Palestina è una madre, salda e perseverante". Per Susan Abulhawa (la donna) il suo esilio "non è solo l'esilio da un paese, ma da quella famiglia coesa che io non ho mai avuto. Una doppia espropriazione".
April 19, 2011
Arabi Invisibili. Lo ebook
L'ho scritto nel 2006. L'ho pubblicato nel 2007. Esce in ebook nel 2011. Questo libro è proprio figlio di quel mondo arabo cangiante nel quale vivo da dieci anni esatti. Di carta nel 2007, e ora sullo schermo… sempre edito da Feltrinelli, che ha aperto da mesi una sezione digitale sempre più ricca.
Arabi Invisibili era nato dall'urgenza di spiegare gli arabi che incontravo quotidianamente, ignorati o – peggio ancora – travisati dalla mia Italia, dalla mia Europa e dal mio Occidente. Tutto per un calcolo politico, rivelatosi talmente miope con le rivoluzioni da avere messo addirittura l'Occidente con le spalle al muro. Senza risposte, o con risposte talmente razziste e volgari da essere nauseanti.
Arabi Invisibili parla di atleti, di donne con o senza velo, di cantanti, di maestri di scuola, di scuole cristiane e di studenti musulmani, di imprenditori, di palazzinari egiziani, di emigranti, di arabi che vogliono la democrazia. Parla anche di blogger. Alcuni li avete visti a Piazza Tahrir, come Alaa Abdel Fattah e sua moglie Manal Hassan. Alcuni, come Sami Ben Gharbia, sono riusciti a tornare in patria, in Tunisia, dopo un esilio combattuto a suon di web. Altri ancora, in Bahrein, subiscono una repressione più dura di quella che subirono nel 2005.
Non è un libro aggiornato. Non parla delle rivoluzioni. Ma se volete capire le rivoluzioni del 2011, vi potrà essere utile. Perché le rivoluzioni non nascono dal nulla, e anche queste sono il prodotto di una dissidenza che è cresciuta all'ombra del web e di quella gioventù che ha deciso di combattere contro la rottura del contratto sociale, decisa dai regimi corrotti.
Faccio pubblicità al mio libro. Sì. E con molto orgoglio. Questo libro è nato dalla precisa richiesta di un arabo invisibile, di un egiziano. Quell'arabo invisibile, non solo l'11 febbraio del 2011, ma anche nei giorni precedenti, era a Piazza Tahrir, a festeggiare l'Egitto libero. Il nuovo Egitto. Lo sono andata a trovare, ovviamente, quando sono andata qualche settimana fa al Cairo. La prima cosa che mi ha detto è stata: "Hai visto? Avevamo ragione…". Gli arabi erano invisibili, allora. Ora non più….
April 18, 2011
In direzione contraria
Coltivando tranquilla
l'orribile varietà
delle proprie superbie
la maggioranza sta
come una malattia
come una sfortuna
come un'anestesia
come un'abitudine
per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
Fabrizio de Andrè
Questa è una delle foto scattate fuori dall'ospedale Shifa di Gaza City. I ragazzi di Gaza gridano e piangono al passaggio della bara di Vittorio Arrigoni, portata a spalle da un picchetto d'onore mandato dal governo di Hamas. Dietro la bara, uno dei dirigenti più noti di Hamas, Ghazi Hamad, ufficiale di collegamento per il valico di Rafah. Il corpo di un pacifista portato a spalle da sei militari: che segno di contraddizione. Uno dei segni, dai tanti descritti per esempio in questo commento. Uno dei tanti segni, come quella giovane donna con i capelli corti che vedete piangere, nella foto. Si chiama Asma el Ghoul, forse la femminista più nota di Gaza. Una storia bella, esemplare, uno scontro sempre più forte con il governo di Hamas, che Asma racconta per esempio nel (bellissimo) reportage di Filippo Landi, andato in onda nell'Agenda del Mondo di Rai3, l'unico vero reportage che ritrae – come già dice il suo titolo, I Ragazzi di Vittorio - i ragazzi di Gaza e della Cisgiordania, quelli che erano ai funerali di Vittorio Arrigoni, alle commemorazioni di Juliano Mer Khamis, a digiunare a Piazza al Manara, alla veglia di fronte alla Natività per Vik Arrigoni e per Juliano Mer Khamis.
Potenza di una morte. Asma el Ghoul è lì, di fronte alla polizia di Hamas, che piange Vittorio Arrigoni. Mentre la polizia di Hamas porge gli onori militari a un pacifista. Che contraddizioni… Possiamo ragionare, e bisognerà farlo, sugli interessi che son cresciuti attorno a questa morte. A questo corpo tirato di qua e di là, alla superficiale e francamente stupida e volgare polemica sull'ultimo viaggio di Vittorio Arrigoni, in cui persone che non si sono mai occupate di lui in vita hanno voluto prendere parte a una discussione in cui si sarebbero dovuti astenere dal dire nulla, lasciando alla madre, alla famiglia, il diritto/dovere di decidere. Polemiche a parte, interessi a parte, anche dentro Gaza, c'è uno spicchio della fotografia di questa morte che è rimasto – come spesso succede – nascosto. Ed è la reazione a questa morte. A Gaza, soprattutto. Ma non solo.
E' per questo che ho scelto, tra le tante, un'immagine che mostrasse i ragazzi. Questo segno di contraddizione, com'è stata la morte di Vik Arrigoni, può essere anche segno di discontinuità, vista la reazione che si è avuta in Palestina, tra tristezza, indignazione, stupore. Non è una morte indifferente, come non lo è stata quella di Juliano Mer Khamis. Se i salafiti hanno voluto mostrare la propria forza, uccidendo uno straniero, hanno nel contempo fatto vedere la loro debolezza. Una debolezza che deriva dal processo messo in moto dalle rivoluzioni arabe. Stay tuned. Non perdete di vista i ragazzi arabi.
La salma di Vittorio Arrigoni è un Egitto. Domani pomeriggio sarà aperta una camera ardente nell'Ospedale Italiano del Cairo, il vecchio ospedale italiano. Un altro segno, quello della storica presenza dell'Italia in Medio Oriente… A Gaza ci sono ragazzi che hanno pianto per il pacifista Vik Arrigoni. Al Cairo ci sarà una camera ardente. E in Italia?
April 17, 2011
PalFest 2011!
La vita cambia i programmi. Punto. Quando Vittorio Arrigoni è stato ucciso, Gerusalemme est si stava preparando all'inaugurazione del PalFest edizione 2011.E io pensavo finalmente di potermi rilassare e ascoltare reading, incontrare scrittori, rivedere vecchie amiche. E invece la storia irrompe, amara, triste.
PalFest. Festival della letteratura itinerante, perché è ben difficile fare un festival della letteratura palestinese se gli scrittori palestinesi – Suad Amiry compresa – non hanno il permesso, dalle autorità israeliane, di arrivare a Gerusalemme. E se è poi così defatigante spostarsi da Nablus a Betlemme. Così, se la famosa montagna non va a Maometto, sono gli scrittori – tutti anglofoni, molti britannici, e poi americani, indiani e via elencando – che vanno dal pubblico. A Ramallah, Nazareth, Nablus, Betlemme: là dove c'è un pubblico palestinese e letteratura araba.
Anima del PalFest è Ahdaf Soueif, tenace. Lei è una scrittrice egiziana, vive in Gran Bretagna da decenni, scrive bellissimi romanzi in inglese e non in arabo. Prima di arrivare a Gerusalemme è stata di nuovo al Cairo. Di nuovo, perché c'era già stata dal 25 gennaio in poi, sempre a piazza Tahrir, a fare la rivoluzione. Ora è nelle città palestinesi, a parlare di letteratura. Incredibile, vero? Esiste un'altra faccia del pianeta Palestina che fa letteratura, poesia, legge, scrive, studia. Va all'università. Non per questo dimentica identità, storia, cibo, dignità. Parola. Un pianeta da scroprire, se vi capita.
Intanto, se avete tempo e voglia, potete seguire il gruppo degli scrittori nel loro viaggio, attraverso il blog di PalFest. Racconti, niente di più. E dunque uno sguardo nel territorio, fra le persone. La foto fa parte dell'album del PalFest su Flickr. Un altro modo per viaggiare con loro. Lo scatto viene da Gerusalemme est, dall'African Community Center, dove il PalFest 2011 ha avuto inizio, la sera del 15 aprile, dopo un primo appuntamento con i bambini dei campi profughi a Betlemme. L'ho scelto perché ritrae un quartiere dimenticato, dentro il Quartiere Musulmano della Città Vecchia. E' il quartiere dei cosiddetti palestinesi africani, accanto alla Spianata delle Moschee, uno dei più antichi della città. Nei pellegrinaggi, nei viaggi attraverso questa città troppo santa, fateci un salto. E' vicino all'Austrian Hospice, vicino al Muro del Pianto, accanto alla Spianata, vicino alla Flagellazione e a Sant'Anna.
A proposito, buona Domenica delle Palme, a chi ci crede.
April 16, 2011
Omaggi
Io continuo a pensare che i social network abbiano un loro significato – appunto – sociale. Sono un'agorà, una piazza, una tipografia, una sala riunioni, persino un cimitero, un posto in cui commemorare una persona cara. O giusta. Possono essere tante cose, ma io sono d'accordo col mio amico caro Pino Bruno. I social network bisogna tenerceli cari. E quindi, quando in molti mi hanno chiesto se ci saranno iniziative a Gerusalemme est e in Cisgiordania per ricordare Vittorio Vik Arrigoni, ho scatenato il social network di riferimento, Facebook, e per ora sono riuscita a sapere che ci sarà tra pochissimo, all'una, una manifestazione a Ramallah, davanti alla Muqata, per ricordare non solo Vittorio Arrigoni ma anche Juliano Mer Khamis. Una commemorazione comune che mi fa sentire, a dire il vero, anche meno sola. Siamo in tanti, insomma, a pensare che su queste due morti bisogna piangere e pensare, insieme. L'altro appuntamento è a Beit Jalah, alle sei di questo pomeriggio, per una messa per Vittorio Arrigoni.
E a proposito di fede, un mio amico caro, uno di quegli uomini che sa guardare negli occhi dell'altro, mi ha detto stamane di Vittorio, che non conosceva: "in quella foto aveva il volto santo". Chi è cattolico sa il significato di questa frase che mi ha colpito non poco perché io, da vecchia laica, non ci avevo pensato, ieri. L'innocenza e la sensibilità di altri hanno compreso oltre ciò che è semplice e superficiale.
Vorrei, però, spendere qualche parola in più sui social network, evitando, invece, di sprecare parole sulla rassegna stampa di oggi, su Vittorio Arrigoni, per carità di patria e di categoria… Un'altra occasione persa per raccontare ciò che va oltre gli stereotipi e i ritratti manieristici. I social network, dicevo. Se è vero che si potrebbe fare qualcosa di più per le strade e le piazze, è altrettanto vero che la realtà virtuale, quella alla quale Vittorio Arrigoni parlava, ha mostrato un afflato incredibile. Dalle pagine Facebook ai blog, ai video postati in modo virale, alla foto di Vik usata come profilo (la sto usando anch'io, per un piccolo, personale, intimo omaggio…). Quella pagina We are all Vittorio Arrigoni ricorda così decisamente la pagina We are all Khaled Said da essere un'altra conferma che tutto, in questa regione, ora, si tiene. We are all…, che è così simile a Per chi suona la campana, tanto per pensare ad altre generazioni di ragazzi che avevano a cuore il mondo e i diritti.
La foto che ho scelto fa parte di questi fili colorati che stanno riempiendo il mondo arabo. E' stata scattata il 15 marzo a Gaza. Il 15 marzo, tra Gaza e Ramallah, sono scesi in piazza i ragazzi palestinesi, quelli nonviolenti. Chiedevano, e chiedono ancora, la riconciliazione, e un nuovo modo di far politica. Come gli altri ragazzi arabi. Tra loro c'era anche Vittorio Arrigoni, a quanto pare…
Vik e i ragazzi di Gaza
Questi ragazzi immortalati dalla foto sono quelli che ieri sono scesi al centro di Gaza City per rendere omaggio a Vittorio Vik Arrigoni, e protestare contro la sua uccisione. Sono in tutto simili a quelli di Piazza Tahrir, o del centro di Tunisi, o del Pearl Roundabout di Manam. Sono ragazzi arabi come gli altri, dentro una generazione che è la vera protagonista del processo rivoluzionario in corso in tutta la regione. Quanto questi ragazzi di Gaza siano simili agli altri lo si vede dalle piccole cose della pop culture. Il modo di vestire, i cartelloni fai da te, la decisione sui loro volti (sulla pagina Facebook della Gaza Youth ci sono i volti in primo piano, le conversazioni, il funerale simbolico). Né più né meno come gli altri. E viene da chiedersi come abbiano fatto, come siano riusciti a "restare umani" dentro la prigione a cielo aperto di Gaza…
Che siano né più né meno come gli altri me lo ha fatto capire stamattina, involontariamente, Khaled Abul Naga. Forse il più noto giovane attore egiziano. Credo, suppergiù, dell'età di Vittorio Arrigoni. Su twitter, kalnaga – impegnato da molti mesi nella campagna a sostegno di Mohammed el Baradei, e durante la rivoluzione del 25 gennaio una delle voci di piazza Tahrir – ha cominciato una discussione virtuale su chi ha veramente ucciso Vik e perché. Come mai un attore egiziano famoso, e allo stesso tempo un ragazzo di Tahrir, si interessa a un pacifista italiano da anni a Gaza? Anzitutto, perché a Gaza i ragazzi di Tahrir tengono. Molto più della politica politicante egiziana e del vecchio regime. E poi perché Vittorio Arrigoni rappresenta quella resistenza nonviolenta che è stata il filo rosso delle rivoluzioni, anche quando il sangue è scorso per le piazze arabe. Se sangue e violenza ci sono stati, infatti, è perché i regimi hanno reagito a una protesta diversa dal solito, spiazzante, innovativa. Salmiya.
Questo è il commento di Khaled Abul Naga. Chi ha letto le domande che ieri mi sono posta sull'omicidio di Vik Arrigoni, può rintracciare dentro le parole di kalnaga cosa ho cercato di dire: è tutto diverso, ormai da mesi, qui. Il vocabolario, lo spirito, la forza.
I believe The ARAB Revolutions shacked everything and everyone.. The ugliness of the forces of chaos (typically from the people in power) and some radical ideological groups (like Muslim Brother. and salafi's) felt powerful too in the aftermath of the fall of the repression republics
but.. People and millions of them on the streets are the main player… from now on such united arab awakening is the major force.. and neither the people in power (now or before) nor such radical groups; have any real ability to move things.. so who would benefit from a step backward? a step like a salafi group killing a freedom fighter?
and if what we think is right?
How can we creatively counter act such an act?
Ho scritto su Vittorio Vik Arrigoni, sui salafiti, sugli italiani a Gaza, ieri, sul Fatto Quotidiano Online, su La Stampa, sui quotidiani locali del Gruppo Espresso. Qualcosa c'è anche in rete. Non metto i link, ma son certa che non sia difficile trovarli. E Lilli Gruber mi ha invitato a Otto e Mezzo. Con Giobbe Covatta e Matteo Salvini.
April 15, 2011
Anche Vik Utopia Arrigoni
Verrebbe da dire: "Ora basta". Il problema è che non si sa a chi dirlo, "Ora basta". A pochi giorni dall'uccisione di Juliano Mer Khamis, a Jenin, ora tocca a Vittorio Arrigoni, Vik, Utopia, pacifista, attivista, abitante di Gaza tra i palestinesi di Gaza, autore di uno dei motti più incisivi per descrivere la disperazione di Gaza. Restiamo umani. Anche lui ucciso così, a sorpresa. Anche lui ucciso in quella che sembra, all'apparenza, una storia tutta interna al mondo palestinese. I laici contro i retrogradi, i buoni contro gli islamisti radicali.
Mi rifiuto di pensare che questa storia, come quella che ha portato all'uccisione di Juliano Mer Khamis, sia così semplice. Così chiara. Così cristallina. Mi rifiuto di pensare che di questi tempi rivoluzionari, travolgenti, in cui tutti i parametri della regione stanno cambiando così rapidamente, la tragica morte di Vittorio Arrigoni sia un mero accidente della Storia, dello scontro tra Hamas e salafiti.
Odio le dietrologie, i complottismi, così come mi annoiavano i cremlinologi. Mi faccio, invece, domande sulla logica. Senza per ora trovare risposte. Mi chiedo perché ora, perché ora Juliano Mer Khamis, perché ora Vittorio Arrigoni. Mi chiedo come mai, in una fase nella quale le rivoluzioni arabe segnano un percorso diverso, in cui salmiya, la nonviolenza è il faro delle proteste contro i regimi autoritari, una strana violenza ritorna tra i palestinesi. Mi chiedo perché ora, quando l'Egitto vive una transizione difficile, confusa ma ineluttabile. E quando la Siria si sta incamminando in quella che è più di una rivolta. Mi chiedo perché ora, quando sono ripresi i faticosi contatti per la riconciliazione tra Fatah e Hamas (l'ultimo domenica, al Cairo). Mi chiedo perché a Gaza, dopo che una tregua era stata faticosamente – ma rapidamente – raggiunta.
Sia ben chiaro. Non ho risposte. Il cui prodest si applica, con diversi pesi e misure, all'una e all'altra parte della barricata. Tra chi, secondo me, non riesce a reagire all'ondata travolgente dei cambiamenti in corso nel mondo arabo se non riproponendo una logica antica. Quella del mestare nel torbido. Non credo neanche che queste morti terribili, e ancor più terribili e amare – permettetemelo - per chi sta qui ormai da tanti anni, cambieranno il corso della storia di una regione che ha compiuto il giro di boa, ed è pienamente dentro un altro capitolo della sua contemporaneità. Sia che le morti di Mer Khamis e di Arrigoni siano il frutto di un mero scontro dentro gli equilibri locali palestinesi, sia che siano il prodotto di una regia a tavolino, la tempesta in corso nella regione non subirà alcun cambiamento. E' lì, è un fatto, è un processo in corso. Ed è questa certezza, forse, l'unica consolazione di fronte a gesti così cattivi e inutili.
I ragazzi di Tahrir, le proteste del Bahrein, lo scatto di dignità dei tunisini, il coraggio dei siriani di Deraa sono la rappresentazione fedele di quel restiamo umani con cui Vittorio Arrigoni concludeva ogni sua corrispondenza da Gaza postata sul suo blog. E' per quel restiamo umani che gli arabi, soprattutto i ragazzi, hanno deciso che dignità, rispetto, cittadinanza valessero la pena di lottare, e di scardinare un intero sistema di autocrazie.
Restiamo umani, anche dopo la morte di Utopia.
April 14, 2011
Salafiti vs Hamas
L'esempio più eclatante dello spostamento verso l'estremo dell'islamismo è oggi, a Gaza, la minaccia salafita, che nell'estate del 2009 è divenuta di dominio pubblico, scavalcando i confini chiusi della Striscia. Nel pomeriggio del 14 agosto 2009 le forze di polizia del governo de facto assaltano la roccaforte di Jund Ansar Allah a Rafah, la moschea Ibn Taymiya. Poco prima il suo leader Abdul Latif Moussa, AKA Abu Al Nour al Maqdisi, medico laureato ad Alessandria d'Egitto e predicatore, aveva dichiarato l'instaurazione di un "emirato islamico". I combattimenti sono duri, e si concludono solo il giorno dopo, con un bilancio sanguinoso. Venticinque i morti, tra i quali tre bambini, altri tre civili, e sei membri dell'apparato di sicurezza di Hamas. I feriti superano il centinaio, gli arrestati almeno novanta. E tra le vittime c'è anche il leader riconosciuto di Jund Ansar Allah, Abdul Latif Moussa, che – racconta il portavoce del ministero dell'interno, Ihab al Ghussein – fa esplodere la cintura esplosiva che aveva indosso quando lo vanno ad arrestare, la mattina del 15 agosto. Hamas decide, in questo modo, di fermare sul nascere la crescita di un settore non solo salafita, ma jihadista dentro il piccolo territorio della Striscia. Un settore che non solo si mostra come un competitor, ma anche come una spina nel fianco nella stessa compattezza dell'apparato securitario di Hamas.
È però, paradossalmente, soprattutto l'influenza politica del salafismo a preoccupare Hamas. Per i suoi fondamenti ideologici, Hamas è decisamente distante dall'interpretazione salafita, letteralista dell'islam. La sua nascita all'interno della Fratellanza Musulmana lo qualifica, al contrario, come un movimento riformatore, che rompe con una lettura tradizionale dell'islam e ne propone una che mette insieme credo religioso e politica, adesione a una visione convinta della fede con l'impegno nella società e nella rappresentanza politica. Hamas interpreta se stessa come una parte dell'islam moderato. E simile considerazione dello Harakat al Muqawwama al Islamiyya hanno i movimenti salafiti, per i quali Hamas, come parte della Fratellanza Musulmana, ha derogato dalla retta via, quella di una interpretazione letteralista ed estremamente restrittiva dell'islam.
L'ossatura di Jaljalat, la galassia salafita di Gaza, sarebbe forte di undicimila uomini, anche fuorusciti dalle Brigate al Qassam.
Il rapimento di Vik Arrigoni arriva in un momento molto particolare dal punto di vista politico, per Gaza. Per la prima volta, da anni, la riconciliazione tra Fatah e Hamas non sembra più un dossier inutile, ma potrebbe essere ripreso seriamente in esame. Così come prende quota l'idea dell'approvazione, da parte dell'Assemblea generale dell'Onu a settembre, del riconoscimento dello Stato di Palestina. Raggiunta una tregua fragile tra Hamas e Israele, gli occhi era puntati, sino a ieri pomeriggio, sull'Egitto e sulle variazioni del suo atteggiamento verso il conflitto israelo-palestinese. Il rapimento di Vik Arrigoni scompagina un percorso che, invece, si stava inserendo su binari diversi dai precedenti.
Rapito Vik Arrigoni
Vittorio Vik Arrigoni è stato rapito giovedì nel tardo pomeriggio nella Striscia di Gaza da un gruppo salafita, che ha poi rivendicato il rapimento trasmettendo un drammatico video su YouTube. Si vede Vittorio Arrigoni bendato, con un largo nastro adesivo nero, visibilmente picchiato. Il gruppo salafita, che prende il nome da un leader radicale ucciso in un raid di Hamas compiuto nell'agosto 2009, chiede la liberazione di uno dei suoi capi incarcerati dal governo di Gaza City. Il rapimento, dunque, è un attacco a Hamas da parte del salafismo, da mesi spina nel fianco. E' però, oggettivamente, un attacco a quel pacifismo, di cui Arrigoni è un'icona, che getta luce sul dramma inascoltato di Gaza. Il suo motto, ormai molto noto. "Restiamo umani".
April 13, 2011
La fine della saga dei Mubarak
Ero sempre stata ottimista. Anche quando al Cairo, alla fine di marzo, ascoltavo i timori degli egiziani normali, quelli del popolo. L'economia che non gira, i soldi che non ci sono, e la controrivoluzione alle porte. E poi i gossip, le voci che rimbalzano. "Gamal Mubarak è al Cairo. E' a Garden City. Ieri sera era a cena in uno dei club più esclusivi della città. Che faccia tosta…"
E' vero, sulla scena dell'Egitto post-Tahrir c'è anche la cosiddetta controrivoluzione. O meglio, il tentativo del regime di sopravvivere a se stesso, in maniera gattopardesca. E come potrebbe essere altrimenti? Trent'anni di vita, corruzione, tangenti, repressione non si sciolgono come neve al sole. Bisogna disaggregare una struttura pesante, di cemento, di quelle che – crollando – possono peraltro fare molti danni.
Eppure, nonostante tutti questi timori, una rivoluzione è una rivoluzione. E quella egiziana lo è a tutti gli effetti, anche se la transizione viene pilotata da un pezzo importante del regime, come le forze armate. Transizione difficile, anche molto contraddittoria, ma pur sempre figlia della rivoluzione. E dunque, la messa sotto accusa dei Mubarak è segno tangibile che questa rivoluzione è ancora in corso.
Difficile, ancora adesso, comprendere cosa sia stato determinante per la messa sotto accusa e la custodia cautelare dei Mubarak, Hosni in ospedale, e i due figli in viaggio verso la prigione di Tora, quella dove ci sono già molti degli alti papaveri del regime. La stessa prigione dove, nel corso degli anni, sono stati portati oppositori (blogger compresi) di tutte le culture politiche. E' stato il braccio di ferro fatto da Hosni Mubarak, con il suo messaggio audio trasmesso da Al Arabiya, con il quale ha sfidato il Consiglio Militare Supremo, come alcuni tweeps dicono? E' stata la magistratura egiziana, in alcune sue componenti uno dei pochi pezzi dello Stato che si è opposto ai Mubarak, che si è finalmente tolta i sassolini dalle scarpe? Sono stati i rivoluzionari, quelli di piazza Tahrir, che hanno premuto sul Consiglio Militare Supremo con la grande manifestazione di venerdì scorso, una manifestazione da un milione di persone che ha fatto comprendere che non si potesse più rimandare l'inizio dell'epurazione ai vertici del regime?
Ipotesi tutte valide, ipotesi che si possono intrecciare l'una con l'altra. Di certo c'è una cosa, che ripeto da settimane. Indietro non si torna, in Egitto. E il 2011 si può aggiungere alla lista delle rivoluzioni: non solo e non tanto il 1952, ma anche e forse soprattutto il 1919.
La foto è una rivisitazione di Guebara, nell'album Support the Revolution.


