Rachele Riccetto's Blog, page 14
April 16, 2024
DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO D’AMORE – RAYMOND CARVER

Voto: 8/10
Edito: Einaudi (Garzanti/ Minimum Fax)
Di cosa parliamo quando parliamo d’amore?
Domanda personale, soggettiva, senza una risposta chiara e precisa, diversa per ogni persona.
E fra le cose di cui parliamo quando parliamo d’amore, ci sono anche gli elementi contenuti in questa raccolta di racconti di Carver.
Come una collana di perle, un collier di brillanti, tanti piccoli racconti ci narrano, senza grandi parole e grandi pretese, che cosa sono l’amore, la vita, la perdita, la solitudine, la monotonia, la ribellione, l’odio, il dolore, la paura.
Diciassette racconti, brevi, brevissimi, alcuni di un paio di facciate appena, che come un sussurro trasportato da un soffio di vento ci mostrano un’America che potrebbe essere un angolo qualunque del mondo, uomini e donne che potrebbero essere chiunque di noi, nella docilità della vita domestica e nella banalità del male celato.
Come primo approccio a Carver direi che questa raccolta funziona alla perfezione, ed io ho anche deciso di leggere due versioni diverse del libro, la prima traduzione uscita in Italia nell’87 (per Garzanti) ed una più moderna del 2015 (per Einaudi).
Per il mio gusto personale, di vocaboli e suoni e fruibilità del testo, devo ammettere di aver preferito quella di Garzanti (a cura di Livia Manera), anche se non posso parlare della “correttezza della traduzione” perché non ho (ancora) letto l’opera nella lingua originale.
Avevo sempre sentito nominare Carver, e ho deciso di cominciare da questo libro per colmare le mie lacune. E che dire!
La prosa di Carver è semplicemente incredibile, così asciutta e scarna, parca e senza fronzoli, che ci sembra di osservare l’opera di uno scultore che, con martello e scalpello, rimuove ogni cosa superflua per estrarre la piccola pietra luminosa incastonata all’interno, lo scheletro di un racconto stesso: ma nelle sue parole c’è tutto il mondo.
La scrittura è chiara, pura, cristallina, non si nasconde dietro a figure retoriche ricercate ma nasconde al suo interno tutti i significati di uno sguardo segreto. Diciassette fotografie racchiuse in questo piccolo album, che parlano direttamente al nostro cuore.
Non i grandi eventi della vita, non azioni mirabolanti ed eventi incredibili, ma la semplicità e l’angoscia di una vita qualunque, e le stranezze e le coincidenze di vite come tante altre.
I miei preferiti sono stati sicuramente “Dì alle donne che usciamo”, “Tanta acqua così vicino a casa”, “Il bagno”, per l’atmosfera così cupa e angosciosa che accompagna ogni parola.
“Meccanica popolare” (“Piccole cose”) ci colpisce con una violenza così improvvisa e nera da lasciarci semplicemente senza fiato.
Il mio preferito è probabilmente “Perché non ballate?”, il racconto con cui si apre la raccolta, che ci invita a prendere parte a questa danza eterna che è la vita, a questa giostra assurda, malinconica e a tratti dolcissima.
Ho apprezzato molto anche il racconto che dà il titolo al libro, dove quattro amici parlano d’amore, di ciò che possa essere o non essere considerato amore, di come la morte e la violenza si mischino alla vita indissolubilmente, di come sia difficile sfuggire a certe situazioni, di come le opinioni siano soggettive.
Carver ci prende per mano e ci accompagna alla finestra illuminata di un salotto, ad osservare coppie che si aggirano nella propria domesticità, che parlano e bevono il caffè, che vivono intorno a quel tavolo sul quale mangiano e litigano e leggono il giornale.
Piccole vite che nascondono grandi pensieri o piccole riflessioni, grandi amori o terribili violenze.
L’importante non è l’evento in sé che ha smosso i personaggi, ma il loro modo di reagire, di comportarsi di fronte a ciò che ha disturbato la loro tranquillità, la loro ricerca di pace.
C’è un cadavere e ci sono uomini che pescano, c’è un incidente e un pasticcere che vuole ciò che gli spetta, c’è un divorzio e un uomo che non si dà pace.
La vita continua a scorrere, leggera o straziante, come un fiume che scavalca gli ostacoli che incontra sul suo cammino.
Diciassette piccoli racconti per parlarci di un mondo che conosciamo già, ma mostrarcelo come non l’abbiamo mai visto. E quindi, alla fine, io non lo so di preciso di cosa parliamo quando parliamo d’amore, ma sicuramente se ne parlassimo con la voce di Carver sarebbe qualcosa di meraviglioso.
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Di cosa parliamo quando parliamo d’amore
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April 12, 2024
NUOVI TITOLI PER LA VALLE DEL TEMPO
Salve a tutti!
Oggi ho il piacere di presentarvi tre titoli editi La Valle del Tempo, che mi sono stati gentilmente inviati dall’editore.
I RINTOCCHI DELL’APRUTINA – DAVIDE FALSINO
Non c’è estasi senza spogliazione interiore, né progresso spirituale che non passi attraverso morti e risurrezioni. Perché, senza che ci si accorga, accade che cuore e verità restino profondamente lontani. È il pomeriggio dell’ultima domenica di maggio 1847. Al Molo Angioino un nuovo Rinaldo declama un’inedita versione della storia del noto Carlo Rainone, scritta da Tonno Grieco, fratello del famigerato brigante Titta. Un racconto nel racconto. E racconti che vorrebbero continuare all’infinito, lasciando trasparire un mondo interiore lacerato, in cui il narratore respira oltre il tempo, mosso dal bisogno di abbattere quella barriera impalpabile che si è interposta fra lui e il nipote, complice il rapporto epistolare, ma anche conseguenza del silenzio del cuore celato da un affetto accomodante e pronto ai compromessi; soprattutto, mosso dalla necessità di confessargli un’antica, tremenda colpa. Gli eventi del maggio 1848 stanno rapidamente precipitando e sa che, suo malgrado, ne resterà coinvolto. Con l’incisività di cui è capace, si affretta a portare a termine il suo compito. La molteplicità dei temi e la natura polifonica dell’intreccio lasciano vibrare le nostre corde più profonde, generando possibili e differenti interpretazioni.
L’ECO DEL SILENZIO – TIMOTHY MEGARIDE
Ma chi è davvero Timothy Megaride? Nessuno conosce la sua vera identità. Tutti, però, leggendo questo romanzo, dovranno riconoscergli di essere un autore in grado di scandagliare e di rappresentare la complessità e la meschinità del nostro tempo.
Robi, un giovane dirigente ministeriale, è il collettore di una serie di storie esemplari che lo vedono ora spettatore ora protagonista. Il singolare intreccio di vite e destini attinge a pregresse suggestioni letterarie, tra le quali si può intravedere Bagheria di Dacia Maraini. Per l’organizzazione della materia, ma anche e soprattutto per la contrapposizione di due universi distanti e contigui, civiltà e barbarie, urbanità e ferocia. La cittadina siciliana s’estende fino a coincidere con l’intero paese. Una commedia amara dai risvolti ora grotteschi ora drammatici.
E una potente riflessione sui temi più controversi del nostro presente. Identità di genere, omotransfobia, condizione femminile, fake news, campagne d’odio, aggressioni fisiche, scandali sessuali, ipocrisie. Il tutto in una prosa smagliante per malizia e humour, per eleganza e abile mimesi letteraria. L’eco del silenzio è altresì un romanzo post-apocalittico, se si riconosce l’Apocalisse nella Seconda guerra mondiale.
Tra le righe aleggia la dotta moralità dell’ormai classico The English Patient di Michael Ondaatje. Se è forse vero che l’aria della città rende liberi, è altrettanto vero che oggi Solunto è nuovamente assediata.
LA RAGAZZA DALLE LABBRA COLOR ARANCIA – FRANCE HUSER
Il romanzo si presenta come il diario tenuto da Jeanne Hébuterne, la compagna di Amedeo Modigliani, nel quale la giovane donna, incinta del secondo figlio, annota gli ultimi mesi della vita del pittore, trascorsa tra grandi disagi e continui tormenti. Accanto alla vicenda umana di Modi (così lo chiamavano gli amici) e della sua compagna, appare anche la bohème delle avanguardie artistiche nella Parigi del secondo decennio del Novecento, con le loro sorprendenti creazioni ma anche con le loro frustrazioni, in una società che continua a guardarle con diffidenza e perplessità. La presentazione di questo ambiente e in particolare della vita quotidiana di Modigliani si attiene in massima parte alla realtà degli avvenimenti, ricostruiti dall’autrice del libro con grande precisione e nello stesso tempo con uno stile agile e travolgente.
Le copertine di questi volumi sono riuscite subito a colpirmi per la loro bellezza, e le storie racchiuse all’interno si prospettano davvero interessanti.
Ancora un ringraziamento speciale alla squadra de La Valle del Tempo!
Non vedo l’ora di tuffarmi in queste storie incredibili e di parlarne con voi.
Presto le recensioni!
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April 9, 2024
PAO PAO – PIER VITTORIO TONDELLI

Voto: 8/10
Edito: Feltrinelli
Tondelli torna a colpire, e a colpirmi.
Italia anni ’80, il nostro giovane protagonista deve lasciare casa per affrontare un anno di servizio militare di leva.
E come un fiume in piena, la sua vita travolge la nostra.
Nessuno, oggi, in Italia, ha la metà del talento che aveva Tondelli, e questa consapevolezza mi spezza il cuore, e lascia un vuoto enorme nel nostro panorama letterario.
Tondelli, giovanissimo, era una forza senza precedenti.
In questo anno di naja che ci racconta con tono acuto e crudo, ironico e a tratti volgare, c’è tutta l’Italia e l’Italietta, senza nascondere nulla.
La prosa di Pier Vittorio è qualcosa di meraviglioso: in “Altri libertini” (il primo libro che ha pubblicato e il primo che ho letto) era riuscito a sconvolgermi e a scuotermi come pochi altri italiani (forse nessuno?) e in questo secondo libro ritroviamo chiaramente la stessa voce ed uno stile molto simile.
Le parole sembrano innalzarsi come un’onda infinita, un muro di virgole e respiri, che ci piomba addosso e ci sotterra in una cascata di incisi, in un susseguirsi sempre più veloce e incalzante, ci coinvolge e ci fa precipitare nelle pagine.
Chi, al giorno d’oggi, sa maneggiare con tanto talento l’anacoluto e il suo ritmo spezzato (senza mai spezzarlo davvero)?
La storia racchiusa in questo piccolo romanzo è un quadro formato da tante piccole storie, tante piccole immagini di tante piccole vite, che si incontrano e si sfiorano e si uniscono e si separano, di amicizie e grandi amori, di osterie e ristoranti e qualche ora di ufficio, con la caserma che fa da sottofondo ad una sinfonia di voci e di vite, di avventure.
Un anno in cui i giovani ragazzi diventano uomini, tra sesso&droga&vino bianco, il tutto raccontato con tono a tratti scanzonato e a tratti quasi malinconico, sarcastico e carico di pietas.
Pieri Vittorio, nella sua irriverenza, lasciava sempre un angolo speciale a delle immagini di una dolcezza disarmante, gli sguardi di due ragazzi che si incrociano, due mani che si trovano, due piedi che si sfiorano, due corpi che si uniscono.
C’è una tale semplicità, una tale umanità nell’amore che descrive che, per un attimo, ci permette di sognare un’Italia diversa, un’Italia che almeno al giorno d’oggi non avrebbe nulla da ridire nell’osservare questi piccoli ritratti di un amore puro e semplice.
Pubblicato nell’82, è un romanzo così fresco e divertente e travolgente che sembra quasi impossibile che abbia già superato i quarant’anni di età.
Eppure Pier è morto da più di 30 anni, e ci ha lasciato purtroppo una quantità troppo ridotta di parole da cui attingere, in cui immergerci, a cui abbandonarci.
Tutti dovrebbero leggere Tondelli.
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April 6, 2024
SHIFT – HUGH HOWEY

Voto: 6/10
Edito: (Fabbri) Fanucci
Il secondo volume della trilogia del Silo non prosegue la storia che abbiamo letto in “Wool”, ma fa un passo indietro, molti passi indietro, e ci mostra come sono andate le cose, ciò che è successo negli ultimi 400 anni, fino al momento in cui Juliette ha fatto ritorno al silo 18, dove l’abbiamo lasciata alla fine del primo volume.
Divisa in tre parti, la storia trattata in questo libro salta avanti e indietro nel tempo e nello spazio, ci spiega come e perché è stata distrutta la terra nel 2052, la vita nel silo 1 che controlla tutti gli altri silos, ed episodi di ribellione e violenza nei silos 17 e 18, quelli che già conosciamo.
E diciamo che, in generale, Hugh non l’ha pensata proprio benissimo.
Questa è una recensione piena di spoiler, quindi se non avete ancora letto il libro vi consiglio di fermarvi qui.
Iniziamo dalle basi: la storia. Come è stato distrutto il mondo?
Tre uomini hanno deciso di bombardare tutto il pianeta con bombe atomiche.
Certo, un classico, non un evento naturale ma opera dell’uomo, ci sta.
Ma perché hanno deciso di farlo?
Per scongiurare l’eventualità che l’Iran e la Corea li attaccassero con dei nano-robot.
Questa è la cosa più americana che io abbia mai sentito, e la odio.
Chi è il protagonista della storia?
Principalmente seguiamo Donald attraverso i secoli. Scelto inizialmente come ingegnere per la costruzione di un silo, è così stupido che finché non vengono obbligati a rifugiarsi nel silo stesso non capisce ciò che succede intorno a lui.
Il suo amico Mick fa in modo che Donald finisca nel silo 1, quello delle grandi teste al comando, e io fossi stato Thurman (uno dei tre original bad boys) lo avrei spinto fuori dal portellone e tanti saluti, ma no, teniamolo, che un giullare fa sempre comodo.
E allora Donald sta lì, fa ogni tanto il suo lavoro, e soffre perché tutte le persone sono morte, soffre perché le persone nei silos stanno morendo, soffre perché ha perso sua moglie, ed è un tipo davvero divertente con cui passare del tempo.
Nel silo 1 gli uomini svolgono turni di sei mesi di lavoro, poi vengono ibernati per decenni, e ogni volta che risvegliano Donald, in qualche modo, lui riesce ad imparare qualcosa di nuovo, tra cui la cosa più importante che scopre alla fine: soltanto un silo è destinato a sopravvivere, tutte le altre persone dovranno morire.
Perché? Perché ripopolare la Terra con diecimila persone, invece che tentare di salvarli tutti?
Perché, secondo Thurman, se tutte le persone uscissero dai silos e scoprissero di non essere le uniche al mondo, si attaccherebbero fra di loro e si ucciderebbero.
Questa è la seconda cosa più americana che io abbia mai sentito e la odio anche più della prima.
Ci sono anche un paio di punti che non mi sono completamente chiari e spero verranno spiegati nel terzo libro: alla fine della seconda parte Donald cerca di uccidersi uscendo all’esterno e togliendosi la tuta, ma viene riportato all’interno. Fa in tempo, comunque, a sfilarsi un guanto, ma non succede nulla. E dalla vaga spiegazione, sembra che venga riportato dentro da uomini che indossano dei vestiti normali, non strane tute protettive. Questo vuol dire che gli effetti delle bombe sono già passati? Che le bombe hanno distrutto completamente questi fantomatici nano-robot killer nell’aria? O che gli abitanti del silo 1, grazie alle mille medicine nascoste nell’acqua e cose varie, sono immuni? O era tutta una menzogna dall’inizio?
Alla fine della terza parte, poi, Donald riesce a vedere il cielo blu e il prato verde attraverso una telecamera di un drone. Il pilota del drone, però, non nota niente. Donald è impazzito? Come può il mondo essere rinato?
All’inizio del primo libro, quando Holston esce per la pulizia e vede nel visore il mondo bello e pulito e verde, non scopre poi che in realtà era davvero tutto distrutto quando si rimuove il casco? Hugh mi confonde sempre di più.
L’idea di base di tutta questa storia è così stupida da farmi desiderare di poter vivere in un silo interrato fino alla fine dei miei giorni e non sapere più niente dal resto del mondo.
Ci sono anche altri personaggi che ci raccontano la vita nei silos: c’è Mission, nel silo 18, che è la parte più noiosa e inutile di tutto il libro, ed ho già completamente dimenticato.
C’è Jimmy, nel silo 17, il nostro caro Solo del primo libro, con la sua triste vita solitaria, ma che appunto conoscevamo già.
Ci sono tanti uomini in questo libro, e praticamente nessuna donna.
Forse Hugh si era sforzato troppo con Juliette, e non sapeva più come fare per creare un altro personaggio femminile.
C’è Anna (figlia di Thurman ed ex di Donald) che fa di tutto per coinvolgere Donnie nel progetto, per separarlo da sua moglie ed averlo tutto per sé, quando quell’uomo ha la personalità di un apriscatole elettrico (humour da silo) e finisce per ucciderla prima che lei possa spiegargli come stanno davvero le cose (l’ho già detto che Donald è stupido?).
Ma il personaggio femminile migliore è sicuramente Karma, senza Ombra di dubbio.
Ma perché non incontriamo donne nel silo 1, quello in cui passiamo più tempo?
Perché secondo la logica di Hugh, gli uomini avrebbero lavorato meglio senza distrazioni e tentazioni, non ci sarebbero state lotte né problemi senza le donne. Perché quelli sono causati sempre dalle donne, si sa. Ci sono loro alla base di tutti i problemi. E INFATTI SONO STATE LE DONNE A BOMBARDARE IL MONDO. E va bene.
La parte migliore di questo libro è stato il piccolo gruppo di lettura, che ha reso l’esperienza più sopportabile e divertente, perché altrimenti sarebbe stata una lettura ancora più difficile.
Lo stile di Howey è sempre molto buono, coinvolgente e scorrevole, e se all’inizio pensavo che si sentisse qualche differenza con il primo volume (perché quello è formato da novelle separate e invece questo è nato proprio come romanzo), alla fine ho capito che purtroppo Hugh non ha saputo gestire al meglio tutto lo spazio e il tempo a sua disposizione ed ha allungato un po’ troppo una storia davvero poco credibile e sensata.
Alla fine dei conti la prima parte resta quella migliore, più coinvolgente; la seconda la potrei definire tranquillamente inutile, perché non mi sembra che riveli niente di essenziale (tranne un piccolissimo accenno), e la terza è quella più triste con la storia di Solo e anche la più bella perché ricompare Jules, e non aspettavo altro.
Non è stata una lettura così brutta, ovviamente, a me piace esagerare, ma non è stata neanche soddisfacente, date le aspettative. Un paio di passi indietro rispetto a Wool, ma che comunque non mi impedirà di leggere il terzo.
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April 2, 2024
PAURA – STEFAN ZWEIG

Voto: 8/10
Edito: Adelphi
Irene Wagner è una donna che ha raggiunto i trent’anni, è sposata con un avvocato di successo ed ha due figli, vive in un bell’appartamento di cui non deve occuparsi perché c’è la servitù a svolgere il compito e, da un po’ di tempo, in segreto, ha iniziato ad incontrarsi con un giovane insegnante di musica, il suo amante.
Non sa neanche lei perché abbia ceduto alle sue lusinghe, in fin dei conti non può lamentarsi del suo matrimonio, ma quel giovane è riuscito a conquistarla.
Finché un giorno, uscendo dall’appartamento dell’amante, si imbatte in una donna.
Irene non la conosce, ma ella sembra conoscere Irene.
Le rinfaccia l’adulterio, la insulta e la denigra, e Irene fugge in preda all’angoscia.
Da quel momento, la donna inizia a perseguitarla, non solo personalmente (ricattandola), ma anche psicologicamente, perché Irene non riesce a liberarsi dalla paura di essere scoperta.
Decide di lasciare il suo amante, ma suo marito sembra osservarla con occhio diverso, e lei teme di essere stata scoperta.
In un vortice di paura, vergogna e senso di colpa, seguiamo Irene fino in fondo alla spirale nera.
Non conoscevo Zweig, e questo romanzo breve (o lungo racconto?) mi ha preso completamente alla sprovvista.
Un viaggio breve ma intenso, intensissimo, nella psiche e nell’anima di una donna.
L’azione raccontata nel romanzo è poca, perché Zweig si concentra più sulle paure crescenti della sua protagonista, su questo senso di colpa che, implacabile, si fa strada dentro di lei, occupando ogni suo pensiero e sconvolgendo completamente la sua mente.
All’inizio dell’opera credevo, addirittura, che la ricattatrice fosse una specie di personificazione della colpa che Irene provava, che l’avesse immaginata, partorendola dalla propria mente, e avesse trasferito in lei il suo desiderio di tornare alla sua famiglia, a suo marito, alla sua casa sicura.
Il finale, invece, rivela tutta un’altra storia, in parte inaspettata e che riesce bene a colpire il lettore.
Zweig ha una penna acuta e trascinante e, grazie alla sua protagonista imperfetta e in cerca di salvezza, riesce a fare dei ragionamenti molto interessanti e di grande valore sull’espiazione delle colpe e il pentimento, la debolezza e la forza umana, il pentimento e la rinascita.
E mentre Irene cade dentro di sé ed inizia a mostrare segni di cedimento a tutti quelli che la circondano, noi precipitiamo insieme a lei, consapevoli che i suoi sono errori umani e la sua sofferenza è completamente ed umanamente condivisibile, se non nel caso specifico, almeno nel sentimento che ne scaturisce.
Una lettura che, in poche pagine, riesce a coinvolgere il lettore ed a farlo immergere nel mare nero della colpa e della pena.
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PAURA – STEFAN SWEIG

Voto: 8/10
Edito: Adelphi
Irene Wagner è una donna che ha raggiunto i trent’anni, è sposata con un avvocato di successo ed ha due figli, vive in un bell’appartamento di cui non deve occuparsi perché c’è la servitù a svolgere il compito e, da un po’ di tempo, in segreto, ha iniziato ad incontrarsi con un giovane insegnante di musica, il suo amante.
Non sa neanche lei perché abbia ceduto alle sue lusinghe, in fin dei conti non può lamentarsi del suo matrimonio, ma quel giovane è riuscito a conquistarla.
Finché un giorno, uscendo dall’appartamento dell’amante, si imbatte in una donna.
Irene non la conosce, ma ella sembra conoscere Irene.
Le rinfaccia l’adulterio, la insulta e la denigra, e Irene fugge in preda all’angoscia.
Da quel momento, la donna inizia a perseguitarla, non solo personalmente (ricattandola), ma anche psicologicamente, perché Irene non riesce a liberarsi dalla paura di essere scoperta.
Decide di lasciare il suo amante, ma suo marito sembra osservarla con occhio diverso, e lei teme di essere stata scoperta.
In un vortice di paura, vergogna e senso di colpa, seguiamo Irene fino in fondo alla spirale nera.
Non conoscevo Zweig, e questo romanzo breve (o lungo racconto?) mi ha preso completamente alla sprovvista.
Un viaggio breve ma intenso, intensissimo, nella psiche e nell’anima di una donna.
L’azione raccontata nel romanzo è poca, perché Zweig si concentra più sulle paure crescenti della sua protagonista, su questo senso di colpa che, implacabile, si fa strada dentro di lei, occupando ogni suo pensiero e sconvolgendo completamente la sua mente.
All’inizio dell’opera credevo, addirittura, che la ricattatrice fosse una specie di personificazione della colpa che Irene provava, che l’avesse immaginata, partorendola dalla propria mente, e avesse trasferito in lei il suo desiderio di tornare alla sua famiglia, a suo marito, alla sua casa sicura.
Il finale, invece, rivela tutta un’altra storia, in parte inaspettata e che riesce bene a colpire il lettore.
Zweig ha una penna acuta e trascinante e, grazie alla sua protagonista imperfetta e in cerca di salvezza, riesce a fare dei ragionamenti molto interessanti e di grande valore sull’espiazione delle colpe e il pentimento, la debolezza e la forza umana, il pentimento e la rinascita.
E mentre Irene cade dentro di sé ed inizia a mostrare segni di cedimento a tutti quelli che la circondano, noi precipitiamo insieme a lei, consapevoli che i suoi sono errori umani e la sua sofferenza è completamente ed umanamente condivisibile, se non nel caso specifico, almeno nel sentimento che ne scaturisce.
Una lettura che, in poche pagine, riesce a coinvolgere il lettore ed a farlo immergere nel mare nero della colpa e della pena.
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March 27, 2024
IL RAGAZZO E L’AIRONE – HAYAO MIYAZAKI

Voto: 9/10
Regista: Hayao Miyazaki
Tokio, 1943.
Le bombe piovono sulla città, portando distruzione.
E proprio durante uno di questi attacchi incontriamo Mahito, un ragazzino di 12 anni, che tenta disperatamente di raggiungere l’ospedale dove si trova sua madre, lotta contro le persone in fuga e le fiamme e la morte che dilaga, ma non riesce ad arrivare in tempo.
Mahito così si trasferisce in campagna, per vivere con suo padre e la sua nuova moglie Natsuko, sorella della sua defunta madre.
Il dolore per la perdita della madre sembra ricoprire ogni aspetto della vita del ragazzo, dai sogni alle difficoltà a scuola, e quando Natsuko scompare e un airone cenerino gli dice che sua madre è ancora viva e lo esorta a seguirlo, Mahito entra in una vecchia torre abbandonata per intraprendere un viaggio in un mondo fantastico che gli permetterà di affrontare il suo mondo interiore.
Il Maestro è tornato, e con un’opera, a mio parere, diversa da quelle a cui ci ha abituati.
Che Miyazaki sia un narratore eccezionale è cosa ben nota, ma con questo film è riuscito ad aggiungere un qualcosa in più. Ho letto molte interpretazioni di questo film, e questa ovviamente è la mia opinione personale, non la verità oggettiva sulla storia e i suoi significati, anche perché questo film si presta a svariate interpretazioni.
Miyazaki ha creato un’opera più introspettiva e metaforica, con alcuni simbolismi più evidenti ed altri più nascosti, che si mescolano in un viaggio fantastico e onirico.
Prima di tutto, in questo film è molto forte la presenza di fatti autobiografici: Mahito, come Miyazaki, è figlio di un uomo che costruisce aerei da combattimento, si trasferisce in campagna durante la guerra, e perde sua madre molto giovane.
Tutta la storia è intrisa di dolore, lutto, un tormento interiore che si manifesta con forza nella vita del giovane protagonista. Oltre ad essere tormentato da incubi in cui sente la voce della madre che lo implora di salvarlo, Mahito non sa come esprimere e sfogare tutta la propria sofferenza: lo vediamo che cerca di isolarsi e che non riesce a trattenere la rabbia che si annida dentro di lui, e finisce per scontrarsi con dei compagni di scuola.
Mi è piaciuta molto la scena seguente allo scontro, quando Mahito sta tornando a casa e si colpisce alla testa con una pietra, provocandosi una ferita che inizia a sanguinare copiosamente. Una scena carica di ira repressa e sofferenza, e a risaltare non è soltanto il desiderio di Mahito di restare per qualche giorno lontano da scuola, quanto il suo senso di impotenza, questo volersi liberare dal mare soffocante di dolore espellendolo fisicamente dal proprio corpo.
Quando poi Mahito incontra l’airone e decide di seguirlo, lui sa che l’uccello sta mentendo, lo dichiara apertamente, ma il suo bisogno di fare qualcosa, e di fuggire dalla propria realtà, lo spinge verso questo viaggio fantastico.
Qui Mahito si ritrova in un mondo simile a quello che ha lasciato, ma diverso, come un’altra versione, un’altra realtà.
Incontra diversi personaggi lungo il suo percorso, come le versioni più giovani di sua madre e di una delle anziane che si occupano della casa di suo padre, che lo esortano a “non perdersi in quella torre, o non riuscirà più ad uscirne”, e Miyazaki si riferisce al lutto e al dolore che il ragazzo si porta dentro, che rischia di consumarlo e inghiottirlo completamente.
Per raggiungere e salvare Natsuko, Mahito si ritrova ad affrontare anche un vero e proprio esercito di parrocchetti, enormi e violenti, che rappresentano gli impulsi più violenti e minacciosi dell’umanità.
Durante questo viaggio, Mahito incontra anche il signore della torre, il suo lontano zio responsabile per la costruzione della torre nel mondo reale.
Qui a Mahito viene offerta la possibilità di rimanere nel mondo fantastico e prendere il posto del vecchio zio, mantenendo intatta la torre e il suo mondo mistico, e l’equilibrio precario di quella vita. Ma Mahito decide di tornare alla realtà, di affrontare una vita piena di sofferenza e dolore, di guardare avanti e non lasciarsi distruggere dai sentimenti più oscuri che albergano in ognuno di noi.
All’inizio credevo che anche il vecchio fosse una “rappresentazione” del dolore e della perdita, dell’impossibilità di affrontare un lutto enorme che può diventare “un’ossessione” (rappresentata dall’enorme pietra al centro di quel mondo fantastico); poi ho pensato fosse una rappresentazione di Miyazaki stesso, pronto ad abbandonare il proprio lavoro con questo ultimo film, a lasciare il posto alle nuove generazioni.
Ma l’uomo rappresenta anche Takahata, l’animatore che ha scoperto il grande talento di Miyazaki e lo ha aiutato a svilupparlo e a trovare un equilibrio dal quale creare la propria carriera.
Insomma, un addio degno di un vero Maestro.
Ho visto due volte questo film, e la prima volta lo avevo trovato molto più oscuro, molto più legato alla crescita personale di Mahito, al dolore ardente ed accecante che si portava dentro, legato alla perdita della madre, e nel finale avevo riconosciuto chiaramente la sua crescita, l’accettazione del passato e di ciò che non si può cambiare, della vita come un viaggio meraviglioso.
La seconda volta, però, l’ho trovato forse più confusionario, ho notato più inconsistenze e ho sentito più forte il desiderio di Hayao di creare un mondo fantastico, di parlare di creatività e rinascita e forza, di lasciare una storia incredibile, e meno quello di raccontarla in maniera dettagliata.
Le animazioni sono assolutamente spettacolari, lo si nota sin dalle prime scene: quando osserviamo Mahito che tenta di raggiungere l’ospedale e sua madre, e combatte contro le fiamme che lo avvolgono e una marea di persone in fuga rappresentate come ombre che lo spingono e lo strattono, restiamo sconvolti da una delle scene più terribili e meravigliose in assoluto.
Le musiche sono (come sempre) di Joe Hisaishi e, sebbene arrivino soltanto nella seconda metà del film, sono assolutamente incredibili.
Una musica dolce e malinconica risuona in sottofondo, perché Miyazaki sa sempre come straziarci il cuore.
Forse Mahito non è il protagonista più riuscito, ma incarna degli aspetti positivi dell’umanità, così come la capacità di riconoscere i propri limiti e i propri fallimenti.
L’airone è un messaggero di morte, ma anche il traghettatore dal mondo reale al soprannaturale.
Sono tantissime le citazioni che Miyazaki nasconde o grida ad alta voce, riportando di fronte ai nostri occhi vecchi ricordi di alcuni dei suoi capolavori passati e richiami ad altri artisti, in un vortice di simboli e metafore che scuote con forza praticamente qualunque scena del film.
Questa è un’opera molto erratica ed allegorica, che può essere analizzata fin nei suoi più piccoli dettagli, o ci si può godere questo viaggio fantastico dal sapore dolce-amaro, che ci scalda il petto come solo Hayao sa fare.
Non credo che questo sia il capolavoro di Hayao, il mio cuore (come la mia pelle) apparterrà per sempre alla principessa Mononoke, ma penso che questo film sia davvero magico in una maniera completamente diversa dagli altri che lo hanno preceduto, e riesce a trascinare gli spettatori in un mondo bello e straziante, e ci prepara ad un addio che non vorremmo mai dover affrontare.
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March 23, 2024
CONFESSIONE DI UN ASSASSINO – JOSEPH ROTH

Voto: 8/10
Edito: Adelphi
Un piccolo ristorante russo nel cuore di Parigi, il Tari-Bari, frequentato principalmente da esuli.
Fra di loro c’è anche un uomo che ascolta ma non parla molto, che osserva.
E durante un’interminabile notte, in cui il tempo ha smesso di scorrere non soltanto sull’orologio fermo attaccato alla parete, uno dei frequentatori del locale, un uomo distinto amichevolmente nominato “il nostro assassino”, racconta la propria storia, condivide il suo passato.
Quell’uomo si chiama Golubcik, figlio illegittimo del principe Krapotkin, e fin da piccolo ha sempre desiderato di essere riconosciuto dal padre biologico, di poter rivendicare tutto ciò che gli spetta di diritto.
E così, un giorno, decide di far visita al principe, per liberarsi di un nome ignobile ed appropriarsi di uno più potente. Ma quel viaggio gli porterà soltanto tre cose: una tabacchiera d’oro, un rifiuto e la conoscenza di un uomo di nome Lakatos, dai modi melliflui e suadenti, dalla cui persona emana un odore dolciastro.
Da quel giorno la vita del giovane Golubcik cambierà per sempre, precipitando sempre più velocemente in una spirale senza appigli. Egli entrerà a far parte della polizia segreta russa, lavorerà per sventare attacchi allo zar, si innamorerà di una donna, si imbatterà più volte nel figlio del principe Krapotkin, tanto odiato ed invidiato, mentirà e ingannerà e abuserà del proprio potere, e continuerà ad imbattersi in Lakatos, come un’ombra minacciosa e terribile.
E alla fine di quella lunga notte, rivelerà tutta la propria verità.
Il mio amore per Roth è ben noto a chiunque mi ascolti parlare di libri anche solo per cinque minuti: nonostante questo sia soltanto il secondo romanzo dell’autore che ho il piacere di leggere, Roth fa già parte della breve lista de “i miei autori preferiti di sempre”.
E quindi l’acquisto di questo libro è stato dettato dal mio amore, e dal titolo così accattivante.
Se c’è stato un assassinio, e l’assassino in persona ha intenzione di confessare, voglio sapere tutto.
Questo viene giustamente definito il suo “romanzo russo”, per più motivi: il protagonista è un uomo russo; la prima parte della sua storia si sviluppa proprio in quella nazione, così come la parte iniziale è ambientata in un ristorante russo; vengono affrontati alcuni temi tipici della letteratura russa, come lo spionaggio e il potere dei nobili zaristi; ma soprattutto, nello stile e nello studio dell’uomo, Roth si ispira largamente all’opera dostoevskijana.
Con la sua scrittura arguta e penetrante, Roth veste i panni di un autore russo, per raccontarci una storia russa. E per la maggior parte dell’opera direi che fa un lavoro semplicemente perfetto, non fosse che in alcuni casi sembra quasi di intuire un tono di sarcasmo, una leggera nota ironica nelle sue parole.
Utilizzando un linguaggio ricercato e uno stile molto articolato, tipico della letteratura russa, la sua penna dipinge elegantemente un affresco dai toni oscuri e sanguinolenti, foschi e violenti.
Perché la storia di Golubcik non è una storia comune: è una storia di perdizione, di passione, di sentimenti travolgenti ed errori giovanili, di uomini assetati di potere e di vendetta, e del diavolo tentatore, sempre pronto ad indicare la “retta via”.
Golubcik è un uomo che odia il proprio nome, e con esso sé stesso, perché vorrebbe essere molto di più, avere molto di più; ma quando raggiunge l’apice del proprio potere, conquistato mentendo e ingannando e tradendo e condannando a morte le persone di cui prima aveva dovuto guadagnarsi la fiducia, si perde, e di tutto questo incolpa la donna di cui si è innamorato. Precipita dentro di sé, senza più essere in grado di riconoscersi.
Un pensiero atroce per un uomo che per tutta la vita aveva inseguito una certa idea di sé, basata su un nome e un’eredità, ma che finisce per scontrarsi con una realtà tortuosa e torturante, ingannevole e beffarda. Il traditore tradito, il l’imbroglione truffato.
Molto interessante la figura di Lakatos, che sembra essere sempre in agguato dietro ogni angolo, e si contrappone a quella dell’uomo, presentandosi quasi come un salvatore, prima di condurlo verso il suo inferno personale.
Un demone o un demonio, un’incarnazione del diavolo così carismatica e intrigante, il cui odore dolciastro sembra sprigionarsi direttamente dalle pagine del libro.
E così, quando sorge il sole, la confessione giunge al termine e scopriamo che sì, c’è stato un assassinio ma, dopo le mille svolte e giravolte della storia, non era quello che ci saremmo aspettati.
Peppe Roth si riconferma uno scrittore incredibile, un grande pensatore, un uomo dalla grande sensibilità e la mente lucida, dal talento raffinato che sa essere oscuro e spietato, il Roth del mio cuore.
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March 19, 2024
LA CRONOLOGIA DELL’ACQUA – LIDIA YUKNAVITCH

Voto: 9/10
Edito: Nottetempo
Questa non è una biografia, la storia di una vita: questa è la storia di un mondo intero, di diversi mondi che si sono incontrati e scontrati, di frammenti che si sono persi e mescolati fra loro, di grandi inizi e grandi conclusioni, di dolore e amore e gioia e sofferenza. Come un fiume in piena, ci trascina fra i vari episodi della vita dell’autrice, avanti e indietro, incendiando il mondo.
Non conoscevo Lidia Yuknavitch prima di leggere questo libro, ed ora è l’unica persona a cui riesco a pensare da giorni.
Una bambina nata a metà degli anni ’60, in una famiglia composta da un padre violento, una madre debole e una sorella maggiore già con un piede fuori dalla porta.
Impara a nuotare da piccolissima, inizia a gareggiare ancora bambina, e l’acqua sarà un elemento portante per il resto della sua vita.
Tra borse di studio e corsi di laurea abbandonati, matrimoni e divorzi, figli nati e perduti, alcol e droga e sesso e scoperta di sé e dell’altro e del mondo intero, Lidia ci travolge come un’onda dalla potenza indescrivibile, ci schiaccia con la sua vita assurda e così reale, così vera da far male, ci fa piangere e ci fa ridere e ci fa vivere le sue mille vite e le sue mille parole, ed è qualcosa di assolutamente incantevole.
Questo non è semplicemente un memoir, perché è un inno alla vita e alla morte, alla nascita e alla rinascita, alla perdita e alla conquista, all’amore e all’odio, al rancore e alla compassione. Una donna che si è definita più volte spezzata, che è riuscita a sfuggire alle grinfie di un padre violento che abusava delle figlie e di una madre alcolizzata e rassegnata, che non era in grado di proteggerle.
Un passato duro e crudo, proprio come il suo linguaggio.
Tecnicamente, questo libro non dovrebbe piacermi, perché a me non piacciono i “dettagli”, vedere in un film o leggere in un libro qualcosa “troppo da vicino”; a me piace un’occhiata di sbieco, una parola a mezza bocca, qualcosa di accennato e di intuito.
E Lidia è tutto il contrario: Lidia si racconta senza nascondere assolutamente nulla, parla del proprio corpo e del corpo degli altri, del sesso e del dolore e della gioia e di tutto ciò che ha incontrato nella sua vita, tutto ciò che si è scontrato con il suo corpo ed ha lasciato un segno su di lei.
Ed è una delle cose più belle che io abbia mai letto.
Bastano le prime righe della prima pagina per capire che questo è un libro diverso dal solito, è un libro che punta all’abisso che c’è in ognuno di noi, che nasce da un dolore profondo e vuole trascinarci fra quelle acque agitate, attraversare quelle onde pronte a schiacciarci, tenerci per mano in quel mare in tempesta che è la vita ed accompagnarci fin sulla riva, al sicuro, dove poter respirare davvero.
La scrittura e il nuoto sono le due costanti nella vita di Livia, intorno alle quali ruota tutta la sua persona, tutto il suo dolore e la sua felicità, tutti i suoi sogni e i suoi obiettivi, la sua pace.
Ed alcune delle immagini che ha utilizzato per descrivere il suo bisogno di scrivere, quel dolore fisico, quella sensazione di sentire le parole che tentano di fluire dalle mani che, tremanti, non riescono a trattenerle…quello è ciò che provo io quando parlo di scrittura, quando cerco di spiegare quanto sia difficile per me scrivere ma ancora più doloroso non farlo, e lei l’ha spiegato in una maniera dolorosamente perfetta.
Ho impiegato tre giorni per leggere questo libro che, onestamente, avrei potuto leggere in un’unica giornata, in un’unica sorsata, in un’unica boccata d’aria enorme, capace di spaccare i polmoni.
Tre giorni per leggerlo, per piangere e ridere e riflettere.
Tre giorni in un cui non ho potuto pensare ad altro.
Poi altri due giorni per riflettere, senza riuscire a scrivere una parola di questa recensione. Una calma piatta, un mare che si estendeva a perdita d’occhio, e che non voleva mostrarmi un punto da cui potermi tuffare.
E, alla fine, un paio d’ore per tentare di tirare fuori tutto quello che questo libro è riuscito a trasmettermi.
E quindi no, questa non è semplicemente un’autobiografia.
Questa è la vita di una donna che si è arresa e ha combattuto, che ha amato con tutta sé stessa ed ha imparato molto dalla vita, che ha perso una figlia ancora prima che nascesse e che ama suo figlio dell’amore più puro che esista. Una donna che ha vissuto la vita di un poeta maledetto, che ha deciso di non mascherare il proprio io, neanche nella scrittura, e che si racconta con la sfacciataggine e la sicurezza di chi ha vissuto davvero.
Con un linguaggio crudo e tagliente, che nasconde frasi di una dolcezza disarmante, di una malinconia lacerante, di una profondità sconvolgente, la sua voce onesta e bruciante riesce ad infiammare tutto ciò che sfiora.
Un libro di una potenza incredibile, una donna dalla forza incantevole, una lezione sulla vita che ci spinge a tuffarci nella piccola pozza nera che si nasconde nella parte più recondita del nostro animo e ad affondare nell’abisso del nostro essere.
Grazie Lidia, conoscerti è stato meraviglioso.
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March 16, 2024
CINDERELLA IS DEAD – KALYNN BAYRON

Voto: 7/10
Edito: Bloomsbury YA / Fandango
Sono passati 200 anni da quando Cenerentola ha sposato il Principe Azzurro, prima di scomparire completamente dalla vita pubblica.
Dalla sua morte, le cose non sono cambiate molto nel villaggio: ogni anno il re istituisce un ballo a cui devono partecipare tutte le ragazze in età da marito per essere scelte e trovare così l’uomo da sposare; ogni ragazza che in tre anni non riesce a trovare marito, scompare misteriosamente nel nulla.
La sedicenne Sophia, però, non è minimamente interessata a partecipare al ballo, e preferirebbe sposare Erin e vivere tutta la sua vita con lei.
Durante il ballo decide quindi di scappare, mettendo a rischio la propria vita, e si rifugia nel mausoleo di Cenerentola, dove incontra Constance, discendente di una sorellastra di Cenerentola, e insieme troveranno un modo per scoprire la verità sulla favola che è sempre stata raccontata e liberare il regno da un incubo senza fine.
Negli ultimi anni ho letto parecchi retelling di storie famose, e così non potevo farmi sfuggire anche questo.
Nonostante quella di Cenerentola non sia mai stata una delle mie fiabe preferite, avevo incontrato diverse recensioni positive ed ho deciso di dare a questo libro un’opportunità.
E devo dire che, in generale, è andata abbastanza bene.
Siamo a Lille, nel regno di Mersailles, e tutte le ragazze sono obbligate a leggere e rileggere la storia di Cenerentola, ad imparare passaggi a memoria e comportarsi nel migliore dei modi per far sì che la Fata Madrina conceda loro una visita e le aiuti a conquistare l’attenzione di un uomo al ballo.
Le donne non hanno alcun poter né voce, e sono completamente in balia del volere degli uomini. Una donna che non si comporta in maniera adeguata può essere “abbandonata” dal proprio marito, e così condannata a scomparire per sempre.
Ma Sophia non ha intenzione di sottostare a queste regole, e si erge a paladina contro il patriarcato.
Forse è un po’ troppo “scontato” e “letterale”, ma va bene.
Sophia, purtroppo, è un personaggio abbastanza piatto e con cui è difficile entrare completamente in sintonia, un po’ per il modo da “teenager ribelle” che ha di comportarsi in qualsiasi occasione e un po’ perché non mi piacciono particolarmente gli adolescenti che credono di poter risolvere i problemi della società in due giorni.
Innamorata persa di Erin, prima tenta (quasi con la forza) di portarla via da Lille per fuggire insieme (nonostante l’altra sia assolutamente contraria) e sembra quasi che tenti anche di convincerla del loro amore (cosa che, Sophia, tesoro, forse è il caso di lasciar perdere).
Quando poi incontra Constance, però, è subito amore (questi instalove non mi sono mai piaciuti).
La parte più interessante è sicuramente quella che riguarda i retroscena della storia di Cenerentola, con la vecchia strega Amina al centro.
Lei è sicuramente il mio personaggio preferito, non perché sia particolarmente accattivante, ma perché si nota il lavoro dell’autrice per creare un colpo di scena e donare un nuovo aspetto alla storia.
Oltre ad introdurre un nuovo strato più intrigante alla storia in generale, mi è piaciuto molto il suo rapporto con Constance, basato su continui battibecchi ed insulti non troppo velati.
Per lo stesso motivo, mi è piaciuto abbastanza il re Manford (anche se “il cattivo che è cattivo semplicemente perché è cattivo” è un tropo orribile ed era possibile prevedere il “colpo di scena” da metà romanzo).
Altra cosa che mi piace sempre molto ritrovare in questi retelling è la rappresentazione LGBTQ+ e BIPOC, ed è uno dei motivi principali per cui ho deciso di leggere questo romanzo.
Nonostante il worldbuilding sia praticamente inesistente, ci siano parecchi buchi nella trama e i messaggi di grande lotta femminista siano molto banalizzati e semplificati (alla Barbie, insomma), devo dire che si è rivelata una lettura abbastanza interessante, a tratti divertente e che tenta, in maniera un po’ superficiale, di dimostrarsi impegnata e importante.
Un libro piacevole e scorrevole, che si legge in un paio di giorni e che può fare sicuramente presa su un pubblico più giovane (io non sono giovane né dentro né fuori, ma l’ho apprezzato comunque).
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