Rachele Riccetto's Blog, page 4
April 26, 2025
TOKYO SYMPATHY TOWER – QUDAN RIE

Voto: 7/10
Edito: L’Ippocampo
Tokyo, 2036.
Makina Sara, non ancora quarantenne, è l’architetta vincitrice del bando per la costruzione di una torre-prigione nel cuore della capitale nipponica.
L’idea del progetto si basa sul concetto contenuto nel libro di Masaki Seto, “Homo miserabilis”, dove l’uomo imprigionato non è più definito come “criminale” ma come “degno di empatia”, e per questo meritevole di una struttura in cui possa vivere serenamente, con condizioni migliori di vita, e la possibilità di raggiungere la felicità.
Una torre non più prigione, ma oasi di salvezza.
Le idee alla base di questo romanzo sono interessantissime: l’importanza della lingua in ogni aspetto della vita, perché il modo in cui pensiamo a qualcosa o i termini che utilizziamo per parlarne modellano la forma che quella cosa prende nelle nostre menti e quindi nelle nostre vite; cambiando i termini utilizzati è possibile cambiare i nostri sentimenti; la violenza perpetrata dalle parole e la violenza fisica che si intersecano e danno più corpo ai traumi; l’anglicizzazione delle lingue (in questo caso specifico del giapponese) e l’appiattimento di una multiculturalità senza confini; la perdita di identità dei paesi e dei popoli con la perdita dell’attaccamento alla propria lingua madre; le riflessioni sull’architettura e sulle costruzioni di parole; con l’introduzione dell’AI e il suo utilizzo in ogni ambito, si finirà col perdere la passione (e la necessità) della ricerca e dello studio? La torre stessa, questo paradiso architettonico che tenta di ridare dignità e felicità ad una categoria spesso discriminata, rappresenta davvero il modo migliore di affrontare il problema?
Come dicevo, tanti e tantissimi spunti interessanti, ma che purtroppo cadono un po’ nel vuoto.
Affermando l’esatto opposto di ciò che ho ribadito più volte negli ultimi mesi: qui, 200 pagine in più avrebbero solo che giovato al romanzo.
Qudan è sì giovanissima, e a riprova del suo talento ha già vinto premi importanti (il premio Akutagawa nel 2024 proprio con questo romanzo), ed ha avuto un’idea davvero ottima per un romanzo quasi utopico, ambientato in una Tokyo leggermente diversa da quella reale, dove lo stadio di Zaha Hadid è stato effettivamente realizzato e, senza covid, le Olimpiadi hanno avuto luogo nel 2020 come da programma…quindi sì diversa, ma del tipo che Gwyneth è inciampata in una delle stazioni della metro e poco più.
Purtroppo, però, nel romanzo resta tutto un po’ in superficie, principalmente per la brevità del testo.
(Non dimentichiamo, poi, che con fare un po’ da paracula, e sì, avrà vinto grandi premi, ma se lo merita, ha dichiarato di aver scritto il 5% del libro con ChatGPT, scatenando un certo terremoto mediatico.
E io, come tutti, a sgranare gli occhi ed attendere grandi rivelazioni, tanto tumulto e tanto rumoreggiare.
E invece ChatGPT è stata utilizzata per creare le risposte testuali che l’AI fornisce ad alcune domande poste ad essa dai protagonisti. Letteralmente, delle persone utilizzano l’Intelligenza artificiale nella storia e l’autrice ha utilizzato l’Intelligenza artificiale nella realtà per riportarne le risposte nel testo. Allora. Si può dire “paraculo” o no?)
Comunque, a parte questo, è un libro dal quale mi aspettavo tanto e che, purtroppo, mi ha donato poco.
Molti spunti e molte idee, ma poca sostanza.
Ovvio, meglio un libro così di uno lungo il triplo ma senza nulla da dire.
Ma una via di mezzo non era possibile?
Nel complesso lo considererei un po’ una delusione, principalmente per le altissime aspettative, ma non lo posso definire un libro brutto.
Lo stile di Qudan è acuto e scorrevole, a tratti crudo e a tratti delicato, gioca bene con le parole per costruire un’impalcatura un po’ troppo pericolante, e riesce a catturare il lettore e a farlo entrare nei meandri dello scheletro della struttura di una torre di parole e idee, previsioni e promesse.
Uno scheletro che, purtroppo, non si riveste del brillante metallo ed elegante vetro che danno corpo alla prigione nel quale è imprigionato.
Una lettura intelligente, ma non eccezionale. Frustrante, forse. Vacua, magari. Ma dalle ottime premesse.
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April 19, 2025
LA CITTÀ DEI VIVI – NICOLA LAGIOIA

Voto: 6/10
Edito: Einaudi
Probabilmente prima che uscisse questo libro, o anche al giorno d’oggi senza averlo letto, molti si ricordano ancora dell’omicidio di Luca Varani, avvenuto nel 2016.
Io, che fatico a ricordare il mio nome, non avevo assolutamente alcun ricordo della tragedia, quindi ho potuto affrontare questa lettura in maniera più “aperta”.
Il caso che, a marzo del 2016, sconvolse l’Italia, riguardava l’omicidio di un ventitreenne, Varani, per mano di due giovani di buone famiglie, Manuel Foffo e Marco Prato, che dopo averlo invitato nell’appartamento di Foffo usando del denaro come esca, lo avevano drogato, torturato e ucciso con coltelli e martello, senza alcun movente.
I due quindi si erano separati, e uno aveva tentato il suicidio mentre l’altro aveva confessato il tutto alla propria famiglia e alla polizia.
Un caso terribile, violento e agghiacciante, soprattutto per la quantità di sofferenze inflitte a Varani, e che avrebbero potuto far ragionare su molti aspetti “interessanti”: la natura umana, la sessualità, il conflitto di classe, l’omofobia, la tossico-dipendenza, i rapporti tossici, la mentalità del branco, l’uomo che tende al male.
E invece, purtroppo, Lagioia ha sprecato la sua occasione e ha scritto 450 pagine di nulla.
Lagioia ha svolto sicuramente un lavoro significativo per raccogliere testimonianze e documenti, interviste e scambi epistolari con uno dei due colpevoli (che però, a noi, non mostra, e quindi: grazie tante Nicola).
Ha ricostruito e in parte romanzato i pochi mesi che sono trascorsi dal primo incontro tra Foffo e Prato a quella notte, ha dato un corpo e una voce a Luca, al suo rapporto con i genitori e la fidanzata, gli amici e gli uomini che incontrava di segreto per soldi.
Ha posto molte domande, ma non ha dato alcuna risposta, continuando a girare e rigirare e ripetere le stesse cose più e più volte, senza mai approfondirle davvero.
Non ho sentito davvero nessun calore, nessuna umanità, in nessuna delle tre voci principali, cosa che purtroppo rende il libro molto piatto e freddo, e praticamente inutile.
Il punto principale di questo tipo di libro, secondo me, è l’approfondimento filosofico e morale che può scaturire esaminando degli atti tanto crudi e terribili, eccezionali e praticamente inspiegabili.
Ma Lagioia pone solo domande, tante domande, troppe domande cariche di una retorica alquanto spicciola e senza riflessioni, e non ci conduce davvero da nessuna parte.
Ha fatto una buona ricostruzione di Roma e dei suoi vizi, anche lì con ripetizioni e retorica come se piovesse, con ratti e droga e pedofili ad ogni angolo. Si può davvero parlare della pioggia dopo l’omicidio che lava la città o della possibilità di percepire il male all’interno dell’appartamento in un libro simile?
La sua voce risuona troppo forte fra le pagine, soprattutto perché di suo non ci racconta niente: il brevissimo capitolo della sua adolescenza a Bari è meglio tralasciarlo, dei suoi spostamenti tra Roma e Torino non ci importa nulla, di tutte le domande che si pone faremmo anche a meno.
Probabilmente, più importante sarebbe stato esprimere il proprio parere sul caso, ma Lagioia non mostra i propri pensieri.
Ha un buono stile, ed è riuscito sicuramente a scrivere un libro abbastanza accattivante per chi, come me, non conosceva il caso, ma pecca di quella profondità necessaria per rendere un libro di true crime qualcosa di più che un semplice quadretto voyeuristico di spettacolarizzazione della morte il cui unico intento è quello di colpire il lettore con la violenza contenuta fra le sue pagine.
Non a caso, il passo più riuscito, a mio avviso, è proprio quello dell’aggressione, in cui la voce narrante cambia ogni poche righe, mescolando le voci dei due colpevoli, che si rimpallano la colpa e l’effettiva esecuzione dell’azione omicida, in un crescendo di menzogne e smentite, verità rimosse e celate.
Il resto, nella sua opacità, non rende giustizia a Varani, e non fa luce né su Foffo né su Prato.
Troppi luoghi comuni, troppa superficialità, e troppa voglia di scioccare il lettore.
Grazie a Lagioia che mi rammenta il motivo per cui, di base, non mi piace il true crime.
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April 15, 2025
IL SILENZIO DELLA NEVE CHE CADE – GIOVANNI PAOLONE

Edito: Radici Edizioni
Un grandissimo ringraziamento a Radici (e a Gianluca) per la copia di questo libro!
Un breve capitolo terribile della storia mondiale: a narrarci questa vicenda è il Tenente Lucidi, un giovane rimasto impantanato nella prima guerra mondiale insieme a molti altri uomini, tra cui i fanti Ciaramella, Tanino e Giuseppe, e il Capitano Astolfi.
Impantanato come tutti quelli coinvolti in una guerra di trincea, con il fango scuro sotto la schiena e un cielo plumbeo sopra al capo.
Le giornate sul Carso si svolgono per la maggior parte tutte simili fra loro, nell’immobilità della paura che gela il sangue nelle vene e il desiderio di tornare a casa che lo fa ribollire.
Gli uomini, fra porzioni di rancio immangiabile e il silenzio della montagna, si riscoprono fratelli, uguali e uniti dalla vita che è uguale ovunque si volga lo sguardo: il ricordo della famiglia, della propria casa, il sogno nostalgico di un futuro troppo spesso destinato a non avverarsi mai.
Paolone, con il suo occhio da fotografo, è riuscito a ricreare perfettamente su carta le atmosfere e gli ambienti angusti di quella guerra, scivolando fra i corpi ingiustamente consegnati ad una fine senza scampo.
Dando la parola al Tenente, Paolone ci permette di osservare le vicende quotidiane a distanza ravvicinata, non si ritrae e non si sottrae, ma ci porta proprio lì, con il sapore della paura in bocca e la stanchezza che fiacca lo spirito.
Possiamo ascoltare le voci di giovani come tanti altri, che sognano soltanto il porto sicuro che hanno dovuto abbandonare.
Con un linguaggio ruvido e crudo, tipico del soldato e di chi non deve curarsi di certe cose, Paolone dipinge per noi un quadro dai toni freddi e scuri, fatto di silenzi ed attese, di cambi repentini e assalti nemici, boati che fanno tremare la terra e notti senza riposo.
Un libro che non vuole mostrare soltanto gli aspetti più orribili della guerra, ma che non distoglie lo sguardo dai cadaveri che incontra lungo il suo percorso.
Il messaggio che porta avanti è sicuramente pacifista, la voce flebile del fante che si spegne in una guerra che non ha scelto di combattere, mentre chi l’ha voluta osserva da lontano con sguardo impassibile.
Una lettura viva, nonostante la morte che striscia fra le righe e dietro ogni virgola, che riesce a catturare il lettore e a dare spessore agli uomini coinvolti in qualcosa di tanto grande e tanto terribile.
Un coro di anime in cerca di pace, in attesa del giorno in cui tutto può finalmente terminare e poi ricominciare, come una primavera che fiorisce improvvisa dal silenzio calato come la neve, come un manto, a ricoprire ogni cosa.
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Il silenzio della neve che cade
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April 12, 2025
LA BAMBINA CHE AMAVA TROPPO I FIAMMIFERI – GAÉTAN SOUCY

Voto: 8/10
Edito: Marcos y Marcos
Un uomo muore, e lascia due figli adolescenti da soli, di fronte al mondo.
Un uomo muore, con una serie di segreti terribili ancora nascosti, stretti al petto, che verranno presto riportati alla luce.
A narrare la storia, che stravolgerà per sempre le vite dei due ragazzi, è uno dei figli, che trascrive gli avvenimenti sul suo incunabolo.
Se il padre è davvero morto, allora bisogna prendere l’universo in mano, andare in paese e procurarsi una bara per seppellirlo.
Il problema è che nessuno dei due è mai stato in città, nessuno dei due è mai uscito dalla tenuta in cui sono cresciuti; non hanno mai comunicato con altre persone all’infuori della loro famiglia ristretta e non sanno come comportarsi.
Ma c’è un compito da svolgere, e quindi bisogna andare.
Una favola gotica e oscura, una storia cattiva e penosa, un romanzo di formazione dalle tinte horror: Soucy ha scritto un’opera alla quale è impossibile restare indifferenti.
In un castello ai bordi della pineta, un uomo, ossessionato dalla morte della moglie e dal senso di colpa, dal fervore religioso e dall’idea distorta di famiglia, cresce due figli tra busse ed ordini perentori, in una vita completamente scevra di dolcezze.
Scopriamo presto, però, che la voce narrante appartiene ad Alice, una ragazza cresciuta senza la presenza della madre, di cui ha solo vaghi ricordi dal sentore dolce ed etereo, senza concezione di sé e delle differenze di genere che esistono tra lei e gli altri membri della famiglia, molestata dal fratello e cresciuta sognando dame e cavalieri, con i libri e la scrittura come unici nascondigli felici.
L’unico momento in cui suo padre si mostra più “umano” è quando piange stringendole la mano, di fronte alla piccola teca di vetro custodita in cantina, sotto agli occhi del Giusto Castigo.
Alice non capisce ciò che succede, ciò che la circonda, ma non conosce una vita diversa da quella.
Ma quando una mattina deve prendere l’universo in mano e raggiungere il paese per comprare una bara, le cose precipitano rapidamente.
Soucy ha scritto un romanzo strano, assurdo, ma del quale è difficile comprendere l’unicità finché non lo si legge, perché tutta la sua maestria risplende proprio nello stile: dando voce ad una ragazza cresciuta lontana dal mondo esterno, ha la possibilità di giocare con le parole in una maniera completamente diversa dal solito, creando un linguaggio al tempo stesso ricercato e rozzo, poetico e prosaico, che mescola modi di dire detti male e figure retoriche insensate.
La voce di Alice è, per la maggior parte del tempo, inappropriata, perché non ha mai avuto modo di comunicare con altre persone, quindi cercare di comprendere tutti gli aspetti della storia è un po’ come risolvere un puzzle linguistico, un indovinello che rimescola tutte le regole a cui siamo abituati.
Parlando di abusi e violenze, di vuoti e ricordi fumosi, osserviamo Alice che cresce come una pianta alla quale sia stata negata la luce, distorta e inselvatichita, e il nostro cuore si incrina sempre un po’ di più.
È una lettura sicuramente non adatta a qualunque momento o a qualunque persona, da leggere con calma ed attenzione, in cui ogni parola potrebbe nascondere un piccolo segreto terribile o un grande sogno.
Il finale è uno spiraglio di luce intensa e calda, la dimostrazione che gli errori dei genitori possono essere superati, una speranza per il futuro.
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La bambina che amava troppo i fiammiferi
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April 5, 2025
ATTI UMANI – HAN KANG

Voto: 9/10
Edito: Adelphi
Dieci giornate grondanti sangue.
Dal 18 maggio 1980, quando a Gwangju i soldati iniziarono a sparare sulla folla che protestava contro il regime militare, fino al 27 maggio, quando i carri armati entrarono in città e l’esercito represse le insurrezioni.
Dieci giornate di terrore ed orrori, migliaia di morti, un silenzio che si è protratto per troppo tempo.
Kang, che fino a nove anni aveva vissuto proprio nella città di Gwangju, prima di trasferirsi con la sua famiglia alla periferia di Seul, ha deciso di mostrare al mondo occidentale una pagina terribile della storia del suo paese, e per questo non posso che ringraziarla di cuore, e maledirla.
Dividendo il libro in sei macro capitoli (sette considerando l’epilogo, in cui parla del periodo che ha trascorso lei stessa a Gwangju, per svolgere la sua ricerca), dà voce a sei persone, vive e morte, che hanno preso parte a quelle terribili giornate: Dong-ho e Jeong-dae, due amici quindicenni che furono strappati con brutalità alla vita; una giovane operaia che venne torturata per giorni e non è mai più riuscita a liberarsi da quell’esperienza; la redattrice schiacciata dalla censura del governo e umiliata durante un interrogatorio; un prigioniero sopravvissuto a torture, e non più in grado davvero di vivere; la madre del giovane Dong-ho, che quell’ultima sera attendeva il suo ritorno a casa.
Parlando con qualcuno di questo libro, avevo detto di aspettarmi “un dolore simile a V13”.
Bè, devo dire che mi sbagliavo.
Kang ha deciso di intraprendere una strada completamente diversa: vestendo i panni di sei persone coinvolte, lasciando che siano loro a parlare, a volte fra di loro, principalmente narrandoci gli avvenimenti in prima persona, costringendoci ad osservare quegli orrori attraverso i loro occhi e sentendone il dolore sulla nostra stessa pelle, a volte in seconda persona, come fossimo un’ombra che osserva la scena ad un soffio di distanza, o in terza persona, per vedere le cose in maniera più distaccata.
Non ci sono introduzioni, non ci sono preamboli: c’è la violenza inaudita che prende luogo proprio di fronte a noi, e non possiamo spostare lo sguardo.
Perché Kang non si ritrae, di fronte a nulla.
Ci sono corpi smembrati, ci sono laghi di sangue, ci sono pile di cadaveri e fosse comuni, ci sono torture lente e suppurazioni continue, ci sono pianti disperati e grida disumane, ci sono occhi chiusi e sguardi vuoti, e Kang ci mostra tutto con il suo tono quasi sussurrato, a tratti lirico e a tratti tagliente, che graffia e scava e svuota.
La corporeità che emerge sempre con forza dalle sue pagine, qui ci mostra qualcosa che non vorremmo vedere, ma da cui è impossibile allontanare lo sguardo.
Tutto il peso delle persone che hanno attraversato queste pagine, però, in un certo qual modo, tende a rarefarsi, ad innalzarsi a qualcosa di più etereo, verso una realtà meno cruda e crudele, sotto al sole dove sbocciano i fiori.
Un dolore che nasce dall’ingiustizia, dall’impossibilità di immaginare determinate situazioni, dalla paura e dal senso di impotenza.
Un dolore che sboccia e trova forza nella voce di Kang, che ha vissuto con il tormento di ciò che ha visto e scoperto e provato, e spero soltanto possa liberarsi almeno in parte di tutta la sofferenza di cui si è fatta carico per raccontare queste storie.
Ogni parola scelta e soppesata, ogni respiro breve e che squarcia il petto, ogni immagine impressa a fuoco nella mente.
La ferocia contenuta in queste pagine è quanto di più lontano possiamo immaginare da ciò che normalmente tendiamo a considerare come “umano”, è qualcosa che non possiamo neanche credere che sia possibile.
Ma ciò che stiamo osservando e ascoltando sono davvero atti umani, voci umane, vite umane.
E quello strazio non può che lasciarci senza fiato, senza parole, senza un angolo dietro il quale nasconderci, senza un porto sicuro nella violenza della tempesta.
Un libro difficile da leggere, che riga dopo riga reclama la sua porzione di storia e di vita, che ci chiede di osservare attentamente e di comprendere nel dettaglio tutto ciò che è successo, perché qualcosa di così terribile non debba ripetersi mai più.
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March 31, 2025
NUOVO TITOLO PER IL RAMO E LA FOGLIA EDIZIONI
Salve a tutti!
Oggi ho il piacere di presentarvi un nuovo titolo edito Il Ramo e La Foglia, pubblicato a febbraio 2025, che mi è stato gentilmente inviato dall’editore, che ringrazio tantissimo.
LA MULA E GLI ALTRI, FACCENDE SEMISERIE DI PROVINCIA – ALESSANDRO CONFORTI
Galline rivoltose, un investigatore da strapazzo e fiori di stramonio che fanno rinsavire. Una luna smozzicata da serpenti illumina il cielo d’un pollaio e del mondo, ma sono la stessa cosa. Storie profonde e leggere, ironiche e cupe: in definitiva, semiserie. Fantasiose grammatiche impolverate, affaccendati conciatori immersi nello sterco. Tutti provano a contare i cerchi d’un tronco per capirne l’età, ma melodie di pianoforte mescolano il tempo e rincrudiscono graffi di gioventù; un coniglio morente è il nitido presagio del domani, però qualcuno imbroglia. Stregate metamorfosi, uditori perplessi e una nonna smemorata custode di ricordi. Si dice che nella notte della Befana le bestie parlino. Ma chi lo ha detto? Una mula, e tutti gli altri. Sullo sfondo domestico d’una provincia come tante s’intrecciano le sorti di uomini e animali; li lega il filo attorcigliato del narrare, che nello scorrere ritorna, si smarrisce riprendendosi. Raccolta, sì, ma dispersa: dentro un oceano di libertà che diventa anche distanza incolmabile. Ed è proprio il racconto, imperfetta cucitura tra vicino e lontano, a farci credere ancora possibile comunicare noi.

BIO: Alessandro Conforti è nato a Parma nel 1989.
Ha pubblicato racconti sulle riviste Quattro, Alkalina, Retabloid, Squadernauti.
È autore della raccolta Le nove spine (Montag, 2023).
Non vedo l’ora di leggerlo e parlarne con voi.
Presto le recensioni!
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March 29, 2025
PECHINO PIEGHEVOLE – HAO JINGFANG

Voto: 7/10
Edito: ADD Editore
Per una volta che decido di leggere le prime righe della trama di un libro, quello mi frega.
“Pechino pieghevole” è una raccolta di racconti, e fino a qui nessun problema, io amo i racconti, ma la trama riportata sulla quarta di copertina riassume le basi del primo, vincitore del Premio Hugo, e che dà il titolo a tutto il volume, e che io credevo fosse la storia dell’intero libro, e che è anche il racconto migliore della raccolta.
E quindi doppia “fregatura”: si inizia fortissimo, e poi inaspettatamente (per me) si passa ad una serie di racconti scollegati fra loro (per la maggior parte) che non riescono a mantenere lo stesso livello.
Cosa ho imparato da questa lezione?
Bè, niente, siamo onesti, però mi piace lamentarmi, e quindi eccoci qua.
Ma che cos’è “Pechino pieghevole”?
Una serie di 11 racconti (quasi tutti) fantascientifici.
Di cosa ci parla Hao?
Dell’umanità, della sua natura e della sua vita snaturata, di politica e religione, di credenze e quotidianità, di fisica e teorie scientifiche, di viaggi interstellari e vite sotterranee.
E lo fa molto bene, su questo non ci sono dubbi.
I principali problemi che ho riscontrato durante la lettura, onestamente, credo dipendano principalmente dalla traduzione, che ho trovato un po’ altalenante, con frasi scritte in maniera più ricercata e poetica e altre stridenti e macchinosi.
“Pechino pieghevole”, il racconto eponimo, che ci accoglie a braccia aperte e ha reso Hao la prima scrittrice cinese vincitrice del premio Hugo, è tutto ciò che ci si potrebbe aspettare da un racconto di fantascienza, e anche di più: il mondo che ci descrive è iperrealistico e, al tempo stesso, irreale e terribile, e ci permette di osservare una realtà così lontana da poter essere sfiorata con un dito.
Pechino è una città suddivisa in tre spazi che si richiudono su se stessi e che, ciclicamente, affondano nella terra ed emergono alla luce del sole, per permettere ai cittadini di vivere alcune ore di vita “normale” senza soffrire troppo il problema della sovrappopolazione. Ovviamente, i ricchi sfruttano la maggior parte del tempo a disposizione in una giornata e le “classi inferiori” si dividono il poco tempo che resta. Semplicemente brillante.
Mescolando attacchi alieni e antichi imperatori cinesi, Hao ritrae un mondo in continuo cambiamento, in fuga dal passato ma mai troppo lontano da esso, in cerca di un futuro migliore ma mai davvero in grado di creare le migliori condizioni possibili per lo sviluppo della vita umana.
Hao ci racconta la nostra realtà, in un domani che è già arrivato.
Probabilmente avrei apprezzato di più la raccolta, nella sua interezza, se non avessi investito troppo nel primo racconto, nella sua atmosfera immersiva e geniale, che avrei voluto continuare ad esplorare per tutta la lunghezza del volume.
Nonostante questo, ho apprezzato comunque molte delle idee di Hao (per esempio ne “L’arpa tra cielo e terra” e “Tra vita e morte”), la sua critica sociale e l’esplorazione di ideologie religiose, i ragionamenti sull’immortalità e la reincarnazione, la visione politica cinese e mondiale.
Sarà sicuramente interessante leggere qualche altra sua opera (considerando che ho appena scoperto di averne già acquistata una), perché so già che la fantascienza cinese nasconde perle di inesplicabile bellezza.
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March 22, 2025
UNA STORIA CHE CONSOLA – SUSANNA TRIPPA

Edito: LFA Publisher
Un enorme ringraziamento a Susanna per avermi inviato una copia del suo libro!
Durante il lockdown imposto dalla diffusione del covid, Trippa ha ritrovato, un po’ per caso e un po’ per destino, un pacchettino di lettere e cartoline, fogli e fotografie, tenuti insieme da un nastro, consumati dal tempo, ma ancora carichi di un’energia vitale.
Ed è così che si è ritrovata a fare un tuffo nel passato, sfogliando lo scambio epistolare dei suoi genitori, Fedora e Dino, durato per i sei anni del loro fidanzamento, in uno dei momenti più bui della storia italiana, gli anni ’30 del secolo scorso.
Ci sembra un po’ di sbirciare dal buco della serratura e un po’ di vestire i panni di confidente, mentre leggiamo le lettere che i due giovani innamorati si sono scambiati per così tanti anni e, attraverso i loro occhi e le riflessioni a posteriori di Trippa, possiamo osservare un’Italia ormai così lontana da noi, ma che sotto molti aspetti non è poi cambiata tanto.
Conosciamo Fedora, il suo attaccamento alla famiglia, la vita difficile che ha dovuto affrontare con la madre e le sorelle dopo la prematura scomparsa del padre, il porto sicuro che sentiva di aver trovato in Dino e l’amore che aveva capito presto di provare per quel ragazzo; conosciamo Dino, ancora giovane e già con un buon occhio per gli affari, anche lui affezionato alla propria famiglia, e completamente innamorato.
Seguendo le loro vicende, ascoltando le loro voci e, in alcuni casi, grazie alla possibilità che Trippa ci regala di vedere le lettere stesse che si scambiavano o alcune fotografie dell’epoca, riusciamo ad avvicinarci nello spazio e nel tempo a quella coppia, e ai loro sogni che sbocciavano nonostante tutte le avversità personali o mondiali.
Nelle brevi pause tra una lettera ed un’altra, tra una parola dolce e un piccolo litigio, tipico di tutti i rapporti umani, Trippa ricostruisce per noi anche la situazione politica e sociale di Bologna e dell’Italia in quegli anni, con una guerra all’inizio lontana da casa ma che poi, come ben sappiamo, non ha risparmiato anche il suolo della nazione.
Con uno stile ricercato e al tempo stesso mai troppo pesante, Trippa instaura un dialogo col lettore, approfondendo i propri pensieri e sentimenti con una serie di domande ed affermazioni, che si leggono quasi come un diario personale, ma che ci ritroviamo a porre a noi stessi.
Non posso dire di essere d’accordo con tutte le affermazioni che l’autrice si ritrova a fare fra le sue pagine, ma questo credo possa essere affermato per quasi qualunque libro (o scambio di idee fra due persone), quindi non mi soffermerò troppo su quei punti, anche perché il punto centrale della storia erano e restano Fedora e Dino, i due giovani innamorati che hanno lottato per restare insieme, si sono scelti e si sono aiutati, protetti a vicenda, e la cui storia, dopo quasi un secolo, riesce ancora a trasmettere amore e consolazione.
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March 15, 2025
NIENTE – JANNE TELLER

Voto: 9/10
Edito: Feltrinelli
Qual è il senso della vita?
C’è un senso nelle azioni che compiamo?
Verso cosa ci muoviamo?
Cosa ci spinge?
Cosa ci attira?
Pierre Anthon ha tredici anni ma ha deciso: la vita non ha senso.
Nasciamo per morire, tutte le cose che facciamo servono solo a raggiungere il momento in cui non faremo più niente, quindi tanto vale non fare niente sin da subito.
Così ha lasciato la scuola, è salito su un albero di susine e da lì ha iniziato a gridare la sua verità.
I suoi compagni di classe, però, non sono d’accordo, e non riuscendo a convincerlo dell’erroneità della sua teoria, o per paura di ammetterne la veridicità, decidono di ammucchiare una “catasta del significato”, partendo da una serie di piccoli oggetti importanti per il proprietario, ma sfociando ben presto in qualcosa di molto più oscuro.
Che cos’è l’innocenza?
Che cos’è l’età dell’innocenza?
Quando smettiamo di essere innocenti per trasformarci in esseri brutali e perversi?
Un libro che si legge in un paio d’ore, ma che ti squarcia dall’interno e si annida nel punto più nascosto di te.
Un libro terrificante, oscuro, senza pietà.
Qual è il senso della vita?
Già da adulti non è facile rispondere a questa domanda, ma se a porsela sono un gruppo di tredicenni, le cose non possono che prendere una piega amara.
La storia ci viene raccontata da Agnes, e capiamo subito che il problema con la teoria di Pierre Anthon non è il fatto che sia falsa, ma la paura che possa essere vera.
Il puro terrore di muoversi e precipitare in un nulla senza fine.
E quando l’uomo è mosso dalla paura, le cose tendono a diventare presto nere come la pece.
Con la “catasta del significato”, però, i ragazzini sono certi che riusciranno a dimostrare al loro compagno di classe che esiste qualcosa al mondo che abbia senso.
I sandali preferiti, una bicicletta nuova, una canna da pesca.
Non è abbastanza?
Delle trecce colorate, un piccolo criceto, un certificato d’adozione, un tappeto da preghiera, una croce.
Non è abbastanza?
Una bara, una testa, l’innocenza, un indice.
Non è abbastanza?
Dove si nasconde il significato della vita?
Come può una catasta simile non contenere il significato dell’esistenza?
Come può il significato dell’esistenza essere contenuto in una catasta simile?
Una storia che parte fortissima, e continua in un crescendo ininterrotto, in un percorso a spirale che ci fa precipitare nell’angoscia di chi già sa come andranno a finire le cose.
Perché se è vero che l’uomo, di fronte alla possibilità di compiere del male, tenderà sempre alla malvagità, questa storia ce lo dimostra in maniera chiara e lampante.
Che cos’è l’età dell’innocenza?
In quale momento smettiamo di essere innocenti?
Perché il seme della violenza germoglia dentro di noi, pronto a dirompere e distruggere tutto ciò che ci circonda?
Ma questa non è una storia di semplice angoscia esistenziale, anche se di sicuro va letta nel momento adatto, e non la consiglio assolutamente ad un pubblico giovane.
Questa è anche una storia di speranza.
Per quanto la vita possa sembrare senza significato, non possiamo semplicemente arrenderci e sederci sul ramo di un albero, ma dobbiamo continuare a cercare, a lottare, ad andare avanti, alla ricerca di qualcosa.
Tutti commettiamo degli errori, tutti possiamo vedere il terrore che ci circonda, ma l’importante è andare avanti.
Teller ha scritto una favola per adulti, terrificante ed oscura, e scegliendo di dare la parola direttamente ad una delle ragazzine coinvolte, l’ha resa ancora più incisiva e brutale, soprattutto perché i pensieri e i sentimenti degli adolescenti coinvolti non sono mai troppo distanti da quelli che noi stessi, da adolescenti, abbiamo sperimentato in prima persona.
Scritto in maniera semplice e diretta, dietro ogni frase si nasconde un’ombra che si fa sempre più larga, ad ogni pagina.
Non c’è modo di scappare alla verità contenuta fra queste pagine, alle esagerazioni che assomigliano troppo alla realtà, alla crudeltà che assomiglia troppo alla vita vera.
Un libro da leggere, sicuramente, ma nel momento e con lo spirito giusto, perché è in grado di sfondare anche la corazza più resistente.
Qual è il senso?
Qual è la fine?
Verso cosa mi sto muovendo?
Che cosa mi spinge?
Che cosa cerco?
Perché sono qui?
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– / 5Grazie per aver votato!document.cookie.match(/(^| )post_vote_2139=av_\d+(;|$)/)&&document.getElementById("av-rating-box-2139").classList.add("av-review-submitted")L'articolo NIENTE – JANNE TELLER proviene da Lego, Legimus.
March 11, 2025
LE SCHEGGE – BRET EASTON ELLIS

Voto: 7/10
Edito: Einaudi
1981, Los Angeles.
L’estate sta per finire, il momento di tornare a scuola è alle porte.
La vita di Bret avanza senza grandi scossoni: da qualche mese frequenta ufficialmente Debbie Schaffer, è segretamente innamorato dei suoi migliori amici (Thom e Susan) ed ha una relazione segreta con Matt Kellner.
Tra droga, erba, alcol, macchine lussuose e feste in piscina, i giovani vivono la vita agiata dell’upper class losangelina, storditi e beati.
Improvvisamente, però, delle ragazze iniziamo a scomparire, dei dettagli sembrano accomunare le loro ultime settimane, e quando vengono rinvenuti i primi cadaveri si inizia a parlare di un serial killer: il Pescatore a strascico.
Nello stesso periodo, all’inizio dell’anno scolastico, un nuovo studente fa la sua comparsa: il bellissimo Robert Mallory, che si è trasferito da Chicago e sembra nascondere un passato oscuro.
Bret inizia a dubitare di lui sin dall’inizio, non si fida delle sue intenzioni, e la sua ossessione per il nuovo serial killer si mescola facilmente con l’interesse che prova per il nuovo arrivato.
Allora, che dire di questo libro?
Come mi ritrovo a dire spesso ultimamente, se Ellis avesse scritto 300 pagine in meno non avrebbe fatto del male a nessuno.
Però devo ammettere, un po’ a malincuore, che questo libro mi è piaciuto.
Nonostante la mole, è riuscito a trattenermi per tutta la durata della storia, sia per lo stile di scrittura che per i temi trattati.
E iniziamo allora con i lati positivi del romanzo: la scrittura di Ellis è estremamente accattivante e coinvolgente, riesce in poche parole a descrivere situazioni e sensazioni reali ed immaginate, creando un vortice che finisce per ottundere la sensibilità del lettore e del narratore (un Bret Ellis immaginario).
Il genere che ha deciso di utilizzare per narrare questa sua storia è un miscuglio di vari generi: un po’ un finto memoir, con Ellis stesso al volante che ci racconta un’estate della sua adolescenza; un po’ un romanzo true crime, inseguendo le tracce lasciate dal terribile Pescatore; un po’ un horror dalle tinte sataniche (che forse punta, più che altro, a colpire il lettore); un po’ un romanzo di formazione, che ci mostra in realtà la deformazione e la corruzione dei protagonisti; una critica alla società dell’epoca (e dei giorni nostri), con le sue fissazioni superficiali e il vuoto intorno al quale si tenta di costruire una vita che abbia un senso.
Mi è piaciuto quasi tutto della storia, dall’inattendibilità del narratore (oltre ad un consumo sfrenato di droghe e medicinali ed alcol, Bret ha i suoi bias nei confronti di praticamente chiunque, quindi osservare la storia attraverso il suo sguardo vuol dire guardare le cose attraverso una lente estremamente distorta) alla “caccia al serial killer” (utilizzato soprattutto per mantenere per un periodo uno stato costante di tensione superficiale che poi cresce e si sfoga su tutto ciò che incontra, e anche per parlare del male che esiste nella società, fra le persone, dentro noi stessi).
Ottime le descrizioni di Ellis di questa classe elitaria completamente distaccata dalla realtà, che riesce a vivere e percepire le cose solamente quando entrano forzatamente nella bolla che la racchiude e protegge, e forse pienamente neanche il quel caso.
Ma quali sono gli aspetti di questo romanzo che non sono riusciti a convincermi?
Andiamo in ordine.
Le prime settanta pagine, per quanto ben scritte, sono servite soltanto a ricordarmi una cosa: a me, di un gruppo di ragazzini bianchi (mostly) etero one percenter della California non potrebbe davvero importarmene di meno.
Anche i ricchi soffrono, certo, ma mai abbastanza.
Le descrizioni: non solo mi devo sorbire tutti i nomi di tutti i vestiti che indossano i protagonisti e delle marche delle loro automobili (di nuovo, certo, come rappresentazione di una società basata soltanto sui soldi e l’aspetto esteriore va bene, ma se leggo un’altra volta le parole “Wayfarer” o “Topsider” giuro che bestemmio), ma anche l’elenco continuo di tutte le strade che Bret percorrere (quando bastava dire “svolta a sinistra e poi a destra”, e invece no, ogni poche pagine sei o sette righe di nomi di strade e incroci e vicoli e quartieri).
Le ripetizioni: ottime per sottolineare l’ossessione che si sviluppa nella mente di Bret, pessime per la noia che si sviluppa all’interno della mia.
Il sesso: sono adolescenti, che si divertano come meglio preferiscono, ma non ho davvero bisogno di sapere che tutte le mattine Bret pensa “mi sono docciato e s*gato” o che ogni volta che vede il c*lo di qualcuno (vivo o MORTO) ha una reazione fisica.
I dialoghi: dio ce ne scampi e liberi.
I dialoghi non sono semplicemente superficiali e ripetitivi, ma inconcludenti in una maniera esagerata, da far digrignare i denti.
Conversazione tipo:
A- cos’hai fatto?
B- cosa pensi che abbia fatto?
A- perché dovrei pensare che tu abbia fatto qualcosa?
B- sono solo distratto.
A- devi darti una svegliata, bello.
B- se vuoi dirmi qualcosa, dilla e basta.
A – perché pensi che io abbia qualcosa da dirti? Tu hai qualcosa da dirmi?
B- cosa dovrei dirti?
…e via così per 700 pagine.
Ultimo punto: ottima analisi e critica di Ellis della società moderna, certo.
Parlando di giovani rampolli degli anni ’80 ci mostra la vacuità che si è trasmessa e ingigantita fino a noi, inghiottendo quasi tutte le parti più profonde e sensibili, certo.
Peccato che Ellis l’abbia scritto adesso, quindi tutto questo “occhio lungo che prevede e critica il futuro” non ci sia.
Ma in sintesi, mi è piaciuto?
Come dicevo all’inizio, un po’ a malincuore, devo ammettere che sì, mi è piaciuto.
Nonostante i parecchi difetti che hanno reso alcuni passaggi davvero tediosi, nel complesso funziona molto bene, ci permette di ragionare sulla società in cui viviamo e sul vuoto che si espande dentro di noi, e intorno.
Anche il finale, per quanto un po’ troppo allungato e prolisso, è abbastanza interessante; si muove lungo un percorso un po’ telefonato, ma riesce comunque a creare una specie di bivio, a lasciare un margine di dubbio, ad intrigarci.
Non so se leggerò altro di Ellis, non prediligo un tipo di scrittura a tratti così “volgare” (certe cose vanno immaginate, non descritte) né la sua predilezione per le vite di ricchi giovani e annoiati dal cuore nero, ma nella vita non si può mai sapere.
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