Fabrizio Ulivieri's Blog, page 136

September 20, 2017

Isole di felicità (Laimes salos) - ottava parte



Con Marijonas non era mai stato facile. Che ci fosse o non ci fosse non cambiava molto la vita familiare.
Solo l’anno che Goda si ammalò anche Marijonas era cambiato.
Fu un anno terribile. Un anno in cui Goda tossiva di continuo tutta la notte. Un anno in cui mai si dormiva. Un anno di dottori, di spese continue, di povertà quasi. Un anno di affannosa ricerca di guarigione che mai arrivava. Un anno di sofferenza, ma forse l’unico anno in cui Marijonas fece il padre. Aveva rinunciato a giocare al calcio, lui che giocava tre volte a settimana.
Aveva smesso di bere birra il venerdì sera davanti alla TV. Aveva anche smesso di mentirle e di uscire con altre donne.
Nella malattia e nella sofferenza di Goda ritrovò un marito, un compagno di vita anche se non di amore. Ma lei aveva smesso di amarlo. Troppe infatti le bugie. Troppi gli egoismi. Sempre anteponeva se stesso, i propri desideri, i propri interessi privati alla famiglia. Spendeva tutti i soldi nella macchina. Si era comprato anche la moto.
Come poteva amare un uomo che pensava solo a se stesso? Che riteneva più importante il proprio piacere (Duok man sekso, dammi sesso, le diceva in lituano il venerdì sera ubriaco davanti alla TV dopo aver bevuto sei o sette birre comprate a Maxima, il supermercato vicino casa). Che anteponeva macchina e motore ai bisogni della famiglia.
Ma quell’anno di malattia di Goda anche Marijonas era cambiato e un po’ Rūta si sentì moglie e marito, sentì l’atmosfera che aveva sempre immaginato e mai vissuto.

L'unica persona che nella sua infanzia le era stato vicino era stato il patrigno. "Essere vicino " non necessariamente implica un senso positivo.
Infatti i conflitti con lui erano stati innumerevoli.
Lui aveva assunto il ruolo del padre, che lei mai aveva avuto, ma lo aveva assunto senza che nessuno gliel'avesse chiesto. Tanto meno Rūta.
Rūta amava andare in bici. Amava pedalare per le strade e le stradine di campagna che circondavano la casa di Utena dove si erano trasferiti alla morte del padre.
Il suo sogno era diventare una ciclista. Voleva correre, diventare una professionista.

- Negalima, non è possibile - le ripeteva il padrino
- Ma perché?
- Sei una donna. Ti diventerebbero le gambe troppo grosse. Una donna con i muscoli delle cosce così ingrossati è orribile
La disturbava che quell'uomo, che non era il padre, potesse decidere della sua vita. Non lo accettava.
Sembrava avesse il cuore di pietra.
Mai avrebbe immaginato che anni dopo, quando ormai era una mamma, quando Marijonas a febbraio - dopo quella notte che era nevicato e le vie si erano ghiacciate per il freddo - aveva lasciato la casa e lei si era seduta sul divano e aveva aperto felice un libro e aveva finalmente respirato - mai avrebbe immaginato di ricevere una chiamata da quell'uomo.
- So che Marijonas se n'è andato – le aveva detto - So quanto hai sofferto a causa sua...non era l'uomo per te l'ho sempre pensato...solo che tua madre voleva che ti sposassi. Per lei bastava che ti sposassi…a lei non è mai importata la felicità di nessuno...meno che mai la tua

Anche lui aveva lasciato sua madre, si era risposato e ora viveva a Vilnius come Rūta.
Ma suonavano strane quelle parole "meno che mai la tua". A Rūta non era mai parso che lui, come sua madre, volesse la felicità di lei. Perché ora la cercava e voleva il contatto? Perché non le aveva parlato così quando era piccola e aveva bisogno di comprensione? Che voleva ora? 
Ci fu un’altra volta che Rūta voleva fare nuoto, a livello agonistico, ma lui di nuovo glielo proibí.
- Ti verranno le spalle troppo grosse. Non va bene per una donna 
Aveva preso a telefonare spesso dopo quella notte di febbraio. Voleva sapere di lei, delle "principesse", come lei chiamava Goda e Rebeka.
Si informava della sua salute, del suo lavoro.
Stranamente quando gli disse che aveva cambiato lavoro e non era più al ministero il suo commento fu 
- Hai fatto bene. Non era il tuo lavoro

Fu sorpresa. Come poteva essere cambiato così?
Ultimamente veniva a casa e le portava verdura o frutta di stagione. Aveva un orto sulle colline fuori Vilnius e da dopo che era in pensione era quasi il suo lavoro.
Per tutti quegli anni lo aveva sempre pensato come un nemico, adesso si presentava invece con la faccia da amico.
Si sentiva spaesata. Lui si comportava come se il passato non fosse mai esistito. Ma era esistito. Rūta non aveva dimenticato, per questo ora si sentiva confusa e disorientata dal comportamento di quell'uomo.
Lui era cambiato. I suoi tratti si erano addolciti, quasi che finita l'era dell'occupazione sovietica fosse concesso a chi voleva cambiare che potesse cambiare e dimenticare.
Non aveva più il volto arcigno e l'aria autoritaria dell'inizio anni Novanta.
Ora le sembrava un pacifico abitante di Vilnius, dall'aspetto bonario. La sua voce ugualmente aveva perso quel tono militare secco. Ora aveva un timbro affaticato, stanco di vivere in un mondo che non riconosceva più adatto al suo suono di una volta.
Talora Rūta stentava a riconoscere il patrigno nell'uomo che veniva la sera a casa a portarle verdura o frutta.
E la sua confusione aumentava. La sua indecisione pure.



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Published on September 20, 2017 07:44

September 19, 2017

Amore šaltibarščiai e pomodori rossi: biografia di un amore dall'interno (quattordicesima puntata)

Foto Živile Abrutytė
Le ragioni dell’amore e dell’essere

L’avevo mai idealizzata Austėja?
Idealizzare suppone un non vedere (o non voler vedere) attraverso una persona, e comunque anche vedendo sorgono un paio di problematiche

1) È ciò che vedo ciò che realmente vedo o è il mio occhio che proietta sul sistema che vedo il mio sistema?
2) Se anche ammettessi che ciò che vedo è realmente quello che vedo a che porterebbe? Viene sempre un momento che si deve scegliere e fare un salto. O A o B. Un terzo non si dà

Secondo la fisica quantistica poi le due cose non si escludono ma rimangono collegate. Nel primo caso è certamente l’occhio dell’osservatore che causa (collassa) l’osservato. Nel secondo caso A e B potrebbero rimanere in collegamento (entangled) e continuare a influenzarsi a distanza.
Se l’avevo idealizzata il motivo poteva essere uno solo: per sfuggire il cinismo che mi teneva prigioniero. Quel cinismo per cui vedevo il mondo come lo vedevo: un mondo di animali, di maschere di carne, carne senza spirito, esseri umani come risultati di programmi quantici che costituivano l’andamento del mondo…non un Dio, non una religione che sono credenze devianti, o come li definisce Richard Dawkins “parassiti della mente”.
Se dunque l’avevo idealizzata in che consisteva quella idealizzazione?
Non avevo dubbi: in lei vedevo la pace. In lei cercavo la pace che non trovavo in nessun luogo. Quel confronto a Belgai, in Rūdninkų gatvė, mi aveva fatto capire che se pace vi era, stava sopra un fuoco che covava, un fuoco in perenne ebollizione, un magma sempre attivo.
Eppure quel magma stava sotto e sopra si vedeva solo la pacifica cupola di un vulcano inattivo.
- Ar galiu paprašyti vienos paslaugos?
- Sì, certo
- Ma come si dice in italiano?
- Che cosa?
- La mia domanda
- “Posso chiederti un favore?”
- Bene..posso chiederti un favore?
- Dimmi
- Potrai avere sempre pazienza con me e sopportarmi nelle mie lune?
- Ci proverò – risposi

Ci si innamora senza nemmeno conoscere perché ci si è innamorati. E questo è sempre effetto del desiderio di chi vuole innamorarsi. Eppure un’interazione deve pur esserci fra il soggetto intenzionato a innamorarsi e l’oggetto disposto all’innamoramento.
Il sistema in cui oggetto e soggetto si muovono in relazione potrebbe chiamarsi “seduzione”.
Io credo che la seduzione sia quello spazio in cui due persone vengono a contatto e possono in un certo senso predire i loro movimenti: capire che alla mossa A ne corrisponderà in correlazione B, o a C corrisponderà D. La predizione costituisce così l’ambito della seduzione. Sì è sedotti perché nascono correlazioni di comportamento per cui l’uno non sarà più in grado di concepire (predire) i suoi sentimenti senza l’altro.
Inizialmente la predizione era orientata da alcuni punti di partenza:

io) Desiderio di pace in me
Austėja) Voglia di pace in lei
io) Desiderio di comunicare il mio desiderio in quella lingua
Austėja) Voglia di imparare una lingua (italiano) in lei
io) Desiderio di fuggire da un amore che mi aveva rovinato la vita
Austėja) Voglia di rompere una relazione con un marito inadatto al suo stile di vita
io) Salvarmi dal cinismo che mi rendeva la vita senza gusto
Austėja) Voglia innata di offrirsi, offrire e soffrire
io) Bisogno di una via di uscita
Austėja) Bisogno di una via di uscita

Questa riflessione sull’entanglement (come si direbbe in fisica quantistica) fu generato da una frase che Austėja mi recitò in lituano in quel confronto a Belgai: kartais nepasitikėjimą kitu skatina nepasitikėjimas pačiu savimi (a volte la sfiducia nell’altro genera la sfiducia in se stessi).
Mi fece capire come ci fosse sempre una correlazione fra due che si seducono o si separano. Mi fece capire che nella base dell’uno già ci deve essere possibilità di correlazione per l’altro.
Credo che nessuna di queste riflessioni sarebbe venuta fuori se a Vilnius non avessi passato i miei pomeriggi a leggere in una libreria di Gedimino prospektas, alle cui finestre stava una frase che esprimeva bene l’essenza di quella libreria

Meilė knygoms ir kavai[1]

In effetti riflettevo sull’amore fra me e Austėja leggendo libri e bevendo caffè.
Mi resi conto che in Italia la mia produttività era dimezzata rispetto alla Lituania. L’amore per Austėja mi aveva trasformato in un instancabile cacciatore di ragioni su perché un amore divenga tale. E in quella caccia che avveniva in un territorio ignoto e straniero, Gedimino prospektas, sembrava che la mia capacità di individuare la preda fosse aumentata per non dire triplicata.
Avevo imparato un’arte sconosciuta: saper amministrare e dosare più attentamente i miei pensieri.
Nell’atmosfera natalizia che illuminava Gedimino prospektas anche i miei pensieri si illuminavano. Il mio cinismo anche si decolorava.
Non ero più chi ero stato ma qualcun altro con il mio nome che stava fuggendo da se stesso oltre che dalla sua terra e che forse un giorno avrebbe definitivamente ucciso quel se stesso da cui fuggiva.

Quanti sé possono esserci in un sé?

In me ne avevo ora individuati almeno due. In Austėja una miriade, almeno la miriade che era pari allo spezzettamento a cui riduceva i suoi sentimenti. I suoi baci erano dolci e avvolgenti come la sua lingua e le labbra calde. Erano un modo per entrare in contatto con il calore della febbre che alimentava l’instancabile lavorio di sensazioni che si componevano e decomponevano, coerivano e decoerivano in lei.
Un contatto diretto e profondo, in cui percepivi il sapore del suo essere.
Quel sé inafferrabile e indisponente fino ad un attimo prima lo afferravi ora, nei baci, come docile e ubbidiente.
Eravamo sul filobus numero Sette, di ritorno dal Belgai. Lo avevamo preso alla stotelė, fermata, vicino alla stazione. Il filobus era gelido e quasi privo di passeggeri.
Forse spinta dal freddo e dai piedi infreddoliti per la neve che copriva le strade ed i marciapiedi si avvicinò a me e mi strinse le braccia al collo baciandomi.
Quell’essere (sé) che fino a pochi attimi prima aveva abitato un’area privata e a me estranea decise di aprirsi in quel bacio.
Sentii la sproporzione fra quell’essere muto che aveva abitato nel confronto al ristorante e quello che mi invece si apriva ora, la diseguaglianza fra l’essere che avevo percepito nella distanza e l’essere che percepivo nella vicinanza del contatto fisico. Assumeva la forma di un punto di unione che pareva invitarci alla conciliazione, alla comprensione e alla reciprocità (correlazione).

- Palauk (aspetta)! – mormorò Austėja – quell’uomo ci guarda. Non mi piace essere guardata mentre ti bacio

Ma nonostante Austėja interrompesse il bacio e si distanziasse di poco, quel sé nato dal bacio non se ne andava. Permaneva, stabile.
Aveva aumentato il desiderio per i nostri corpi che sfociava ora in una sospensione apparente che ci faceva sentire l’inconciliabile contrasto di due corpi e di due menti che pur legati entravano in dissidio e si adattavano a quel dissidio.
Ora il corpo predominava, come prima - durante il pranzo - aveva goduto della supremazia un sentimento di sfiducia dell’uno nell’altra che si era insinuato per tutto il tempo come scivolassimo da un universo all’altro.
Ma ora il corpo parlava e nella semplicità di quella gimtoji kalba, lingua originaria, vernacolare, si era operato il riavvicinamento.

Kalba gimtoji – kasdieninė
Tu- duona mums esi, Kai tariam: motina, gimtinė, Dangus – ir mes visi [2]

Lingua e madre - lingua di ogni giornotu - il pane nostro seimadre, terra nativa,cielo - in ciascuno di noi viva                                                                                                                                                                     


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Published on September 19, 2017 08:01

Presentazione di "Rugìle" di Fabrizio Ulivieri alla biblioteca Renato Fucini di Empoli



Biblioteca Renato Fucini, Empoli, Via dei Neri,
Mercoledì 4 ottobre, 2017, ore 19

Presentazione di "Rugìle" L' erudita editore, Roma, 2017di Fabrizio Ulivieri


Il romanzo è stato definito come la sfida italiana a "Cinquanta sfumature di grigio" di E. L. James (pseudonimo della scrittrice Erika Leonard).Una presentazione sicuramente da non perdere.
"Rugìle" si legge tutto d'un fiato. La storia è veloce e concentrata sui rapporti tra un italiano di mezza età, che vive a Firenze, e diverse donne straniere. Una di queste amanti è quella che darà il titolo al libro per la forza tragica con cui affronta la vita e il sesso: Rugile.
Molto singolarmente il personaggio maschile, che non è mai nominato in tutto il romanzo, è fortemente attratto da donne giovanissime e odia le rughe e le donne della sua età, come se rifiutandole lo facesse rimanere giovane per sempre. La sua vita è scandita da donne asiatiche, americane e lituane che gli insegnano l'arte del sesso e dell'amore. C'è un capitolo molto toccante, quello su Ipazia, che racconta la storia d'amore con una bella ragazza coreana, di Seoul, che lavorerà come prostituta a Firenze per superare un complesso edipico con il padre. Nel libro ci sono spesso dialoghi in inglese tra il protagonista e le sue amanti, che sono tradotti in italiano alla fine dei capitoli, trasformando il libro in una eccellente combinazione di italiano e inglese.
"Rugìle" è sicuramente la risposta italiana a "Cinquanta sfumature di grigio" di Erika Leonard

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Published on September 19, 2017 03:31

September 18, 2017

Amore šaltibarščiai e pomodori rossi: biografia di un amore dall'interno tredicesima puntata)

Foto Živile Abrutytė

Un pranzo, il silenzio, il rock e la rabbia


“Mi sembra che tu costantemente hai dubbi su tutto, soprattutto di te stessa…Talora mi sembra che sono io ad averti creato; che mai sei esistita. Che ti ho creato dall’aria, dall’acqua, dalle alghe, dalle scintille e dal rombo quieto oltre le colline di Vilnius” (Jurgis Kunčinas Tūla)
Era difficile a quale dei due lati dovessi guardare, se al suo perenne dubitare di se stessa e di esistere o alla sensazione che osservandola e descrivendola non fossi io a crearla?
Sedevamo a Belgai, un ristorante in Rūdninkų gatvė che faceva cucina belga nel cuore della senamiestis, centro storico di Vilnius.
Non avrebbe potuto esserci luogo migliore in cui Austėja potesse guardare al suo modo di creare capolavori.
Era il luogo dove veniva ogni giorno a pranzo nella pausa. Era un luogo che la rassicurava e dove poteva nutrirsi del cibo che preferiva e la rilassava.
Il suo senso di inferiorità (non mi sento mai bella per te) pareva dileguarsi sedendo al tavolo coperto da un panno bianco sopra una tovaglia rossa.
Il suo modo di soffrire e fare della sofferenza un capolavoro della sua vita, consisteva anche di pause. Questa era una delle migliori pause che io le offrivo, invitandola a pranzo.

Io avevo preso naminiai makaronai su midijomis, pasta fatta in casa con cozze, e Austėja salotos su vyne marinuotomis šiarės jūros krevetėmis, insalata con gamberi del mare del nord marinati nel vino.
Sebbene nel mio piatto vi fosse un’abbondante quantità di formaggio (cosa un po’ strana il formaggio sulle cozze) era una composizione di sapori e gusto di ottima fattura. Assaggiai anche il piatto di Austėja ed era altrettanto buono (elessi poi quel ristorante ad uno dei miei preferiti di Vilnius).
Davanti a quei piatti della cucina belga si fronteggiavano due Sé autentici, questa volta, nudi e presenti alla loro coscienza, sinceri e senza sovrastrutture. Privi di categorie.
Le chiesi del suo passato.

- Dove hai studiato? Dove hai fatto le scuole obbligatorie? a Klaipeda?
- Sì
- E quando ti sei trasferita a Vilnius?
- Quando ho cominciato a fare l’università. Ho affittato una stanza con il mio compagno di allora

Sembrava reticente a fornire risposte. E non ne capivo la ragione. Pensai che avesse qualche emozione da nascondere che non voleva porre su quel tavolo dove sedevamo l’uno di fronte all’altro.

Essere l’uno di fronte all’altro per noi due significava indagarsi, scrutarsi, capirsi, confrontarsi…anche nei momenti migliori dell’amore più intenso.
Forse quel momento non era uno di più intensi. Mi parve neutro. Uno di quei momenti che appartengono a una sospensione, a una pausa: un fermarsi per saggiare la forza dell’avversario e decidere che fare.
Decisi di non insistere. Feci una pausa. Non domandai più niente del suo passato.
Il passato porta ad indulgere, a fare oggetto di compassione chi vive di disistima a causa di un passato che perpetua quella sfiducia. Non volevo divenire compassionevole verso di lei e lei non mi sembrava che me lo chiedesse. Anzi mi pareva che si fosse chiusa in un silenzio dignitoso quanto impenetrabile.
Di una cosa ero grato ad Austėja: non era mai banale. Fin dall’inizio non era mai stata banale. Domande del tipo: che libri ti piacciono? Che musica preferisci? Vai al cinema? Che film ti piacciono?...
Solo una volta che indossava una maglietta con su scritto Foje le chiesi che significasse. Mi spiegò che era il nome di un gruppo rock lituano a cui apparteneva Andrius Mamontovas, il vocalista del gruppo, che lei aveva da sempre amato. Quando il gruppo si era sciolto lei aveva continuato a seguirlo.
A causa di quella maglietta si aprì una parentesi sui nostri gusti musicali. Quasi incidentale. Feci anche io una piccola immersione nella musica rock lituana e scoprii Marijonas Mikutavičius. La sua voce era particolare, aveva un impasto di melodica rabbia e tristezza che cantava con forza la sofferenza che si portava dentro.
Una sua canzone, Balintos sienos (muri bianchi), mi innamorò per la forza della voce e per il dolore che estrapolava

Pasaulis tas kuri tu palikai
Tik balintos sienos, tik balintos sienos
Kai tu iškėlus galvą išėjai
Aš vėl likau vienas, aš vėl likau vienas
Aš vėl likau vienas
Šį kartą amžinai


Il mondo che ti sei lasciata dietro
Muri bianchi, solo muri bianchi
Quando te ne sei andata a testa alta
E io di nuovo solo, di nuovo solo
Di nuovo solo
E per sempre questa volta

Lui come me e come Austėja, lo percepivo dal nostro confronto silenzioso, doveva aver sofferto molto per amore, in un’altra terra diversa da quella da cui venivo, in un’altra lingua, in un’altra mentalità ma che come diceva Saba in La capra
Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore […] il dolore è eterno,
ha una voce e non varia

Cominciai a riconoscermi in quella voce e in quella melodia. Odiavo troppo il genere umano per non sentire la forza del dolore in quella voce, la disperazione di non poter convertire la rabbia in ottimismo, la delusione in illusione, la sfiducia in fiducia.
Davanti ai nostri piatti, in quel ristorante, in un muto confronto si aprirono universi vasti al pensiero, che quasi vi annegava.


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Published on September 18, 2017 07:35

September 15, 2017

Amore šaltibarščiai e pomodori rossi: biografia di un amore dall'interno - (dodicesima puntata)



Mestruazioni e domande filosofiche sulla felicità e altre cose


Forse Austėja non poteva procurare la felicità a molti ma a me sì poteva. Mi induceva alla felicità rimanendo lei depressa.
Condenserei tutto in una parola: passione.
Austėja era febbre e passione. Dalla febbre la passione? In onestà non vedo perché dovrei scollegare le due cose. Non credo che l’una potesse sussistere senza l’altra.
Entrambe mi raggiungevano e mi procuravano felicità.

Faceva dolci nell’orkaitė (forno della cucina) e tagliava fette di torte per me. Mi preparava il caffè la mattina. Mi accoglieva dentro di sé la notte e la mattina. Mi tormentava con le sue domande e la sua gelosia ma alla fine imparavo le sue ragioni e gliene rendevo grazie. E imparavo, ancora.
Non mi soffocavano le sue attenzioni eccessive, le sue domande insistenti e continuative.
Stavo chiuso in un’arca al buio e mi godevo il mondo meglio di prima. Le paure iniziali si dileguavano, lente ma si dileguavano.
L’amore aveva preso una direzione. Andava nel senso che gli avevamo impresso. Speravo solo che la routine non l’avrebbe scalfito.

Come si dice oggi, il nostro amore conosceva la sua propria narrativa.

Era una narrativa che volevo tenere lontano da idee come sposarsi, preoccuparsi per i soldi, avere bambini, tradimenti e bugie, noia e giorni passati in silenzio senza parlare o comunicare per monosillabi.
Questo per me non era amore, era la morte dell’amore.
Per fortuna le sue esagerazioni tenevano in vita l’amore che volevo e non quello che ripudiavo.

Nella gelosia era eccessiva, come in tutto ciò che era emozione e sentimento del resto. Non le bastava che io fossi fedele pretendeva che anche il lato morale e ogni pensiero fossero a lei votati.
Se cucinava, cucinava in eccesso. Per due persone coceva quindici patate. Se faceva il plovas lo faceva per almeno una settimana.
Se piangeva non si limitava ad un’ora ma il pianto perdurava oltre un fine settimana (il suo tempo di maggior depressione).
Amava la musica e in ogni stanza aveva una radio accesa, per cui c’erano in contemporanea quattro radio in attività e due televisioni perennemente accese dalla mattina alla sera. Nel volume era rigorosa però, i decibel erano ridotti al minimo della percezione auricolare.

Il suo luogo preferito della casa era la cucina. In cucina leggeva, preparava la cena, in cucina telefonava scriveva al computer, lavorava piangeva, rideva e pensava.
In cucina facevamo all’amore, spesso.
La cucina era piena del suo sé a differenza di ogni altra parte della casa.
Lì (nella cucina) aveva eretto il suo santuario interiore. Fortificato il suo sé, imparato a stimarsi e avere fiducia in se stessa o a torturare se stessa su domande a cui non sapeva trovare risposta.
E non amava cedere quello spazio nemmeno a me.
Mi ospitava, sì, in quello spazio ma rimaneva esclusivamente suo.

Da ogni spazio mi escludeva nei giorni neri delle mestruazioni. Chi era in quei giorni il demiurgo nascosto che rompeva il mondo e lo spazio circostante a lei? Decideva per lei e parlava per lei?
In quei giorni pareva che ogni pensiero della mente fosse già deciso indipendentemente da lei. I suoi pensieri non guardavano più me ma miravano diretti all’interiorità del suo proprio io e non vedeva niente.
Erano i giorni in cui assaporava di nuovo un’infanzia in cui mai aveva deciso alcunché.

Era nata a Klaipeda.

- La mia infanzia è stata poverissima, vivevo in una casa senza riscaldamento. La temperatura che era fuori era dentro. C’era poco da mangiare. Il piatto migliore era lo šaltibarščiai. Per questo forse lo amo ancora. E’il sapore della mia infanzia

Sembrava un sapore-amore di quella infanzia. I suoi occhi ne conservavano traccia. Mi pareva come un’infanzia che mai passasse ogni volta che mangiava lo šaltibarščiai.
Mi chiedevo che davvero vedessi in lei in quei giorni che le mestruazioni alteravano il suo stato percettivo.
Non vedevo perfezione, ne ero innamorato folle ma non vedevo perfezione in lei. Vedevo la vita come un preludio a una ricerca fatta di fatica che cerca la direzione. Ma era vita, voglia di vivere che vedevo e non negazione di essa, nonostante affermasse di essere disperata.

Come dice Ričardas Gavelis in Vilniaus Pokeris “In giorni come quelli le cose più leggere pesano più che le pesanti e […] mostrano direzioni per le quali non esiste un nome”.

Credo che il suo fascino risiedesse tutto nei suoi occhi azzurri e nelle sue labbra carnose ben contornate. Nella pelle che mi ricordava il burro e nel calore del corpo che produceva la sua febbre intermittente.
E quei tratti così evidenti in lei sembravano salvare la mia vita dal nulla di una visione animale del mondo.

Certo le sue non-direzioni di quei giorni di mestruo incidevano sulla fiducia di una vita insieme con lei e tuttavia sapevo che la sua resistenza ad essere la persona ordinaria che era sempre prima di quei dannati giorni sarebbe presto terminata e le cose leggere avrebbero riacquistato il loro giusto peso e quelle pesanti si sarebbero alleggerite.
Eppure in quell’apparente solipsismo una costante manteneva aperto il filo fra la Austėja pre-mestruazioni e inter-mestruazioni: la generosità. Mai veniva meno la sua generosità. Anche nel momento più nero di quei giorni sapeva sacrificarsi per chi amava, nonostante la frase a bella vista nella sua camera da letto neturi aukotisavo gyvenimo kitiems.

Penso e credo che la generosità fosse la sua essenza. E forse quella generosità era legata al sapore dello šaltibarščiai.
Solo chi ha veramente vissuto in miseria può in onestà conoscere la generosità. La sua generosità era un ricordo, che condizionava il modo di guardare alla vita, talmente impresso nella sua coscienza da determinare la qualità della vita.

Saprò mai se il cielo blu, che io vedo blu, sia in essenza blu o sia in realtà un modo che appartiene programmaticamente alla mia coscienza per cui il cielo è blu e non rosso?
Qualcosa di simile doveva essere per lei. Era possibile programmaticamente che la sua coscienza vedesse il mondo meno generosamente di come lo vedeva?
Perché io coglievo quell’aspetto in modo costante e le altre modalità passeggere rispetto al suo essere Austėja Stašytė e quella qualità come permanente?
Erano domande fondamentali che io mi ponevo in quei giorni di mestruo.



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Published on September 15, 2017 06:48

September 14, 2017

Isole di felicità (Laimes salos) - settima parte


Foto Živile Abrutytė

Com’era suo padre? Onestamente di lui ricordava poco. Ricordava un po’ l’odore di mare che si portava a casa dopo una giornata di pesca sul battello. E si ricordava il profumo di pulito di quando dopo aver fatto la doccia la prendeva in collo prima che andasse a letto.
Di lui conservava solo un paio di foto in cui non era vestito molto diverso dai giovani degli anni Settanta in Europa. Aveva capelli abbastanza lunghi e un paio di baffi lunghi. Portava i pantaloni a zappa di elefante come si portavano in altre parti di Europa. Era un pescatore ma aveva poco del pescatore, sembrava più Frank Zappa che un pescatore di Dreverna.
Questi erano i ricordi che aveva del padre. Erano pochi, come le foto di lui.
Se un giorno si fosse di nuovo innamorata voleva un uomo come suo padre. Un uomo più anziano anche di trenta anni, che gli fosse compagno, marito, amante e padre soprattutto.

Quei pochi ricordi erano legati agli anni che avevano vissuto a Dreverna, vicino a Klaipeda. Vivevano lungo il fiume. Una casa semplice ma con un piccolo giardino, che era il regno di sua madre. Amava piantarvi insalata, pomodori, fragole e soprattutto nel corso degli anni l’aveva riempito di meli. Le mele, obuoliai, erano la vera passione di sua madre. Riempiva la casa del profumo delle mele per tutto l’inverno. Le tagliava e le essiccava per mangiarle nei mesi freddi ma ne produceva così tante in quantità che continuavano a cibarsene anche nel periodo estivo.

Un’altra cosa che ricordava era il poco amore che dimostrava la madre per il padre. Rūta pensava che questa fosse la causa del suicidio del padre. Dopo la morte del padre la madre non aveva più amato Rūta e Rūta ne aveva sofferto insieme alla mancanza di memorie di questo uomo che le appariva più un ideale che una figura veramente esistita.
Avrebbe voluto avere ricordi di questo uomo, di quando la metteva a letto, ricordare l’odore del suo corpo, il sapore dei suoi baci della buonanotte, delle passeggiate per Dreverna (che forse mai c’erano state), dei giochi con lui, della sua voce irata o piena di amore, dell’odore del suo mento dopo essersi rasato, il ricordo della logica dei suoi rimbrotti, il suono del suo sorriso…invece nulla di questo ricordava. Rammentava solo le parole che la madre le aveva riferito quando dopo aver ingerito acido ormai morente ripeté tre volte “Rūta, Rūta, Rūta…”.
E fu tutto.
Come si può vivere senza il ricordo di un padre quando sai di averlo avuto per così poco tempo? Come si può vivere in un ricordo assente e nebbioso? Come si può vivere tutta la vita nella speranza di incontrarlo un giorno negli occhi di un altro uomo?
Amava la musica come lei? Provava così’ forte il desiderio sessuale come lei lo provava? Tu sei come tuo padre
le aveva sempre ripetuto la madre in modo cattivo per prendere distanza dalle sue decisioni.

Che uomo era suo padre? Perché non poteva nemmeno giudicarlo? Non aveva elementi per farlo. Lui era il fondamento del suo male di vivere. Il principio di ogni azione. Il senso di ricerca della vita. In lui trovava la ragione del suo amore per il mare, il fascino per l’acqua e il desiderio di avventura che torturava la sua presente vita di madre che la costringeva ad una vita stanziale.

In tutta la sua vita non era mai riuscita a sognarlo anche se sognarlo era il suo più grande desiderio. Quante notti si era addormentata con quella speranza. Quante mattine si era svegliata con la delusione di non avere fatto quel sogno…

Cercava di immaginare quel padre con i capelli lunghi e i pantaloni a zampa di elefante come qualcuno che avesse avuto il coraggio di sfidare il regime sovietico. Pensava che anche lui come tanti alla fine degli anni Ottanta avesse osato andare contro il regime, quando Mikhail Gorbachev aveva adottato la politica della Perestroika e della Glasnost.

Aveva sempre immaginato il padre come un uomo ribelle e coraggioso. Anche lei si sentiva così. Doveva aver ereditato quei tratti dal padre. Non potevano esserle venuti dal nulla. Sua madre era esattamente l’opposto di lei. Di sua madre non aveva ereditato nulla. E ne era felice.

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Published on September 14, 2017 13:49

Cecilia - Storia di una spia aliena a Firenze

                                                                      


I soldati, pertanto, non hanno una posizione fissaL’acqua non ha una forma costante,ed è un miracolo essere in grado di ottenere la vittoriain risposta ai cambiamenti del nemico (Sun Tzu)



Ancora un altro chilometro!
Correva sul lungarno Vespucci.
Era smesso di piovere da poco. Si era rifugiata per una decina di minuti dentro un portone dalle parti dell’Ambasciata Americana evitando di rimanere inzuppata.
Ora il cielo si era aperto e si era sollevata l’afa. Era pur sempre luglio anche se quell’anno le era stato detto che il vero caldo non era mai venuto. Un’estate fresca la chiamavano.

- Ancora un altro chilometro e poi ho finito!

Ansimava. Da quando era a Firenze soffriva di stanchezza cronica. Ne incolpava l’alimentazione. Non un giorno senza pasta e vino, lei che a Detroit mangiava sempre insalate frutta e yogurt e quasi mai beveva vino.

Ora correva sul lungarno Corsini. Stava passando davanti a Palazzo Corsini ed era ormai in vista di Ponte Santa Trinità. Avrebbe svoltato a destra e attraversato il ponte, puntato verso via Santo Spirito, l’avrebbe percorsa tutta fino al ristorante Il Santo Bevitore, poi avrebbe preso a sinistra per via de’ Serragli, ancora cinquanta metri e avrebbe curvato a destra in direzione di via Santa Monaca, il luogo che da due mesi aveva eletto come centro delle sue uscite.

Tutte le mattine era quella sofferenza. Non le era concesso diversamente. La notte e poi la mattina. La mattina era per eliminare le scorie. Correva come forma di autorigenerazione. Correndo ricaricava energia ed eliminava le scorie accumulate da una diversa alimentazione e modo di vivere a cui riteneva di non essersi completamente adeguata.

Eliminava le scorie. Puliva la mente.

Chi avrebbe potuto sospettare di lei?

Nessuno.

Aveva l’aria da perfetta ragazza americana per bene, next door girl, ma non era come gli altri. Gli altri li evitava. Preferiva non incontrarli anche se sapeva dove trovarli.
Stanotte sarebbe stata un’altra notte. E domani un’altra mattina.
Il giorno non faceva nulla. Si preparava alla notte e pensava. Mangiava. Dormiva. O forse dormiva mangiava e pensava. Ed era il momento peggiore. Era quando i dubbi l’assalivano.

Vivere a Firenze era diverso da Detroit. Detroit era una città lunare. Il suo fascino le derivava dall’abbandono e dalla fatiscenza, dai suoi impianti industriali spettrali e mostruosi. Firenze era la Bellezza e l’Arte, la città dalle volumetrie e dalle forme simmetriche, la città dell’estetismo rinascimentale per eccellenza.

Non era abituata a percorrere tutte le distanze a piedi. Poteva sembrare ridicolo ma era così. Poteva sembrare ridicolo perché lei era un’atleta ed ogni giorno correva almeno un’ora, faceva boxing da anni ed era arrivata a livello professionistico e giocava al calcio fin dall’epoca del college. Eppure non vi era abituata. A Detroit era sempre in macchina. Usciva di macchina ed entrava in un mall, usciva da un mall ed entrava in macchina, era a casa o all’università o dentro uno Starbucks a studiare. Non sentiva la vita a Detroit. A Detroit si viveva incapsulati.

Qui la gente viveva per strada. Si camminava a piedi per raggiungere qualsiasi punto della città. Nel centro non c’erano macchine. Se stavi in casa con le finestre aperte sentivi i vicini parlare dall’appartamento accanto, alla notte percepivi i passi dei pedoni sul lastricato e le urla di giovani che avevano bevuto…qui la vita si muoveva nell’aria e nel sole che ti baciava la pelle…

Da quando le avevano chiesto di trasferirsi a Firenze la sua vita aveva cominciato a cambiare.
Non sapeva come, ma stava cambiando. Era felice e piú rilassata allo stesso tempo, inquieta però. Aveva un compito da svolgere qui. Era qualcosa di nuovo e non sapeva come. Studiava gli esseri di questa città. Li osservava. Li analizzava e li scannerizzava. Ne rubava i dati e li memorizzava. Aveva una capacità di memorizzazione eccezionale. Fuori dal comune. Il suo IQ era uno dei piú elevati della razza a cui apparteneva.
Poteva leggere la digitazione di un PIN da lontano ed alla rovescia. Le bastava puntare con gli occhi qualsiasi documento e subito poteva visualizzarlo in modo da ricordarlo.
A Firenze vivevano in apparenza gli stessi esseri che popolavano Detroit ma erano diversi. I sapori erano diversi. La lingua. Il modo di parlare. Gli odori per la strada. Ogni città ha i suoi odori, quasi avesse una vita a prescindere da chi la popola e l’abita. Qui parlavano soprattutto con le mani e con il corpo.

La colazione era diversa. Si faceva il pranzo e la cena. Si abbinavano vini a cibi come avesse un senso religioso abbinare il vino giusto al cibo giusto per combinare insieme due energie opposte che si annullavano nella perfezione.

Dopo anni trascorsi a Detroit stare qui era pari ad essere caduta su un altro pianeta. Era un altro pianeta, infatti. Un altro mondo, diverso da quello da cui proveniva.

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Published on September 14, 2017 07:47

September 13, 2017

"Il sorriso della meretrice" - Interview with the writer Fabrizio Ulivieri in "Florence is you"



The classic question: how did the book start?

It has been bred by the belly. Not by the brain. The stomach is a second brain in all respects. It is able to think independent- ly of the first brain, that of the skull, to be understood. For this reason, the book has dark tones, this brain – the stomach – works in the darkness and in silence. As the fecal matter the protagonists also looking for a way out. A lumen beyond the orifice from which they communicate between their inner world and the outer. It‘s a book born mainly at the end of a love affair, passionate but negative because of a woman who apparently was bad but I thought was good. Instead she was really bad while looking good. A belly centered woman, of basic feelings: eat, drink, fuck and defecate. And a less more …
(Read more)....





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Published on September 13, 2017 14:17

"Rugìle" di Fabrizio Ulivieri recensito da Il "Marco Polo" giornale della comunità italo-canadese per il Canada

Il "Marco Polo" giornale della comunità italo-canadese per il Canada recensisce "Rugìle", di Fabrizio Ulivieri, L' Erudita editore, Roma, 2017.

La recensione, in inglese è di Anna Ciampolini Foschi, scrittrice e giornalista italo-canadese. Di "Rugìle" dice: “The novel’s genre was rather new to me. Writing a review from my point of view was an interesting experience.”

Go to the review...

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Published on September 13, 2017 06:05

September 12, 2017

Amore šaltibarščiai e pomodori rossi: biografia di un amore dall'interno - (undicesima puntata)

Foto Živile Abrutytė

Se per dilettante si intende una che faceva foto con il Samsung, sì, allora era una dilettante ma se professionista è qualcuno che fa foto che ti provocano sensazioni profonde a guardarle, allora Austėja era una professionista. Per intensità emotiva non trovavo un fotografo che la uguagliasse.
E tuttavia lei si sentiva esclusa dal mondo della fotografia, non sentiva di appartenervi. Trovava degradante non avere una “camera” come diceva lei e fare invece foto con il Samsung.
Riteneva che il fatto di fare foto con un telefonino portasse a non apprezzarle.

- Le foto devono essere apprezzate per il loro intrinseco valore e non per il mezzo che le produce – le ripetevo, ma lei non era convinta, ed era inutile che glielo ripetessi. L’atto di ripeterglielo non faceva che fortificarla nella sua convinzione.

Per lei le foto “vere” dovevano essere fatte con la “camera” e non con un cellulare.
Avrei potuto raccontarle di Miroslav Tichý, fotografo cecoslovacco, che fra gli anni Sessanta e Ottanta scattò migliaia di fotografie con una macchina fotografica fatta in casa utilizzando scatole di scarpe assemblate con tubi di cartone e lattine, nastro adesivo, tappi di bottiglia e lenti di plastica che si dice lucidasse con il dentifricio.
Avrei potuto certamente, ma Austėja nella sua natura era irremovibile e poteva cambiare opinione solo in virtù di una meditata e dolorosa sofferenza. Io ero troppo innamorato di lei e non volevo causarle alcun patimento non necessario. Perciò tacqui.

Difficile quantificare le repulse di Austėja e in particolare il fondamento di queste repulse. La croce dei suoi dolori stava nel punto di vista, per cui privilegiava sempre il particolare all’apparire della cosa nella sua totalità e di conseguenza ne fissava solo alcuni aspetti.
Certamente questo radicarsi nella singolarità perdendo di vista la totalità le procurava uno stato di frequente depressione e da cui poteva uscirne come da una febbre alta dopo che si è presa la tachipirina.

Era questa febbre intermittente la causa dei suoli mali? Ve ne poteva essere un’altra?

Una volta un mago coreano, che avevo incontrato a Firenze verso la fine degli anni Novanta, mi aveva detto che la forza della mia creatività era nella malinconia del mio carattere.
In Austėja, mutatis mutandis, era la febbre?

Credo di sì.

Ma che le faceva mettere nelle sue foto questa febbre a fasi alterne?
Non ho difficoltà a rispondere a questa domanda: la verità di se stessa.

- Nelle foto io sono la vera Austėja

Era la frase che costantemente ripeteva ogni volta che doveva affermare il valore di se stessa. E le foto erano tante finestre che aprivano la sua verità sul mondo.
Nelle foto non cercava bellezza ma l’affermazione di se stessa, di Austėja Stašytė. Cercava l’affermazione della propria identità, come la sua terra, la Lituania. A me sembrava che la Lituania fosse ancora un paese identitario, non come l’Italia che mi lasciavo alle spalle, un paese globalizzato in preda al “chi?”, “dove’”, “quando?”…al chaos, all’indeterminazione e mescolanza, alla sostituzione etnica, allo spaesamento, alla bruttura, all’odio, rabbia e superficialità... E impossibilitata dalle sue stesse categorie a reagire.

Io da Austėja e dalla sua terra imparavo. Imparavo molto e mi ricentravo dalle distorsioni storiche che mi avevano accompagnato per più di cinquant’anni.



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Published on September 12, 2017 05:57