Rachele Riccetto's Blog, page 12
July 2, 2024
V13 – EMMANUEL CARRÈRE

Voto: 9/10
Edito: Adelphi
Venerdì 13 novembre 2015.
Parigi è sotto attacco, il convoglio della morte è arrivato a destinazione e dieci ragazzi, jihadisti, hanno raggiunto i loro obiettivi: il teatro Bataclan, lo Stade de France, e una serie di piccoli bar e bistrot. Centotrent’uno morti e quattrocento tredici feriti.
V13 è il nome del processo che si è svolto per nove mesi, dal settembre 2021, nel cuore di Parigi.
Un processo per la Storia, un processo al terrorismo. Al terrore, al velo della realtà squarciato senza la possibilità di tornare indietro.
Un libro senza alcuna pietà. Almeno, non per il lettore.
Carrère ci racconta le cose come sono avvenute in quell’aula che assomigliava tanto ad “una chiesa moderna, al cui interno si svolge qualcosa di sacro”.
Si inizia con le vittime, e per novanta pagine Carrère ci prende a pugni nello stomaco, instancabile, inarrestabile.
Alcune delle pagine più dure che io abbia mai letto nella mia vita, e che mai leggerò.
Ci viene raccontato un dolore che è quasi troppo difficile da immaginare, non fosse per le immagini che oggi scorrono sotto ai nostri occhi, e che ci costringono a rimanere in costante contatto con una violenza senza eguali.
Quindi si passa agli imputati, ai pochi sopravvissuti, ai pochi coinvolti ma in maniera minore, a quelli che si sono ritrovati lì praticamente per caso.
Li osserviamo nascere e crescere, la loro radicalizzazione ci risulta quasi incomprensibile e per questo ancora più spaventosa, tutto quell’odio e quella sete di vendetta fuoriesce nella maniera più terribile immaginabile.
La terza parte riguarda la Corte, le arringhe degli avvocati, la sentenza pronunciata dal giudice.
Carrère si presenta quasi tutti i giorni in quell’aula, osserva ed ascolta attentamente, prende appunti.
Ed è proprio lì, seduto su quelle panche, che fa un passo indietro, e prova a mettere su carta tutto ciò che accade (ed è accaduto) nella maniera più distaccata possibile.
Ma Carrère è pur sempre uno scrittore, ed uno dannatamente bravo, e con una parola al punto giusto, una virgola, una domanda a cui non è possibile dare risposta, un dettaglio che potrebbe sembrare quasi superfluo, ci sommerge con tutto il dolore e la rabbia e la disperazione e la solitudine e la stanchezza che riempiono quell’aula, Parigi, il mondo.
Quindi distaccato, sì, ma di un passo appena.
Ma lo sguardo di Carrère è sempre puntato sulle persone, tanto sulle vittime quanto sui colpevoli.
E ci costringe a ragionare sulla giustizia e la vendetta, sul perdono e sulla resa, sulle pene e sui delitti, sulle colpe e sugli sbagli, sulla differenza di classe e l’ingiustizia sociale, su ergastolo ostativo e lucida agonia, con una chiarezza che si mescola dolorosamente all’ombrosità della materia trattata.
Ogni paragrafo di ogni capitolo si apre con una frase, due o tre parole-chiave, come un piccolo titolo che ci accenni ciò di cui sta per parlare, quasi un “avvertimento”, che serve a colpire il lettore con ancora più forza.
Una lettura che, probabilmente, dovrei definire “obbligatoria”, ma che non mi sento davvero di consigliare.
Questo di Carrère è ovviamente un grande libro, un eccellente reportage, ma racchiude un dolore troppo grande per poter essere preso alla leggera.
Un libro terribile, terrificante, sconvolgente.
Un libro che non ci aiuta a capire, perché non c’è nessuno che possa rispondere a quelle domande, e i pochi rimasti restano muti o decidono di non collaborare.
Un orrore difficile da immaginare, che toglie il fiato, raccontato in maniera eccelsa, a cui è impossibile sfuggire.
Facciamo così: io non ve lo consiglio.
Quando vi sentite felici e vi sembra che le cose stiano andando nel verso giusto, non lo leggete. Quando vi sentite tristi e vi sembra che il mondo faccia schifo, non lo leggete.
Se però c’è un giorno che vi sentite particolarmente forti, in cui pensate “mi andrebbe proprio di piangere disperatamente per duecentocinquanta pagine ininterrottamente”, allora magari prendetelo in mano, fate un respiro profondo, e preparatevi.
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June 28, 2024
IL CIELO NERO – RICCARDO CASCINO

Un grandissimo ringraziamento a Riccardo per avermi inviato una copia del suo libro!
Sono passati dodici anni dall’arrivo degli Invasori e dalla completa trasformazione di Novark.
Ultima grande città-stato della Terra, con milioni e milioni di abitanti, ora completamente isolata dal resto del mondo: un’enorme faglia circolare la isola ed una cupola scura, un Cielo Nero, la ricopre completamente.
La maggior parte dei suoi abitanti adulti sono stati resi schiavi e i bambini dei soldati.
Una serie di terremoti ha spezzato e dislocato la struttura della città, affondando intere zone nel sottosuolo.
I pochi scampati all’attacco dei nuovi venuti si sono rintanati sottoterra, dove si sono reinventati una nuova vita, in attesa.
Tra questi c’è Draak, che non ricorda nulla della sua vita prima dell’invasione, e che si è creato una nuova famiglia: ci sono Jert, Lyn, Horin, e il girovago Godar.
Ma un giorno Draak incontra una nuova ragazza, Aril, e da quel momento le cose cambieranno per sempre.
Ma chi sono gli Invasori?
Che cosa vogliono?
Che cos’è il Cielo Nero?
Riccardo Cascino ha scritto un’opera davvero interessante, molto concentrata sullo sviluppo dei suoi personaggi, cosa che rende la lettura più coinvolgente.
Lo stile di Cascino è molto scorrevole e ben studiato (considerando che si è anche inventato alcune parti di altre lingue ed ha introdotto una serie di easter eggs nei nomi e nella città stessa di Novark).
Tutta la parte che riguarda il sottosuolo è quella che mi è piaciuta di più, questa città parallela alla città “vera”, questa vita che brulica nel buio e che riemerge in cerca di luce (e verità).
Forse alcune parti avrebbero potuto essere snellite un po’ (come tutta la lunghissima parte di Draak nella cella, in cui non succede nulla per molto tempo, che è, sì, interessante, ma avrebbe potuto essere accorciata).
In fondo la mole dell’opera non è da sottovalutare, perché è difficile tenere l’attenzione del lettore per 550 pagine. Cascino riesce nell’impresa quasi per tutta la durata dell’opera, anche se la parte centrale fa un po’ traballare l’intera struttura.
Fino alla fine della storia non verremo a sapere chi sono gli Invasori, perché scopriamo le cose insieme ai nostri protagonisti, e non è una cattiva idea, perché ci permette di osservare ogni cosa con sguardo più attento, in cerca di dettagli e segreti.
L’attenzione dell’autore si concentra principalmente sullo sviluppo dei personaggi, sui loro pensieri e sentimenti, cosa che non accade spesso in questo genere di romanzi, e che invece Cascino ha saputo rendere molto bene.
Forse mi sarebbe piaciuto avere qualche spiegazione in più, ma comunque nei capitoli finali la maggior parte delle domande trova una risposta.
Ho apprezzato molto l’ultimo capitolo, il prologo che ci permette di lanciare una rapida occhiata alla città di Novark (e più precisamente ad alcuni suoi abitanti) nel giorno stesso dell’invasione; anche questa parte lascia alcune cose in sospeso, ma l’ho trovata comunque un’abile mossa, un ottimo colpo di coda.
Cascino ha creato un mondo sommerso, posto sotto ad un mondo racchiuso, all’interno di un mondo ormai distrutto, ed ogni parte si interseca molto bene con le altre, creando una storia su più strati, raccontata da più voci, e davvero interessante.
Una buona lettura per gli amanti della fantascienza, con un occhio al distopico, in cerca di una grande avventura.
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June 25, 2024
NUOVO TITOLO PER DOMINIONI EDITORE
Salve a tutti!
Oggi ho il piacere di presentarvi un nuovo titolo edito Dominioni, con il loro nuovo marchio Docu per i romanzi-inchiesta, che mi è stato gentilmente inviato dall’editore, che ringrazio moltissimo.
VOLEVO DIVENTARE GRANDE SUBITO – MARIO SCHIANI
A nove anni Ibu ha due sogni nel cassetto. Il primo: diventare una star della musica come il suo idolo, Takana Ja. E tra un dispetto e l’altro alla sorellina Fatu, si sta già impratichendo con il suo tamburo e insiste con mamma e papà a farsi iscrivere alla scuola di musica. Mamadou e Adama, i suoi genitori, sanno che Ibu non basta “saperlo prendere”; no, bisogna proprio dargliela vinta: in effetti, rispetto agli altri bambini della sua età, dire che Ibu è competitivo è riduttivo; gli piacciono sempre e solo le cose da grandi, come il caffè o i film d’azione di Van Damme.
Ecco, infatti, il suo secondo sogno: diventare un adulto, e il prima possibile.
Il destino lo accontenta in una mattina di luglio: mentre in lontananza si intravedono i fumi neri causati dalle esplosioni di una protesta politica, a casa di Ibu si abbatte una tragedia famigliare che cambierà per sempre il corso della sua vita.
Da quel momento, comincia per lui un’epopea verso l’età adulta. Un viaggio lungo dieci anni che, da Conakry, capitale della Guinea, lo porterà negli inferi del continente africano; tra i cercatori d’oro delle miniere; nel deserto dei trafficanti di uomini; sfruttato da un gruppo di gangster libici, per poi affrontare, infine, le acque del Mediterraneo.
Mario Schiani mette in fila le tappe di un viaggio epico; analizza e descrive il contesto storico-sociale in cui si svolgono i fatti, e colora il tutto con il racconto individuale di un bambino che, ironia della sorte, cresce troppo rapidamente ma senza accorgersene; perché se per così tanto tempo l’obiettivo di una vita è la sopravvivenza, non si può che raggiungere la maggiore età senza badare agli anni, ai giorni, ai compleanni.
Seguendo l’odissea di Ibu, e incontrando attraverso la sua esperienza una grande galleria di personaggi e situazioni, Volevo diventare grande subito si dimostra un particolarissimo romanzo di formazione e un ritratto vivido, brutale del fenomeno migratorio e dei nostri tempi.

BIO: Mario Schiani (Como, 1963) è giornalista professionista dal 1988. Il suo esordio nella narrativa risale al 2009 con La banda delle Quattro Strade (Salani), finalista al premio nazionale di letteratura per ragazzi “Il gigante delle Langhe”. Nel 2020 un secondo romanzo, Quel dolce nome (Giovane Holden Edizioni). Nel 2021, Il fucile dietro la schiena (Dominioni Editore), scritto con il fratello Paolo e incentrato sul dramma degli internati militari nella Seconda guerra mondiale.
Sarà una delle mie letture del prossimo mese, e non vedo l’ora di leggerlo e parlarne con voi.
Presto la recensione.
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June 22, 2024
IL PETTIROSSO – JO NESBØ

Voto: 7/10
Edito: Einaudi
La terza indagine di Harry Hole non ci porta in giro per il mondo, questa volta, ma restiamo a casa, nella sua Norvegia.
Dopo un “incidente” in cui rimane ferito un poliziotto, Harry tenta nuovamente di rimettersi in piedi.
Anche perché ha del lavoro da svolgere, e gli elementi principali della storia sono: un gruppo di neonazisti, uno dei fucili di precisione più potenti al mondo, perdite dolorose e nuovi amori, vecchi soldati e ricordi della Seconda Guerra Mondiale.
Anche questa volta Harry si ritroverà a combattere contro i propri demoni (dall’alcolismo al suo carattere poco socievole) e contro nemici mai troppo lontani, che si nascondono in bella vista, pronti ad attaccare.
Terza indagine di Hole, e anche questa volta Nesbø non delude.
Avevo apprezzato molto di più l’ambientazione del capitolo precedente, quel viaggio in Thailandia si era dimostrato davvero molto immersivo e coinvolgente.
Questa volta la Norvegia non è riuscita ad affascinarmi nella stessa maniera, ma ho trovato la storia più articolata, anche grazie alle due linee temporali che ci accompagnano quasi per tutto il libro.
Da una parte abbiamo Harry, alle prese con i neonazisti e il suo fulmineo innamoramento per Rakel, un fucile di precisione e tanto whiskey; dall’altra un soldato norvegese che, durante la Seconda Guerra Mondiale, aveva deciso di arruolarsi al fianco dei nazisti in difesa della propria patria.
Le cose si fanno più complicate quando le persone cominciano a morire (sia nel passato che nel presente), e Harry deve riuscire a sventare qualcosa di grosso.
La storia non è male, anche se l’ho trovata un po’ troppo volutamente contorta, come un tentativo di depistaggio del lettore un po’ troppo marcato ed evidente.
Sappiamo da subito chi è il nostro cattivo (almeno il principale), eppure fino alla fine inseguiamo un uomo che si finge un uomo che si finge un altro uomo, come un’enorme matrioska scontata.
Harry è un personaggio che mi piace abbastanza, non sappiamo molto di lui (soffre e beve e soffre e fuma e risponde male e beve) e rientra nella ormai ben nota categoria “investigatori sarcastici e alcolizzati molto intelligenti”, quindi niente di eccezionalmente innovativo, ma lo trovo un personaggio ben scritto e che seguo volentieri.
Certo, Nesbø ogni tanto potrebbe dargli un attimo di tregua: non bastava tutto quello che ha sofferto nei due capitoli precedenti, ci voleva anche il momento “colpo di scena” a metà del romanzo a strapparci (sia a Harry che a noi lettori) il cuore dal petto.
Giuro, ho pianto disperatamente durante quei capitoli in cui Harry parla alla segreteria telefonica. Dio, Jo, anche meno!
Nesbø affronta anche alcuni dei lati più oscuri del potere: dai politici che sfruttano la propria influenza per portarsi a letto qualunque donna desiderino; dai poliziotti corrotti che usano le loro conoscenze per fare soldi, collaborando con i peggiori criminali; ai rinomati dottori che minacciano di rovinare una famiglia pur di trovar moglie al proprio figlio.
La parte ambientata durante la Seconda Guerra Mondiale non è riuscita a sconvolgermi né a coinvolgermi particolarmente, ma funziona bene per mostrare lo sviluppo di alcuni personaggi.
La parte moderna è sicuramente migliore, più movimentata ed emozionante.
Lo stile di Nesbø è sempre molto preciso e non si dilunga mai troppo in descrizioni o riflessioni dai toni filosofici; con una scrittura molto scorrevole, riesce a far ragionare il lettore con una serie di avvenimenti, senza sprecare parole in grandi spiegoni didascalici.
Avevo sentito parlare molto bene di questo romanzo e in generale devo dire che mi è piaciuto parecchio.
Forse Nesbø ha messo un po’ troppa carne sul fuoco, finendo per creare un libro di 600 pagine con una quantità infinita di avvenimenti ed informazioni, grandi storie d’amore e di tradimenti, passioni e vendette, che avrebbe potuto tranquillamente accorciare di un terzo della lunghezza.
Sicuramente affrontare in maniera un pochino più approfondita la questione del disturbo dissociativo dell’identità ed eliminare qualche commento sessista avrebbe fatto soltanto del bene, ma nessuno è perfetto.
Anche questa indagine di Hole si è rivelata un’esperienza positiva, e sicuramente leggerò anche il capitolo successivo.
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June 19, 2024
COMPULSION – MEYER LEVIN

Voto: 8/10
Edito: Adelphi
Chicago, 1924.
Judd ed Artie sono due giovani studenti universitari particolarmente brillanti, appartengono a famiglie ricchissime e hanno tutto ciò che potrebbero volere.
Eppure c’è qualcosa che manca, una nota che stona.
Il loro rapporto quasi simbiotico li spinge a compiere dei piccoli crimini insieme, e infine a progettare il grande colpo, il “crimine perfetto”, che possa unirli per sempre: uccidere una persona.
I due ragazzi progettano la cosa per mesi, sicuri della riuscita del loro piano, lasciando al caso la scelta della vittima: non riuscendo a decidersi, si appostano all’uscita di una scuola e attendono.
E sarà per caso che il piccolo Paulie verrà scelto ed ucciso, dando il via ad una caccia all’uomo prima e ad un processo dopo che toccherà tantissime vite e sconvolgerà l’opinione pubblica.
Questa è la storia vera di un terribile crimine compiuto il secolo scorso, raccontato direttamente dal giovane giornalista che, oltre ad aver avuto un ruolo fondamentale nella risoluzione del caso, conosceva personalmente i due ragazzi colpevoli.
Tutti i nomi sono stati cambiati e la storia ci viene raccontata in maniera approfondita seppur romanzata, andando a comporre una lettura dall’intenso fascino macabro.
La mia opinione sul “true crime” è decisamente incerta: da una parte, come moltissime persone, riconosco il fascino di queste storie e anche a me ogni tanto piace “rilassarmi” seguendo gli sviluppi di alcuni casi, che trovo principalmente attraverso canali di YT e alcuni film e serie tv tratti da queste vicende; dall’altra parte, però, la trovo una spettacolarizzazione della violenza di cui forse non avremmo davvero bisogno.
Non ho mai letto molti libri di questo genere, posso contarli letteralmente sulla dita di una mano, e questo titolo è riuscito a sconvolgermi in una maniera spettacolare.
Si è rivelata, senza alcun dubbio, una delle letture più dense e intense di quest’anno, e non solo per la mole di fatti e idee e congetture e riflessioni che contiene, ma anche per la profondità con cui ogni pensiero viene indagato.
Levin, a circa 30 anni dal delitto e dal conseguente processo, ha compiuto un lavoro magistrale ed ha diviso l’opera in due parti: nella prima conosciamo i colpevoli, assistiamo al crimine e cerchiamo di comprendere le menti dei due giovani; nella seconda, assistiamo al lavoro di psichiatri e alienisti e giornalisti e avvocati, con il fiato sospeso, fino alla sentenza emessa dal giudice.
Judd e Artie ci vengono presentati come due giovani particolarmente brillanti, uniti da un rapporto intenso e malato (e bisogna sorvolare un po’ sul fatto che Judd fosse innamorato di Artie e il suo sentimento venga considerato da “invertito” e “pervertito” e tante altre cose carine e per niente problematiche, ma stiamo comunque parlando di una storia del secolo scorso), che hanno deciso di compiere un atto orribile per una specie di “sfida”, un “patto” stretto in un momento particolarmente teso e dal quale nessuno dei due ha poi più voluto tirarsi indietro.
Soprattutto nella mente di Judd, il loro crimine era un’azione pura e perfetta, perché non dettata da altri sentimenti o motivazioni se non quella di compiere l’atto stesso; la sua ossessione con la filosofia del superomismo di Nietzsche lo aveva spinto a credersi un essere superiore, in grado di compiere determinati atti senza dover poi risponderne.
O almeno era di questo che tentava di convincersi.
In realtà il crimine perfetto dei due ragazzi si è lasciato alle spalle una serie evidente di errori e sviste che ha portato in pochi mesi alla loro cattura; lo stesso Artie, adducendo alla scusa della sua passione per i romanzi polizieschi, tentava di aiutare poliziotti e giornalisti nelle indagini, comportandosi in maniera avventata e infantile.
Molti si sono chiesti se i due giovani non stessero tentando, più o meno inconsciamente, di farsi arrestare.
Una lettura coinvolgente e sconvolgente dall’inizio alla fine, che non si focalizza troppo sugli aspetti più macabri, ma non tenta neanche di rifuggirli.
Lo stile di Levin è chiaro e scorrevole, eppure particolarmente intenso e profondo, e cerca di entrare nella mente e negli animi dei due colpevoli per tentare di dare una risposta e trovare un senso anche dove non è possibile farlo.
Ho impiegato quasi due mesi per portare a termine la lettura perché, nonostante sia molto interessante e scritta in maniera che il lettore venga risucchiato nelle pagine e sommerso dagli eventi, è un libro che non si tira mai indietro, esplora tutte le possibili teorie, risultando a tratti molto statico.
L’autore era un giornalista, e questo si sente benissimo dal modo in cui fatti e opinioni vengono esposti, e lo stile aiuta molto la fruizione del testo; certo, forse anche un centinaio di pagine in meno non avrebbero fatto male a nessuno.
Una volta superata la parte più violenta, quindi le indagini, e alla fine quella legale, giungiamo alle arringhe tenute dall’avvocato difensore (qui chiamato Wilk) e dal procuratore distrettuale (Horn), e vale la pena di superare le prime 500 pagine anche solo per giungere a questi discorsi finali (in particolar modo a quello di Wilk).
Insieme all’autore e a tutti coloro che presero parte alle indagini, ci troviamo a ragionare sul valore della vita e della morte, della religione, dell’educazione, sugli aspetti medici e gli effetti dell’ambiente circostante sullo sviluppo psicologico di una persona, sulla pena di morte e la riabilitazione; si parla di filosofia e politica, legge e morale, ma soprattutto di umanità.
Si può valutare il valore di una persona osservando semplicemente il suo momento più “basso”, il suo errore più grave?
Una persona in grado di compiere qualcosa di terribile, senza alcuna motivazione, senza pietà, senza rimorsi, può davvero cambiare e trovare la redenzione?
Come si può valutare efficacemente il rapporto che lega reato e pena?
La società deve vendicare le vittime o riabilitare i colpevoli?
Una grande opera che ha ispirato moltissimi film e libri (anticipando di un decennio il celebre “A sangue freddo”), per gli appassionati del genere e non solo, che tenta di scavare nell’oscurità che potrebbe nascondersi in qualunque persona ma, alla fine, ne riemerge senza una risposta definitiva.
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June 14, 2024
BANDITO – SELMA LAGERLÖF

Voto: 8/10
Edito: Iperborea
Joel e Thala sono ormai anziani, e vivono da soli nella loro casa sull’isola di Grimö, nella Svezia occidentale.
Una sera ricevono improvvisamente una notizia inaspettata: Sven Elversson, il figlio che a nove anni hanno affidato ad una famiglia aristocratica inglese perché potesse avere una vita migliore della loro, sta tornando a casa.
Thala all’inizio non vuole saperne nulla, offesa da tutti quegli anni di silenzio, ma il marito fa leva sui suoi sentimenti e la costringe ad ammettere la gioia che quella notizia le ha suscitato.
Ma Sven Elversson sta tornando a casa per un motivo ben preciso. Si era imbarcato su una nave, diretta al Polo Nord, che era rimasta bloccata fra i ghiacci, e così lui e i suoi compagni avevano tentato di sopravvivere commettendo un peccato terribile: il cannibalismo.
Quando si era diffusa la notizia, Sven Elversson era stato scacciato con disgusto, e si era così ritrovato a dover far ritorno alla sua terra natale.
Ma i suoi genitori sanno che è un uomo buono, e lo accolgono a braccia aperte.
Non altrettanto fa la piccola comunità svedese, che lo insulta e lo evita e rifiuta ogni tentativo che fa il giovane per aiutare la città.
Anche il nuovo parroco, appena arrivato in città con la giovane moglie Sigrun, punta il dito contro di lui e lo bandisce dalla sua chiesa.
Sarà proprio Sigrun a riconoscere il suo buon cuore e il suo animo gentile e tormentato, e i due si aiuteranno a vicenda a trovare una pace tanto bramata.
Sarà invece l’orrore della Prima Guerra Mondiale, con la sua terribile violenza e la quantità enorme di morti, a spingere la piccola comunità a ragionare sul valore della vita e della morte, sulla sacralità di ciò che abbiamo e che potremmo perdere in un attimo.
Quanta forza nella penna di Lagerlöf.
Una storia che inizia come un colpo di pistola: il primo capitolo è semplicemente geniale.
Noi siamo Thala, e viviamo insieme a lei un’altalenarsi di sentimenti che ci strappano il cuore e ci fanno piangere di speranza, per dimostrare che l’amore non può essere schiacciato da nulla.
Un romanzo molto intenso, in cui succedono tante cose, e dove i sentimenti riemergono sempre in superficie.
Sven Elversson, uomo pentito e addolorato, ci insegna a non arrenderci, ad andare avanti, a lottare per l’unica vita che abbiamo.
Sigrun, una donna forte che conosce l’animo umano, che sa che i sentimenti possono cambiare ma certe situazioni si possono risolvere soltanto con gesti estremi, è un personaggio brillante ed estremamente moderno (anzi, molto più moderno di altri che popolano certi libri attuali).
Il parroco Rhånge, discendente da una stirpe maledetta, è un uomo violento e geloso, possessivo nei confronti della moglie, e solo dopo aver provato il dolore per la perdita della sposa e l’accettazione di un sentimento più puro, riuscirà a spezzare la maledizione e trovare la propria pace.
La giovane Lotta, amica di Sigrun, fervida credente e in grado di avere visioni, è un personaggio particolare e coinvolgente, completamente umano.
Tutti gli eventi della storia e le vicende personali dei personaggi si mescolano alla perfezione, in una narrazione scorrevole e carica di insegnamenti.
Mentre nella prima parte ci troviamo di fronte il muro di una religione chiusa, che non accetta e non perdona, alla fine è la santità della vita a ridare luce e speranza a tutti i personaggi.
Anche il finale non si perde ed ha la sua forza chiara e brillante, ed è riuscito a cogliermi abbastanza di sorpresa (non ho apprezzato la lettera trovata nel cadavere ripescato perché appiattisce un po’ l’insegnamento morale, perché “perdonato perché innocente” non ha la stessa forza di “accettato nonostante le colpe”; l’ultima scena proprio, invece, del ritorno di Sigrun, mi ha fatto inizialmente storcere appena la bocca, ma dopo averci ragionato capisco che fosse l’unica scelta per il suo personaggio, per il suo cuore, per il suo animo in grado di riconoscere e accettare i cambiamenti).
Lagerlöf ha pubblicato questo libro nel 1918, eppure i suoi ragionamenti sono ancora dolorosamente attuali.
La sua denuncia contro la guerra e tutti i suoi orrori è chiara e forte, così come ogni azione che attenti alla libertà e alla sacralità della vita.
Lagerlöf ci insegna che l’uomo cade, ma può sempre rialzarsi, soprattutto se c’è qualcuno pronto ad allungare una mano.
Questa è una storia ricca di avvenimenti, di insegnamenti, di errori e perdono e pentimento e redenzione, di magia nella divinità e magia nella natura e magia nel cuore degli uomini.
Una piccola comunità, in un angolo sperduto della Svezia, dove la vita è dura e le persone come essa, dove la neve cade abbondante e ricopre ogni cosa, ma ad ogni primavera, quando il sole brilla e il bianco sparisce, la primavera è pronta a far rinascere la vita.
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June 7, 2024
BASTA UN PEZZO DI MARE – LUDOVICA DELLA BOSCA

Edito: Corbaccio
Un caloroso ringraziamento a Corbaccio per avermi inviato una copia di questo romanzo!
Sono passati tre anni dall’ultima volta che Agata e Sara si sono parlate, la loro amicizia così intensa è ormai soltanto un ricordo ancora troppo doloroso, e le loro vite sono andate avanti, seguendo un percorso non sempre lineare: Agata ha perso sua madre da un paio d’anni, ha definitivamente abbandonato l’università e lavora come commessa; Sara, lasciata l’Italia in cerca della propria identità e in fuga dal rapporto difficile con sua madre, ha viaggiato per il mondo come fotografa, attraverso esperienze più o meno belle, senza legarsi mai davvero a nessun posto, ma con un vuoto dentro che alla fine l’ha costretta a tornare a Monza.
Ed è proprio per le strade della città che le due si rincontrano, un po’ per caso, e decidono di partire insieme per raggiungere Genova e portare a termine una missione di salvataggio: liberare in mare un astice acquistato al supermercato.
Il debutto di Della Bosca parte col piede giusto: affrontando molti temi, ed anche molto delicati, l’autrice intraprende un viaggio “nell’assurdo” per inseguire il sogno di una vita normale, libera, piena.
Le due protagoniste sono due ragazze in cerca della propria strada, della salvezza, del perdono, e della libertà.
L’astice che, per caso, le riunisce, è forse l’elemento più debole di tutta la storia, e dona un tocco un po’ troppo irreale e a tratti ridicolo ad un romanzo altrimenti con i piedi ben piantati a terra.
I temi principali sono la perdita di una persona cara e l’accettazione del lutto, la ricerca di sé e del proprio posto nel mondo, la crescita e la paura di diventare adulti, l’omofobia e il distacco dalle persone amate, il rapporto madre-figlia, l’amore incondizionato.
Tutti gli argomenti vengono discussi a più riprese, mescolando i fatti che si svolgono nel presente con alcuni flash-back, creando una narrazione su più strati, ben articolata e scorrevole.
Lo stile di Della Bosca è molto semplice e scorrevole, ci ritroviamo anche noi ad intraprendere questo lungo viaggio nel passato e verso Genova, nel cuore delle protagoniste e verso il futuro, e i chilometri scorrono fuori dal finestrino come le pagine davanti ai nostri occhi.
Forse il testo avrebbe necessitato di qualche dialogo in più, per snellire tutte le parti di discorso indiretto (e anche perché i personaggi, nella maggior parte della storia, non si parlano fra di loro; pensano a cosa potrebbero dire, ci ragionano, si fanno mille scenari in testa, e poi non dicono niente. Una cosa che non mi da affatto fastidio, no no.).
E soprattutto la prima parte del romanzo ha uno stile molto “anni 2010”, con tante metafore e ripetizioni, che per fortuna si perde un po’ verso la fine del libro.
Il finale contiene una buona dose di speranza ed accettazione, come solo le storie di “crescita personale attraverso un lungo viaggio” sanno fare.
L’autrice ha saputo mostrarci i vari aspetti del carattere delle protagoniste, sia grazie all’utilizzo di un doppio narratore che ci permette di ascoltare direttamente i pensieri delle ragazze narrati in prima persona, che ai ricordi che ci permettono di osservare i cambiamenti avvenuti nelle due giovani.
Una lettura piacevole e coinvolgente, che riesce a catturare l’attenzione di chi legge e a trascinarlo con sé fino alla liberazione finale, a quelle ultime lacrime salate, a quegli occhi che si osservano sorridendo.
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June 4, 2024
L’ORSACCHIOTTO – GEORGES SIMENON

Voto: 7/10
Edito: Adelphi
Jean Chabot ha tutto quello che può volere dalla vita: una moglie e tre figli, è un ginecologo famoso, comproprietario di una clinica e professore di medicina a Parigi, possiede una grande casa in un quartiere ricco della capitale francese, e ha una relazione extraconiugale con la sua segretaria, sempre pronta a risolvere qualunque inconvenienza per lui.
Eppure c’è qualcosa che non va.
Le cose hanno iniziato a prendere una brutta piega dopo una serie di brevi incontri notturni con una delle infermiere della clinica, una giovane ragazza alsaziana che viene prontamente licenziata dalla segretaria.
Chabot inizialmente non dà troppo peso alla cosa, almeno finché il cadavere della giovane non viene ripescato dalla Senna.
E oltre alla notizia della morte e della gravidanza della ragazza, Chabot nota uno strano individuo che continua a lasciare sulla sua macchina delle minacce scritte su dei biglietti di carta.
La sua vita inizia così a mostrare le prime crepe, la stanchezza sembra prendere il sopravvento su di lui, e la pistola che da qualche settimana porta sempre con sé ha un peso tutto diverso nella sua tasca.
Simenon torna a colpire l’animo dei suoi protagonisti (e lettori), con la sua tipica affilatezza.
Questa volta la storia non è riuscita a convincermi del tutto, principalmente per un paio di motivi: il primo “incontro” fra Emma, la giovane alsaziana, e Chabot, può essere considerato a tutti gli effetti uno stupro. La ragazza dorme su una brandina, lui la scuote tentando di svegliarla e, quando lei non reagisce, le apre la camicetta e fa le sue cose e allora lei, ancora semiaddormentata, sorride e spalanca le braccia e lo accoglie. Questo, a casa mia, è uno stupro.
Era necessario alla storia? No, non credo.
Non importa se Chabot lo vede come “un atto puro e tenero” e considera Emma “commovente come un orsacchiotto nel letto di un bambino”. Sono immagini terrificanti, Chabot manca completamente di empatia per la ragazza, Emma non fa nessun “dono” al dottore, e non importa se poi ci sono altri incontri fra i due, in cui questa volta sono entrambi svegli.
Il secondo motivo è che la storia non sembra chiudere perfettamente il cerchio, come accade invece negli altri romanzi di Simenon.
Chabot ha una crisi di mezz’età, accentuata dalla colpa che sente per la morte di Emma.
Scaviamo nella sua mente ed osserviamo come l’uomo, caricato di tutte le proprie ansie e delle aspettative degli altri, finisce per chiudersi in una scatola sempre più piccola, finché non può far altro che esplodere.
Ottimo, funziona alla perfezione, peccato per un piccolo particolare: il giovane alsaziano, motivo per cui Chabot gira con una pistola, che minaccia e spaventa il nostro protagonista nella prima metà del romanzo, viene prontamente dimenticato e mai più visto nella seconda.
Un pretesto narrativo per dare la spinta definitiva al crollo di Chabot, e nulla di più.
La maggior parte della storia ha luogo all’interno della mente di Chabot e sin dalle prime pagine sentiamo un allarme che risuona in lontananza, prima debole, e poi sempre più forte.
Dopo appena una manciata di pagine, Chabot inizia a chiedersi in che modo le persone che gli stanno intorno parlerebbero di lui, se venissero interrogate, permettendoci così di notare da subito i suoi pensieri oscuri che puntano ad una fine tragica e la sua costante preoccupazione per l’apparenza delle cose.
Anche lo “studio dell’uomo” risulta un po’ più debole in questo romanzo rispetto ad altri e, nonostante mi sia piaciuto molto il discorso sull’uomo che provvede agli altri ma che non ha nessuno che pensi a lui e così perde il proprio senso e la propria identità, non posso dire che sia riuscito a toccarmi come altre sue opere.
Lo stile è sempre alto, riesce con poche frasi a creare un quadro dal quale è difficile allontanare lo sguardo, e ci ritroviamo ad osservare le ombre che, lentamente, allungano sempre di più le dita verso il cuore del protagonista.
Prima o poi doveva capitare: un libro di Giorgio che non riesce a sconvolgermi.
Andrà meglio la prossima volta.
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June 1, 2024
LACCI – DOMENICO STARNONE

Voto: 9/10
Edito: Einaudi
Questa storia inizia dalla fine di un matrimonio.
Aldo e Vanda si sono sposati poco più che ventenni e, dodici anni dopo, genitori di due figli, entrambi si ritrovano ad affrontare qualcosa che non si sarebbero mai aspettati: Aldo si innamora di una ragazza appena diciannovenne e decide di lasciare moglie e prole per trasferirsi a Roma e vivere a pieno questa storia; Vanda si ritrova sola, abbandonata, tradita, di fronte ad un mondo che non conosce davvero.
E con un incipit che ci fa capire subito come sarà il tono del romanzo, carico di dolore e rabbia e rancore, ma anche rassegnazione, seguiamo la storia dei due per quasi quarant’anni, e le conseguenze che le loro azioni hanno avuto sui figli.
Ma è al ritorno da una settimana di vacanza che Aldo e Vanda trovano la casa completamente distrutta, e si ritroveranno ad affrontare tanti piccoli dolori e tanti piccoli segreti che credevano di aver dimenticato o, almeno, sotterrato abbastanza in profondità.
Un romanzo breve di una potenza inconcepibile.
Se l’avesse scritto in America, questo sarebbe stato un ottimo esempio di “grande romanzo americano”, e invece Starnone l’ha scritto in Italia, tra Napoli e Roma, e un po’ mi fa ben sperare per la nostra letteratura, e un po’ mi dispiace per la minor risonanza che questo possa avergli dato (nonostante, ovviamente, la bellezza del libro sia stata riconosciuta ampliamente anche internazionalmente).
Ma che cos’è “Lacci”?
Per descriverlo nella maniera più tecnica, è un romanzo diviso in tre parti, ognuna raccontata da una voce narrante diversa (tre dei quattro membri della famiglia), ognuna narra un momento diverso ma, attraverso ricordi e flashback e altri piccoli espedienti, le tre parti si intersecano e la storia emerge completamente soltanto alla fine.
E la storia di base è: Aldo lascia la moglie e i figli e tenta di vivere con la giovane Lidia, così bella e luminosa, che lo fa sentire un uomo migliore e con un futuro brillante; Vanda, abbandonata, implode e crolla, tenta strenuamente di convincere il marito a tornare e usa i figli come barriera e come ponte, come arma e come ramo d’ulivo, senza voler mai abbandonare l’idea di quel futuro che aveva immaginato durante i primi anni di matrimonio; Sandro e Anna, i figli della coppia, restano traumatizzati dall’abbandono del padre e dalla reazione della madre, e si porteranno per sempre addosso le cicatrici di quegli anni difficili (Anna rifiuta assolutamente il concetto di maternità e di famiglia, e sembra proprio allontanare chiunque cerchi di avvicinarsi a lei; Sandro ha quattro figli da tre donne diverse e una quantità innumerevole di altre storie, e non ha alcuna intenzione di sistemarsi e vivere una vita tranquilla).
Questo romanzo affronta moltissimi temi interessanti: il concetto di famiglia prima e dopo gli anni ’70, con la deistituzionalizzazione di quell’istituzione che è alla base della società; il matrimonio contratto da giovani e la ricerca di un’indipendenza abbandonata troppo presto; il concetto di identità delle persone all’interno di una famiglia, e come ci si muti e ci si smussi per il quieto vivere; e quello che più mi ha colpito, soprattutto per il modo crudo e profondo in cui viene affrontato, è il concetto che gli errori dei genitori ricadono sempre sui figli, e ogni percorso si lascia dietro una traccia.
I lacci, in questo caso, oltre ad essere un concetto preciso nel libro, un aneddoto che i personaggi condividono, questo modo particolare di allacciarsi le scarpe così assurdo che Sandro ha copiato da suo padre, sono i lacci stessi che legano le persone, ad indicare i legami nei rapporti; ma i lacci sono anche i legacci che schiacciano Aldo e lo spingono ad andarsene, e gli stessi che poi, anni dopo, lo spingono a tornare (anche se col cuore Aldo non farà più davvero ritorno al nido famigliare).
I lacci danno sicurezza a Vanda, che li utilizza per tenere legati intorno a sé i membri della sua famiglia (anche se, con coraggio e dolore arriverà a rivelare i suoi veri sentimenti verso gli altri tre).
I lacci hanno ingabbiato Anna e Sandro, fino a trasformarli in adulti insicuri e incompiuti.
Questi lacci che hanno tenuto insieme quattro persone che non imparano dal proprio passato, ma sono personaggi chiusi, che guardano dentro di sé, concentrati sui propri bisogni e sogni, e continuano a percorrere sempre le stesse strade e ricadere negli stessi errori.
Lo stile di Starnone è semplicemente meraviglioso, così chiaro e pulito, eppure carico di significati, denso, e in poco più di cento pagine riesce a trasmetterci tutto il dolore di una vita famigliare che potrebbe essere quella di chiunque, la sofferenza di una quotidianità senza niente di eccezionale, così triste e comune da essere ancora più terribile.
Il finale a sorpresa non è proprio una sorpresa, ma funziona comunque benissimo, come uno schiaffo in pieno volto: brillante nella sua crudezza, straziante nella sua verità, e i genitori che, persi in sé stessi e l’uno nell’altra, avevano finito per mettere in secondo piano il bisogno dei figli di un ambiente tranquillo in cui crescere, si ritrovano privati di ciò a cui tenevano di più.
La gioia che ho provato nello scoprire che in Italia esiste qualcuno in grado di scrivere un libro simile è direttamente proporzionale al dolore contenuto in queste pagine.
Un libro forse non per tutti, e non per qualunque momento. Un libro meraviglioso.
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May 28, 2024
VOCI DALLA LUNA – ANDRE DUBUS

Voto: 9/10
Edito: Mattioli 1885
Una famiglia che sembra sul punto di sgretolarsi definitivamente, di fronte all’ennesima situazione che ne mette alla prova la resistenza più profonda: se un uomo di quarantotto anni si innamora di una ragazza più giovane di lui di vent’anni non ne seguono grandi sconvolgimenti, ma se quella ragazza è l’ex moglie di suo figlio?
Sono passati due anni, ormai, da quando Joan ha lasciato la sua famiglia e ha divorziato da Greg, ricominciando una nuova vita tranquilla in una città vicina a quella in cui vivono i suoi figli.
Greg, rimasto solo così a lungo, una sensazione nata molto prima del divorzio, si ritrova suo malgrado ad innamorarsi della giovane Brenda, anche lei tornata recentemente single dopo il matrimonio finito presto con Larry.
Il figlio più piccolo di Greg, Richie, sogna da anni di diventare prete, ma il suo corpo e la sua mente adolescenziali si ritrovano ad affrontare ogni giorno delle nuove sfide.
Con una premessa simile, la storia potrebbe andare in mille direzioni diverse, potrebbe nascondere mille avvenimenti e scontri e grandi sofferenze, e invece Dubus, con la dolcezza e la poesia che lo contraddistinguono, racchiude in un’unica giornata una manciata appena di azioni e un viaggio incredibile nell’animo umano.
Verrebbe quasi naturale pensare che Greg e Brenda siano i “cattivi” della storia, ma scavando nelle loro menti e nei loro cuori Dubus ci mostra due persone come tante, con i loro lati più oscuri e quelli più luminosi, pieni di amore e dubbi e incomprensioni e insicurezze, che si sono innamorati nel modo più semplice del mondo, stando uno di fianco all’altra, reggendosi a vicenda.
Larry non è la “vittima” di questa storia, ed è nella conversazione finale che ha con sua madre Joan che riusciamo a sentire con forza tutta la sua sofferenza, a vedere le crepe del suo cuore a pezzi, e ad ammirare la maestria di Dubus che ci mostra un uomo che soffre ma che sa che riuscirà a sopravvivere, che sa che la sua vita andrà avanti e riuscirà a superare quel dolore che ora gli sembra incomprensibile ed immenso.
Joan è un personaggio “marginale”, che incontriamo soltanto alla fine, ma riesce a catturarci completamente: una donna che a quarantacinque anni ha lasciato la sua famiglia nonostante sapesse di ferire i suoi figli, ma non vedeva altra soluzione per riprendere il controllo della propria vita.
Una donna che per quasi trent’anni era rimasta in un matrimonio che si era spento lentamente, che si era lasciata convincere dal marito ad avere un altro figlio per tentare di salvare il rapporto e bè, sappiamo tutti quanto la cosa funzioni bene.
Una donna che soffre per il dolore che ha causato al figlio di dieci anni che si è lasciata alle spalle, ma che ha dovuto abbandonare quella vita che la soffocava per ritagliarsi un piccolo angolino nel mondo, con una piccola casa e un letto matrimoniale in cui dormire da sola, un lavoro come cameriera senza troppe pretese, e gli appuntamenti mensili con i figli.
Non è il personaggio femminile che si incontra di solito nei libri, soprattutto non il solito tipo di madre, e mi è piaciuta tantissimo, con la sua pacatezza, l’accettazione, la pace raggiunta con fatica.
Carol, la figlia di Greg e Joan, è un altro personaggio che vediamo poco, solamente in una piccola scena condivisa con il padre, ma è sicuramente un’interessante rappresentazione di amore.
E alla fine Richie, il dodicenne che vuole diventare prete, ma che si sta innamorando di una sua coetanea.
Richie ha già una sua voce e la sua fede non vacilla (sebbene quando viene a sapere della relazione fra il padre e Brenda se ne esca con la brillantemente arguta e divertente affermazione “sarà difficile rimanere cattolici a casa nostra”), rendendolo un personaggio particolarmente interessante.
Il suo cuore e la sua mente sono impostati sul percorso che dovrà compiere per diventare prete, e non c’è senso di sofferenza in lui, di privazione e solitudine, perché il suo amore per Dio riempie tutta la sua vita.
Ma il suo corpo sta cambiando, l’adolescenza è ormai alle porte, e non può più negare i suoi sentimenti per Melissa, che creano in lui una scissione.
La casa stessa in cui vivono Richie e suo padre, che il bambino definisce di tre piani ma che è suddivisa su vari livelli da rialzamenti di quattro o cinque gradini, piani lunghi in cui le stanze sono collegate in maniera bizzarra e strane suddivisioni, può essere vista come una rappresentazione della famiglia e dei suoi rapporti già confusi, ed ora ancora più intrecciati e caotici.
Un romanzo breve che, con pochissime pagine e ancora meno vicende, ci invade la mente e il cuore, ci entra dentro, si espande e ci mostra l’enorme talento di Dubus.
La sua penna asciutta e malinconica, senza fronzoli e senza grandi avvenimenti, nasconde tutta l’umanità e i suoi dolori ma, soprattutto, il suo amore e la sua gioia.
Perché nonostante il percorso tortuoso che compie ogni personaggio, dentro di sé e nei rapporti interpersonali, e nonostante tutte le sofferenze che affrontano e che dovranno continuare ad abbracciare per molto tempo ancora, c’è una nota luminosa che si fa strada per tutto il libro, come un canto soffuso e delicato, che accompagna i personaggi e il lettore verso un finale di speranza, di incomprensioni che incontreranno il perdono, di rancori che diventeranno riflessioni e crescita, verso una nuova alba, verso un nuovo domani.
Secondo libro che ho il piacere di leggere di Dubus, e la sua capacità di estrarre l’universo intero da ogni uomo è semplicemente sublime.
I suoi romanzi si svolgono principalmente all’interno dei suoi personaggi, nei pensieri che affollano le loro menti e nei sentimenti che scombussolano i loro cuori, e le stesse sensazioni di turbamento e commozione si trasmettono con chiarezza al lettore, che non può restarne indifferente.
Un romanzo incantevole, una lettura poetica, una penna imprescindibile.
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