V13 – EMMANUEL CARRÈRE

Voto: 9/10
Edito: Adelphi
Venerdì 13 novembre 2015.
Parigi è sotto attacco, il convoglio della morte è arrivato a destinazione e dieci ragazzi, jihadisti, hanno raggiunto i loro obiettivi: il teatro Bataclan, lo Stade de France, e una serie di piccoli bar e bistrot. Centotrent’uno morti e quattrocento tredici feriti.
V13 è il nome del processo che si è svolto per nove mesi, dal settembre 2021, nel cuore di Parigi.
Un processo per la Storia, un processo al terrorismo. Al terrore, al velo della realtà squarciato senza la possibilità di tornare indietro.
Un libro senza alcuna pietà. Almeno, non per il lettore.
Carrère ci racconta le cose come sono avvenute in quell’aula che assomigliava tanto ad “una chiesa moderna, al cui interno si svolge qualcosa di sacro”.
Si inizia con le vittime, e per novanta pagine Carrère ci prende a pugni nello stomaco, instancabile, inarrestabile.
Alcune delle pagine più dure che io abbia mai letto nella mia vita, e che mai leggerò.
Ci viene raccontato un dolore che è quasi troppo difficile da immaginare, non fosse per le immagini che oggi scorrono sotto ai nostri occhi, e che ci costringono a rimanere in costante contatto con una violenza senza eguali.
Quindi si passa agli imputati, ai pochi sopravvissuti, ai pochi coinvolti ma in maniera minore, a quelli che si sono ritrovati lì praticamente per caso.
Li osserviamo nascere e crescere, la loro radicalizzazione ci risulta quasi incomprensibile e per questo ancora più spaventosa, tutto quell’odio e quella sete di vendetta fuoriesce nella maniera più terribile immaginabile.
La terza parte riguarda la Corte, le arringhe degli avvocati, la sentenza pronunciata dal giudice.
Carrère si presenta quasi tutti i giorni in quell’aula, osserva ed ascolta attentamente, prende appunti.
Ed è proprio lì, seduto su quelle panche, che fa un passo indietro, e prova a mettere su carta tutto ciò che accade (ed è accaduto) nella maniera più distaccata possibile.
Ma Carrère è pur sempre uno scrittore, ed uno dannatamente bravo, e con una parola al punto giusto, una virgola, una domanda a cui non è possibile dare risposta, un dettaglio che potrebbe sembrare quasi superfluo, ci sommerge con tutto il dolore e la rabbia e la disperazione e la solitudine e la stanchezza che riempiono quell’aula, Parigi, il mondo.
Quindi distaccato, sì, ma di un passo appena.
Ma lo sguardo di Carrère è sempre puntato sulle persone, tanto sulle vittime quanto sui colpevoli.
E ci costringe a ragionare sulla giustizia e la vendetta, sul perdono e sulla resa, sulle pene e sui delitti, sulle colpe e sugli sbagli, sulla differenza di classe e l’ingiustizia sociale, su ergastolo ostativo e lucida agonia, con una chiarezza che si mescola dolorosamente all’ombrosità della materia trattata.
Ogni paragrafo di ogni capitolo si apre con una frase, due o tre parole-chiave, come un piccolo titolo che ci accenni ciò di cui sta per parlare, quasi un “avvertimento”, che serve a colpire il lettore con ancora più forza.
Una lettura che, probabilmente, dovrei definire “obbligatoria”, ma che non mi sento davvero di consigliare.
Questo di Carrère è ovviamente un grande libro, un eccellente reportage, ma racchiude un dolore troppo grande per poter essere preso alla leggera.
Un libro terribile, terrificante, sconvolgente.
Un libro che non ci aiuta a capire, perché non c’è nessuno che possa rispondere a quelle domande, e i pochi rimasti restano muti o decidono di non collaborare.
Un orrore difficile da immaginare, che toglie il fiato, raccontato in maniera eccelsa, a cui è impossibile sfuggire.
Facciamo così: io non ve lo consiglio.
Quando vi sentite felici e vi sembra che le cose stiano andando nel verso giusto, non lo leggete. Quando vi sentite tristi e vi sembra che il mondo faccia schifo, non lo leggete.
Se però c’è un giorno che vi sentite particolarmente forti, in cui pensate “mi andrebbe proprio di piangere disperatamente per duecentocinquanta pagine ininterrottamente”, allora magari prendetelo in mano, fate un respiro profondo, e preparatevi.
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