Edy Tassi's Blog, page 10

April 11, 2018

I tre segreti della forza di volontà (e due consigli per usarla meglio)




 


Come vanno i buoni propositi di gennaio?

Stai scrivendo tutti i giorni?

Non so come hai risposto (anche se un po’ lo immagino), ma marzo mi sembra un ottimo mese per parlare di forza di volontà. Sei d’accordo?

Perché in molti casi a marzo, e spesso anche prima, i nostri buoni propositi sono ormai tutti naufragati.

E continueranno a farlo se prima non impari questi tre piccoli segreti sulla forza di volontà.


Primo segreto: la forza di volontà non è un muscolo (quindi non serve esercitarlo come avrai sentito dire), ma una luce.

Più il fascio di luce è ampio, però, più la sua potenza diminuisce. Più converge su un unico punto, più la sua potenza aumenta fino a diventare una specie di raggio laser. Se perciò a gennaio ti sei ripromessa di andare in palestra tre volte alla settimana, darti all’uncinetto e scrivere un libro, sei sulla strada sbagliata. Scegli qual è la cosa più importante per te ora: dimagrire?, riempire la casa di centrini?, o scrivere un libro?


Secondo segreto: la forza di volontà è come un bambino piccolo che ha bisogno di gratificazioni.

Ok,  il tuo obiettivo principale è scrivere un libro. Ottimo.

Ma perché vuoi scriverlo?

Se stai per dirmi che vuoi condividere la tua esperienza, che vuoi emozionare le lettrici, che vuoi farle sognare, o trasformarle in donne migliori ecc…, tutte motivazioni splendide, che condivido pienamente,  sappi che la tua forza di volontà si è già infilata il bikini e si sta spalmando la crema solare, pronta a imbarcarsi sul primo aereo e sparire fino a non si sa quando.

Per quanto possa sembrare cinico, la forza di volontà ha bisogno di divertirsi, di giocare, di gratificazioni. Altrimenti, ciccia.

Quindi devi dirle che vuoi scrivere un libro per diventare famosa, per firmare autografi o girare l’Italia facendo presentazioni (ricca… no, questa non se la berrebbe nemmeno lei!).

Fagliele vedere, tutte queste cose, dille che se ti aiuta anche lei potrà venire insieme a te, e vedrai come spariscono in fretta costume e crema solare!


Terzo segreto (il più importante): per funzionare la forza di volontà ha bisogno di energia.

Hai deciso cosa vuoi, hai spiegato alla tua forza di volontà perché lo vuoi (e lei è d’accordissimo)… ora non ti resta che metterti all’opera.

Ma ops!, che succede? Arrivi a casa dal lavoro, per tutto il giorno hai immaginato di metterti alla scrivania, e adesso l’unica cosa che hai voglia di fare è gettarti sul divano a peso morto. Sai perché? Perché la forza di volontà non è illimitata. Per funzionare deve essere carica. Come una pila. E come una pila, prima o poi si scarica. Magari proprio nel momento sbagliato.

Te lo ripeto:


LA FORZA DI VOLONTÀ NON È ILLIMITATA.


Non puoi usarla per tutto il giorno e pretendere che la sera, dopo cena, ti sostenga e ti aiuti a sederti alla scrivania a scrivere.

Perciò devi imparare a considerare la forza di volontà come qualcosa che si consuma. E che va usata con attenzione, altrimenti rischi di finirla proprio sul più bello, cioè quando dovresti fare qualcosa a cui tieni davvero, ma sei stanca e facile vittima delle tentazioni. Per aiutarla devi darle la possibilità di ricaricarsi, con il riposo (ecco perché dicono che il mattino ha l’oro in bocca!). Ma durante il giorno impara a scegliere bene quando vale la pena usarla. Altrimenti, sai cosa succede? Che ricadi nei tuoi comportamenti abituali. Cioè, invece di scrivere, arrivi a casa e ti butti sul divano a guardare la televisione. Lo so perché la prima ad averlo sperimentato sulla sua pelle sono io.

Sai quante volte mi sono detta: vorrei proprio buttarmi sul divano ma devo tradurre (minimo!), adesso che ho tradotto vorrei proprio buttarmi sul divano ma devo fare la spesa (certo, se no che si mangia?), ora che ho fatto la spesa vorrei proprio buttarmi sul divano ma devo andare a prendere le bambine a scuola (giusto, mica vorrai lasciarle là!) e via così. Finché non arriva il fatidico: ora che ho cucinato, lavato, sistemato ecc vorrei proprio buttarmi sul divano ma devo scrivere (sei scema? Buttati sul divano che non ne puoi più. Hai fatto tantissimo, scriverai domani!). Sono sicura che anche a te capita lo stesso e quindi se finora ti sei rimproverata dicendoti che sei una mezza calzetta perché non riesci a rispettare un proposito, adesso sai che il problema è un altro. La tua povera forza di volontà te la sei giocata tutta durante la giornata, ogni volta che ti sei imposta di fare qualcosa che dovevi fare anche se non ne avevi voglia.


Dirai: ma non posso non lavorare, non fare la spesa, non occuparmi dei figli per scrivere tre pagine al giorno!

Vero.

Ma ora che conosci i tre segreti della forza di volontà, voglio darti due consigli che con me funzionano benissimo.


Scrivi appena puoi.

La mattina presto quando ancora dormono tutti, oppure subito dopo colazione, oppure nella pausa pranzo. Come sai (e anche la mia esperienza lo conferma), è molto difficile che ti rimanga ancora abbastanza forza di volontà per sederti alla scrivania dopo cena, soprattutto se nel frattempo ti sei imposta di non mangiare cioccolato, andare in palestra, essere gentile con tua suocera, non saltare la lezione di uncinetto, cucinare una nuova ricetta e aiutare i tuoi figli a fare i compiti (tutti buoni propositi non strettamente necessari come il lavoro e la spesa, che ti prosciugano di energie, soprattutto se, come la scrittura, non sono ancora diventati un’abitudine). Scrivi subito e non pensarci più!


Compromettiti.

Ufficializza il tuo obiettivo. Parlane con la persona più organizzata che conosci, con l’amica che sembra riuscire in tutto. Diglielo. Chiedile di leggere quello che stai scrivendo. Non importa se è in grado di giudicare la qualità del tuo lavoro. L’importante è che lei sappia cosa vuoi fare e che sia pronta a ricordartelo. Vedrai che il pensiero di dover ammettere una sconfitta con lei ti darà lo stimolo che ti serve per perseverare anche nei momenti in cui, nonostante un obiettivo, nonostante la gratificazione e nonostante le pile cariche, alla tua forza di volontà venga comunque voglia di infilarsi quel bikini.


SAPEVI GIÀ CHE LA FORZA DI VOLONTÀ È UNA RISORSA LIMITATA?

SEI BRAVISSIMA A MANTENERE I TUOI PROPOSITI E VUOI RACCONTARMI COME FAI? SCRIVIMI E RACCONTAMI IL TUO SEGRETO!


Photo Credits: Edy Tassi TradAutrice

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Published on April 11, 2018 07:13

April 4, 2018

Il metodo più semplice ed efficace per adottare una nuova abitudine

 



 


Da oggi mi sveglierò un’ora prima tutte le mattine; da oggi smetterò di mangiare cioccolato; da oggi camminerò mezz’ora tutti i giorni. O se vuoi scrivere… da oggi scriverò tre pagine tutti i giorni!

Non hai certo bisogno che io vada avanti, vero?

Di certo anche tu ogni tanto ti riproponi qualcosa di simile.


Il momento preferito per fare buoni propositi è gennaio, ma sono sicura che, come me, in realtà ne fai tutto l’anno.

E magari i tuoi buoni propositi funzionano così: al primo di gennaio decidi di andare in palestra, per essere perfetta alla prova costume. Poi però dopo due o tre settimane, smetti. Troppo lavoro, troppa famiglia, troppa pigrizia. Allora ti dici, ok, comincio a marzo, tanto alle vacanze manca ancora un sacco di tempo. E succede la stessa cosa. Allora ti dici che da maggio, basta, non ti ferma nessuno, andrai a correre tutte le sere, che si sta bene e non fa più freddo. Ma indovina? Arriva il momento della prova costume, tu non hai fatto niente e ti dici, ok, quest’estate va così, e poi non sarò l’unica sotto l’ombrellone a dover stare attenta su quale fianco mi sdraio, no? Ma da settembre…


Il problema sai qual è?


Che adottare nuove abitudini non è affatto semplice.

E le variabili che ne condizionano la buona riuscita sono due: il livello di difficoltà e la motivazione.

L’unica combinazione a prova di fallimento è quella tra un’abitudine facile e una motivazione forte.

Se non hai una motivazione forte, infatti, direi che la partita è persa in partenza, anche se si tratta di imparare a iniziare la giornata bevendo un bicchiere d’acqua.

Quindi il primo passo che devi fare per adottare una nuova abitudine  è capire quanto sei motivata a farlo. Se non hai una motivazione forte, domandati perché. Magari non è quello che vuoi davvero. (Quante volte io mi sono resa conto che volevo una cosa solo perché la volevano tutti gli altri, ma in realtà non mi importava.) E magari dovresti adottare un’abitudine leggermente diversa, di cui senti più bisogno.

L’importante è che tu sappia che la tua vita è composta da un susseguirsi di abitudini. Ogni tuo gesto, a ben pensarci, è un’abitudine. L’ora in cui ti alzi, cosa mangi a colazione, come cominci la giornata lavorativa, cosa fai nel tempo libero, come ti prendi cura del tuo corpo, come interagisci con gli altri. Tutta questa catena di azioni che ti accompagnano ogni giorno sono abitudini.


E la tua vita sarà tanto più bella quanto migliori sono le tue abitudini.


Ma per quanto tempo bisogna “tenere duro” prima che un’azione diventi un’abitudine?

Io per tantissimo tempo ho pensato che ci volessero i famosi 21 giorni. La teoria dei 21 giorni nasce nel 1960 con Maxwell Maltz, un chirurgo estetico autore del libro Psicocibernetica. Maltz aveva infatti notato che i pazienti a cui era stato amputato un arto, impiegavano 21 giorni ad abituarsi. Quindi ha dedotto che quello fosse il tempo necessario per sviluppare una qualsiasi altra abitudine.




Di recente però ho scoperto altre due teorie secondo le quali di giorni ce ne vogliono almeno 30 o addirittura 66.

Perché?




Secondo Hal Elrod, l’autore di The Miracle Morning, il processo per adottare una nuova abitudine si articola in tre fasi:

dal giorno 1 al giorno 10: è la fase insopportabile, quella in cui fai più fatica.

dal giorno 11 al giorno 20: è la fase fastidiosa, quella in cui cioè ti costa ancora un certo sforzo ma cominci a sentire che sei sulla strada giusta.

dal giorno 21 al giorno 30: è la fase inarrestabile. A questo punto hai capito che la nuova abitudine funziona, sei euforica, non ti resta che continuare così per sempre.

Il bello di questa suddivisione in tre fasi è che ti fa capire che non dovrai soffrire per sempre, quando cerchi di adottare una nuova abitudine, ma che dovrai tenere duro solo per dieci giorni. E questo ti aiuta a non mollare. C’è luce in fondo al tunnel! L’importante è non cantare vittoria al ventesimo giorno, pensando, è fatta!, perché in realtà il consolidamento non è ancora avvenuto.




Infine i 66 giorni. Questo intervallo è frutto di uno studio svolto nel 2009 dall’University College di Londra. Gli studenti che hanno partecipato allo studio impiegavano da un minimo di 18 giorni a un massimo di 254 giorni per adottare una nuova abitudine a seconda che questa fosse facile o difficile. In media però i giorni erano proprio 66, cioè, il sessantaseiesimo giorno era quello in cui gli studenti smettevano di compiere l’azione spinti dalla forza di volontà ma la eseguivano automaticamente perché, appunto, era diventata un’abitudine.




Ok, dirai tu, alla fine però, che si tratti di 21, o 30, o 66 giorni, l’unico modo per consolidare una nuova abitudine è perseverare. E come si fa a perseverare?


Ecco, a questo punto posso spiegarti qual è il mio metodo preferito.

Lo ha inventato un comico americano, Jerry Seinfeld. Lo conosci?

Anche se non lo conosci, puoi però imparare a utilizzare il suo metodo, che in inglese si chiama Don’t break the chain, cioè, non spezzare la catena. Per diventare un comico di successo, Jerry pensava servisse un repertorio sempre nuovo e quindi si imponeva di scrivere battute tutti i giorni. Ogni giorno tracciava una x sul calendario. E pian piano tutte quelle x hanno cominciato a formare una catena. A quel punto, lo scopo per lui non era più scrivere battute tutti i giorni, ma non spezzare la catena.




Trovo che questo sia un metodo molto efficace, perché sposta il fuoco della tua attenzione, dall’abitudine, a una cosa semplice come una croce. Pensa a che soddisfazione vedere tutte quelle croci che si accumulano sul calendario! E prima che te ne rendi conto i 21, i 30, i 66, perfino i 254 giorni sono trascorsi e tu hai adottato una nuova abitudine.

Vuoi provarci?

Puoi usare un normale calendario da parete con un mese per pagina. Oppure puoi crearti un foglio excel suddiviso nei dodici mesi o, ancora, con 365 caselle. Come preferisci.


Questo metodo è diventato talmente popolare che esistono perfino delle app. Perciò se sei un tipo tecnologico, qui trovi una versione per il pc e qui una versione per iPhone o per Android.


Il mio ultimo consiglio è però di non cercare di adottare più abitudini contemporaneamente. Non strafare! Se non non ce la fai. Migliora la tua vita un’abitudine alla volta.


TU CONOSCI ALTRI METODI PER ADOTTARE UNA NUOVA ABITUDINE? HAI QUALCHE TRUCCO CHE VUOI CONDIVIDERE CON ME?


Photo Credits: Marina Montorfano aka M as Me

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Published on April 04, 2018 07:57

March 27, 2018

Quante pagine devi scrivere al giorno?

 



 


Vuoi scrivere un libro, ma hai paura di non farcela perché l’idea di scrivere 400 pagine un po’ ti angoscia. Sono tante. Tantissime!

Hai ragione. Pensare a un libro tutto insieme può spaventare. Io quando inizio un nuovo romanzo penso: non ce la farò mai!

Ma come si dice in inglese, eat the elephant one bite at a time. Cioè, un elefante si mangia un morso alla volta.

Come?

In questo post ti ho consigliato di scrivere tutti i giorni, o per lo meno, di avere un ritmo costante di scrittura.

Si tratta sicuramente del primo obiettivo di tipo organizzativo che ti devi porre per mangiare l’elefante.

Ma per riuscire a scrivere un libro in tempi accettabili e in modo omogeneo, devi porti anche un obiettivo numerico. Cioè, devi domandarti: quante pagine devo scrivere, minimo, al giorno?

Certo, se la musa della scrittura venisse a farti una visita a sorpresa e ti desse lo slancio per scriverne venticinque, non sarei certo io a dirti di scriverne di meno per rispettare un programma. Asseconda la musa e alla fine ubriacati pure, o strafogati con una bella montagna di profiterol!

Siccome però di scrittrici ce ne sono tante e la musa, poverina, è solo una, non puoi pretendere che venga tutti i giorni da te.

Ma quando lei è impegnata a stimolare la creatività di qualcun altro, tu devi comunque andare avanti con il tuo romanzo, giusto? Se vuoi finirlo davvero, intendo.

Quindi non ti resta che darti un obiettivo tu. Che sia ragionevole, ovviamente, e compatibile con il tempo che hai a disposizione e con la tua capacità di scrittura.

Per esempio, se riesci a ritagliarti solo un’ora al giorno, difficilmente in quell’ora riuscirai a scrivere dieci pagine. Meglio essere realiste e partire con un numero più basso.

Tipo due, tre pagine al giorno.

Stabilendo un obiettivo ragionevole, infatti, non rischi di perdere la motivazione perché per una settimana di fila hai scritto quattro pagine al giorno invece di otto o dieci. Inoltre, stabilire un obiettivo ragionevole distoglie la tua attenzione dal SUPER MEGA OBIETTIVO STELLARE (cioè l’elefante) di scrivere un libro di 400 PAGINE, che al solo scrivere quel 400 anche a me comincia a mancare un po’ il respiro.

Soprattutto, il mio consiglio è di non paragonarti (ancora) agli scrittori professionisti, quelli che per intenderci possono dedicare alla scrittura una mattinata o addirittura una giornata intera.

Nel suo famoso On Writing, Stephen King rivela di scrivere tutti i giorni (Natale, compleanno e 4 luglio compresi), tutta la mattina. Il suo ritmo è di circa 2000-2500 parole al giorno, pari più o meno a dieci pagine. E se non raggiunge quel risultato prima di pranzo, continua dopo. Anne Rice ne scrive 3000, Lee Child 1800, Michael Crichton addirittura 10.000 (al suo confronto tutti gli altri sembrano dei dilettanti, vero?).

Ma tu, che già fai fatica a trovare un’ora, figurarsi una mattinata intera libera, non hai bisogno di ambire a questi ritmi (Hemingway scriveva solo 500 parole al giorno, e chi siamo noi per pensare di dover fare meglio di lui?). L’importante, come dico sempre, è la costanza. E se perfino degli scrittori affermati come Stephen King, Anne Rice, Lee Child e Michael Crichton, che in teoria possono dedicare tutto il giorno alla scrittura, si impongono un ritmo, a maggior ragione dovresti farlo tu, che strappi quel tempo alle mille incombenze quotidiane.


Tre pagine ti sembrano poche?


Allora facciamo un piccolo calcolo insieme.

Ipotizziamo che tu stabilisca di poter scrivere dal lunedì al venerdì. In una settimana le pagine diventerebbero 15. In un mese 60. Un ritmo non male, che ti permetterebbe in sei mesi di scrivere un libro di 360 pagine.

Una prima stesura in sei mesi è un risultato di tutto rispetto, secondo me. Ritornando al detto inglese sull’elefante, magari non sarà l’equivalente di un mammuth, ma di sicuro non è nemmeno un topolino. Non credi anche tu?


E ORA DIMMI, TU HAI GIÀ UN TUO RITMO DI SCRITTURA? QUANTE PAGINE RIESCI A SCRIVERE DI SOLITO AL GIORNO? QUANTO TI VIENE FACILE MANTENERE QUESTO RITMO?


Photo Credits: Edy Tassi TradAutrice

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Published on March 27, 2018 23:06

March 21, 2018

La prima abitudine da imparare se vuoi scrivere


 


Se stai leggendo questo post, anche tu desideri scrivere un libro e magari  ti sei riproposta di farlo un sacco di volte.

Probabilmente, scrivere un libro è uno di quei buoni propositi che fai all’inizio dell’anno o a settembre quando torni dalle vacanze,

Però dopo qualche settimana finisci con il rinunciare. Oppure lo scrivi, ma impiegandoci molto più tempo del previsto. O con una motivazione altalenante.


Lo so perché la prima a esserci passata, sono io. Nel cassetto ho un sacco di storie cominciate e mai finite, che risalgono ai tempi in cui la scrittura, per me, era più un passatempo che una professione.


E il motivo principale per cui fai così fatica a raggiungere il tuo obiettivo è che non hai ancora trasformato la scrittura in un’abitudine.

Finché scrivere per te non diventerà un’abitudine, rischierai sempre di accantonare il tuo proposito, quasi senza accorgertene, perché ogni giorno ci sarà qualche “motivo improrogabile” che ti impedirà di prendere la penna in mano o di accendere il computer. Un giorno sei stanca perché hai dormito male. Un giorno hai un figlio che si è preso l’influenza. Un giorno devi fare gli straordinari in ufficio. Un giorno ti arriva una chiamata imprevista della tua amica che ti invita a pranzo fuori. E ti dici: ok, scriverò domani, recupererò nel weekend.

Ma la cattiva notizia qual è? Che poi non lo fai. Anzi, i motivi per temporeggiare si moltiplicano.


Trasformare la scrittura in un’abitudine è particolarmente importante se la scrittura non è ancora la tua attività principale, ma lo è anche se sei già una scrittrice con diversi titoli pubblicati alle spalle.

A qualunque livello lo svolgi, infatti, scrivere è un mestiere insidioso. Nessuno ti controlla davvero e puoi anche mentire a te stessa, trovando un sacco di giustificazioni sul perché oggi non sei proprio riuscita a trovare il tempo di buttare giù due parole. Nessuno ti controlla se dici che hai scritto, e invece ti sei sparata tutto Big Little Lies in un pomeriggio. Se non ti imponi di scrivere rischi di alzarti la mattina e pensare “ok, prima faccio i letti, poi faccio la spesa, poi sistemo il bucato, poi chiamo mia suocera”, ed ecco che arriva sera e, indovina?, non hai scritto niente. A parte forse la lista della spesa.

Scrivere è un lavoro solitario e questo non aiuta a perseverare.

La soluzione che invece ti aiuta a farlo è trasformare la scrittura in un’abitudine che pratichi con regolarità.

Tutti i giorni, sarebbe il massimo. Ma se proprio una sessione di scrittura quotidiana è impossibile, cerca comunque di stabilire una cadenza che si adatti alla tua vita: il lunedì, il mercoledì e il venerdì mattina; oppure tre mattine su cinque; oppure tutti i weekend. Anche perché, la prima a cui dovrebbe importare di trasformare la scrittura in una priorità sei tu.

So che forse pensi, “Ma io scrivo quando sono ispirata”.

Bene. Allora da questo mio post vorrei che memorizzassi questa frase e la ripetessi davanti allo specchio almeno tre volte ogni mattina:


“SCRIVO TUTTI I GIORNI E QUANDO SONO ISPIRATA SCRIVO DI P IÙ”


Ci sono dei giorni in cui anche io non mi sento per nulla ispirata. Poi attingo alla forza di volontà e accendo lo stesso il computer. Penso di dare solo un occhio a quello che ho già fatto. Comincio a sistemare un dialogo, una descrizione… e senza accorgermi comincio a scrivere. Se non sono particolarmente ispirata, forse non scriverò molto. Forse farò solo correzioni. Ma a volte invece l’ispirazione arriva e siccome non sono in coda al supermercato, o in una sala d’aspetto del dentista, ne posso approfittare.

Per cui ricordati, il modo migliore per scrivere un libro è far diventare la scrittura un’abitudine. E le abitudini si creano con la costanza.


E ORA TOCCA A TE. SCRIVI GIÀ TUTTI I GIORNI? È STATO FACILE ADOTTARE QUESTA ABITUDINE? RACCONTAMI QUAL È LA TUA ABITUDINE E COME HAI CAPITO CHE ERA QUELLA GIUSTA PER TE!


 


Photo Credits: Marina Montorfano aka M as Me

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Published on March 21, 2018 00:22

December 19, 2017

Come si dice da voi Big Babol?

IMG_3364Grace guidava la sua Mercedes, tamburellando con le dita sul volante. I braccialetti di Tiffany tintinnavano al ritmo della musica, mentre lei ruminava una gomma da masticare, facendo scoppiare un palloncino color Big Babol dietro l’altro.


Cosa sono “Mercedes”, “Tiffany” e Big Babol?

Esatto, delle marche. Sono nomi propri di cose.

La frase, però, che ho scritto a puro titolo esemplificativo, avrebbe funzionato anche senza. Guarda:


Grace guidava, tamburellando con le dita sul volante. I braccialetti tintinnavano al ritmo della musica, mentre lei ruminava gomma da masticare, facendo scoppiare un palloncino dietro l’altro.


Quindi, quello di cui ti voglio parlare oggi è un elemento facoltativo della scrittura, che in quanto tale, va trattato con attenzione.

Mi riferisco alle LOCALIZZAZIONI.

Il termine localizzazione si riferisce a un qualsiasi elemento o dettaglio che connoti in modo preciso un luogo, un periodo, un momento storico o sociale. E come nel mio esempio, una tipica localizzazione sono le marche. Il nome di certe macchine, di certe apparecchiature elettroniche, addirittura di certe caramelle. Oppure il nome di attori, cantanti, riviste.

Fino a poco tempo fa le localizzazioni non si usavano molto nei romanzi, ma oggi sono molto frequenti. Facci caso. Quanti libri, soprattutto di chick-lit ne contengono? Tantissimi. Si tratta però di un elemento insidioso, che può abbellire la prosa ma anche penalizzarla. Le localizzazioni infatti regalano una nota di colore, di attualità. Se in un romanzo inserisci canzoni, romanzi o titoli di opere teatrali, stimoli (si spera) i lettori ad andare a vedere di cosa stai parlando. Ma se la storia diventa una specie di catalogo di articoli per la vendita online, il rischio è di rendere molto pesante la storia e, soprattutto, di renderla troppo connotata un punto di vista temporale. Immagina di mettere in mano alla tua protagonista un certo modello di telefonino, e zac!, ecco che nel giro di un anno il tuo romanzo saprà di vecchio.

Quindi stai attenta. Meglio scegliere localizzazioni “universali” e in particolar modo, scegli marche generiche, senza scendere nei dettagli dei modelli. Certo, ci sono articoli di lusso che più invecchiano e più fanno figo, quindi lì puoi anche scendere nel dettaglio: una Mercedes? Magari una Pagoda. Un Rolex? Magari il Submariner. Il lusso si sa, va sempre di moda e invecchiando migliora. Ma per il resto, attenzione.


E attenzione soprattutto se invece di scrivere un romanzo stai traducendo un testo da un’altra lingua. Perché è lì che le localizzazioni si fanno più insidiose.

Vuoi un esempio? Eccolo qua!Parla con me

Prendi questa frase, tradotta da Talk Dirty To Me di Dakota Cassidy, che in Italia è uscito con il titolo Parla con me.


“Non sarebbe un bello scandalo nella cara vecchia Plum Orchard? Un processo… magari finiresti anche su Verissimo.”


Letta? Bene, adesso dimmi se c’è qualcosa che ti suona fuori posto.





Ti aiuto. Non è una delle prime sedici parole.

Una delle regole della traduzione è che, in caso di localizzazioni, bisogna evitare che la localizzazione risulti straniante per il lettore e che interrompa la lettura perché è incomprensibile. Un classico esempio è quello del nome di un attore in una frase tipo: era brutto come… Ecco, se lì c’è il nome di un attore o di un personaggio televisivo che chi legge non conosce, la similitudine andrà persa perché il lettore non potrà mai farsi un’idea esatta di cosa intendeva l’autore e di che tipo di bruttezza parlava, a meno di interrompere la lettura e fare una ricerchina veloce su internet.

Come devi regolarti quindi?

Torniamo all’esempio.

Siccome Verissimo è un programma italiano, dubito che una causa intentata in un paesino americano possa diventare argomento di una delle sue puntate. O che una ragazza americana possa inserirlo in un dialogo con un’amica. In questo caso infatti al mio orecchio la sostituzione risulta ancora più straniante e volendo anche un po’ surreale.

Ma com’era la frase originale?


“Wait that be something here in lil’ Plum Orchard? A Trial. Maybe you might even end up on TruTV.”


Prima riflessione: TruTV è un’emittente televisiva, non un programma (ma questo è un dettaglio da traduttrice tignosetta).

Seconda riflessione: in America non esiste Verissimo, che è una trasmissione italiana. Tradurre TruTV con Verissimo equivale a tradurre Ultra Music Festival con Festival di Sanremo, basandosi solo sul fatto che si tratta di due manifestazioni canore. Sono due cose diverse, fanno parte di due culture diverse e non hanno nulla in comune se non il fatto che si suona.

Cosa puoi fare dunque se ti capita un caso come questo?

A mio parere, con le localizzazioni puoi procedere in tre modi:


Uno: in Italia quella cosa (programma televisivo, marca di caramella, testata giornalistica ecc…) è conosciuta con il suo nome originale. Squilli di trombe, tutti contenti, si lascia la parola così. Nessuno infatti tradurrebbe New York Times o Bake Off o M&M’s in italiano perché si sa che sono, rispettivamente, un quotidiano, una trasmissione, degli snack a base di zucchero, cioccolato e noccioline. E se qualcuno non lo sa è solo una sua lacuna, non un limite imposto da un tipo di cultura, ambiente, background diverso.


Due: in Italia quella cosa è sconosciuta ma per fortuna c’è un equivalente/alternativa nota. Bene, qui la traduzione permette una piccola licenza poetica. Se si parla di una caramella, basta trovarne una più conosciuta con le stesse caratteristiche. Se si parla di un programma televisivo, basta trovarne un altro simile conosciuto anche in Italia. Parlando di TruTV, si poteva sostituire con FoxCrime, giusto perché “Crime” richiama i tribunali ed è conosciuto anche se, a voler essere sempre tignosi, FoxCrime è un canale italiano. L’importante però è che usando FoxCrime si mantiene l’aura anglosassone, come scelta è plausibile e non crea straniamento. Magari, a cercare un po’ su internet potresti anche trovare un canale diverso e ancora più adatto.


Tre: in Italia quella cose è sconosciuta e anche se ti scervelli per trovare un programma simile, una marca simile, un attore che calza per il contesto, proprio non ti viene in mente nulla. Hai interpellato colleghi, hai setacciato il web. Inutilmente. Ok, allora, piuttosto che ricorrere a localizzazioni troppo “locali” che creerebbero perplessità, il mio consiglio è: evita le localizzazioni. Mi piace molto di più un magari finiresti anche in televisione, piuttosto che il riferimento a una trasmissione che sa troppo di Italia.

Perciò, attenzione. Se il riferimento è oscuro (tanto che anche tu devi andare a cercarne il significato) e non ci sono alternative coerenti, io eviterei di optare per il km 0 e piuttosto lascerei la descrizione generica.


E a te è mai capitato di trovare riferimenti difficili da tradurre? Vuoi farci un esempio?

O di leggere romanzi in cui ti sembrava che qualcosa non tornasse?

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Published on December 19, 2017 23:00

December 3, 2017

Strenne oneste o strenne furbe?

Si avvicina il Natale. A seconda delle latitudini, lo sentite anche voi il profumo degli abeti? Lo scampanellio delle slitte? Lo scricchiolio della neve sotto i piedi? Il profumo del panettone? Avete anche voi le dita già appiccicose di strufoli? Vedete anche voi le luminarie sulle strade, le vetrine piene di oggetti scintillanti… e di libri?

Libri natalizi, libri che si vendono solo a Natale, libri pensati per i regali di Natale. Sapete a quali alludo. Quelli che compaiono solo in questo periodo dell’anno, finendo inevitabilmente in cima alle classifiche, senza che poi vi sia mai la certezza che vengano letti per davvero.

IMG_2920Insomma, le cosiddette strenne.

Intanto, giusto per dare una spolverata di cultura al post, sapete da cosa deriva il termine “strenna”? Dall’usanza romana di scambiarsi a fine anno ramoscelli benaugurali (quelli della arbor felix), situati nel bosco sacro della dea Strenia. Il termine, però, si è legato all’editoria solo più tardi, attorno al XIX secolo, quando cominciarono a venire messi in vendita componimenti in prosa e poesia proprio a ridosso di Capodanno.

Fine della parentesi colta.

Quali sono, dunque, le strenne oggi?

Ormai si sa, le dinamiche sono evidenti. Al primo accenno di luminaria, al primo soffio di gelo, alla prima nota di una carola, ecco che le librerie si animano di proposte ad hoc. Sempre le stesse. Tanto che potremmo suddividerle in due categorie precise:


Le strenne oneste: sono, per intenderci, quelle con la parola “Natale” scritta sopra. Quelle che escono a Natale perché parlano del Natale. Quelle con la copertina rossa; al massimo con qualche accenno di oro Re Magio o di verde abete. Sono quelle che parlano di magia, buoni propositi, ricette per pranzi o cenoni. O che, al contrario, ironizzano sulle feste, sulle riunioni di famiglia, sulle corse ai regali. Sono i romanzi con la neve in copertina. Sono quelli che non compreresti mai in nessun altro periodo dell’anno e che hanno la loro ragione d’essere proprio ora, tra la vigilia e l’Epifania. Sono i libri che compri per te o che regali a chi vuoi viva ancora meglio un momento di gioia, di relax e di festa. Spesso sono i libri per chi legge e ama farlo seguendo il ritmo delle stagioni, della vita. PS: tutte le foto sono, ovviamente, di strenne oneste.IMG_2925


Le strenne furbe: sono, innanzitutto, quelle che, in generale, non parlano del Natale ma chissà com’è invadono le librerie e gli scaffali dei supermercati solo a partire da fine novembre. Le più sfacciate e sicure di sé anche più in là. Sono quelle che al supermercato ritrovi a pile di trenta, miracolosamente stabili, vicino alla capanna del presepe e ai fiocchi di stagnola dorata. Quelle presenti ovunque, sui giornali, sui quotidiani, nelle trasmissioni televisive. Quelle che se avessero le gambe ti salterebbero direttamente in braccio al grido di “Eccomi, sono il regalo perfetto per tua nonna, tua zia, la tua vicina di casa”.

Le strenne furbe poi, sono talmente furbe da dividersi in numerose sottocategorie. Come riconoscerle? Facile. Sostituite all’aggettivo “furbe”, l’aggettivo “VIP”. Se l’equazione non cambia, allora siete in presenza di una strenna furba DOC.

Vediamo nel dettaglio:


Innanzitutto ci sono i libri VIP, tali in quanto scritti da VIP. Quelli, per intenderci con il ritratto dell’autore davanti. Avete presente, lo so. Ed è sorprendente come questi VIP (o le loro case editrici) vengano colti dall’irresistibile desiderio di rivelarsi, confidarsi e avvicinarsi al loro pubblico proprio all’inizio dell’estate (dopotutto stanno cazzeggiando su qualche spiaggia tropicale e si sa, la mente si rilassa, divaga, affiorano ricordi, esperienze, le idee insomma fioccano), cioè nel momento esatto in cui i tempi editoriali permettono di scrivere (o far scrivere) un libro che, guarda caso, uscirà giusto giusto per Natale? E quindi trasformarsi per il regalo perfetto per la nonna che guarda sempre quella tale trasmissione, per la cugina che va matta per quella certa fiction, per il fratello che non si perde mai una partita della tale squadra. Il tomo di solito ha dimensioni contenute, ma la foto in copertina, la rilegatura super lusso e, forse, anche il contenuto, ne giustificano (più o meno) il costo elevato.


Poi ci sono i libri con la foto dei VIP dietro. In versione più pudica. In questo caso il messaggio è più subliminale. Il VIP, che non vuole vendere (sfacciatamente) se stesso, scrive di solito un libro non su di sé ma su altro. Un esempio eclatante è il classico libro del giornalista che approfondisce temi politici, che sfruguglia nei segreti delle alcove, che propone il libro di ricette delle mamme dei premier e via dicendo. Le dimensioni del tomo variano, il prezzo di solito no. Anzi, direi che è direttamente proporzionale, e talvolta cresce in modo esponenziale, rispetto al numero di fascicoli che compongono il libro.


Al terzo posto ci sono i ricettari VIP. Non quelli che parlano di ricette di Natale, a cui ho già accennato nelle strenne oneste, ma che uniscono due elementi, o più, di quelle furbe. Per esempio i VIP in copertina e il tono da confidenza/rivelazione, dove, mentre vi insegnano a fare le frittelle di caviale su meringa destrutturata, vi raccontano della loro infanzia nelle langhe, in Val Brembana, tra le anguille di Comacchio. Oppure vogliono condividere il ricettario della nonna, quello della bisnonna, quello della maestra elementare che, in un impeto di generosità tardiva, pentendosi di tutte le volte che li aveva costretti a scrivere “che noi cocessimo, che voi coceste, che essi cossero…”, gli ha lasciato in eredità le sue memorie culinarie. Qui le dimensioni dei tomi sono di solito un bel venti per venti, cartonato, patinato, corredato di foto d’autore. Prezzo coerente. Oppure c’è la versione minimalista, quella del ricettario che vuol passare per romanzo, quindi con fogliazione modesta, copertina con foto ma senza ostentazioni. Prezzo coerente (con il nome del VIP).


E come non citare i romanzi VIP, di autori affermati che trovano il guizzo creativo, l’ispirazione, l’idea ogni anno più o meno nello stesso periodo, cioè quello che, dopo una gestazione di nove mesi, permette di scodellare il pargolo proprio al primo rintocco di campanella o alla prima fugace apparizione di un torrone o di un candito? I romanzi in questione, di solito, non hanno nulla a che fare con le ricorrenze e le festività. Anzi, spesso sono romanzi sofferti, sofferenti, pieni di persone in crisi di identità, o che cercano il significato della vita. Quindi non esattamente la compagnia perfetta con cui trascorrere qualche bel pomeriggio davanti al camino. Ma l’autore VIP è pur sempre VIP e il volume può avere un minimo di centocinquanta pagine, carattere 24, interlinea doppia e margine 4, oppure seicento pagine, carattere 8, interlinea uno e margine 0,5, in questo caso non ci sono regole. Il costo, invece, rimane VIP Standard. Quindi non meno di diciotto, venti euro e già vi va bene.


IMG_2940Potrei andare avanti, ma credo di avervi già indicato la cosa più importante, e cioè il criterio con cui individuare, smascherare, distinguere le strenne furbe da quelle oneste (sì, la parola magica è VIP).

Il criterio di scelta con cui acquistare le strenne, invece, è liberissimo. E non lo nego, ogni tanto a volte l’acquisto di una strenna furba scappa anche a me, ma solo perché penso che possa realmente piacere a chi la regalerò o perché penso che piacerà a me leggerla.

L’importante è agire con consapevolezza.


E voi? Cosa ne pensate dei libri che affollano le librerie in questi giorni? Li regalate? Con che criterio?

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Published on December 03, 2017 23:00

November 26, 2017

TraduCuriosità: Hall takes it all

Proprio così, perché il termine “hall” in inglese sembra essere un vero e proprio asso pigliatutto, almeno quanto a significati.

Non ci avete mai fatto caso? Be’, la prossima volta che in un libro troverete scritto  “atrio”, “corridoio”, “anticamera”, “androne”, “ingresso”, “vestibolo”, “sala” o “salone”, sappiate che dietro a tutti questi termini c’è molto probabilmente il famigerato “hall”.

hallE dico famigerato perché si tratta di una vera e propria spina nel fianco per i traduttori, soprattutto se il contesto non aiuta a capire di cosa si tratta. Perché i significati in italiano non sono affatto interscambiabili e un conto è percorrere un corridoio, un altro entrare in un ingresso, ballare in un salone delle feste o cenare in una sala.

Sì, lo so, che se ve lo dico così a voi sembra che in fondo la questione sia chiarissima. Ma lo è, appunto, perché vi sto servendo, per così dire, la pappa pronta. Cioè, questo benedetto “hall” già tradotto in italiano, contestualizzato e con i verbi giusti accanto.

Invece noi traduttori ci troviamo con il testo in inglese che parla di un/una hall nella maggior parte dei casi senza avere davanti la piantina del luogo in questione, senza indicazioni, e quindi dobbiamo cercare di capire qual è il traducente giusto dai dettagli, dai particolari, andando a senso e, perché no, a fortuna. Se non ci credete, andate su Google e nel campo ricerca digitate la parola HALL, poi, come risultati, selezionate “immagini”. Visto?


La ragazza scomparsaSe in un testo il termine hall compare sempre in relazione a uno stesso ambiente, quando decidi che traduzione adottare è fatta. Il corridoio resterà corridoio per tutto il libro. Ma tempo fa mi è capitato un testo che ha messo a dura prova il mio intuito e pure la fortuna. Sto parlando di The Vanishing Girl di Sean Peacock, pubblicato da Feltrinelli con il titolo La Ragazza Scomparsa, un romanzo che parla di Sherlock Holmes da ragazzo e all’interno del quale la parola che più ricorre indovinate qual è? Bravi. Hall. Almeno una decina di occorrezze, sempre per ambienti diversi.


Vi faccio qualche esempio:


1) “Irene Doyle gasps. She is standing in the cavernous dining HALL of the Ratcliff Workhouse in Stepney in the East End of London, staring at a little boy.”

hall1In questo caso la soluzione è arrivata in modo semplice. “Dining hall” mi ha fatto subito pensare a quei grandi saloni con il soffitto altissimo e lunghi tavoli, un po’ come il salone di Hogwarts, e quindi l’ho tradotta con “cavernosa sala da pranzo”.


2) “The noise here, contained and echoing in the great HALL, is making it difficult for travelers to even hear themselves speak.”hall3

In questo caso si parla della stazione di King’s Cross. E precisamente della parte dove di solito si trovano i bar, i negozi, la biglietteria. E così ho deciso di tradurre la parola “hall” con “atrio”

“Il baccano, racchiuso e amplificato dal grande atrio, rende difficile alle persone persino sentirsi fra loro.”


3) “Platform 1 is all the way back down the HALL near where he entered”.

Dunque questa hall sarà ancora l’atrio della stazione? Secondo me no. Sembrerebbe un punto diverso. Magari qualcosa tipo la grande volta dove si trovano i binari nella Stazione Centrale di Milano. Oppure identifica un’area a parte rispetto a quella principale, dove ci sono altri binari, magari con una numerazione diversa? Quel “near” ammetto ha creato un po’ di dubbi. Perché ponendo che Sherlock sia entrato nell’atrio, allora la hall di cui l’autore parla adesso si trova “vicino” all’atrio e quindi non può essere l’atrio. Sì lo so, portate pazienza!

In mancanza di una piantina, io qui ho risolto con “Il binario 1 è in fondo alla stazione, vicino all’ingresso”.


4) Sherlock si introduce di nascosto in una grande villa in cima a una collina. Lasciamo perdere che il nome della villa è… indovinate?… Grimwood Hall, e vediamo come è fatta dentro questa inquietante dimora:

hall2“… a tall vestibule widens into a grand HALL”. L’autore, per non ripetere hall ha usato vestibule per identificare il primo locale che incontra Sherlock. Che è sicuramente un ingresso ma che io ho preferito tradurre con “vestibolo” perché mi dava più l’idea di uno spazio di passaggio, il quale si apre su… una sala?, un salone?, un atrio (di nuovo)? un ingresso? Dopotutto trattandosi di una grande costruzione, potrebbe tranquillamente avere un vestibolo seguito da un atrio, oppure aprirsi su una grande sala, o su un ingresso. Insomma, lo sa l’architetto cosa aveva in mente no? L’architetto e l’autore, ovvio. Noi traduttori dobbiamo ingegnarci. Io ho optato anche qui per ingresso.

“All’interno, un vestibolo dal soffitto alto si allarga in un grande ingresso.”

Anche perché da come procede la storia, questo spazio non sembra avere un’utilità particolare ma essere, appunto, solo un disimpegno, di quelli da cui partono i classici scaloni di marmo che vediamo in molte dimore ottocentesche.


5) “Well, the advantage she spoke of had to do with her father giving her anything she wanted, whenever she wanted, whether she asked him from India or sent a servant down the HALL.”

E qui “hall” a mio parere significa chiaramente “corridoio”, ma è più un caso in cui si indica una parte al posto del tutto e quindi ho scelto di trasformare la frase in qualcosa di più naturale per l’orecchio di chi legge.

“Be’… con vantaggi, intendeva che suo padre le concede quello che vuole ogni volta che vuole, che la richiesta arrivi dall’India o attraverso uno dei servitori in casa.”


Questo è il problema, quando una parola in inglese può avere tanti significati in italiano. E non è finita qui. Perché ce n’è un’altra che mi fa impazzire ogni volta che la trovo. Curiosi? Be’, sappiate che ha a che fare con la strada. Provate a indovinare qual è!

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Published on November 26, 2017 23:00

November 12, 2017

Sveglia!

Miracle MorningOggi vi parlo di un manuale che se da un lato promette di fare tanto bene, dall’altro so già mi farà tanto male. Non male fisico. Più una specie di lotta interiore tra… la bambina di buona volontà e l’irriducibile ghiro che c’è in me.

Parlo di:


THE MIRACLE MORNING

Trasforma la tua vita un mattino alla volta prima delle 8.00


Prima delle 8.00 di mattina? Io prima delle 8.00 preparo già la colazione alla famiglia; controllo che chi ha ginnastica a scuola si sia messa la tuta e non la gonna di paillettes e che chi ha la verifica di latino abbia infilato in cartella il dizionario oltre alla bustina dei trucchi; faccio trecce, trovo occhiali, raduno avvisi, buoni, quaderni e diari; e magari ci infilo pure un bucato. La prospettiva di poter anche “trasformare la mia vita” non so perché ma mi mette un filo di ansia. Cioè, trasformare la vita è un progetto ambizioso. E se non ce la faccio perché sono troppo impegnata a caricare la lavastoviglie mentre mia figlia mi ripete la lezione su Guy Fawkes?IMG_2622

D’altra parte, se qualcuno ha scritto un libro su un argomento del genere significa che qualche buon argomento dalla sua parte ce l’ha. E infatti la lettura non mi ha delusa. Anche se parte da un presupposto che richiede da parte mia un grandissimo sforzo di volontà.


Puntare la sveglia un’ora prima


Vi svegliate alle sette? Da domani in piedi alle sei! Vi svegliate alle sei? Preparatevi all’idea di buttarvi giù dal letto alle cinque!

Per una che come me ha bisogno di quelle otto, nove ore di sonno minime, capite che la cosa pone già un dilemma. A meno di andare a letto prima delle dieci, svegliarsi alle sei significa vivere in uno stato di privazione di sonno continuo. Sarà un sacrificio che vale la pena fare?

Secondo l’autore, Hal Elrod, sì. E lui è uno che la sua vita l’ha trasformata, eccome, in modo eclatante. Morendo per ben sei minuti a causa di un incidente automobilistico a vent’anni. Quando il suo cuore ha ricominciato a battere e i suoi polmoni a incamerare aria, si è risvegliato con undici ossa fratturate e danni permanenti al cervello. Nonostante ciò ha reagito e ha continuato a vivere, meglio di prima.

Davanti a un’esperienza del genere, ammetto che le mie otto ore di sonno mi sono sembrate subito una sciocchezza e puntare la sveglia un po’ prima la mattina un piccolo sforzo che valeva la pena di fare. Ma per fare cosa (la ripetizione è voluta.)

Dunque, la teoria di Hal è questa: il 95% di noi si accontenta. Desidererebbe di più dalla sua vita ma non fa nulla per ottenerlo. E il motivo per cui non fa nulla per ottenerlo è che pensa di non avere il potenziale necessario. Insomma, quel miracolo della vita che eravamo da neonati, si è trasformato in una specie di apparecchio difettoso che non è più possibile restituire alla fabbrica. La maggior parte di noi vive con lo sguardo sempre puntato su uno specchietto retrovisore. Vediamo chi eravamo e pensiamo di essere ancora quelli, condizionando il nostro presente sulla base delle limitazioni del nostro passato. Se ci troviamo davanti a un’opportunità ci diciamo «mmm, no la volta scorsa è andata male, meglio lasciar perdere». O non sappiamo esattamente cosa vogliamo. O ci alziamo la mattina e andiamo a letto la sera senza aver mai reagito a uno stimolo. O pensiamo che ogni cosa che facciamo o non facciamo rappresenti un episodio isolato: oggi dormo un po’ di più, oggi salto la palestra, oggi mangio una fetta di torta, oggi non studio, come se tutti quegli “oggi” e “stavolta” fossero sospesi in una bolla temporale e non fossero tutte perline che inanellate una dopo l’altra formano la nostra vita.

Hal ci dice che se invece vogliamo entrare a far parte di quel 5% che è soddisfatto e vive la vita che ha sempre desiderato, dobbiamo fare in modo di meritarcelo.

Noi infatti attiriamo il tipo di vita che ci meritiamo. E per meritarcene una migliore dobbiamo diventare migliori. Quindi, dobbiamo trovare il tempo per migliorarci.


Ma io non ho tempo!


Questo è quello che diciamo sempre, vero? Siamo così impegnati a fare un sacco di cose per essere felici, che non abbiamo il tempo di fare le cose che ci renderebbero davvero felici. Rileggete, prego. Non è uno scioglilingua, è la verità.

Perché per essere felici bisogna principalmente essere migliori. E il tempo per essere migliori lo troviamo, indovinate?, puntando un’ora prima la sveglia la mattina.

Non so se vi ho convinti, ma mettiamo di sì. Ora, come potrebbe quest’ora in più rendervi migliori e non degli zombie che ciondolano in ufficio, al supermercato o che si addormentano al volante mentre sono fermi a un semaforo?

Usandola per mettere in pratica quelli che Hal chiama Life S.A.V.E.R.S.

Che ci vogliamo fare? Anglosassoni amano gli acronimi. Perciò queste tecniche salva vita sono il Silenzio, le Affermazioni, le Visualizzazioni, l’Esercizio fisico, la Ricerca (inteso come approfondimento e quindi lettura) e la Scrittura.

Nel libro Hal spiega cosa intende con ogni attività e per quanti minuti va svolta. Brevemente, per Silenzio, Affermazioni, Visualizzazioni e Scrittura bastano cinque minuti ad attività. Poi venti minuti di Ricerca e venti di Esercizio. Ecco finita l’ora.IMG_2600

Con questo piccolo programma Hal ha condensato tutte le pratiche più efficaci che garantiscono una crescita personale. Trovare la pace interiore, visualizzare gli obiettivi che si vogliono raggiungere, convincersi di poterlo fare, coltivare un corpo sano e nutrire la mente. Sfido chiunque a non sentirsi una persona migliore, dopo.

The Miracle Morning è uno di quei manuali che può dare risultati strabilianti a seconda dell’impegno con cui si seguono le indicazioni che contiene. Mentre lo leggevo, la parole di Hal mi suonavano vere, convincenti. E alla fine mi sono detta, be’, perché non provare? Dopotutto, perché The Miracle Morning diventi un’abitudine basta tenere duro per 30 giorni (sì, sabati e domeniche comprese, magari senza svegliarsi proprio alle sei di mattina, ma scordatevi di poltrire fino a mezzogiorno!). Inoltre si tratta di un programma personalizzabile. Potete eseguire le attività nell’ordine che preferite. O addirittura praticarle per un minuto ciascuna, se i tempi sono davvero tanto stretti e non avete alternative. Sei minuti sono meglio che niente.


Perciò… io domani mattina punterò la sveglia alle 6.00.

E voi?


Per andare a letto soddisfatti, occorre svegliarsi ogni mattino determinati.


GEORGE LORIMER


 


Livello di utilità potenziale:      Valutazione 4


The Miracle Morning, Hal Elrod, Macro Edizioni, 2016 Trad. Manuel Guerrieri

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Published on November 12, 2017 23:00

November 7, 2017

Ma quanti libri compri?!

IMG_2512Uno dice, vado in libreria a comprare un libro.

E fin qui, nulla di male. L’editoria è in crisi, non legge nessuno (il 57,7% degli italiani, nel 2016 non ha letto nemmeno un libro… ma come fanno, mi dico io, come?!), le librerie scoppiano ma nessuno ci entra a meno che sia Natale, per comprare l’ultima biografia del vip di turno scritta probabilmente da un ghostwriter. Quindi bene, no?, se uno dice vado in libreria a compare un libro.

Il problema è se lo dici oggi, e poi domani, e poi dopodomani.

Il problema è se UN libro a un certo punto diventano DUE libri, TRE libri.

Il problema è se vado in libreria diventa vado in libreria E su Amazon E su Kobo E al Libraccio.

Perché il rischio è che di colpo i libri comincino a moltiplicarsi in modo incontrollato. Avete presente l’incantesimo Geminio in Harry Potter e i Doni della Morte? C’è una scena in cui Harry, Hermione e Ron entrano nella camera blindata della famiglia Lestrange nella Gringott, la banca dei maghi. Lì, gli oggetti preziosi sono protetti dalla maledizione Geminio, per cui tutto quello che viene sfiorato si moltiplica di botto, a gran velocità.

Ecco, non so da voi, ma in casa mia succede un po’ la stessa cosa. I libri si moltiplicano. Di loro spontanea volontà. Ancora prima che io riesca a leggerne uno, ne compaiono due nuovi. Minimo. Tanto per dire, quelli che vedete nelle foto, sono tutti libri ancora da leggere!



http://www.edytassi.it/wp-content/uploads/2017/11/Harry-Potter-and-the-Deathly-Hallows-Part-2-The-Gemino-Curse.mp4

Diciamolo, però, la magia non c’entra nulla. Il vero problema sono io. Che non riesco a resistere alle librerie. Di nessun tipo. Ogni volta che ne vedo una, devo entrarci. Che sia sulla strada, che sia in un centro commerciale, che sia tutta luccicante come la caverna di Alì Babà o misteriosa e intricata come il Cimitero dei Libri Dimenticati. Tanto che mio marito ha cominciato da un po’ a studiare percorsi alternativi per passare dal punto A al punto B senza incappare in una libreria, perché sa che altrimenti dovrà portare pazienza per un venti minuti buoni mentre io scartabello, osservo, annuso.

Secondo me, se lo avesse saputo prima, avrebbe fatto stilare un accordo prematrimoniale con una clausola sola, nella quale mi sarei impegnata a non entrare in più di una libreria alla settimana, possibilmente mai in sua presenza!

Invece deve accontentarsi di alzare gli occhi al cielo e sbuffare.

Ma perché provo sempre questa smania di comprare libri?

Ho provato a rifletterci su e ho trovato sei possibili giustificazioni (che mio marito conosce a memoria e alle quali ormai non crede più) o tipi di acquisto.


Acquisto logico: compro libri perché mi piace leggere e guarda caso è appena uscito l’ultimo romanzo di uno dei miei autori preferiti. Fin qui nulla di particolare, giusto? Salvo che la logica nel mio caso tracima nell’epicureismo, visto che, in tutta onestà, secondo me leggere è uno dei massimi piaceri della vita. Nulla mi dà più soddisfazione che avere un libro tra le mani. Più che mangiare un cioccolatino, più che vedere un film in anteprima, più che cucinare una torta, più che comprare dei fiori, più che prendere il sole sulla spiaggia, più che… (sì, anche più di quello! Lo so, il vostro pensiero è corso a mio marito).IMG_2514

Acquisto estetico: esatto, non resisto a una bella copertina. Sarò superficiale, frivola, fate voi. Però mettetemi davanti al naso un libro con una bella copertina e quanto meno è sicuro che lo prenderò in mano per leggere la sinossi. Da lì, il passo per arrivare alla cassa, si sa è breve.

Acquisto obbligato: devo leggere quello che si legge. Quello che va di moda leggere. Eh, perché da quando ci sono i libri di moda, quelli che li hanno letti tutti e non puoi non leggerli proprio tu, quelli che, tanto per essere chiari, ti ritrovi sulla porta della libreria, che ti vengono incontro da soli già con lo scontrino infilato tra le pagine; quelli in cui inciampi al supermercato tra la corsia dei deodoranti e quella delle spezie (chissà con che criterio); quelli che trovi all’autogrill dove entri per bere una spremuta e i tornelli all’uscita non girano se non hai comprato almeno un libro. Lo ammetto, ogni tanto qualche acquisto di questo tipo ci scappa. Non è scontato che arrivi fino in fondo, ma di solito mi impegno per farcela. Il che mi garantisce un certo numero di argomenti di conversazione, pro o contro il libro, quando mi trovo tra amici e colleghi.

Acquisto professionale: devo leggere di tutto per lavoro. Metti che mi danno da tradurre un giallo?, metti che mi danno da tradurre un manuale di giardinaggio?, metti che mi danno da tradurre un romanzo dove lei fa la becchina? O lui il fachiro? Devo leggere di tutto perché fa professionista, fa cultura, fa bagaglio (mio marito direbbe “fa zavorra”).

Acquisto “Quando ti ricapita”: l’offerta intendo. Chi può resistere all’offerta? Ormai anche le librerie digitali hanno sposato le strategie di marketing dei supermercati, per cui ci sono gli 1+1, i 3×2, i sottocosto, le svendite, le promozioni natalizie e quelle di Pasqua. Un canto di sirena a cui, diciamolo, una come me, già sensibile all’articolo a prezzo pieno non può certo resistere. Se poi ci mettiamo quelle tecniche da ipnosi che sfiora la circonvenzione di incapace per cui ti dicono: “Hai comprato Non ci lasceremo mai, potrebbero interessarti anche Ti ho lasciata, Mai fidarsi, L’hai voluto tu, Sono stato un Cretino e Sai dove portava l’ombrello mio nonno” una può solo lanciarsi come quei cantanti nei concerti e abbandonarsi alla marea di libri che lo sostiene, gridando Sìììì portatemi dove volete voi!!!! In più i libri digitali non occupano spazio, sono praticamente invisibili. Vuoi mettere il vantaggio?

Acquisto guilty pleasure. Quello che fai anche se non puoi accampare scuse. Lo fai perché a quella categoria di libri lì non puoi resistere. Io, per esempio, non so resistere ai manuali. Chi mi conosce lo sa. Se poi è un titolo che stanno leggendo tutti, con una bella copertina, che potrebbe tornarmi utile nel lavoro e che è pure in offerta, tutto congiura, tutto complotta e a me non resta che arrendermi, felice di portare a casa il libro che, ne sono sicura, cambierà in meglio la mia vita.


IMG_2517Finito qui?

No, perché ci sono i libri da regalare, i libri per le figlie… Quando non posso giustificare l’ennesimo acquisto per me, scatta quello per la progenie, che per ora si è sempre mostrata collaborativa. Forse le figlie hanno capito che per me l’acquisto di un libro rappresenta quella forma di consolazione impulsiva e di appagamento che le altre donne sublimano nel classico rossetto. Tanto che a volte mi precedono e me ne regalano loro uno. Mio marito una volta lo faceva, ma ultimamente ha smesso. Chissà perché!


E voi? Comprate più libri di quanti riusciate a leggerne? Quali strategie avete elaborato per resistere? In casa cosa dicono?

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Published on November 07, 2017 23:00

November 3, 2017

La TraduCuriosità: In vacanza nello… Stato delle Pesche!

peaches-2892013_1920E se vi dicessi che quest’anno andrò in vacanza nello Stato delle Pesche?

Che non è un cugino di secondo grado della Terra dei Cachi di Elio o un pronipote della Repubblica delle Banane di cui parlano spesso i politici. E non significa che andrò in pellegrinaggio tra i coltivatori di drupacee dell’Emilia Romagna.

Perciò, se mi state già vedendo con cappello di paglia in testa, un cesto a tracolla, tra filari di alberi carichi di frutta, pronta ad affettare nettarine in una bacinella di sangria, be’, siete proprio fuori strada.

Perché lo Stato delle Pesche è uno dei cinquanta stati che formano gli Stati Uniti d’America.

Curioso vero?

Ma deve essere uno stato nuovo, visto che non se ne sente mai parlare.

Eppure i telegiornali non hanno annunciato rivoluzioni o proclamazioni di indipendenza da parte di qualche minuscola penisola americana, di qualche valle sperduta, di qualche anfratto paludoso. Giusto?

Infatti.

Perché lo Stato delle Pesche, non è altro che un soprannome. Dello stato della Georgia.

Voi sapevate che tutti (o quasi tutti) gli stati americani hanno un soprannome?

Bene, fino a poco fa, non lo sapevo nemmeno io. Poi, mentre leggevo una rivista inglese, mi sono imbattuta in un articolo che parlava di una fiera di fumetti che si tiene tutti gli anni nel Golden State.

Golden State?

Ovviamente… che ve lo dico a fare? chi mi conosce sa come mi comporto in casi come questo… sono andata a scartabellare su internet e ho scoperto che il Golden State è la California.flag-75047_1920

Non solo. Ho scoperto anche che la maggior parte degli stati americani ha un soprannome, che viene usato addirittura sulle targhe automobilistiche! Un po’ come se noi, sulle nostre targhe, oltre alle classiche lettere e cifre avessimo scritto, che so, Piandina Land, o Knoedel Paradise, o Regione Stambecco, o Terra di O sole mio

Ora, volete conoscere anche voi alcuni dei soprannomi più curiosi degli stati americani? Questi sono quelli che mi sono piaciuti di più:


1) The Last Frontier – L’Ultima Frontiera

2) The Natural State – Lo Stato Naturale

3) The First State – Il Primo Stato

4) The Sunshine State – Lo Stato del Sole

5) The Aloha State (questo è facile, dai!)

6) The Gem State – Lo Stato delle Gemme (o lo Stato Gemma)

7) The Sunflower State – Lo Stato dei Girasoli

8) The Pelican State – Lo Stato dei Pellicani

9) The North Star State – Lo Stato della Stella Polare

10) The Magnolia State – Lo Stato delle Magnolie

11) The Show-me State – Lo Stato di San Tommaso (più o meno!!!)

12) The Silver State – Lo Stato d’Argento

13) The Granite State – Lo Stato di Granito

14) The Garden State – Lo Stato Giardino

15) The Land of Enchantment – La Terra Incantata

16) The Ocean State – Lo Stato Oceano

17) The Lone Star State – Lo Stato della Stella Solitaria

18) The Evergreen State – Lo Stato Sempreverde

19) Palmetto State

20) The Treasure State – Lo Stato Tesoro

21) The Beehive State – Lo Stato Alveare


E per i più pigri, ecco a quali stati corrispondono. Voi però andate a vedere perché!


1) Alaska; 2) Arkansas; 3) Delaware; 4) Florida; 5) Hawaii; 6) Idaho; 7) Kansas; 8) Louisiana; 9) Minnesota; 10) Mississipi; 11) Missouri; 12) Nevada; 13) New Hampshire; 14) New Jersey; 15) New Mexico; 16) Rhode Island; 17) Texas; 18) Washington 19) Carolina del Sud; 20) Montana; 21) Utah.


E la prossima volta che andrete in vacanza, usate uno di questi soprannomi con gli amici. «A Pasqua farò un giro dello Stato dei Pellicani». Oppure, «Andrò a visitare la Terra delle Meraviglie.»

Farete un figurone!!!!

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Published on November 03, 2017 00:00