Rachele Riccetto's Blog, page 2
July 4, 2025
MARTIRE! – KAVEH AKBAR

Voto: 8/10
Edito: La nave di Teseo
Cyrus è alla ricerca di un senso, per la sua vita e per la sua morte.
Sua madre Roya è morta quando lui era ancora in fasce, una dei passeggeri del volo di linea iraniano abbattuto dagli americani; per sfuggire al dolore, suo padre Ali decide di trasferirsi in America e ricominciare da zero.
Una vita difficile, in un paese straniero con lo sguardo sempre diffidente puntato su di loro, con un lavoro duro in un allevamento di polli per garantire un futuro a suo figlio.
Quasi come se avesse atteso che il figlio fosse cresciuto, Ali muore poco dopo l’inizio della carriera universitaria di Cyrus, che si ritrova solo al mondo.
Sin da piccolo ha sempre vissuto con un filo che lo legava stretto alla morte, e forse per quello Cyrus, ormai giovane adulto, è ossessionato dall’idea dei martiri, da vite e morti che abbiano un senso, che si innalzino a vicenda, che non vadano sprecate.
Un viaggio a New York per incontrare un’artista iraniana morente porterà alla luce tutto quello che era rimasto sepolto.
Che libro intenso, che esordio prodigioso!
Un libro che è come un vulcano in costante eruzione, che riversa su di noi una valanga di idee e ragionamenti e sentimenti, ci sommerge e non ci chiede di accompagnarlo, ma ci trascina in un viaggio fra la vita e la morte, fra ciò che accade e ciò che facciamo accadere.
Cyrus è un personaggio davvero interessante: un ventinovenne, orfano, sobrio da due anni ed innamorato del suo migliore amico, un poeta ossessionato dall’idea di scrivere un libro sui martiri, e forse dall’idea di diventarlo lui stesso, un iraniano in America fissato con la morte e i suoi significati possibili.
Cyrus ha il cuore a pezzi e le mani che tremano costantemente, non riesce a rimettere insieme i cocci che potrebbero dare un significato a tutto quello che si muove intorno a lui, ma ci prova con tutto sé stesso.
Della sua famiglia è rimasto solo suo zio Arash, fratello di sua madre, impazzito per tutto ciò che ha dovuto affrontare e osservare in guerra, quando cavalcava fra i soldati morenti come un angelo della morte.
Solo in un paese straniero, si è costruito una nuova rete intorno, di amici, amanti, il suo sponsor; ma niente sembra riuscire a riempire quel vuoto che gli è rimasto dentro.
Cyrus è convinto di poter trovare un senso alla morte, che giunge inevitabile per tutti, appianando tutte le differenze, cancellando tutti i significati.
Un libro definito americano, ma secondo me è una definizione che gli farebbe storcere il naso e alzare gli occhi al cielo; un libro che definirei quasi apolide, che si muove fra diverse realtà, alla ricerca di sé, raccogliendo piccoli frammenti lungo la strada.
Un evento importante della storia si basa su un fatto vero di cronaca: il volo Iran Air 655 abbattuto da un incrociatore americano, in cui morirono duecentonovanta persone e di cui il governo degli Stati Uniti non ammise la responsabilità.
Partendo da un fatto tanto terribile, spazzato sotto il tappeto come un errore qualunque, Akbar racconta la sua storia di identità e umanità, di vite perdute senza senso e martiri nati dalla necessità di trovarne uno.
Lo stile di Akbar è simbolico ed evocativo, poetico e magnetico, affonda nella storia e permette alle immagini di emergerne con forza brillante e infuocata, anche nei momenti più tetri.
Fra le sue parole, arte e poesia persiane si fondono in un vortice di parole e colori e forme.
Un libro potente e scottante, sui tempi di guerra e quelli di pace, sui paesi conquistatori e quelli conquistati, sugli uomini che lottano e quelli che subiscono.
Un libro sulla dipendenza e l’indipendenza, sullo sradicamento e il senso di appartenenza, sulla solitudine e la comunione, sul martirio e l’impossibilità di trovare un senso unico valido per tutti.
Il finale va interpretato, e per questo non farò alcuno spoiler: ci ho ragionato parecchio, ho letto diverse opinioni a riguardo, ed ognuna di quelle spiegazioni possibili ha una sua bellezza intrinseca che lo rende ancora più incisivo.
Cyrus percorre il suo arco ascendente e discendente, soffre e ama e ride e piange, e alla fine trova la sua pace.
Che finisca, e che ne sia valsa almeno in parte la pena.
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June 27, 2025
LA FURIA – SORJ CHALANDON

Voto: 8/10
Edito: Guanda
Il 23 agosto 1934, in una notte buia come la pece, cinquantasei ragazzini evadono dalla Colonia penale per minori, situata su di una piccola isola al largo della Bretagna.
I gendarmi e le guardie iniziano subito a dar loro la caccia, aiutati dagli isolani e dai turisti, assetati di “giustizia” (e interessati ai venti franchi di ricompensa per ogni ragazzo trovato).
Vengono catturati tutti, tranne uno.
Jules Bonneau, detto la Tigna, riesce a dileguarsi nel nulla, facendo perdere le proprie tracce.
Dopo anni di soprusi in quello che era a tutti gli effetti un carcere in cui finivano ragazzini affamati che avevano rubato qualcosa per sopravvivere così come orfani la cui unica colpa era quella di essere stati abbandonati, Jules incontra, per la prima volta in vita sua, una mano aperta pronta ad aiutarlo, non un pugno chiuso pronto a colpirlo.
La storia di base è una vicenda vera, alla quale Jacques Prévert ha dedicato una poesia, e che Chalandon ha magnificamente rielaborato per dare un corpo e una voce a Jules.
Ragazzini abbandonati dalla società, rinchiusi in un Istituto di rieducazione che tentava soltanto di piegarli, di spezzarli, con la violenza fisica e psicologica, senza colpe all’altezza della punizione.
Jules Bonneau ha tredici anni quando viene rinchiuso e venti quando riesce a fuggire; ha imparato a farsi rispettare e temere, ha imparato a giudicare e punire, ha imparato che la vita è violenza e solitudine e sospetto e tradimento, che bisogna sempre guardarsi le spalle, che non ci si può fidare di nessuno.
Finché non incontra qualcuno in grado di dimostrargli che la vita può essere altro, può nascondere altro, può contenere qualcosa di più grande di un pugno chiuso e più caldo della rabbia che gli ribolle nelle vene.
Un romanzo intenso, carico di giustizia e ingiustizia, che si legge come un classico moderno, con Jules come un giovane Jean Valjean, in lotta contro una società che l’ha tradito, ma che non è riuscita a spegnere la fiamma che brucia dentro di lui.
Chalandon ha preso come punto di partenza il vuoto lasciato da un ragazzo scomparso nel nulla e l’ha riempito con un essere umano in grado di piangere e di sanguinare, di provare tutta la rabbia del mondo, fantasticare sulle più atroci sofferenze ed essere comunque una persona migliore.
L’umanità che si muove attraverso questo romanzo, come in un ritratto oscuro di una notte tempestosa, è avida e piccola e sporca, gretta e avara; un faro, però, illumina la via per chi sa cogliere il segnale, per il giovane Jules non ancora spezzato, e riesce a portare la luce anche negli angoli più bui.
Lo stile di Chalandon è dolce e amaro, carico dei sentimenti contrastanti che riempiono la vita del suo protagonista, di pugni e carezze, di lacrime e sorrisi.
La sua penna è arguta, scivola via con la leggerezza della barca che fende le onde, sembra cullarci come lo sciabordio della risacca, per poi farsi tagliente come gli scogli battuti dalla violenza della tempesta.
Terribile è pensare a tutti gli elementi di verità che emergono da queste pagine, dai soprusi di ogni tipo subiti da ragazzini ed adolescenti alla meschinità del mondo fuori da quelle mura, che vorrebbe punirli per il semplice fatto di esistere; terribile e meraviglioso è il senso di rinascita e rivincita che si sviluppa di fronte ai nostri occhi dal cuore di Jules, così carico di una furia silenziosa eppure ancora in grado di apprezzare il bene che lo circonda.
Chalandon ha inserito anche una serie di elementi che danno più consistenza storica al romanzo (i fascisti, la prima e la seconda guerra mondiale, la guerra civile spagnola, le lotte di classe, il diritto all’aborto) e fanno da cornice agli eventi principali, rivendicando ognuno uno spazio concreto.
Jules è un ottimo protagonista, Chalandon un ottimo narratore, la storia un ottimo ritratto della società.
L’umanità che trasuda da queste pagine è perlopiù violenta e sofferente, ma ancora in grado di mostrare i suoi lati migliori.
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June 24, 2025
IL NUOVO ROMANZO DI PASQUALE LISTONE
Salve a tutti!
Oggi ho il piacere di presentarvi l’ultimo romanzo di Pasquale Listone, che ringrazio enormemente per la copia, pubblicato da New Book Edizioni a giugno 2025.
ATTIMI DI NON TRASCURABILE NOSTALGIA
Quante volte hai vissuto qualcosa per l’ultima volta, senza sapere che sarebbe stata davvero l’ultima? In Attimi di non trascurabile nostalgia, ogni storia ti porta a riscoprire quei momenti quotidiani che, pur sembrando banali, nascondono la loro bellezza nell’addio la chiacchierata a tarda notte, il caffè bevuto insieme senza fretta, quella risata che non pensavamo sarebbe stata l’ultima. Storie di attimi che sfuggono senza far rumore, ma che, una volta passati, ci lasciano un sorriso nostalgico. Momenti semplici che restano dentro, anche quando tutto sembra cambiare. Un libro che ti farà apprezzare ogni piccola cosa, perché, in fondo, sono proprio quegli attimi a fare la differenza, anche quando non ce ne accorgiamo.

BIO: Pasquale Listone, nato a Napoli nel marzo 1992, è uno scrittore e istruttore di tennis. Ha esordito nel giugno 2020 con il romanzo Fango (New-Book Edizioni), seguito nel maggio 2021 da Aria di te (New-Book Edizioni).
La sua scrittura, veloce e concreta, ha conquistato un vasto pubblico, soprattutto sui social media: il suo profilo Instagram conta oltre 70000 follower.
Attraverso le sue opere e i suoi post, Listone esplora temi legati ai sentimenti e alle relazioni umane, offrendo riflessioni profonde e personali.
Non vedo l’ora di leggerlo e parlarne con voi!
Presto la recensione!
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June 21, 2025
SIRENE – LAURA PUGNO

Voto: 7/10
Edito: Marsilio
In un futuro non troppo lontano, l’umanità è quasi completamente scomparsa dalla Terra, e i pochi sopravvissuti stanno morendo a causa del “cancro nero”, una malattia alla quale è quasi impossibile sfuggire, perché è il sole stesso ad esserne la causa.
Per tentare di salvarsi, gli uomini hanno costruito rifugi sotto l’oceano, scoprendo così una nuova specie: la sirena.
Samuel lavora per la yakuza, che governa indisturbata il mondo, commerciando e smerciando il corpo delle sirene, sotto ogni forma: come carne da macello o corpo per i piaceri carnali.
Ora che ha perso Sadako, niente ha più davvero importanza nella sua vita, e decide così di dare il via ad una serie di eventi che condurrà il suo percorso verso qualcosa di inaspettato.
Onestamente, questo non è affatto un libro che mi aspetterei da una scrittrice italiana.
Sia la storia che lo stile sono riusciti a colpirmi, anche se non completamente in senso positivo.
Ho trovato la storia estremamente interessante per i tanti punti che tocca nella sua brevità: la malattia causata dal sole (soffrendo di fotoallergia, è un argomento che mi tocca personalmente); l’essere umano che, alla comparsa di una nuova specie, decide di mangiarla o b0mbarsela (CLASSICO, e se non seguissi già una filosofia di vita vegana l’avrei trovata anche più sconvolgente); una società governata dalla mafia che regala bambine come premi; una critica allo sfruttamento sociale e ambientale molto attuale; una critica alla cultura del patriarcato, con l’uomo letteralmente padre e padrone che spadroneggia (non proprio impunemente) su tutte le specie.
Purtroppo, però, essendo questo un romanzo breve, queste idee non vengono approfondite nel migliore dei modi, né tantomeno bastano per riempire tutti i buchi (di trama e non): non solo ci sono tantissime domande che non trovano risposte, ma la storia ci viene raccontata seguendo Samuel, un personaggio vuoto e assolutamente senza forza, che non viene approfondito e finisce semplicemente per ricalcare lo stereotipo dell’uomo che soffre in silenzio “per amore” (questo grande amore che si era sviluppato fra lui e la ragazzina che gli era stata regalata, consegnata e legata al letto) e segue i propri più beceri istinti.
Pugno lo ha fatto di proposito, per dimostrare la quasi totale mancanza di differenze fra l’uomo e gli animali ai quali si crede superiore? Non lo so, nel dubbio lo conto come un punto negativo.
Capisco la critica al fatto che la donna venga vista e trattata come un animale, o in questo caso una sirena, e che la sirena stessa venga costantemente paragonata ad una vacca, però uffa, un protagonista con un po’ di carattere ce lo meritavamo.
E a proposito di beceri istinti, uno SPOILER: Samuel decide di accoppiarsi con una sirena.
E va bene, che vi devo dire, tutto rientra nella storia e nella critica.
La sirena partorisce una mezzaumana.
E Samuelito, invece di porsi un paio di domande su come sia possibile, decide di rapirla…per liberarla nell’oceano?
No, per tentare di insegnarle a pronunciare il suo nome (metticelo un po’ di ego, Sammy) e quindi accoppiarsi anche con lei.
Ma nel futuro l’incesto non avrà più alcun significato?
Non tanto per le conseguenze penali, ma almeno morali? Samuel, tutto ok?
Lo stile di Pugno è molto scorrevole e incisivo, asciutto e preciso, e con un linguaggio duro e tagliente riesce a far affondare il lettore nelle sue acque oscure.
Ho trovato le continue ripetizioni un po’ pesanti, anche se capisco che servono a sottolineare e rimarcare il distacco fra le nostre società e sensibilità, e quelle descritte nel libro.
Le atmosfere sono state definite sensuali, e non so bene cosa provare al riguardo: le ripetute descrizioni dei capezzoli delle sirene sono “sensuali”?
Un uomo che si accoppia con un pesce è sensuale?
Mi sfugge qualcosa?
Il termine più adatto a descrivere le sue atmosfere credo sia “cupe”, chiuse come il cielo sotto al quale non è più possibile vivere, costringenti come le pareti e le vasche dentro le quali ha luogo la vita, violente e nauseabonde come tutti gli atti di oppressione.
Nel complesso l’ho trovata una lettura molto interessante, una critica sociale ed ecologica molto tagliente, immersa in un oceano di antispecismo e veganismo che ci sommerge ad ogni pagina, senza scampo, come un’onda che torna a battere inesorabile.
Come sempre nella vita, spero soltanto che alla fine l’essere umano scompaia e la natura abbia il sopravvento.
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June 19, 2025
NUOVO TITOLO PER IL RAMO E LA FOGLIA EDIZIONI
Ciao a tutti!
Oggi ho il piacere di presentarvi un nuovo titolo edito Il Ramo e La Foglia, pubblicato a giugno 2025, che mi è stato gentilmente inviato dall’editore, che ringrazio tantissimo.
UNA PICCOLA GOCCIA D’INCHIOSTRO – VINCENZO PATANÈ
Il romanzo, ambientato nel rione Sanità a Napoli, è basato su una storia vera e prende l’avvio dal casuale ritrovamento di sessantasei lettere che il protagonista, Elvio, zio dell’autore, inviò a sua sorella dal 1953 al 1965. Nello svolgersi delle vicende emergono via via i turbamenti sessuali adolescenziali di Elvio, la consapevolezza di essere attratto dagli uomini, la scoperta di non essere il solo a provare pulsioni di quel tipo, l’esplorazione del sesso, il primo amore. Parallelamente c’è la consapevolezza dell’impossibilità di esprimere a voce alta ciò che provava, da un lato per un soffocante controllo familiare, improntato a un rigido rigore morale, dall’altro per una società che, con il fascismo prima e con la società perbenista del dopoguerra, condannò duramente l’omosessualità.
Nel romanzo vi sono molti stralci di quelle lettere, grondanti di umanità, focalizzate in particolare su due episodi: il viaggio che effettuò, ventiseienne, in Danimarca nel 1954, al fine di ottenere una riassegnazione di sesso sulla scia di quella di Christine Jorgensen del 1952, e la successiva relazione con un giovane napoletano, un amore sfortunato ma che pure mutò le sorti della sua vita.

BIO: Vincenzo Patanè nato ad Acireale ma napoletano per essenza e cultura, ha insegnato Storia dell’Arte presso il Liceo Artistico di Venezia. È autore della raccolta di versi Ebano Nudo (1982) e dei seguenti saggi: Cinema & Pittura (1992), A qualcuno piace gay (1995), Derek Jarman (1995), Shakespeare al cinema (1997), Arabi e noi (2002), L’altra metà dell’amore (2005), 100 classici del cinema gay (2009), Oasi gay (2010), L’estate di un ghiro. Il mito di Lord Byron (2013, seconda edizione 2018), I frutti acerbi. Lord Byron, gli amori & il sesso (2016, pubblicato negli Usa nel 2019 con il titolo The Sour Fruit. Lord Byron, Love & Sex), Intervista impossibile a Lord Byron & altri saggi (2022), Icone gay nell’arte. Marinai • Angeli • Dei (2022) e Il rovinismo di Lord Byron nell’opera di Marco Filiberti (2024).
Ha vinto numerosi premi letterari, tra cui il “Premio Speciale Montale Fuori di Casa” (2020), “Aci & Galatea” (2023) e “Lord Byron Porto Venere Golfo dei Poeti” (2019).
Giornalista, critico cinematografico e attivista gay, collabora con l’Ufficio Cinema del Comune di Venezia e con le riviste “Touring” e “FMR”, dopo aver curato per anni il settore cinema delle riviste gay “Babilonia” e “Pride”.
Non vedo l’ora di leggerlo e parlarne con voi.
Presto la recensione!
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June 13, 2025
I GRANDI SOGNATORI – REBECCA MAKKAI

Voto: 8/10
Edito: Einaudi
Chicago, 1985.
L’epidemia di AIDS è iniziata, e Nico è stato il primo ad andarsene.
Tutti i suoi amici si riuniscono per la veglia, tra i quali sua sorella Fiona, il giovane Yale, il suo compagno Charlie, Terrence, Julian, Teddy, e mille voci e mille volti di una comunità unita e terrorizzata.
La vita va avanti, in maniera frammentata e dolorosa, tra diagnosi che cadono come sentenze di morte, indifferenza e odio da parte della società, di famigliari e conoscenti, sconosciuti e istituzioni.
Giovani uomini dai grandi sogni, improvvisamente schiacciati da una malattia che non lascia scampo.
Yale lavora alla galleria Brigg della Northwestern University ed è stato contattato da una parente di Nico per una donazione: una serie di dipinti che, in caso si rivelino originali, potrebbero cambiare per sempre il suo destino e quello della galleria.
Intorno a lui, però, la città trema, e anche la sua vita non può sfuggire a questi terremoti.
Nel 2015, a Parigi, Fiona sta cercando Claire, sua figlia, che non vede da anni.
Ultima superstite e custode dei segreti di una Chicago un tempo luminosa e vibrante, che si è sgretolata sotto il suo sguardo impotente, è alla ricerca di qualcosa di più grande della sua singolarità.
Un romanzo quasi corale, nonostante i punti di vista attraverso cui conosciamo la storia siano principalmente due: quello di Yale nell’85 e quello di Fiona nel ’15; ma ci sono così tante vite fra queste pagine che ci sembra di essere noi stessi parte di una comunità.
Così tante vite, così tanti corpi, sorrisi, mani, capelli, pelle che sfiora altra pelle, fluidi che si mescolano e sangue che si infetta.
Una comunità che è come un unico grande corpo, che si ammala, e si sgretola.
Con una prosa densissima e un tono che definirei quasi distaccato, Makkai ha descritto alla perfezione la corporalità di vite giovani e piene di sogni, riuscendo a trasmettere alla perfezione le speranze e le paure schiaccianti, soverchianti, opprimenti.
In maniera quasi distaccata che funziona benissimo nella prima metà del romanzo, che costruisce le basi di una storia che si ramifica in mille direzioni: Yale e i suoi amici non sono giovani uomini estraniati dal mondo che li circonda, ma parti attive della loro comunità e delle lotte che hanno luogo a Chicago, con voci che si innalzano come i pugni verso il cielo, schiacciati dagli stivali dei poliziotti ma mai abbattuti.
Ognuno dei personaggi si muove in un contesto proprio per poi ritornare sempre verso un punto centrale e comune, in una maniera estremamente realistica e credibile.
Nel 2015, invece, ritroviamo una Fiona cresciuta, una donna matura sopravvissuta ad indicibili sofferenze, unica testimone di tanta gioventù andata perduta.
Ha perso i contatti con sua figlia Claire dopo che questa ha deciso di unirsi ad una comunità religiosa, ma ora una pista labile l’ha condotta a Parigi, dal suo vecchio amico Richard, unico ad essere sfuggito a quei terribili anni di Chicago.
E fra le strade di una Parigi in tumulto (è il periodo degli attentanti del 2015), Fiona dovrà fare i conti con tutti i suoi fantasmi, e con le persone ancora in vita che ha rischiato di perdere per sempre.
Un libro che non punta dritto al cuore, che prende strade secondarie, che costruisce una trama fitta (e a tratti dispersiva) di amore e sogni, di bugie e tradimenti, di paure e insicurezze, di vite vissute al massimo e non abbastanza a lungo.
Ci sembra quasi di sentire le risate di tutti quei giovani condannati ad una morte precoce, che Makkai stessa paragona ai caduti in guerra, giovani letteralmente strappati alla vita.
Non punta dritto al cuore, ma quando ci arriva è terribile e magnifico, doloroso come solo le ingiustizie sanno essere.
Per la maggior parte del romanzo non ho versato neanche una lacrima, ma per fortuna alla fine i pianti matti e disperatissimi sono arrivati, con l’intensità che mi aspettavo.
Makkai ritrae in maniera meravigliosa gli anni ’80 di un’America in mutamento, di vite che affrontano il tumulto della malattia e della paura con la speranza di poter vedere ancora un altro giorno, con la certezza che sarebbe potuta e sarebbe dovuta andare in maniera diversa, e noi chiudiamo l’ultima pagina con l’anima a pezzi, con la foto di ragazzi in attesa di un domani più luminoso, di una vita che porti calore, e con il cuore pieno di un amore immenso.
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June 7, 2025
DOVE LE RAGIONI FINISCONO – LI YIYUN

Voto: 8/10
Edito: NN Editore
Una madre e un figlio, una scrittrice e un adolescente.
Lui è morto da pochi mesi, lei sta cercando un modo per dare un senso e una forma al proprio dolore, a quel vuoto che si è improvvisamente aperto nella sua vita.
E così comincia a parlare con il giovane Nikolai (nome fittizio), ad immaginare i dialoghi che avrebbero potuto far parte delle loro giornate, a ritornare a vecchi ricordi e a dare forma ad un futuro informe.
Questo non è un romanzo, ma non è neanche un memoir.
Questo è un dialogo carico d’amore tra una madre e un figlio, senza tempo e senza spazio.
Nel 2017, a soli sedici anni, il figlio maggiore di Li è morto suicida, ed è a lui che ha dedicato questo libro, ed è con lui che parla.
Attraverso le parole, Li tenta di restare collegata al figlio, a tutto ciò che amava della vita, alle sue poesie e la sua musica e la sua passione per la panificazione.
Con un tono pacato, leggero, estremamente delicato e quasi distaccato, i due intraprendono una conversazione simile ad una delle migliaia che avevano già avuto nei sedici anni precedenti, ma completamente diversa.
Riflettendo e razionalizzando ogni parola, le sue radici e le sue metamorfosi, Li osserva la vita e il dolore nel modo che più le compete, come una serie di vocaboli che si inseguono sul foglio e nell’aria, nell’eterea mancanza che solo un vuoto simile può creare.
Non è un libro carico di grandi emozioni, di pianti dirompenti e pelle strappata, ma un dialogo quasi sussurrato, come se alzando appena il volume si rischiasse di infrangere quell’illusione così evanescente.
Il dolore può essere intravisto quasi in ogni singola parola pronunciata dalla protagonista, così come tutto l’amore che non è svanito alla morte del figlio.
Il lutto, il cordoglio, lo spaesamento: Li riempie ogni pagina di ricordi condivisi e piccoli dettagli, senza chiedere mai al figlio una spiegazione per il suo gesto, ma determinata a conservare ogni più piccolo aspetto di lui.
Non è stato assolutamente un libro facile, nonostante non abbia versato neanche una lacrima (cosa incredibile per me).
Nei dialoghi, prevalentemente leggeri e a tratti giocosi, brillantemente costruiti e mescolati ai pensieri che si uniscono alle parole senza interruzione, Li riesce a trasmettere al lettore tutto il suo dolore, senza bisogno di strepitare e ricercare immagini cariche di pietas.
Una riflessione quieta ed inquieta, toccante ed intelligente, dove le parole prendono corpo, occupano tutto lo spazio che è stato lasciato vuoto.
Li esplora la propria scrittura attraverso una tragedia, e la sua tragedia attraverso la scrittura, in maniera completamente diversa da altri libri di questo genere.
Ho anche appena scoperto che nel 2024 anche il suo secondo figlio è morto suicida, a diciannove anni, e che Li ha dedicato un libro anche a lui. Mi aspetta un’altra lettura intensa.
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June 3, 2025
PASSAVAMO SULLA TERRA LEGGERI – SERGIO ATZENI

Voto: 8/10
Edito: Sellerio editore
Il popolo dei “danzatori delle stelle”, proveniente dall’oriente, approdò un giorno in un’isola bella e disabitata, senza nome, e decise di farne la propria casa.
Un viaggio epico tramandato di generazione in generazione, da un custode della memoria all’altro, fino al 12 agosto 1960 quando Antonio Setzu, in una notte, raccontò tutta la storia del suo popolo ad un giovane Atzeni, che la trascrisse nella versione che ora noi possiamo leggere.
Siamo in Sardegna, camminiamo al fianco di un popolo che vive con la natura, che subisce una sequenza infinita di tentativi di invasioni straniere, e che resiste con una ferocia tenace e poetica.
Tra guerre intestine e rituali millenari, faide e danze, morte e tradizioni: in un’isola di montagne e boschi e paludi, coste e avvallamenti, villaggi sperduti e nuove città, la Sardegna muta faccia sotto ai piedi dei suoi abitanti, davanti ai nostri occhi, pur continuando sempre a resistere.
Un’epopea incredibile, tramandata oralmente per millenni, come un coro di voci trasportato dal vento, sussurrato da labbra a orecchio, modificato e ricostruito, rimodellato e trasmesso attraverso un’oralità carica di orgoglio, fino al futuro che è il nostro presente, dove Atzeni decide di consegnare ai posteri la storia ormai fissata su carta.
Dai fenici agli etruschi, dai punici ai romani, con una guerra lunga mille anni: il popolo sardo combatte per rimanere sé stesso.
Ci sembra di poter prendere parte ai riti e di sentire quel mescolarsi di lingue e tradizioni, con un’intensità incredibile.
Lo stile di Atzeni è parco e asciutto, mai una parola sprecata ad appesantire una storia tanto carica di avvenimenti ed insegnamenti, eppure la sua scrittura è estremamente poetica e densa, degna di un racconto tanto ricco e una tradizione tanto florida.
Un affresco dai colori scuri e vibranti, colmi di vitalità e morte, dolore e felicità, vita vera e piena.
Una lettura che è come un viaggio lunghissimo che vorremmo non finisse mai, una ricostruzione storica abbellita e addobbata per renderla più fantasiosa e più vera.
Non comprendo nazionalismo o campanilismo o patriottismo, però: i sardi sono un po’ più belli di tutti gli altri.
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May 31, 2025
SUKEGAWA DURIAN – IL SOGNO DI RYÕSUKE

Voto: 7/10
Edito: Einaudi
Ryōsuke è alla ricerca di risposte a vecchie domande, a nuovi dubbi, a un dolore antico e profondo che risuona come un’eco nelle sue stesse vene.
Quando si imbarca per l’isola di Aburi, con la scusa di un lavoro temporaneo in un acquedotto, il suo obiettivo principale è quello di trovare un uomo il cui nome è riportato tante volte su un pacco di lettere che ha trovato fra le cose della sua defunta madre.
Ryōsuke si sente perso e senza niente di solido a cui aggrapparsi, ma non sa ancora che dopo la tempesta esce sempre il sole.
Una storia leggera ma mai scontata, toccante ma mai pesante.
Ryōsuke non ha ancora trent’anni ma ha già perso suo padre (morto suicida quando era solo un bambino) e sua madre (venuta a mancare da poco).
La sua vita, fino a quel momento, è scorsa quasi come un film muto, al quale non è riuscito a prendere parte attivamente.
Almeno fino al momento in cui si è infilato un coltello nel petto e ha percepito un cambiamento.
Ora Ryōsuke è alla ricerca di risposte a quesiti mai dimenticati: perché suo padre si è ucciso?
Perché non ha voluto vivere per lui e sua madre?
Il loro amore non era abbastanza?
Perché ha abbandonato il suo sogno?
Sull’isola, oltre allo scontro con gli abitanti locali restii ad accettare di buon grado stranieri e cambiamenti, incontrerà altri due giovani che si muovo alla ricerca della propria strada nel mondo, Tachikawa e Kaoru; incontrerà la maestra Yoshikado; conoscerà Hashida, il vecchio amico di suo padre e partner nel progetto della produzione di formaggio di capra; imparerà a conoscere le capre che crescono sull’isola, e che gli insegneranno a non arrendersi.
Una storia dolce e amara, su quanto sia importante rialzarsi dopo ogni caduta, su quanto sia splendente il cielo dopo una tempesta, di quanto sia dolce il sapore di un formaggio grazie alla sua muffa.
Sukegawa ha saputo raccontare una storia quasi come se fosse un viaggio onirico all’interno della coscienza del suo protagonista, riuscendo comunque a farci percepire i colori vibranti della natura selvaggia, il calore del sole sulla pelle, gli spruzzi del mare sul volto, la calda sofficità del pelo delle capre, l’intensità sulla lingua dei formaggi stagionati con pazienza.
La storia è un po’ altalenante, con momenti più carichi di pathos e sentimento, di dolore e anche di scene crude, e altri più stagnanti e ripetitivi che fanno incagliare la nave fra gli scogli che punteggiano la costa.
Ma in fondo la vita è così, è un viaggio di alti e bassi, che non segue un’andatura costante.
Un libro che narra una storia di speranza, che nasce dalle situazioni più buie e dagli animi più sofferenti; di sogni che illuminano i cammini più tortuosi e all’apparenza senza via d’uscita; di sacrifici e determinazione, di dolore e coraggio.
Una sconfitta non è mai la fine, c’è sempre una luce verso cui camminare.
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May 24, 2025
I WHO HAVE NEVER KNOWN MEN (IO CHE NON HO CONOSCIUTO GLI UOMINI) – JACQUELINE HARPMAN

Voto: 5/10
Edito: Vintage publishing / Blackie Edizioni
Trentanove donne e una ragazza adolescente sono state rapite e rinchiuse in una gabbia.
Non ci sono finestre, e per questo le donne credono di trovarsi sottoterra.
Delle guardie controllano ogni loro movimento, forniscono loro cibo appena sufficiente alla sopravvivenza, e impediscono loro qualsiasi tipo di contatto fisico, così come qualsiasi tentativo di ferirsi, con la costante minaccia della frusta.
I giorni scorrono tutti uguali, senza risposte, senza più domande.
Ma un giorno risuona una sirena, le guardie si allontanano di corsa, e una si dimentica le chiavi della cella nella serratura.
Che cosa c’è all’esterno?
Per fortuna piove da giorni, si sono abbassate le temperature e ho trovato le forze per scrivere la recensione di un libro che mi ha fatto inc*zzare così tanto da lasciarmi quasi senza parole. Quasi.
L’idea di base di questo romanzo è davvero ottima: quaranta donne rinchiuse in una gabbia sotterranea e costantemente controllate.
Perché? Chi sono? Che cosa hanno fatto? Chi le ha portate lì e come, visto che nessuna di loro ha alcun ricordo dell’accaduto?
Ad un certo punto riescono a fuggire e si ritrovano in un mondo brullo e desolato, completamente privo di umani, tranne che per altri bunker come quello in cui loro stesse hanno passato più di dieci anni.
Dove si trovano? Perché sono state portate qui? Si trovano ancora sulla Terra?
Idee e domande di base davvero interessanti, non fosse per il fatto che nessuna di queste domande riceve una risposta.
NESSUNA. NEANCHE UNA.
Va bene, ok, non è quello il punto del romanzo, però se vuoi scrivere un romanzo “distopico” non basta ambientarlo in un luogo inospitale e vuoto, dove le protagoniste non devono neanche sbattersi troppo per sopravvivere perché, non si sa come, la corrente elettrica continua ad infinitum a mantenere attive le celle frigorifere all’interno dei bunker che, guarda caso, sono piene di carne, oltre a contenere una quantità illimitata di cibo in scatola (senza scadenza, tra l’altro, visto che oltre ai dieci anni di prigionia, la protagonista continua a consumarli più di vent’anni dopo la fuga).
Inoltre, se il lettore non deve concentrarsi sugli aspetti “tecnici” di questo mondo, magari smetti di porti cento domande a riguardo senza trovare neanche una risposta, aumentando semplicemente il mio astio. Non attirare la mia attenzione sulle tue mancanze, mi sembra una regola molto basilare alla quale attenersi.
Ma va bene, non è questo il punto del romanzo.
Quindi non ci importa neanche del fatto che tutte le guardie sono semplicemente scomparse dopo che è suonata la sirena (o che, quando la protagonista trova una strada e la segue, scopre che dopo un po’ semplicemente questa strada si ferma, scompare, finisce, così, in mezzo al nulla, quasi come se fosse un punto narrativo senza alcun senso che la scrittrice abbia semplicemente deciso di abbandonare).
Ma va bene, non è questo il punto del romanzo. Questa volta davvero. Lasciamo da parte tutte le lamentele, tutto lo scetticismo, tutta la logica.
E quindi, qual è il punto di questo romanzo? No, non lo so, io non l’ho trovato, qualcuno me lo spieghi.
Vogliamo dire che il punto sia “lo studio” di una persona che non ha mai sperimentato personalmente la società e l’oppressione del patriarcato (non ha mai conosciuto gli uomini) e il suo sviluppo?
Vogliamo dire che sia lo studio di una persona sola e isolata, e di cosa la rende umana e donna quando intorno non ha niente con cui confrontarsi e interrogarsi?
Vogliamo dire che è un libro femminista sul potere dell’amicizia e della solidarietà, sui legami che nascono dai traumi e la solidità delle unioni?
Non lo so, lo vogliamo dire?
Io non lo direi, assolutamente.
Scritto nel 1995, per qualche motivo credevo di aver letto che fosse stato inizialmente pubblicato negli anni ’60, e per questo motivo avrei potuto giustificare molte delle pessime scelte compiute dall’autrice.
Ma no, questo libro è più giovane di me, e allora no.
La scrittura di Harpman (o almeno la traduzione inglese) è densa e immersiva, carica di troppe ripetizioni, e uno stile a mio parere troppo alto, considerando di chi sono i pensieri che stiamo ascoltando.
La protagonista non ha mai sperimentato di persona il patriarcato, è vero, ma questo non impedisce alle altre di riempirle la testa di frasi tipo “nel mondo reale le donne tentano di rendersi belle per gli uomini e visto che qui non ci sono uomini non ha importanza” o di pietà nei suoi confronti perché lei non ha mai conosciuto gli uomini (sia come rapporti interpersonali che in senso fisico) e quindi poveretta ma morirà vergine, guardiamola tutte come se fosse un cucciolo di cane a cui manca una zampa.
Sola e isolata la protagonista lo è, anche questo è vero, ma per sua scelta.
Dopo aver passato una decina di anni nel bunker col cervello spento, un giorno si sveglia e decide di ribellarsi: fissa la guardia più giovane che fa la ronda intorno alla loro gabbia.
Wow, tu sì che sei una ribelle.
Non paga, si offende perché le altre (con grandi sguardi di pietà) non vogliono spiegarle che cosa sia il sesso (ovviamente l’unico sesso, quello tra un uomo e una donna) e allora lei decide di non parlare più con loro, e di inventare delle scenette nella propria mente.
Wow, sto tremando.
Non paga, inizia a contare i battiti del proprio cuore per misurare lo scorrere del tempo e dopo un po’ non c’è neanche più bisogno che continui coscientemente a contare, lei semplicemente sa che ora è, in qualunque momento. Ok, watchgirl, dacci un taglio.
E in tutto questo, oltre ad un leggero attaccamento nei confronti di Anthea, l’unica che tenta di insegnarle e spiegarle qualcosa, rinchiude tutte le altre donne in un’unica scatola che etichetta come “le altre” e non fa alcun tentativo di comunicare con loro, di tentare di comprenderle, di stabilire un qualche tipo di rapporto umano significativo. Niente. Zero. Una massa informe in gonnella, che si lamenta per la stanchezza e per il mondo perduto.
Come si chiamava? Ah sì, femminismo e comunione.
La nostra protagonista, oltre ad essere un metronomo umano, non è in grado di provare empatia per chi la circonda, rifugge il contatto fisico e, dopo un tentativo fallito di masturbazione, capisce che non fa per lei (PERCHÉ TANTO NON CONOSCERÀ MAI GLI UOMINI E QUINDI CHE SENSO HA?! Chiedo pietà).
Ho pensato: “interessante, a metà degli anni ’90 vogliamo parlare di asessualità e aromanticismo? Il trauma della frusta come fonte di un distaccamento dal proprio corpo e da quello degli altri?”
Ma no, certo che no, che domande.
La protagonista non ha mai sperimentato le gioie dell’ovulazione, perché il suo corpo sapeva che non avrebbe mai conosciuto un uomo e quindi non aveva senso sprecare energie in quella maniera (voi pensate che io stia scherzando, ma qui non c’è niente da ridere).
Per questo motivo il suo corpo è “spezzato” e non riesce a provare piacere. E non prova nulla per le trentanove donne con cui ha vissuto per trent’anni, ma piange alla vista di un uomo mummificato seduto in posizione eretta, che le trasmette un gran senso di orgoglio e disobbedienza. (Per favore, fatela smettere.)
Inoltre l’autrice ha deciso di introdurre la presenza di alcune coppie formate da alcune delle donne del bunker. Voglio dire, mi sembra più che normale, stiamo pur sempre parlando di persone in cerca di compagnia e calore umano e amore.
No no, vi sbagliate, praticamente parliamo di “darsi una mano a vicenda” (IYKWIM) e poco altro, cioè se non si era ancora capito, non ci sono uomini qui.
Ultimo spoiler finale, che riguarda letteralmente l’ultima frase del libro: mille recensioni ad esaltare questa frase.
Frase in cui lei riflette su come sia strano che stia morendo a causa del suo utero malato, proprio lei che non hai mai avuto le mestruazioni e non ha mai conosciuto gli uomini. E ADESSO BASTA, PERÒ!
Possibile che in sessant’anni di vita a questa decerebrata non è mai venuto in mente che FORSE non sono gli uomini a definire che cos’è una donna? Che non è un utero a trasformare un ammasso di carne in donna? Per fortuna alla fine muore.
Footnote: dopo aver letto un paio di righe di trama, credevo che la protagonista non avesse conosciuto gli uomini nel senso che non li avesse mai visti, che non comprendesse l’esistenza di esseri uguali a lei e alle altre detenute ma diversi, e mi era sembrata un’idea molto più radicale ed interessante.
Quando ho scoperto che “conosciuto” era in senso biblico ho desiderato tanto lanciare il libro dalla finestra.
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I who have never known men (eng)
Io che non ho conosciuto gli uomini (ita)
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