Fabrizio Ulivieri's Blog, page 138

September 1, 2017

Rugìle reviewed in Canada!






Shortly Rugìle will be reviewed in Canada by Anna Ciampolini Foschi 
Anna Ciampolini Foschi lives in Vancouver, British Columbia. She is a short story writer, anthology editor and journalist. She is a co-founder of the Association of Italian Canadian Writers and the co-founder and co-Chair of the F.G. Bressani Literary Prize, sponsored by Vancouver’s Italian Cultural Centre. 
About Rug íle, she says: “The novel’s genre was rather new to me. Writing a review from my point of view was an interesting experience.”




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Published on September 01, 2017 07:24

Amore šaltibarščiai e pomodori rossi: biografia di un amore dall’interno - (quinta puntata)


Foto Zivile Abrutyte


Ezòpinė kalba
Vyatutas Kubilius nella Lietuvių literatūros enciklopedija definisce l’ezòpinė kalba così “Linguaggio esopico, uno stile di sensi figurativi di chi nasconde idee contrarie al regime in atto e costruisce, usando metafore, allusioni e parafrasi, un' opera a senso doppio incomprensibile al pubblico e alla censura. Linguaggio tipico delle letterature dei paesi a regime totalitario”.
Identificare certi atteggiamenti storici (sistemi complessi) nell’atteggiamento di persone (sistemi semplici) mi portava a rintracciare nella donna che amavo i tratti storici che altri (filosofi, poeti, scrittori, storici) avevano altrove evidenziato.
Era come comporre un puzzle guardando il dipinto intero della figura da ricomporre e collegare manualmente e mentalmente ciascun pezzo a molti altri per collegarsi all’idea totale che domina ciascun pezzo.
In lei riconoscevo molti dei tratti che andavo scoprendo di quel paese, soprattutto con il passato sovietico.
In una persona che amavo ritrovavo i tratti storici di un’epoca, come in me ritrovavo i mali di un’Italia storicamente unificata male.
Questo continuo procedere per confronti mi apriva a una maggiore sensibilità, a una maggiore visione interiore (insight), e migliorava la mia capacità di osservazione.
In realtà da quello che mi spiegava Nerija Putinaitė, la filosofa lituana che mi accompagnava in questa scoperta del quotidiano storico stratificato, l’ezopine kalba aveva un ambito molto limitato, che non andava oltre l’espressione di emozioni a livello artistico, poetico, drammaturgico, e forse personale. I contenuti di resistenza al regime sovietico erano stati invece veicolati dal movimento di rivolta Sąjūdis.
L’ezopine kalba era una forma di libertà artistica di espressione dei sentimenti e delle emozioni elevate a necessità di presa di forma in un modo che il regime tollerasse, e che oggi ancora ha il suo effetto in chi cerca di sopravvivere alla realtà attuale: nenutrūkusi styga, un filo ininterrotto.

Amore e šaltibarščiai 
Il mio amore in verità non parlava l' ezòpinė kalba. Era diretta e ostinata nelle sue decisioni e io l'avevo cambiata. Si era aperta e si era addolcita. In un popolo in cui la menzogna era necessariamente la maniera di vivere o in alternativa alla menzogna il silenzio (il non dire) era preferibile, lei aveva preso fiducia nel prossimo. Di me, pur con qualche frequente caduta, si fidava, ora.
Aveva preparato il suo piatto preferito, lo šaltibarščiai. Voleva che lo provassi. Voleva trasmettermi l'amore che aveva per le cose.

L’amore si radica anche nelle cose concrete.
L’amore non nasce da una proposta, ma da un imprevisto. Comincia da lontano e prosegue per tutte le direzioni possibili verso una metà che non sai.

Mi guardava mangiando lo šaltibarščiai. Aveva un’aria indecifrabile tuttavia. Accanto a lei, sul tavolo stava una copia del suo giornale preferito: Žmonės.
Una scena simile potrebbe far pensare ad una donna leggera ma non è così.
Lei aveva un sentire profondo, sotto la superficie. Un’intelligenza sensitiva. Quasi un sesto senso.
Questa suo sesto senso mi modificava, mi cambiava. Me ne rendevo conto, anche lei faceva parte, era un’estensione del clima, dell’atmosfera di quella terra in cui mi trasferivo.
Certo fra noi doveva esserci stata un’affinità; in che maniera diversamente saremmo potuti rimanere legati per anni a tanta distanza, nonostante la diversità culturale? Diversità di lingua e di razza? Di pelle, carne e sangue?
Quell’affinità doveva essere forte, più forte degli accidenti che si erano abbattuti sull’essenza sempre uguale.

Fuori dalla finestra era agosto, non un agosto italiano ma comunque caldo. Lo šaltibarščiai è un piatto estivo e si mangia in estate, freddo.
- Mi ami? Mi chiese

Me lo chiedeva spesso, aveva bisogno di conferme e certezze, continuamente.
- Sì, tantissimo mano mažute[1]

Il suo modo di chiedere era leggero come il sole fuori della grande finestra che illuminava il soggiorno.
Mi sentivo in pace a Vilnius. E soprattutto svecchiato.
L’Italia è un paese vecchio, dove comandano i vecchi, con punte talora visionarie, ma sono solo insights “aperture illuminanti” che squarciano il vecchiume. Aperture provocate dall’esterno e che si abbattono sull’Italia, un paese in cui poteri forti si divertono (e si sono divertiti) a sperimentare.
In tal senso ero d’accordo con Zadie Smith quando diceva “People wrongly believe Italy to be a backward country. Actually Italy is a vision of what’s coming”.

Come ho accennato all’inizio, avevo cominciato a scrivere un libro sull’unificazione d’Italia. Avevo cominciato con entusiasmo. Vedevo in quel processo storico come tutti i mali dell’Italia moderna fossero rintracciabili. E mi appassionavo a rintracciarli, a farne delle giustificazioni a modo di una legge fisica classica.
Poi mi ero arenato.

Perché? Mi chiedevo.

Perché tutto sapeva di vecchio. Non parlo della storia, ovviamente, ma della narrativa sull’unificazione. Persino i cosiddetti “revisionisti” avevano una narrativa vecchia che non si discostava in nulla da quella che criticavano.
I saggi sul tema, i romanzi che avevano trattato l’Unificazione, gli sceneggiati, i film anche, si esprimevano tutti con una lingua vecchia, in nulla moderna.
Per quello mi ero arenato. Avevo bisogno di creare un modo nuovo di narrare, un linguaggio moderno per narrare in modo diverso. Per discostarmi dal male che affliggeva l’Italia: l’incapacità di cambiare.

Trasferirmi a Vilnius mi portava a confrontarmi da lontano con quel paese affetto da senilità.

Mi dava nuovi insights.

[1] Mia piccolina

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Published on September 01, 2017 06:41

August 30, 2017

Amore šaltibarščiai e pomodori rossi: biografia di un amore dall’interno - (quarta puntata)





Come quando si transita da un amore ad un altro, da una relazione ad un’altra, si tende a misurare il presente/futuro attraverso il passato, ovvero ad analizzare ciò che ci sta accadendo attraverso un occhio che prende a prestito misure che provengono dalle memorie del passato, io andavo vedendo la mia nuova terra (Lituania) con l’occhio e l’esperienza della vecchia terra (Italia).
Come quando vivevo in Italia anche in Lituania andavo cercando punti fermi nei miei campi di interesse.
In Italia, vista la povertà del panorama letterario contemporaneo, mi ero convinto che la troppa libertà di espressione nuocesse e che nella letteratura i valori forti crescessero solo dove mancava la libertà di espressione.

Mi portai dunque per disposizione naturale – quasi - questa idea fondante con me in Lituania e mi misi alla ricerca di scrittori forti, fra quelli che erano vissuti e sopravvissuti all’occupazione sovietica.
Ne individuai uno in Ricardas Gavelis, uno dei migliori scrittori di quella Lituana del mio cuneo immaginario, che si interrogava sui sistemi totalitari che a livello globale, indicandoli con il deittico “loro”, monitorizzavano costantemente la vita della gente, ne disturbavano la capacità di pensare e li riducevano in schiavitù.

Mi resi conto che non molto era cambiato a tutt’oggi. I sistemi globali avevano sostituito quelli totalitari e continuavano ad interferire non tanto attraverso un controllo delle coscienze ma attraverso l’offerta di versioni mainstream che arrivavano a occultare la verità attraverso proposizioni di largo consumo fatte passare come autentiche.
Chi è dunque cambiato sono gli scrittori che non hanno più la funzione di think tank della messa in dubbio.
Lo scrittore oggi davanti alla globalità ha abdicato e si limita a ripetere schemi (memes). Non questiona più, ripete.
Chi crea i memes sono gli elaboratori (initiators) della narrativa del mainstream. Caratteristica dei memes è la trasmissibilità, da un medium ad un altro, da un cluster ad un altro, da una bocca ad un’altra…i memes replicano, e qui è la forza della falsificazione globale. Si evolvono senza questionare.
Nerija Putinaitė parlava di nenutrukusi styga, di un filo interrotto, che procedeva dal modo di vivere sotto l’occupazione sovietica alla vita di oggi, della Lituania indipendente.
Nei primi mesi della mia permanenza mi colpirono degli annunci del Valstybė saugumo departamentas, dipartimento di sicurezza dello stato degni della migliore Stasi.
Erano annunci di tipo pubblicitario che venivano passati in tv e concludevano con la seguente frase:
Galbūt, o gali būti ir kažkas rimčiau. Ir jūs galite tapti priešišku žvalgybu taikiniu. Geriau nespėlioti, geriau pasitarti. Vastybės saugumo departamentas - pasitikėjimo linija - tel....
Forse, ma potrebbe essere qualcosa di più serio. E si può diventare il bersaglio di intelligence estera. E 'meglio non restare nel dubbio. Fatti consigliare. Dipartimento di Sicurezza - linea riservata - tel ....
In un annuncio si vedeva uno studente che diceva di essere diventato amico di uno straniero durante una conferenza e di aver sviluppato una forte simpatia con questo straniero. Aveva però cominciato ad avere dubbi quando lo straniero gli chiese se volesse partecipare ad un corso molto prestigioso. A quel punto ebbe la sensazione come se lo straniero volesse recrutarlo.
In un altro annuncio compariva una donna che raccontava di amare andare al cinema perché non si può permettere altri svaghi: divorziata, due bambini…in un cinema d’essay incontra un uomo che non vive nella stessa città ma viene di tanto in tanto per affari. Nasce un’amicizia. Un giorno le porta un film in una chiavetta USB. Lo prova al suo computer ma la chiavetta non funziona. L’uomo le consiglia di provarla al computer di lavoro. Poi l’uomo scompare. Da quel giorno non funziona più il telefono di lui, scompare il suo account di Facebook…Il capoufficio la chiama e le dice che un programma nel suo computer di lavoro trasmette tutti i dati. Dove li trasmette? Era a causa della chiavetta? si chiede la donna.
In un terzo filmato un uomo sui quaranta anni dall’aspetto più ministeriale che da businessman (come invece afferma di essere) racconta che durante un normale rapporto di lavoro con una ditta che faceva dei buoni ordini incontra a pranzo il responsabile estero. L’uomo straniero paga il conto e poi aiuta il businessman lituano con problemi di visto…Un giorno iniziano a parlare di affari ma l’altro, lo straniero, si mostra interessato solo alle strutture statali presenti al confine…forse solo spionaggio industriale? Qualcuno che cerca di capire le mosse dei competitors nel settore?

- Hai capito meglio la Lituania leggendo il libro della Sapozhnikova? – mi chiese il mio amore
- Credo di sì. Ho capito che come tutti gli stati anche quello lituano è nato sulla menzogna e il sangue e gli intrighi internazionali. Ma è stato leggendo la Putinaitė che ho capito meglio perché la gente qui non ha fiducia negli altri e perché gli uomini soprattutto sono bugiardi e doppi

Onestamente avevo timore a portarle il libro come lei avrebbe voluto. Il governo lituano aveva in ogni modo cercato di impedirne la presentazione in Italia. A stare a quello che diceva la Sapozhnikova, molti russi del passato regime sovietico venivano tuttora attivamente ricercati e parecchi erano correntemente in carcere.
La Sapozhnikova stessa era stata bandita dalla Lituana. Le era stato impedito di uscire dall’aeroporto di Vilnius quando era arrivata e aveva dovuto ritornarsene via.

- Ho capito anche che molti dei vostri attuali politici hanno cose da nascondere del loro passato e preferiscono che chi sa non possa parlare. Vogliono governare senza che gli sia rinfacciata la loro partecipazione al regime sovietico a cui presero parte attiva per poi staccarsene (tradirlo?). E’ una specie di ezòpinė kalba


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Published on August 30, 2017 08:03

August 28, 2017

Amore šaltibarščiai e pomodori rossi: biografia di un amore dall’interno - (terza puntata)



Foto Antanas Sutkus
Avevo trovato dunque un cuneo fin dall’inizio che si inseriva perfettamente fra il periodo della Lituania sovietica e quello post sovietico.
Lo spirito di un popolo è fatto dallo spirito della storia (dai fatti che hanno segnato la storia).
Trovai conferma dello spirito lituano nelle parole di una filosofa lituana, Nerija Putinaitė.
Sosteneva infatti che nella realtà sovietica (occupazione sovietica) benché il furto fosse ufficialmente vietato era una pratica quotidiana perché la realtà sovietica indirettamente incoraggiava a farlo, a causa di un numero altissimo di restrizioni tali che impedivano ad una persona di vivere una vita normale. L’istinto a tale pratica prese ad evolversi in generale in strategie relative al su come aggirare la legge, come parlarsi l'un l'altro, come pensare e sentire l’uno rispetto all’altro.
La principale conseguenza di queste strategie portò ad una duplicità della persona lituana che penetrò così in profondità da valere come un secondo capo abbigliamento (espressione di Nerija Putinaitė).
Il non adeguarsi ai costumi e alle regole morali e legali russe fu una specie di anticonformismo (neprisitaikymas) che ha alla fine permeato il modo di distaccarsi dalla realtà sovietica e di ricercare in questo anticonformismo l’essenza stessa della indipendenza lituana.
La gente intese questo come una forma di indipendenza lituana (già nel “mentre” dell’occupazione sovietica). Questo è qualcosa di molto significativo parlando in termini di resistenza (Nerija Putinaitė)

Ero felice per quelle parole che leggevo. Mi aprivano a una nuova realtà che mi era ignota. Le leggevo con difficoltà da una lingua che conoscevo poco. Era un mondo che si apriva e mi dava la gioia di una nuova conoscenza. Mi parlava di strategie che soppiantavano il dolore di chi aveva sulla pelle esperimentato quella realtà e mi estraniavano dall’infelicità dell’aver vissuto in un paese segnato fin dalla sua nascita dal doppiogiochismo e dal voltagabbanismo (Italia).
L’idea della resistenza al regime sovietico mi generò una serie di riflessioni sulle popolazioni (il volgo) del sud Italia che avevano fatto invece una resistenza a viso aperto (brigantaggio) all’arroganza e crudeltà sabauda.

Quella lituana al regime sovietico, di cui parlava la Putinaitė, si basava invece sulla non partecipazione alle regole o alla loro non osservanza. Una resistenza silenziosa la seconda, una resistenza a viso aperto la prima.
Nel libro di Carlo Alianello, L’eredità della priora (1963), una specie di Bibbia del cosiddetto revisionismo storico sull' Unificazione d'Italia vi è un episodio significativo.
Una famiglia meridionale ospita per una notte il generale piemontese Ferdinando Pinelli. Gli offre il pranzo e la cena. Il generale mangia e beve e fa pure il galante con una delle figlie. Al generale viene data la camera migliore.
La notte il generale si alza e si mette a rovistare nei cassetti della camera finché non trova dimenticati in fondo a uno di quelli il ritratto del re borbonico e della regina Sofia.
Non dice niente. Ritorna a letto e dorme tutta la notte sul letto con gli stivali e gli speroni.
La mattina si alza fa convocare la famiglia e li accusa di essere dei traditori.
Il capofamiglia a viso aperto risponde: ‘E perché…re Francisco sta a Gaeta ca cummatte angora…li ammasciatori di tutta l’Europa stanne cu’ isso e no co’ Vittorio. Finché isso è lu re legittime, chi è traditore?”
Il generale Pinelli fece fucilare l’intera famiglia.

La resistenza lituana (almeno quella della vita quotidiana analizzata dalla Putinaitė) si affidava al non dire e al non fare ciò che si chiedeva di fare pur mantenendo una propria integrità.
“Credo che in molte famiglie si attuasse la resistenza, quando per esempio, i padri dicevano che rubare, mentire, dire una cosa e pensarne un’altra era male, e contribuivano a diffondere che era meglio non dire che dire bugie. Credo che tali forme di resistenza in Lituania fossero piuttosto diffuse” (Nerija Putinaitė)

Mentre scrivevo queste riflessioni mi chiedevo se avessero delle proprietà terapeutiche sullo sconforto che era in me a causa dell'aver vissuto la realtà italiana. Una realtà impossibile da afferrare nella sua improprietà logica. Queste riflessioni divenivano allora una specie di letteratura di intrattenimento al mio cospetto.


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Published on August 28, 2017 07:54

August 25, 2017

Parassiti (nona parte) - Isis driverless cars





Il capitano Petacchi aveva fatto fare indagini e alcuni controlli sul movimento dei due marocchini che frequentavano la palestra in via Corsica con Nero e Patricio.
Entrambi avevano compiuto un paio di viaggi a Tripoli nel 2017. Il primo a febbraio e il secondo a marzo. A marzo si trovavano a Tripoli anche Nero e Patricio.
Tripoli era anche il centro dei movimenti della famiglia Abedi. Alman Abedi era uno dei quattro figli che si era fatto saltare in aria all’arena di Manchester il 22 maggio 2017 durante il concerto di Ariana Grande e aveva causato 22 morti e 122 feriti. Era fratello di Ashem Abedi arrestato anche lui insieme al padre Ramadan, conosciuto anche come Abu Ismael.
Entrambi secondo quanto riferito dalle autorità libiche facevano parte dell’Isis e erano in contatto con Raqqa e progettavano un attentato a Tripoli.
L’arresto era scattato perché Ashem avrebbe definitivamente preso in consegna 4500 denari libici inviategli dal fratello poco prima dell’attentato di Manchester.
Durante l’interrogatorio Ashem avrebbe ammesso di essere stato in Gran Bretagna durante la fase di preparazione dell’attentato e di essere stato a conoscenza di tutti i dettagli dell’azione condotta dal fratello in accordo con Raqqa. All’autorità interrogante aveva riferito che dal 16 aprile 2017, giorno in cui aveva lasciato il Regno Unito, era sempre rimasto in contatto con il fratello.
Un altro fratello, Ismail, 23 anni, era stato arrestato il 23 maggio nella zona di Chorlton (Regno Unito), non lontano dalla sua abitazione. Ismail in un curriculum online si definiva come esperto informatico che aveva lavorato per il Manchester Islamic Centre, il centro islamico della moschea di Didsbury frequentata dalla famiglia Abedi, prima di ritornare in Libia al momento dell’insurrezione contro il regime di Gheddafi. E dove Salman pregava insieme a Raphael Hostey, 24enne considerato uno dei più importanti reclutatori dello Stato islamico nel Regno Unito nonostante la giovane età.
Hostey sarebbe stato poi ucciso nel corso del raid di un drone occidentale in Siria dove era andato a combattere come foreign fighter.

- Questo è un network. Non si tratta più di lupi solitari – ripetè a se stesso il capitano leggendo la documentazione
Alla stessa conclusione erano giunti gli inquirenti inglesi dopo l’attentato di Manchester. Il livello tecnologico raggiunto a Raqqa era indubbiamente alto. Lavoravano a remote control cars per progettare attacchi terroristici in Europa, macchine a cui stava lavorando anche Google che a differenza del califfato aveva problemi di definizione. Macchine che avrebbero potuto muoversi in zone affollate e con manichini termici alla guida che non avrebbero destato sospetti sarebbero divenute autobombe devastanti nei centri urbani delle capitali europee.
Molti tecnici europei di alto livello era finiti a Raqqa in questi laboratori tecnologici di produzione di armi sofisticate per cui tenere i collegamenti fra Raqqa e Tripoli non avrebbe dovuto essere un problema.
Petacchi non se la sentiva più di negare evidenti connessioni fra i vari attentati in Europa. Era evidente che erano pianificati e facevano parte di una strategia del terrore.
Una strategia che richiedeva migliaia di dollari per essere portata avanti.
La droga? Può darsi. Ma lo Stato Islamico non era i narcos del Sudamerica o i talebani dell’Afghanistan. Non controllavano il traffico di stupefacenti al livello delle altre organizzazioni.
Il petrolio? No, l’Isis non poteva competere con le multinazionali.

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Published on August 25, 2017 07:43

Amore šaltibarščiai e pomodori rossi: biografia di un amore dall’interno - (seconda puntata)

Foto Antanas Sutkus

Avevo trovato dunque un cuneo fin dall’inizio che si inseriva perfettamente fra il periodo della Lituania sovietica e quello post sovietico.
Lo spirito di un popolo è fatto dallo spirito della storia (dai fatti che hanno segnato la storia).Trovai conferma dello spirito lituano nelle parole di una filosofa lituana, Nerija Putinaitė.
Sosteneva infatti che nella realtà sovietica (occupazione sovietica) benché il furto fosse ufficialmente vietato era una pratica quotidiana perché la realtà sovietica indirettamente incoraggiava a farlo, a causa di un numero altissimo di restrizioni tali che impedivano ad una persona di vivere una vita normale. L’istinto a tale pratica prese ad evolversi in generale in strategie relative al su come aggirare la legge, come parlarsi l'un l'altro, come pensare e sentire l’uno rispetto all’altro.
La principale conseguenza di queste strategie portò ad una duplicità della persona lituana che penetrò così in profondità da valere come un secondo capo abbigliamento (espressione di Nerija Putinaitė).

Il non adeguarsi ai costumi e alle regole morali e legali russe fu una specie di anticonformismo (neprisitaikymas) che ha alla fine permeato il modo di distaccarsi dalla realtà sovietica e di ricercare in questo anticonformismo l’essenza stessa della indipendenza lituana.
La gente intese questo come una forma di indipendenza lituana (già nel “mentre” dell’occupazione sovietica). Questo è qualcosa di molto significativo parlando in termini di resistenza (Nerija Putinaitė)
Ero felice per quelle parole che leggevo. Mi aprivano a una nuova realtà che mi era ignota. Le leggevo con difficoltà da una lingua che conoscevo poco. Era un mondo che si apriva e mi dava la gioia di una nuova conoscenza. Mi parlava di strategie che soppiantavano il dolore di chi aveva sulla pelle esperimentato quella realtà e mi estraniavano dall’infelicità dell’aver vissuto in un paese segnato fin dalla sua nascita dal doppiogiochismo e dal voltagabbanismo (Italia).
L’idea della resistenza al regime sovietico mi generò una serie di riflessioni sulle popolazioni (il volgo) del sud Italia che avevano fatto invece una resistenza a viso aperto (brigantaggio) all’arroganza e crudeltà sabauda.
Quella lituana al regime sovietico, di cui parlava la Putinaitė, si basava invece sulla non partecipazione alle regole o alla loro non osservanza. Una resistenza silenziosa la seconda, una resistenza a viso aperto la prima.

Nel libro di Carlo Alianello, L’eredità della priora (1963), una specie di Bibbia del cosiddetto revisionismo storico sull' Unificazione d'Italia vi è un episodio significativo.
Una famiglia meridionale ospita per una notte il generale piemontese Ferdinando Pinelli. Gli offre il pranzo e la cena. Il generale mangia e beve e fa pure il galante con una delle figlie. Al generale viene data la camera migliore.
La notte il generale si alza e si mette a rovistare nei cassetti della camera finché non trova dimenticati in fondo a uno di quelli il ritratto del re borbonico e della regina Sofia.
Non dice niente. Ritorna a letto e dorme tutta la notte sul letto con gli stivali e gli speroni.
La mattina si alza fa convocare la famiglia e li accusa di essere dei traditori.
Il capofamiglia a viso aperto risponde: ‘E perché…re Francisco sta a Gaeta ca cummatte angora…li ammasciatori di tutta l’Europa stanne cu’ isso e no co’ Vittorio. Finché isso è lu re legittime, chi è traditore?”
Il generale Pinelli fece fucilare l’intera famiglia.

La resistenza lituana (almeno quella della vita quotidiana analizzata dalla Putinaitė) si affidava al non dire e al non fare ciò che si chiedeva di fare pur mantenendo una propria integrità.
“Credo che in molte famiglie si attuasse la resistenza, quando per esempio, i padri dicevano che rubare, mentire, dire una cosa e pensarne un’altra era male, e contribuivano a diffondere che era meglio non dire che dire bugie. Credo che tali forme di resistenza in Lituania fossero piuttosto diffuse” (Nerija Putinaitė)

Mentre scrivevo queste riflessioni mi chiedevo se avessero delle proprietà terapeutiche sullo sconforto che era in me a causa dell'aver vissuto la realtà italiana. Una realtà impossibile da afferrare nella sua improprietà logica. Queste riflessioni divenivano allora una specie di letteratura di intrattenimento al mio cospetto.

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Published on August 25, 2017 05:41

August 24, 2017

Isole di felicità (Laimes salos) - sesta parte



Foto Zivile Abrutyte



Telefas arba telefonas?

Negli anni che era bambina e frequentava la scuola media , l’avevano risvegliata queste parole

Laužo šviesa naktyje
Guodžia gaivina mane
Nerimas stingsta veide
Kas ten toli tamsoje?


Luce di un falò nella notte
Mi conforta mi rinfresca
L’angoscia mi gela il volto
Che c’è lontano nel buio?

Anche lei si svegliò, mentre si svegliava tutta la Lituania, si svegliò alle parole dei Fojė, cantate da Andrius Mamontovas.
Era un fuoco che non si sarebbe più fermato. Sarebbe rimasto acceso tutta la vita.

Laužas ilgai dar liepsnos
Kas man jo šviesą atstos
Net visagalė naktis
Laužo užpūst neišdrįs[1]


Il fuoco durerà a lungo
Che mi lascerà la sua luce?
Persino la notte potente
Non oserà spengere quel fuoco

Le aveva rotto il buio della sua infelicità, nata dopo il suicidio del padre. Un buio difficile da dissipare. Un buio ostinato che non voleva lasciarla.
Le parole dei Fojė furono la luce.
La musica era tetra e le note punteggiavano il tetro buio di quella notte come stelle della via lattea. Il tono della voce di Andrius profetico. Come un profeta che parlasse alla luna.
Così le era apparsa la visione di quella canzone. Così era stata rapita da quella canzone. Così era divenuta un fan dei Fojė, che avrebbe seguito tutta la vita.
Forse ora Andrius era divenuto più un uomo di marketing che un cantante. Le sue canzoni non la ispiravano più come in passato ma il passato era sempre con lei e non cessava di esistere.
Quel falò che si era acceso nel 1992 continuava a brillare dentro di lei.
Era quel falò che cercava di trasmettere ogni giorno in tutto ciò che faceva, anche a Rebeka e Goda che sembravano non percepirlo ma lei era sicura che un giorno l’avrebbero visto anche loro. I figli ripetono i padri. In lei il buio impiantato dal padre suicida non si era mai più dileguato. Era rimasto permanente. Forse talora obliato, trascurato ma sempre presente. Lei voleva che Rebeka e Goda non vivessero tutta la vita avvolte da quel buio. Lei voleva la luce per loro. Non il buio.
Quando lavorava al ministero era ripiombata nel buio. Il fuoco del falò sembrava si fosse spento e la notte potente avesse di nuovo vinto.
Un lavoro noioso. Riempire fogli di parole che dovevano giustificare decisioni che parevano senza senso, catalogazioni, riunioni, traduzioni…undici anni di nulla. Fino al giorno che il falò dei Fojė si accese improvviso e quasi illogico.

Doveva cambiare lavoro. Quello al ministero la uccideva. Il falò non voleva morire. Voleva vivere. Se fosse rimasta lì avrebbe fatto la fine di suo padre.
Immaginò la contrarietà della madre alla sua decisione. Ma lei avrebbe lasciato il ministero.
Per la madre avere la figlia che lavorava al ministero era motivo di orgoglio. Sua madre era della generazione che si ostinava ancora a vivere nel passato. La Lituania stava cambiando, era cambiata e non era più quella che sua madre continuava a vedere.
Tanti emigrati che ritornavano in visita spesso non riconoscevano più Vilnius: è un’altra città, non è quella che io ho lasciato. Più bella, più moderna.
L’aveva sentito dire a tanti.
Non aveva lavoro ma decise ugualmente di licenziarsi.
Jonas, un collega, le disse di prendere contatto con una ditta che vendeva legno, in Steponovo gatvė. Una ragazza che lavorava lì se n’era andata e ora cercavano qualcuno per sostituirla.
Ebbe un colloquio con la proprietaria dell’azienda in un caffè del centro nell’ora di pausa pranzo. Il colloquio andò bene. Si licenziò e si buttò a corpo morto nel nuovo lavoro sperando che la confermassero alla fine del periodo di prova. Lavorò anche undici ore al giorno, ma la confermarono.
La madre si rivoltò e non le parlò più fino al giorno (un anno dopo) che il dipartimento al ministero dove lei aveva lavorato fu improvvisamente chiuso e tutti furono mandati a casa.
Le parlò di nuovo allora la madre ma non ammise il suo errore di valutazione. Non chiese scusa.
Con una madre così il suicidio di suo padre le parve meno assurdo.
- Oh my god!
- Perché dici “Oh my god!”?
- Non lo so mamyte, a scuola lo dicono tutti
- Dicono anche telefas invece di telefonas?Si era accorta che lei diceva ancora “O Dievine” e a giro per le strade di Vilnius sentiva dovunque i ragazzi giovani dire “Oh my god !”. Preferivano l’inglese al lituano.
Come Goda. 
- Kur mano telefas?[2]
- Telefonas Goda
- Ne, telefas mamyte[3]

Goda non era oppressa dal senso di sunkumas, pesantezza, che caratterizzava le generazioni come quelle di sua madre e che in parte aveva gravato anche sulla sua generazione.
Se diceva a Goda di pulire la camera che era un casino bestiale, lei rispondeva naturalmente

- Tuoj[4]

Ma era un tuoj che non arrivava mai.
Si mise a ridere a questo pensiero. Pensava al suo rytoj[5] ogni volta che doveva prendere una decisione. Ogni volta alle decisioni che non le piacevano rispondeva sempre rytoj.

Criticava Goda ma in fondo lei assomigliava a Goda o Goda a lei. Solo che una era più figlia della Lituania moderna e l’altra meno perché aveva vissuto il passaggio dal regime sovietico a quello dello stato indipendente

[1] Laužo šviesa canzone del 1992 dei Fojė
[2] Dov’è il mio telefono?
[3] No, telefas mamma
[4] Subito
[5] Domani

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Published on August 24, 2017 01:02

August 21, 2017

Parassiti (ottava parte) - Nel carcere di Sollicciano




Don Paolo aveva lasciato il carcere dove saltuariamente faceva il cappellano penitenziario e lavorava in un programma di deradicalizzazione, era ormai tardi, ritornava abbastanza di fretta alla parrocchia dove aveva la messa delle diciotto.
Don Paolo non era come Papa Francesco. Non si metteva prono e annullava la cristianità in nome di un’ipocrita accoglienza di disperati. Quotidianamente conversava con islamici e cattolici e cercava di metterli in dialogo all'interno del carcere, di vincere le faziosità religiose e culturali che separavano i gruppi in carcere.

Tanti di quei disperati che finivano in galera fuggivano dai loro paesi, non da guerre come volevano far credere i giornali e le televisioni ma in cerca di un Eldorado, per via di promesse che venivano fatte ad arte per alimentare una tratta di emigrati economici, e soprattutto ingrassare il business di cooperative che arricchivano chi le gestiva. Se questi immigrati quando arrivavano In Italia pretendevano il wifi, il cibo di qualità, il non fare niente e ricevere una diaria giornaliera era perché nella loro terra qualcuno gli aveva fatto credere che in Italia avrebbero dato loro tutte queste cose. Poi invece li aspettava una realtà diversa senza sbocchi, una vita di strada, di droghe….su cui poteva ben essere innestata un’opera di radicalizzazione. Soprattuto nelle carceri, come Sollicciano dove lui lavorava.


Era inutile insistere con quelli che erano esaltati e non erano disposti al dialogo. Aveva imparato il metodo dagli Imam che radicalizzavano in carcere. Solo con coloro che vedevi vacillare potevi porre il seme del dubbio.
In prigione ci arrivavano veramente in tanti ma soprattutto i peggiori. Come Nafeez.

- Spacciavo per farmi, Don Paolo, non per diventare ricco. Dormivamo in una casa abbandonata vicino alle Piagge. Quasi in rovina. Vi avevamo fatto una moschea alla meglio. Lì dormivamo, pregavamo e tagliavamo l’eroina. Era un posto di gatti. Tanti gatti randagi. Vi era puzzo di piscio e gatti. Stomachevole. Quando eravamo fatti davamo la caccia ai gatti e li ammazzavamo a bastonate. Eravamo tre marocchini e due algerini. Non avevamo un grosso giro. Un giorno decidiamo di tentare il colpo grosso. Volevamo più soldi. Volevamo rapinare uno che fosse in un giro più grande. Decidiamo di puntare sui nigeriani
- Ma perché proprio i nigeriani? Perché non su albanesi o rumeni?
- Perché gli albanesi molti sono musulmani e i rumeni sono cattivi e organizzati bene. E poi i negri ci stavano sul cazzo. I negri puzzano. Sono gente di merda
- Nafeez…
- Sì, padre è così
- Vabbeh, lasciamo perdere…vai avanti
- Sì, Don Paolo lasciamo perdere, sono gente di merda e basta….ne adescammo uno di quegli stronzi neri. Gli proponemmo una partita di eroina buona a un prezzo che non poteva rifiutare. Quando arriva e tira fuori i soldi uno di noi tira fuori una 7,65 e gli spara in mezzo agli occhi. C’erano due altri nigeriani che l’accompagnavano, ne viene fuori una sparatoria. Scappiamo ma dopo tre giorni la polizia ci prende e finisco qui a Sollicciano, dove c’è l’Egiziano
- Come l’hai conosciuto?
- Quando ero a fare la doccia. Ero nudo, con il cazzo fuori…a me importavano solo le donne con le tette grosse e il vino. Pregavo ma all’Islam ci credevo poco. Credevo solo nella fica e nel vino…probabilmente mi teneva d’occhio da tempo. Lui sapeva tutto su tutti. E sceglieva quelli come me, i più poveri e disperati, che non avevano nessuno, pieni solo di vuoto…
- Ha cercato di toccarti?
- No, mi ha solo guardato
- ???
- Sì, mi ha guardato e mi ha detto: “Perché fai la doccia senza mutande? Siamo musulmani noi, non kafir, miscredenti. Abbiamo obblighi che Dio ci impone, noi. E Dio non vuole che fai la doccia nudo”. Ma non era una minaccia o un ordine, Don Paolo, era come una conversazione fra amici che si fossero lasciati cinque minuti prima. La sua voce era calma e melodiosa. Mi sono sentito protetto. Mi ha riempito il vuoto che avevo dentro. Quando entri in carcere, ti senti vuoto. Non hai più nulla. Niente droga, niente soldi. E uno stato di malessere che hai dentro, che ti si annoda giù dentro le budella e si fa corpo e mente. E nella mente senti solo buio, che avanza dalle viscere e ti stordisce. E lui lo sa. E ti avvicina con la sua voce incantatoria per convertirti.

In carcere ce ne sono tanti come l’Egiziano. Scelgono, come diceva Nafeez, sempre i più derelitti. Quelli abbandonati dal mondo a cui non arriva mai nulla dall’esterno. La gente come l’Egiziano ha accrediti postali dall’esterno, ha soldi da spendere in buoni allo spaccio, che non destano sospetti. Ha i telefonini. Con quelli fanno tutto. Basta corrompere una guardia o qualche volontario ingenuo, di buona volontà (e ce ne sono tanti fra gli italiani) – devo chiamare la mia famiglia, non la sento da anni, ti prego aiutami!
Con il telefono mantengono i collegamenti. Usano i canali su Zello e fanno camere di conversazione a tre o quattro per pianificare come reclutare. Li tengono nascosti nel water per sfuggire le ispezioni. Tolgono la sim e li avvolgono bene di modo che non si danneggino. O li nascondono in frigorifero fra la frutta, che anche se li scoprono non possono mai risalire a un detenuto in particolare.
Quelli come l’Egiziano sono in carcere sempre per reati minori: documenti falsi, detenzione di arma. La loro è una missione specifica. Diventano emiri così. Più conversioni ottengono in prigione e più salgono nelle gerarchie della Jihad.
I lupi solitari non esistono. E’ un’invenzione di chi vuol farlo credere. O se esistono è una percentuale minima o sono comunque vittime della propaganda in rete e della loro miseria.

- Don Paolo, con l’Egiziano che ti proteggeva, in carcere nessuno ti guardava male. Nessuno ti toccava, eri protetto. Con lui mi sentivo purificato, elevato…sapeva tutto il Corano e gli hadith profetici e la sunna
- Ha finito la pena, è uscito. Sai che fine ha fatto?
- No, Don Paolo, è scomparso. Forse è in Siria a combattere.... Voglio immaginarlo ancora vivo. Non è morto. Ne sono sicuro.  Non può essere morto. O forse è a Londra a fare opera di radicalizzazione…Era forte. Aveva due braccia tozze e pesanti come clavi, non può essere morto.

Nafeez era uno dei pochi a Sollicciano con cui era riuscita un’opera parziale di deradicalizzazione perché il preteso Imam che si era fatto avanti dopo che l’Egiziano era stato dimesso l’aveva fatto picchiare.

- Avevo un colloquio con l’avvocato in parlatorio…ti ho detto a me piace il vino, ne bevo due sorsi, ero nervoso…sulle scale incontro il nuovo Imam. Mi chino per omaggiarlo come facevo con l’Egiziano. Lui sente subito l’odore del vino. “Miscredente infame!” – mi urla – "che hai fatto? Non lo rifarai più". E la notte in cella mi hanno picchiato a bestia. Non so come ancora sono vivo.

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Published on August 21, 2017 08:01

Parassiti (settima parte) - Il boato


Da qualche tempo quando rientrava a casa avvertiva un senso di inquietudine.Paura?Non ne era sicuro. Si sentiva inquieto però e per questo aveva preso a cambiare strada ogni volta che rientrava. Evitava di fare sempre lo stesso percorso e soprattutto si controllava le spalle.Avrebbe potuto essere dovunque. Dietro un angolo, mentre camminava, mentre apriva la porta. E’ vero che aveva la pistola sempre con sé…ma prima di usarla avrebbe dovuto essere morto e poi usarla. Troppe restrizioni, troppe limitazioni. Anche un poliziotto, un carabiniere, doveva pensarci su bene prima di usare le armi. Qualche volta si chiedeva che paese fosse divenuto l’Italia. Un paese di sminchiati?Ad ogni modo teneva sempre la mano vicino alla pistola. Forse meglio sotto processo che ammazzato.Perché avesse quel timore non ne aveva idea. Non aveva ricevuto minacce, avvertimenti…nulla.Forse era la solitudine che cominciava a pesare. Troppo tempo che era solo. Di quando in quando qualche puttana cinese per sfogarsi ed era tutto.Forse quello stato di solitudine amplificava tutto. E immaginava cose che non c’era motivo di immaginare. Eppure dentro si sentiva spinto a esporsi. Spinto a cercare il rischio. A prendere decisioni pericolose.Cambiare strada ogni sera, guardarsi le spalle, immaginare un agguato contribuivano a fargli sentire quello stato di perenne adrenalina che stava disperatamente cercando.Quella sera lasciando la caserma di Borgo Ognissanti dove lavorava decise di cambiare strada e passare per via Maso Finiguerra, fino all’inizio di via dell’Albero e poi giù a destra per via del Palazzolo sino a via dei Fossi per raggiungere la libreria Todo Modo dove avrebbe fatto una sosta per comprare un libro.Aveva così percorso una delle zone più islamiche di Firenze e in divisa, quasi a sfidare quegli uomini dalla carnagione scura.Anche in Sicilia, a Palermo, dove era cresciuto c’erano molti di pelle scura, ma erano “siculi”, “picciotti” ora i tempi erano cambiati. Non c’era più e solo la mafia, c’erano anche gli islamici e i terroristi. Si trovava proiettato da zone mafiose a ambienti popolati di islamici. E potenziali terroristi.Più difficili da capire. Altra lingua, altra razza. Lupi solitari, spesso. Indottrinati dal web. Senza radici. Imprevedibili.Ma erano poi lupi solitari?Ne dubitava qualche volta. Stesse tecniche. Stesse provenienze. Esplosivi preparati in modo sempre più professionali. Passaporti e carte di identità false. Soldi per viaggiare come turisti. Coperture delle polizie. Ma chi aveva messo in giro la voce che i terroristi sarebbero arrivati con i barconi dalle coste libiche?
Quando lui era giovane vi era una cultura della vita. Si saltava da un ponte per tuffarsi in un fiume, si faceva a pugni, si lottava ma solo per dimostrare di essere vivi. Oggi c’è solo la cultura della morte. Ci si converte a forme di radicalismo per morire. Si ha vent’anni e si preferisce farsi saltare imbottiti di esplosivo.Che cultura è? Non era la sua. Non la condivideva. Era una cultura in cui si trovava proiettato, la cultura del mondo globale.Finalmente aveva percorso tutta via dei Fossi per arrivare a Todo Modo.Vide la bandierina esposta fuori che sta a significare che la libreria è aperta.Decise di entrare per cercare un libro del generale Mori sul terrorismo.Voleva confrontare il suo pensiero con quello del generale, che per ò gli pareva un po’ annacquato.Non vedeva i finanziamenti e le coperture occulte di cui godevano questi terroristi. O se li vedeva non ne parlava.
Fu quando entrò a Todo Modo che sentì il boato.

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Published on August 21, 2017 02:13

August 15, 2017

Parassiti (sesta parte) - beheadings




La notizia dell’attentato aveva sorpreso il capitano Petacchi. Stavano ancora interrogando la ragazza e un paio di altri sospetti quando era giunta la notizia.Evidente erano elementi scollegati. Non ne era sicuro. Sembrava che i terroristi si muovessero a piccoli gruppi o a modo di lupi solitari, senza nemmeno conoscersi.Farah negava di conoscere gli attentatori di piazza della Repubblica. E pareva sincera.
I due freddati dai poliziotti in piazza della Repubblica erano due portoghesi di origine angolana. Nero Passos Coelho e Patricio Duarte. Uno di ventidue anni e l’altro diciannoveVivevano a Firenze da almeno un paio di anni. Frequentavano la facoltà di architettura. Soprattutto frequentavano una palestra del centro, in via Corsica. Una palestra di arti marziali.
La ragazza alla reception li riconobbe subito quando gli mostrò le foto. I giornali e le televisioni avevano parlato degli attentatori ma finora le identità erano state coperte.
-       Sì, sono Nero e Patricio. Me li ricordo bene. Venivano tre volte a settimana. Frequentavano i corsi di wing fight con Sifu Lucarelli-       Sifu?-       Significa “Maestro”-       Che ricorda di loro?-       Erano tranquilli. Sempre allegri. Non l’avrei mai immaginato…-       Niente che facesse pensare che erano islamici radicali?-       No, niente. Si vestivano normale come tutti i ragazzi nemmeno avevano barbe…nulla. Per me è una sorpresa
Sifu Lucarelli non fece attendere il capitano. Non appena la segretaria lo chiamò, smise la lezione e venne subito al desk.-       C’è un posto dove possiamo parlare in privato? – chiese il capitano-       Certo, mi segua - e lo condusse in uno spazio prospiciente al luogo dove stava allenandoEra una stanza chiusa da ampie vetrate a cui si accedeva attraverso una porta in alluminio e vetro-       Che posso fare per Lei? Anche se lo immagino…-       Come fa a immaginarlo?-       Beh sono scomparsi da giorni. Erano di origine portoghese, come hanno detto in TV e poi vedo Lei arrivare qui con altri quattro carabinieri parlare con la segretaria e cercare di me…e poi le voci girano…-       Girano come sifu?-       Beh sa i ragazzi che vengono in palestra hanno cominciato a sospettare, si parlava che forse Nero e Patricio…-       Ci sono molti praticanti di wing fight? – cambiò discorso il capitano-       Beh mi contento…fra le arti marziali siamo fra le più giovani ma forse anche la più moderna. Ho circa venti allievi…-       Tutti italiani?-       No…due di questi…no abbiamo una comunità abbastanza variegata…dodici italiani, due nigeriani, un albanese, un americano, un paio di marocchini e avevamo i due per cui lei suppongo sia qui…-       Frequentavano in particolare qualcuno di quelli che Lei allena?-       In particolare…e che io sappia…no. Arrivavano sempre in coppia. Venivano sempre insieme agli allenamenti, tre volte a settimana. Arrivavano insieme e andavano via insieme. Non mi pare che fossero legati a qualcuno in particolare -       Con gli altri due marocchini?-       Non mi pare. Almeno io non ho notato nulla di strano. E poi diciamo che non sempre erano tutti alle lezioni. A ogni lezione qualcuno o più di uno erano assenti…-       Loro due erano assidui?-       Sì, nell’ultimo anno non mi pare fossero mai stati assenti-       Che cintura avevano raggiunto-       Marrone-       Potrei avere una lista dei nomi e indirizzi?-       Dovrebbe chiederla alla segreteria. Fanno lì l’iscrizione-       Ma mai hanno cercato di parlare di Islam, di religione con gli altri?-       No mai-       Ma secondo Lei perché facevano wing fight?-       Credo…perché erano giovani…avevano tanti ormoni e cercavano sicurezza personale…
In ufficio il capitano Petacchi si rilesse i nomi degli allievi del corso di wing fight.  Non gli risultò nulla di strano. Nessuno aveva precedenti penali. Nessuno era ricercato. Nulla, neanche una segnalazione. Nulla…i due marocchini forse…doveva controllarli meglio. Qualcosa lo spingeva in quella direzione.Guardò sulla sua scrivania. Piena di carte e di video…video di decapitazioni, torture…tutti video che i propagandisti del califfato avevano messo in rete e che lui da giorni stava guardando per capire meglio chi avesse davanti? Soldati o uomini di marketing? Sospirò e si affacciò alla finestra. Pioveva. A novembre piove sempre.Dove trovavano tutti quei soldi per fare dei video così professionali? Di una qualità così alta? Erano opera di veri professionisti, non di quattro ragazzotti come quelli che venivano reclutati e mandati a morire contro le forze siriane e i reparti speciali russi.Nelle immagini più recenti della decapitazione dei soldati siriani e degli ostaggi occidentali c'era un'estetica più moderna "made in MTV": il rallentatore, le colonne sonore drammatiche e tutti i tipi di post-produzione…il suono dei battiti del cuore e la sovrapposizione di respiro profondo che si sovrapponevano alle scene di carneficina…sembravano video girati in studi di Hollywood.I soldi, si deve sempre seguire i soldi se si vuole la verità.
Ma gli avrebbero permesso di trovare la verità?

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Published on August 15, 2017 07:09